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GIORGIA MELONI NON ANDRÀ ALLA COMMEMORAZIONE DELLA STRAGE DI BOLOGNA PER EVITARE CONTESTAZIONI (LEI AMA SOLO GLI APPLAUSI)

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

CHI HA LA COSCIENZA A POSTO NON DOVREBBE AVERE TIMORE DI QUALCHE FISCHIO, USA COSI’ NELLE DEMOCRAZIE

«Oggi sono 40 anni dalla terribile strage di Bologna del 2 agosto 1980. 40 anni senza Giustizia. In un giorno così significativo rivolgo un appello al Presidente Conte: desecreti gli atti relativi a quel tragico periodo storico. Lo dobbiamo alla verità e alle famiglie delle vittime».
Il due agosto 2020 Giorgia Meloni era soltanto la leader del partito dell’estrema destra che cresceva nei sondaggi giorno dopo giorno. Si esprimeva così sull’attentato alla stazione del capoluogo emiliano, nonostante le condanne definitive dei neofascisti. Solo che quella verità non l’ha mai condivisa. Da qui la costante ricerca di fantomatiche piste internazionali.
Fratelli d’Italia è il riferimento politico di chi tenta da decenni di riscrivere la storia dei processi sulla strage che ha fatto più morti nella storia d’Italia: 85 vittime, 200 feriti.
Gli esecutori materiali sono stati certamente tre: Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Su un quarto, Gilberto Cavallini, è in corso il processo d’Appello, dopo che in primo grado ha incassato l’ergastolo. Tutti loro sono stati esponenti dei Nuclei armati rivoluzionari, i Nar e hanno iniziato la militanza tra il Fronte della Gioventù, per poi abbracciare la lotta armata.
Ai quattro neofascisti difesi dalla destra radicale, oggi al governo, si è aggiunto tra gli esecutori Paolo Bellini, condannato all’ergastolo in primo grado. Bellini è una figura che salda più mondi, la destra eversiva bombarola al terrorismo mafioso degli anni ’92-94. Una mistura di neofascismo, servizi deviati, massoneria, che è emersa anche nei processi ai Nar.
In particolare nel processo Cavallini il ruolo di Gladio (la struttura paramilitare della Nato per difendere l’occidente dal pericolo comunista) è sempre stato sullo sfondo. «Nessuno di noi era a Bologna», è uno degli slogan più abusati fino all’anno scorso dai movimenti giovanili collegati al partito di Meloni.
«Nessuno di noi». In quel «Noi» c’è l’ammissione di una appartenenza comune con Mambro, Fioravanti, Ciavardini e Cavallini. Figli del neofascismo, nelle sue diverse declinazioni. Di certo uniti nell’esperienza del Fronte della gioventù. Tra i più convinti sostenitori dell’innocenza dei neofascisti ci sono due pezzi grossi di Fratelli d’Italia: Federico Mollicone e Paola Frassinetti, il primo deputato e presidente della commissione Cultura, la seconda sottosegretaria all’Istruzione.
É dunque comprensibile l’imbarazzo del governo Meloni e della stessa presidente del consiglio a presenziare alla commemorazione di quest’anno. Per questo Meloni ha scelto di non esserci, al suo posto andrà Matteo Piantedosi, il ministro dell’Interno, che nella città emiliana ha lavorato una vita da prefetto e ha stretto buoni rapporti con la città e con l’associazione dei familiari delle Vittime.
A Piantedosi non irrita la scritta sulla lapide della stazione in cui è scritta la matrice della bomba del 2 agosto: «Vittime del terrorismo fascista». Per Meloni e i suoi “fratelli” avrebbe significato rinnegare la loro storia e la teoria, smentita ormai da processi e sentenze, secondo cui esiste una pista palestinese alla base della strage di Bologna.
Quest’anno la direttiva di Meloni è chiara: nessuna polemica sulla strage. Vietato perciò dichiarazioni pubbliche, soprattutto di ministri e alti dirigenti, del tipo «noi di Fratelli d’Italia proponiamo una commissione d’inchiesta affinché emerga tutta la verità» (Daniela Santanchè, agosto 2019).
Silenzio apparente, perché in realtà la strategia di riscrivere la storia prosegue sotto traccia, con convegni e nomine. Come per esempio quella nel Comitato consultivo sulla desecretazione degli atti sulle stragi, inclusa quella di Bologna. Il governo Meloni ha inserito, tra le varie realtà, anche L’associazione per la verità sul disastro aereo di Ustica. La presidente onoraria è Giuliana De Faveri Tron Cavazza e il delegato è il professore della Luiss, Gregory Alegi. Il loro sponsor politico è Carlo Giovanardi, l’ex ministro tra i più convinti negazionisti della matrice fascista della strage di Bologna.
Il fatto è che chi sostiene la teoria infondata della pista palestinese su Bologna sposa anche la tesi secondo cui il disastro di Ustica è stato provocato da un ordigno a bordo del Dc9 Itavia e non da un missile.
«La cosa strana è che tutto mira a smontare le verità acquisite con le sentenza sulla strage di Bologna», dice Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni,
(da agenzie)

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SIAMO CAMPIONI OLIMPICI DI RITARDI E FIGURE DI MERDA – È ANDATA DESERTA LA GARA PER REALIZZARE L’IMPIANTO DELLE GARE DI BOB PER LE OLIMPIADI INVERNALI MILANO-CORTINA 2026.

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

SCATTA IL “PIANO B”, CON UNA PROCEDURA “NEGOZIATA” SENZA BANDO, MA C’È L’INCOGNITA DEI TEMPI DI CONSEGNA E DEI SOLDI… INTANTO I COSTI DI REALIZZAZIONE DEGLI STADI DEL GHIACCIO DI MILANO SONO LIEVITATI

La gara per la costruzione dell’impianto che a Cortina dovrebbe ospitare le gare di bob, slittino e skeleton è andata deserta e adesso per le Olimpiadi invernali del 2026 è scattato l’allarme rosso. Alla fine, il nuovo codice degli appalti voluto dal ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, ha permesso a Simico (la società che si occupa delle infrastrutture olimpiche) di applicare da subito il piano B, cioè avviare una procedura negoziata senza aprire un nuovo bando.
Ai negoziati dovrebbero partecipare le imprese – quattro – che hanno inviato i loro tecnici a fare un sopralluogo ma resta da capire quali sono i margini per arrivare ad un esito positivo del negoziato visto che restano fermi i tempi di realizzazione (807 giorni), le scadenze per la consegna (novembre 2025) e soprattutto i costi.
Nel 2006 per i Giochi di Torino servirono 110 milioni per l’impianto di Cesana adesso il bando di gara parla di poco più di 80 milioni. Tutto questo mentre i costi di realizzazione degli stadi del ghiaccio di Milano sono lievitati.
Ai primi di settembre tornerà in Italia la delegazione tecnica del Cio. All’interno del Comitato olimpico internazionale sta crescendo la preoccupazione per il rispetto del cronoprogramma, così come si sono amplificate le voci sul possibile utilizzo dello stadio di St-Moritz, in Svizzera.
Giovanni Malagò, il presidente del Coni, ha smentito questa ipotesi, ma continua a lanciare allarmi sulla necessità di iniziare i lavori. Sollecitazione che vale per Cortina ma anche per gli stadi del ghiaccio di Milano. I tempi, infatti, sono strettissimi e per dirla ancora con Malagò, «non si può sbagliare».
Almeno per il bob resta sullo sfondo il piano C, la Svizzera, anche per i bassi costi di realizzazione 15 milioni. Per gli stadi milanesi del ghiaccio, invece, il salvagente potrebbe arrivare da Torino.
Problema non secondario. La riqualificazione del Palasharp non è ancora partita ma le stime della spesa sono raddoppiate da 13 a 26 milioni e così per l’hockey femminile la scelta alternativa dovrebbe essere la Fiera di Rho
Anche nell’area di Santa Giulia sono iniziati i lavori per il PalaItalia (hockey maschile). Qui i costi sono passati da 180 a 270 milioni con tempi di consegna previsti alla fine del 2025. Una tempistica che rischia di far saltare la partecipazione dei professionisti nordamericani che chiedono perfette condizioni del ghiaccio. A Torino, invece, gli impianti che hanno ospitato le gare nel 2006 sono ancora funzionanti e hanno bisogno di pochi ritocchi, e dunque di pochi milioni, per tornare operativi.
Non è un caso che Malagò abbia annunciato prima delle vacanze un incontro con la premier Giorgia Meloni: «È un’Olimpiade dei territori, ma anche dell’Italia e può garantire credibilità sportiva anche in vista dell’assegnazione dagli Europei di calcio 2032».
(da La Stampa)

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MEGLIO GUADAGNARE DI MENO, MA VIVERE DI PIU’: IL 33% DEI LAVORATORI ITALIANI STA PENSANDO DI DIMETTERSI ENTRO UN ANNO, PERCHÉ NON SOPPORTA PIÙ LE CONDIZIONI IN CUI È COSTRETTO A OPERARE

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

E NON È UNA QUESTIONE ECONOMICA: LA RICERCA DELL’AMBIENTE IDEALE ORMAI DIPENDE DALLA QUALITÀ DELLA VITA

Le Grandi Dimissioni non sono ancora finite in Italia. Secondo il Global Re:work Report 2023 di Kelly, società internazionale di cacciatori di teste, nel nostro Paese il 33% dei lavoratori pensa di lasciare il proprio posto di lavoro entro un anno perché scontento della situazione o delle condizioni in cui si trova a lavorare
Tra i motivi dell’addio? La ricerca dell’ambiente di lavoro ideale in termini di qualità della vita oltre che le tradizionali ragioni economiche. Un quarto dei dipendenti a livello europeo cita tra le ragioni per cambiare lavoro: l’equilibrio lavoro – vita privata, la mancanza di prospettive di carriera e di un piano per lo sviluppo delle competenze.
A pesare in negativo per l’Italia è poi il carico di lavoro con un 27% di lavoratori che spiega come il lavoro in eccesso, i team con risorse insufficienti e la costante sensazione di lavorare in emergenza abbiano un impatto negativo sul proprio benessere mentale. Al punto dal valutare l’addio all’azienda.
Chi restaL’indagine analizza anche i lavoratori che scelgono di restare. Tra chi resta un 34% lo fa per un senso di senso di sicurezza psicologica ma un 45% ha messo in atto il Quiet quitting, le cosiddette “dimissioni silenziose”, ossia fare solo il minimo indispensabile richiesto dal proprio ruolo. Per un 54% degli intervistati il fattore che evita di andarsene è il senso di appartenenza alla propria azienda attuale.
Per i cosiddetti Dedicate performer italiani, cioè i dipendenti fidelizzati, avere aziende che hanno approcci inclusivi convince a restare nel 33% dei casi.
(da agenzie)

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CI SONO SEGNI CHE I PROVOCATORI CHE BRUCIANO I CORANI LAVORINO AL SOLDO DELL’INTERESSE RUSSO PER CREARE CAOS

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

LA RUSSIA VUOLE SPACCARE IL FRONTE BALTICO. TENERE LA SVEZIA FUORI DALLA NATO, PEGGIORANDONE I RAPPORTI CON LA TURCHIA

Un incendio ne accende un altro e nelle ultime settimane si moltiplicano, in Svezia e Danimarca, i raduni pubblici dove vengono bruciate copie del Corano, il testo sacro dell’Islam. Manifestazioni inevitabilmente autorizzate ai sensi delle leggi sulla libertà di espressione; che aggravano però un momento in cui le relazioni con vari Paesi mediorientali, soprattutto della Svezia, sono difficili; e che potrebbero presto venire proibite per legge, sia in Svezia sia in Danimarca, anche dopo contatti tra i due governi.
L’ultimo rogo ieri, di fronte al Parlamento di Stoccolma. Due rifugiati iracheni, Salwan Momika e Salwan Najem, hanno calpestato un Corano e poi gli hanno dato fuoco. Momika aveva riempito di pancetta — cibo impuro per la religione islamica — le pagine del volume e poi lo aveva incendiato.
Il primo ministro svedese Ulf Kristersson e l’omologa danese Mette Frederiksen stanno valutando — così note stampa congiunte — se «il bando di questo tipo di azioni dimostrative sia compatibile con la libertà di espressione»
«Siamo nella situazione di sicurezza più grave dalla Seconda guerra mondiale e sappiamo che sia gli Stati, che gli individui possono trarre vantaggio da questa situazione», ha scritto ieri Kristersson sui social. Il governo danese aveva già annunciato che avrebbe considerato provvedimenti legali per vietare i roghi del Corano.
«Le religioni possono essere criticate», ha detto giorni fa il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen. «Ma se all’ambasciata israeliana bruci la Torah, metti in pericolo la sicurezza del Paese».
Il ministro della Giustizia svedese Gunnar Strömmer si è detto «disposto» a modificare la legge sulla libertà di manifestazione «in seguito alla furia del mondo islamico». Algeria e Arabia Saudita hanno richiamato ambasciatori e incaricati d’affari dei due Paesi per «proteste formali». Ma le relazioni più delicate, al momento, sono con la Turchia, dal cui veto pende l’ammissione della Svezia alla Nato, chiesta a maggio 2022.
Le relazioni tra i due Paesi sono già difficili per l’appoggio offerto da Stoccolma a indipendentisti curdi che per Ankara sono «terroristi»
(da agenzie)

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I TASSINARI NON POSSONO TENERE IN OSTAGGIO UN PAESE: L’ANTITRUST HA AVVIATO UN’ATTIVITÀ DI VERIFICA NEL SETTORE DELLE AUTO BIANCHE, DOPO IL CAOS A ROMA, MILANO E NAPOLI E I “PESANTI DISSERVIZI” PER L’UTENZA

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

DAI TEMPI DI ATTESA ALL’USO DEL TASSAMETRO, FINO AL FINTO MALFUNZIONAMENTO DEL POS, I TASSISTI FANNO IL LORO PORCO COMODO

L’Antitrust ha avviato un’attività di verifica nel settore dei taxi per le criticità riscontrate a Roma, Milano e Napoli e che creano “pesanti disservizi per l’utenza: dai tempi di attesa all’uso del tassametro, dall’accettazione dei pagamenti elettronici alla corretta funzionalità dei Pos”.
Lo comunica in una nota L’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Sono state avanzate richieste di informazioni alle principali società di radiotaxi attive nelle tre città. L’Autorità, inoltre, ha formulato direttamente richieste di informazioni ai Comuni di Roma, Milano e Napoli e alle principali piattaforme per le prenotazioni.
Dal punto di vista della concorrenza, spiega l’Antitrust, “l’obiettivo è quello di far luce sul sistema delle licenze ‘a numero chiuso’ che ostacola il corretto dispiegarsi delle dinamiche concorrenziali e il prodursi dei conseguenti benefici in termini di soddisfazione della domanda e di qualità del servizio”.
L’Autorità ha chiesto informazioni sul numero di vetture in servizio per turno, sul numero di corse effettuate per vettura, sulle assenze, sul tempo di attesa, sulle richieste inevase, e anche sui dati inviati alle amministrazioni comunali o da queste richiesti per adempiere gli obblighi di verifica della qualità del servizio reso. Dal lato consumatore l’Autorità intende “approfondire il ruolo delle cooperative e delle società di radiotaxi nel garantire corrette modalità di erogazione del servizio.
Sono state richieste informazioni per accertare come, in concreto, le cooperative verifichino la diligente prestazione del servizio agli utenti da parte dei tassisti aderenti, quali le indicazioni previste nei rispettivi statuti con riferimento all’uso del tassametro, alla corretta funzionalità dei Pos e all’accettazione dei pagamenti elettronici, al rispetto dei turni, all’attività di monitoraggio e agli interventi di verifica svolti dalle cooperative stesse”. In base alle informazioni raccolte l’Autorità valuterà eventuali iniziative a tutela del mercato e dei consumatori, conclude la nota.
(da agenzie)

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TUTTE LE SPARATE DI QUELLO SVALVOLATO DI MAXIMILIAN KRAH, NUOVO VOLTO DELL’ESTREMA DESTRA DI AFD ALLE EUROPEE DEL 2024

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

OTTO FIGLI DA TRE MOGLI DIVERSE E UNA CERTEZZA: “I VERI UOMINI VOTANO A DESTRA”… AMICO DI OLIGARCHI RUSSI, È STATO ACCUSATO DI CORRUZIONE E SOSPESO DUE VOLTE DA “IDENTITÀ E DEMOCRAZIA”

Maximilian Krah è una scheggia impazzita, al Parlamento europeo lo sanno tutti. Fuori erano in pochi a conoscerlo. Finché il suo partito l’ha eletto sabato scorso capolista alle prossime elezioni europee. E in tanti sono andati a curiosare sui suoi profili social. In poche ore le sue perle di propaganda razzista, euroscettica, le sue esilaranti tirate di odio sono diventate virali.
Un esempio? «Non guardare i porno! Non votare per i verdi! Esci all’aria aperta». Quale sia il nesso, rimane un mistero. Forse Krah pensa che la sua biografia dimostri il risultato trionfale dell’astinenza da porno: otto figli da tre donne diverse
Certo è che l’europarlamentare non ha mai votato verde, non si sa se per non compromettere la propria fertilità o perché sta sempre all’aria aperta.
Per lui, «i veri uomini votano a destra. Non lasciarti dire che sei gentile, debole e di sinistra. Le cose funzioneranno anche con la tua ragazza». Quando non registra video, Krah ama passare il suo tempo in buona compagnia. Tra i suoi amici più cari figurano due oligarchi russi finiti da un pezzo nella lista delle sanzioni, Viktor Medveciuk e Sergej Karaganov.
E in passato è finito nel mirino dei servizi per aver usato i termini “sostituzione etnica” e “invasione orientale”.
Al Parlamento Ue, Krah è stato sospeso due volte da “Identità e democrazia” in seguito ad accuse di corruzione e per aver disobbedito alla linea del gruppo sostenendo il candidato di Zemmour, il grande rivale di Le Pen. Ma tant’è.
Intervistato da Repubblica al congresso dell’Afd, Krah ha bocciato la proposta del leader della Lega Matteo Salvini di una grande destra europea. Una convergenza tra “Identità e democrazia” e il gruppo presieduto in Europa da Meloni, ossia i “Conservatori”, secondo Krah è «irrealistica » in virtù della fedeltà a Putin che contraddistingue il suo partito.
(da Open)

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CONFCOMMERCIO, BRIATORE E COLDIRETTI: COSI’ MELONI PREMIA GLI SPONSOR DEL TAGLIO AL REDDITO DI CITTADINANZA

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

IL POPOLO DELLE PARTITE IVA (QUELLI CHE PER L’80% EVADONO IL FISCO) A SOSTEGNO DEL COLPO DI FORBICE CHE LASCIA MANI LIBERE SUGLI STIPENDI

“Noi facciamo così, diciamo le cose in faccia: siamo contro questo veleno del reddito di cittadinanza”. Potenza, 22 settembre, chiusura della campagna elettorale del futuro ministro e cognato d’Italia Francesco Lollobrigida.
Sul palco, dietro i simboli di Fratelli d’Italia, il presidente della Coldiretti Ettore Prandini annuisce più volte. E oggi può dirsi soddisfatto, dopo che il governo guidato da Giorgia Meloni ha di fatto ridotto in maniera drastica la misura voluta dal Movimento 5 stelle.
Coldiretti da sola conta 1,6 milioni di iscritti e raggruppa il 70 per cento del milione di aziende agricole attive nel Paese. Un rapporto strettissimo, quello tra il ministro e i vertici della potente associazione degli agricoltori che da tempo chiede la revisione del reddito di cittadinanza perché non trova abbastanza braccia nei campi durante la stagione dei raccolti.
Coldiretti è però soltanto una delle associazioni di categoria e dei “mondi” che ruotano anche attorno all’ampia platea delle 180 mila partite iva e delle 500 mila imprese nel settore turistico e della ristorazione, che hanno fatto un pressing forte su Fratelli d’Italia per cambiare la misura simbolo dei 5 stelle. Mondi che, dall’altro canto, sono stati e sono anche il riferimento elettorale del partito di Giorgia Meloni.
Una platea che plaude anche perché nulla vi è di concreto ancora sul salario minimo del quale pure si fa un gran parlare: il governo nelle prossime ore rinvierà l’intero dossier a settembre. “È chiaro che rispondiamo anche a chi ci ha sostenuto in qualche modo”, dice un deputato di peso di FdI.
Ad esempio tra i più agguerriti avversari del reddito c’è l’altra associazione degli agricoltori, la Confederazione generale dell’agricoltura che ha anche sostenuto Fratelli d’Italia con un versamento di 40 mila euro in campagna elettorale: “In molti casi alcuni giovani e meno giovani preferiscono rimanere a casa sul divano perché lo spread che c’è tra il reddito mensile offerto e il reddito di cittadinanza a loro dire non vale il lavoro”, diceva lo scorso aprile al Vinitaly il presidente Massimiliano Giansanti accanto al ministro Lollobrigida.
Soddisfatti della scelta del governo anche gli imprenditori del settore turistico e balneare. Il Twiga, lo stabilimento della ministra del Turismo Daniela Santanchè (che ha ceduto le quote al compagno Dimitri Kunz e al socio storico Flavio Briatore), ha sostenuto con 26 mila euro la campagna elettorale di FdI: Briatore nelle sue apparizioni tv ha attaccato più volte il reddito di cittadinanza anche a nome degli altri imprenditori del settore. “I giovani preferiscono il reddito di cittadinanza al lavoro, ma noi dobbiamo lavorare”, diceva il patron del Twiga. Ed eccolo accontentato dal governo in cui siede la sua “ex” socia.
Di certo la scelta dell’esecutivo trova il plauso di varie associazioni di categoria del settore. Soddisfatto il direttore generale di Confindustria Turismo, Antonio Barreca: “Avevamo chiesto anche agli altri governi, come quello guidato da Mario Draghi, di intervenire — dice Barreca — al nostro comparto mancano anche questa stagione 250 mila addetti: i giovani in età da lavoro non possono ricevere il reddito stando a casa. Apprezziamo molto l’iniziativa del governo Meloni”.
Iniziativa che era stata sollecitata anche da un’altra potente e influente associazione di categoria, la Confcommercio guidata da Carlo Sangalli che lo scorso 7 giugno, durante l’assemblea generale e davanti al ministro del Made in Italy Adolfo Urso, aveva chiesto chiaramente di rivedere la misura. La risposta a caldo di Urso? Eccola: “Il problema dell’Italia sono i 3 milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Devono sposarsi e procreare. Il reddito di cittadinanza è un danno al Paese”.
A questi mondi, insomma, Meloni si rivolge assecondando le loro richieste al costo anche di creare qualche tensione nella base del suo partito, soprattutto quella “sociale” che arriva dall’Msi e che non gradisce lo stop ad aiuti alle fasce povere alle quali il partito si è rivolto in passato.
Ma a questi stessi mondi prova a rivolgersi sul fronte opposto anche il presidente M5S Giuseppe Conte, che fa notare come sia proprio un’associazione di categoria, Confesercenti, “a lanciare l’allarme sul rischio di un calo dei consumi da un miliardo di euro a causa del taglio del reddito”.
Meloni tira dritto e intanto incassa gli applausi delle varie Coldiretti, Confagricoltura, Confindustria e dei Briatore che “devono lavorare”: l’importante, per tutti loro, è che lo Stato non fissi alcuna paga minima.
(da agenzie)

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REDDITO DI CITTADINANZA, TRA CINISMO E SCIATTERIA

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

BASTA RACCONTARE BALLE: IL LAVORO NON C’E’, LA FORMAZIONE NON ESISTE, I COMUNI NON HANNO LE RISORSE PER PRENDERSI IN CARICO I POVERI

La cessazione del reddito di cittadinanza allo scadere dei sette mesi di ricezione per decine di migliaia di persone non perché siano uscite dalla povertà o abbiano imbrogliato o rifiutato un’offerta di lavoro, ma solo perché non hanno minorenni, anziani o persone con disabilità in famiglia, era ampiamente attesa. Lo aveva previsto la legge di stabilità per il 2023 approvata il dicembre scorso.
C’era tutto il tempo perché l’Inps non aspettasse l’ultimo minuto per avvertire gli interessati, perché i servizi comunali d’accordo con i centri per l’impiego accertassero chi di costoro rientrasse tra i non occupabili, che hanno avuto la “grazia” di un prolungamento fino a dicembre compreso, salvo poi ricadere sotto la mannaia dell’esclusione dal nuovo strumento che sostituirà il Rdc, a meno che nel frattempo non abbiano messo al mondo un figlio.
Soprattutto, c’era tutto il tempo per mettere a punto azioni che accompagnassero queste persone verso la scadenza anticipata del Rdc, rafforzandone almeno l’effettiva “occupabilità” e verificando quanto questa incontrasse una domanda di lavoro effettiva e decentemente remunerata.
Se lo si fosse fatto, forse ci si sarebbe resi conto che tra occupabilità teorica e occupazione (decente) effettiva spesso il nesso non è così automatico, specie per chi ha le caratteristiche di molti percettori di Reddito – bassissime qualifiche, lontananza dal mercato del lavoro e vive in territori a domanda di lavoro scarsa.
C’era tutto il tempo, ma poco o nulla è stato fatto, specie dal governo che non ha minimamente ottemperato a quella parte delle decisioni sulla materia approvate nella legge di stabilità che lo riguardavano direttamente: messa a disposizione di corsi per il raggiungimento della licenza media per coloro che non l’hanno ottenuta e organizzazione di corsi intensivi di qualificazione e riqualificazione per tutti gli occupabili.
Non sarebbe bastato a trovare una occupazione decentemente remunerata e a tempo pieno per tutti e probabilmente neppure la maggioranza dei beneficiari che stanno perdendo il Rdc, come testimoniano i dati non esaltanti del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori). Non esaltanti in generale, ma in particolare per i percettori del Reddito, che, pur costituendo un quarto dei soggetti coinvolti, hanno trovato una occupazione solo in una percentuale risibile, il 6,5%. Ma, a parte coloro che sono stati coinvolti nel programma Gol sulla base di decisioni locali, tutti gli altri sono stati lasciati alle proprie risorse.
L’accordo previsto tra ministero del lavoro e ministero dell’istruzione per la predisposizione di corsi per l’acquisizione della licenza media non è mai stato fatto. Nessun corso intensivo di riqualificazione dedicato ai beneficiari in scadenza è stato approntato, tantomeno è stato avviato un lavoro con le aziende per valutare quali siano le più efficaci misure di inserimento.
Il sospetto è che si pensasse di costringere i beneficiari ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione in un periodo, quello estivo, in cui i “lavoretti” alle soglie tra il formale e l’informale abbondano, specie nel turismo e in agricoltura.
In ogni caso, questa sciatteria istituzionale, il disattendere i propri impegni mentre si impongono le proprie gravose decisioni, oltre a testimoniare un certo cinismo e mancanza di rispetto per chi si trova in povertà, non promette nulla di buono per il futuro del Sostegno alla formazione lavoro che da gennaio, ma forse già a settembre, dovrebbe costituire l’unico, temporaneo, sostegno per i poveri che non potranno accedere alla misura che sostituirà il Rdc (l’Assegno di inclusione, Adi), perché non hanno minorenni, anziani o disabili in famiglia.
Non solo le piattaforme informatiche necessarie per farlo funzionare sono ancora di là da venire, ma il rischio è l’incentivazione di corsi senza costrutto, utili ai beneficiari solo ad ottenere per qualche mese un piccolo sussidio e a chi li organizza per ottenere finanziamenti. Una storia già vista troppe volte.
In tutto questo colpisce che l’opposizione (a parte Italia Viva e Azione che condividono con la maggioranza di governo l’ostilità radicale al reddito di cittadinanza) sia molto vivace nel denunciare l’espulsione di migliaia di beneficiari dal Rdc, e in futuro dall’Adi, ma non abbia in questi mesi chiamato il governo a far fronte agli impegni presi, denunciandone le inadempienze e i rischi.
Quasi che abbia aspettato che la rivolta scoppiasse e mettesse in crisi il governo. Se è così, a mio parere si tratterebbe a sua volta di una scelta politica un po’ cinica. E temo anche perdente.
(da La Stampa)

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CLIMA. MIGRANTI E STAMPA: L’ALLERGIA DEI SOVRANISTI VERSO I LIMITI DEL POTERE

Agosto 1st, 2023 Riccardo Fucile

I LIMITI SONO INDICATI NELLA COSTITUZIONE

Ritorniamo sulle parole pronunciate da Sergio Mattarella al Quirinale in occasione della tradizionale cerimonia del Ventaglio con i giornalisti della stampa parlamentare, prima delle ferie estive.
Il filo conduttore dei vari temi toccati da Mattarella è stato uno solo: il richiamo rivolto a chi opera nelle istituzioni a riconoscere limiti. Limiti imposti dalla scienza per quel che riguarda il clima, dalle leggi internazionali e di umanità per quel che riguarda le migrazioni, dallo stato di diritto per quel che riguarda le relazioni tra i poteri dello stato e il rispetto della libertà di stampa e di informazione.
La scelta di insistere quasi scolasticamente sulla questione dei “limiti” del potere – una questione insieme costituzionale ed etico-politica — ci invita a interrogarci sul carattere di questa maggioranza, la cui postura mostra un’allergia spiccata all’idea che esistano limiti al proprio potere. Come se il potere venuto dalle urne (e da una specifica legge elettorale) giustifichi una prerogativa di assolutezza. Non c’è superiore o uguale autorità rispetto a quella del voto! Quasi che l’articolo 1 della Costituzione, che dichiara la sovranità popolare, non dica immediatamente che questa deve essere esercitata nei limiti stabiliti dalla Carta e dalle leggi conseguenti. Prendiamo un caso esemplare di allergia ai limiti, menzionato da Mattarella.
Natura, ecologia e ambiente. Il presidente ha riservato a questo tema il secondo posto per importanza, dopo il commento sulle raccapriccianti immagini di migranti lasciati morire nel deserto tunisino, all’indomani del trattato di partenariato firmato dal governo di Tunisi con l’Italia, per “governare” i flussi migratori.
L’emergenza climatica è stata presentata da Mattarella come parte di una più larga emergenza, che diremmo cognitiva. L’appello ad «assumere la piena consapevolezza che siamo in ritardo», l’esplicita accusa delle «tante discussioni sulla fondatezza dei rischi» e «il livello di allarme» che «appaiono sorprendenti». Come può il governo intervenire con tempestiva determinazione e prudente lungimiranza se mette in discussione la fondatezza dei rischi? La resistenza dei governanti a credere che ci sia un’emergenza climatica, nonostante i disastri continui e sempre più ravvicinati, mette il dito sulla piaga. Questo governo non ama che vengano posti limiti al potere della maggioranza.
IL COMPLOTTO
La scienza, la ricerca, le conoscenze scientifiche ci mettono a disposizione un corredo di ipotesi testate con dati e con analisi statistiche. Perché non credervi? Perché rappresentanti eletti per ragioni non di scienza ma di opinione ideologica dovrebbero rivendicare anche un’autorevolezza scientifica? Perché invece di riconoscere le conoscenze che hanno, molto spesso limitatissime, si dichiarano scettici? Perché si dicono convinti che ci sia una regia nascosta dietro questi allarmi, come se la scienza sia un’arma di cospirazione? Su quali dati i politici basano queste loro idee?
Sarebbe se non altro utile che i cittadini venissero messi al corrente di eventuali conoscenze che solo i politici hanno. E invece, sui siti web dei politici e dei loro fedelissimi si leggono affermazioni di scetticismo che seminano dubbi su chissà quali intenzioni malevoli ai danni del governo.
Intanto, sulle TV addomesticate si oscurano le notizie e si dà spazio al dubbio che dietro la “questione climatica” esista una cabala internazionale che cerca di metter in difficoltà il Paese.
(da editorialedomani.it)

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