Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
GLI RICONOSCO UN MERITO: ESSERE RIUSCITO AD ACCORPARE LE PEGGIORI CAZZATE TUTTE INSIEME
Ho letto l’intero libro del generale Roberto Vannacci, 357 pagine di
punti esclamativi, virgole dopo le avversative, incisi all’interno di altri incisi a loro volta inframmezzati da incisi, una mezza miliardata di aggettivi qualificativi e alcune ripetizioni.
Parto da qui perché l’affare è interessante: all’interno del libro ci sono degli esempi che – identici, ma con parole diverse – il generale ha ripetuto più volte. Cosa vi devo dire? La sensazione è che si fosse scordato di averli già scritti, oppure non credesse che qualcuno davvero potesse leggere il suo libro per intero, e così gli esempi a cui era più affezionato li ha ripetuti più volte. Ma il generale sarà felice di sapere che si è sbagliato, e qualcuno che ha letto tutto il suo libro esiste e sono io; notizia: sono sopravvissuto.
Generale, lei è stato in Iraq ma io terminato 357 pagine di urla “contro le minoranze”, così per citarla. Non dico che siamo pari perché io non ho rischiato di morire, in fondo il libro è scritto male ma non così tanto da uccidere qualcuno, però le garantisco che talvolta un po’ di dolore lo procura. Una volta ho dovuto smettere di leggere per la rabbia. E sa quando? Glielo dico: quando afferma che non esistono persone che scappano dalla guerra o dalla povertà, altrimenti “si fermerebbero prima e non arriverebbero in Italia”. Vede, io invece ne ho conosciute a centinaia, di quelle persone che arrivano qui dopo viaggi spesso di anni e torture sulla carne, e la sua menzogna mi ha fatto male.
Ma lei è coerente con la premessa, il suo racconto di quando – a Parigi – fingeva di perdere l’equilibrio in mentropolitana per poggiare non accidentalmente la sua mano su quella dei neri e capire se la loro pelle fosse dura come la nostra, quella di noi bianchi. Ma questa perla la vedremo meglio più avanti.
Le dico la verità, generale: non è la prima volta che ascolto idee come quelle contenute nel suo libro, alcune – mi perdoni – così simili a quella sciagurata dittatura che ci ha trascinato nella Seconda guerra mondiale, quella che inizia per “f” e termina con il dittatore issato per i piedi, a testa in giù; tra l’altro questa immagine iconica se ci pensa bene è una specie di citazione del titolo del suo libro: “Un mondo al contrario”. Immagino ci avesse già riflettuto, forse la somiglianza nel titolo è addirittura ricercata.
Facciamo un passo indietro e come in tutte le recensioni che si rispettino, voglio partire proprio dal titolo del suo libro: “Il mondo al contrario”. Dritto o contrario dipende sempre dalla prospettiva, mi sono detto, vediamo lui da che punto di vista guarda il mondo. E’ presto detto: è il punto di vista del panino alla porchetta (“mica cous cous, noi siamo italiani”); un libro ardente come una fiamma su un sepolcro.
E’ un libro alla vecchia maniera, quella di Umberto Bossi e del “noi ce l’abbiamo duro”, tra l’altro lei non può non aver pensato con intensità al membro di Umberto Bossi quando ha scritto “Rocco e il suo batacchio fra le gambe” per spiegare perché non si debba riconoscere la carriera alias nelle scuole ai ragazzi e alle ragazze transgender. A proposito: in questo libro lei riflette molto sul “batacchio” – se posso permettermi in maniera un po’ ossessiva – quando ad esempio parla della necessaria distinzione dei bagni in maschi e femmine, e poi della distinzione tra maschi e femmine in quanto possessori del “batacchio” oppure no.
Vede, generale, io non so come funzionino i bagni in caserma, ma nei bagni “normali” (secondo la sua definizione di normalità uguale quantità), le persone non entrano nei bagni con il pisello in mano, esistono i bagni chiusi o gli urinatoi. Oppure in Austria, dove sono stato quest’anno, molti bagni non hanno un genere, oppure in altri Paesi ancora sono previsti tre bagni. Ma ripeto: magari in caserma è diverso e lei entra facendo l’elicottero, in quel caso in effetti qualcuno potrebbe imbarazzarsi, ma le garantisco anche fra gli uomini.
Questo è un libro che se la prende benissimo con le minoranze, è il suo punto focale. Il generale lo ha scritto per questo, lo rivendica, e in effetti si riconosce subito la mano dell’esperto nella sodomizzazione dei diritti (per usare un linguaggio che gli appartiene): il generale distrugge gay e vegani come fossero un villaggio in Afghanistan. Spezza le redini agli immigrati (il generale disprezza la parola “migranti”, tipica di una certa “sinistra ideologizzata”). Il generale demolisce ambientalisti, animalisti, socialisti, transgender e uccello fratino.
Insomma il generale vede una minoranza e si scaglia contro di essa, e lo rivendica perché il libro – di nuovo – è soprattutto “un libro contro le minoranze, che in questo mondo al contrario comandano”.
Il generale è insomma proprio un gran fenomeno al contrario, per (quasi) citare il titolo della sua opera.
Seriamente: è un libro tossico, ma partiamo dall’inizio. L’esergo è di Benedetto Croce, sempre molto posizionante. Una citazione di Benedetto Croce che se la prende con gli italiani che cercano il pelo nell’uovo e poi si mangiano il pelo. Non la conoscevo. Andiamo avanti, si passa all’indice. Non è usuale l’indice in quel contesto lì, fa un po’ impaginazione anni ‘80 ma soprassediamo. Il generale dedica un capitolo a tutto quel che gli interessa: patria, famiglia, tasse, buonsenso, animalismo e pure energia, perché in fondo (credo di aver capito questo) tutti i generali sono anche un po’ scienziati, no?
Poi l’avvertenza dell’autore prima di entrare nel fuoco ardente del contenuto: l’autore declina “ogni responsabilità in merito a eventuali interpretazioni erronee dei contenuti del testo e si dissocia, sin d’ora, da qualsiasi tipo di atti illeciti possano da esse derivare”. Interessante. A parte la nullità legale di una dissociazione di questo tipo, ma evidentemente il generale sa di aver scritto cose potenzialmente risolvibili (secondo taluni, non lui), soltanto con una bomba a mano, e dopo aver acceso la miccia si sottrae al lancio. Lo pensavo generale e lo ritrovo sottoposto.
Nel libro il generale Roberto Vannacci se la prende con le dittature, quasi tutte: Pol Pot e i Khmer rossi, la Russia di Stalin e la Cina di Mao. Tutte terribili, ovviamente. Suona strano che però non faccia neanche un accenno, in tutto il libro, alle uniche dittature europee: fascismo, nazismo e franchismo. Se ne sarà scordato, andiamo avanti.
Il generale se la prende con chi non ha i soldi per affittare una casa e si trova costretto a occupare uno stabile abbandonato. Se la prende con chi percepisce il reddito di cittadinanza e attacca gli ambientalisti, che scoprirò poi sono una sua fissazione, un po’ come il batacchio.
Il generale se la prende con “il potere mediatico che vuol castrare il linguaggio per rendere la nostra lingua asessuata”. Usa esattamente queste parole, giuro. Onestamente sembra abbia un po’ la fissazione del sesso, il generale, ma almeno in questo caso non cita il “batacchio”.
Poi di nuovo il generale se la prende con “le minoranze che prevaricano e sottomettono le masse con metodi cruenti e dittatoriali sino a pretendere che i pubblici poteri si occupino delle opinioni, dei pensieri, dei pareri, degli ammiccamenti o delle predilezioni”. Sembra stia parlando dell’Isis, invece sta parlando dei Pride, che lui chiama Gay Pride.
Poi ribadisce che i galli non fanno le uova, e se sei un uomo barbuto non puoi essere una donna bionda.
Se la prende con Facebook, che accusa di tirannia perché sospende i profili che (esempio suo) scherzano sugli obesi o li offendono. Rivendica la libertà di pensiero e attacca twitter pre-Elon Musk perché sospese quella brava persona di Donald Trump, quando appoggiò l’assalto a Capitol Hill.
Proseguiamo nella lettura. Ha una parola di conforto per i putiniani purtroppo “messi a tacere”, per i “negazionisti del modello green” così tanto vituperati, e per gli “antisistema contrari all’immigrazione incontrollata”.
Rilancia la balla del Genitore 1 e Genitore 2, una roba che non è mai esistita ma lui la scrive con una sicurezza da esponente del governo.
Se la prende con il soldato che diventa soldatessa e fa un esempio spiazzante, da letterato: perché allora “la guardia” non diventa “il guardio”?
Si lamenta che la parola patria sia stata sotituita dalla parola diritti, giuro, scrive proprio così.
Dopo questa prima parte diciamo introduttiva, che va da Trump al batacchio, dai cessi ai social passando per Mao e il Pride e il reddito di cittadinanza, iniziano i capitoli veri e propri. La capacità di sterzare improvvisamente rimarrà in ogni caso elevatissima in tutto lo scritto.
Greta Thumberg? Un’invasata
Se la prende con Greta, la chiama “invasata”, e poi attacca gli attivisti dell’ambente che chiama “gretini”. La catrastrofe climatica la chiama “spauracchio”. Difende invece le “tonnellate di CO2 che ci permettono di nascere in un ospedale”.
Asserisce che gli ambientalisti sarebbero contrari anche alla lotta contro il vaiolo e contro le malattie perché vorrebbero lasciar fare alla natura. Non è vero, però lui lo scrive.
“Al contrario di quanto asseriscono i Talebani dell’ambientalismo non dobbiamo salvare il Pianeta”, scrive poi a un certo punto.
Poche frasi dopo cambia registro e riconosce che bisogna mitigare gli effetti delle temperature in aumento e della C02. Il motivo è chiaro: i russi e i cinesi stanno investendo soldi per “tratte commerciali dove prima c’erano gli orsi che si mangiavano le foche”, e dunque non possiamo lasciare tutto a loro. L’occhio lungo del generale. Si rammarica nuovamente del fatto che “ogni progetto viene ostacolato dai verdi, dagli ambientalisti, dagli amanti degli animali, dagli eco-ansiosi, dai progressisti, dai sostenitori delle trote e delle anguille”.
Il generale per mitigare gli effetti del clima ha un’ideona: propone di non piantare più alberi ad alto fusto ma soltanto cespugli, così quando cadono non fanno danni. E se la prende con il sindaco Sala perché invece pianta alberi.
Il generale è contrario allo stop alle nuove estrazioni di carbone, e chi è favorevole sarebbe (nuovamente) un “gretino”. Li chiama “eco forsennati che chiedono oboli”.
Il generale rapporti i numeri: “Ogni anno muoiono 3000 persone sulle strade solo in Italia (…) e la meteoropatica ambientalista si dispera per le previsioni climatiche?” Poi dice che “sembra uscita dalla saga della famiglia Adams”
Riprende con la creazione di offese e ne conia un’altra: “Gli ambientalisti sono forsennati dell’ambiente”. Poi scrive “ambientalismo bacato”, poi di nuovo “neuroni malandati”.
Il generale è favorevole all’introduzione di organismi geneticamente modificati nel settore agroalimentare e fa uno degli esempi arguti che lo caratterizzano: se secondo qualcuno possiamo sentirci “uomini o donne indifferentemente”, fregandosene cioè dei cromosomi, perché qualcuno tiene così tanto a quelli delle piante e non vuole mischiarli a quelli degli animali?
E già, lo chiedo a voi, perché?
Poi il generale se la prende con LIPU, WWF e Italia Nostra. Respinge l’idea di salvare l’uccello fratino e la nidificazione della passera.
Quello che facciamo per l’ambiente è inutile, secondo lui “è come se un obeso, prima di sottoporsi alla visita di controllo dal suo dietologo, si tagliasse unghie e capelli per dimostrare di aver perso peso”. Per lui l’unghia “dell’obeso” sarebbe “l’uccello fratino”.
Secondo il generale “la mobilità privata è ghigliottinata, minando la nostra libertà e il nostro amato stile di vita”. E di nuovo: “ambientalismo da strapazzo”, “zavorra ideologica”, “pretese ecologiste”.
Alla fine del capitolo, poi, se la prende con i comunisti che si nasconderebbero dietro gli ecologisti. Vi ricorda per caso qualcuno?
Aspettate, c’è spazio per un altro insulto: “Ambientalisti talebani”. E poi ci dà la soluzione: “La soluzione, quindi, se volete banale, e che non è né di destra né di sinistra, è quella di non rinunciare a nulla!”
Ma certo, come avevamo fatto a non pensarci prima?
L’immigrazione secondo Vannacci
Poi il capitolo sull’immigrazione, che inizia con quell’aneddoto succosissimo che vi avevo parzialmente anticipato. Vi lascio al trasporto delle sue parole: “Quando con tutta la famiglia ci trasferimmo a Parigi per la prima volta, cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, mentre si reggevano al tientibene dei vagoni, per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno dura e rugosa della nostra”.
Poi chiude così: “Bastarono poche settimane e la vista dei neri smise di incuriosirmi”.
Secondo me quello che avete letto è uno dei passaggi più poetici di tutto il libro, ma non è il solo. Andiamo avanti.
Il generale si scaglia contro “le società multietniche e colorate, le più insicure”. Poi patria qui, patria qua e quanto è bello morire per la patria.
“Dobbiamo cambiare il colore ai principi che da azzurri devono tendere al nero?” si chiede provocatoriamente. E’ a questo che ci porteranno “i devastati mentali del multiculturalismo”, chiosa. Poi continua: “delinquenti etnici”. Lo scrive chiaramente: “Per molti versi non le tollero le altre società”.
Poi un salto nella modestia, a proposito di etnie e colore della pelle: “Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia del sangue di Enea, di Romolo, di Giulio Cesare, di Dante, di Fibonacci, di Giovanni dalle Bande Nere e di Lorenzo de Medici, di Leonardo da Vinci, di Michelangelo e di Galileo, di Mazzini e di Garibaldi”.
E – nel caso non si fosse capito – lo ribadisce con esempi scenografici: “Anche se abbiamo seconde generazioni di Italiani dagli occhi a mandorla, il riso alla cantonese e gli involtini primavera non fanno parte della cucina e della tradizione nazionale”.
Poi scrive che Paola Egonu non ha tratti somatici che possano rappresentare l’italianità “che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri”, e la paragona (letteralmente) a un panino del McDonald’s: “Sono ormai più di cinquant’anni che abbiamo McDonald’s in Italia e che milioni di italiani si cibano dei suoi prodotti, ma nessuno si azzarda a dichiarare che i panini con hamburger e ketch-up facciano parte della cucina tricolore”. Capito perché Paola Egonu non può rappresentare l’italianità?
Poi un tocco di speranza: “Ma non prendiamo la migrazione come una fatalità alla quale ci dobbiamo arrendere, è una balla madornale!”
E la soluzione finale: “La convivenza di più civiltà è tanto più pacifica quanto più vi è il dominio di una civiltà sulle altre”.
La legittima difesa
“Come si può limitare il diritto alla difesa della propria abitazione e della propria famiglia? Il danno (la morte del ladro) qualora ci fosse, ed anche la perdita della vita, nei casi più estremi, sarebbe da considerarsi auto procurato perché non dovrei essere autorizzato a sparargli, a trafiggerlo con un qualsiasi oggetto mi passi tra le mani o a catapultarlo giù dalle scale o dalla finestra dalla quale sta tentando di entrare e renderlo per sempre inoffensivo”?
La famiglia tradizionale
Il capitolo inizia così: “Sono figlio di una famiglia tradizionale: un padre che lavorava e che spesso non era presente una madre casalinga che, quasi da sola, si è occupata di tutte le faccende domestiche e ci ha cresciuti”.
A me sembra uno spot al contrario della famiglia tradizionale, ma a lui no: “La stessa tipologia di famiglia, bisogna ammetterlo, ha assicurato la sopravvivenza e la prosperità della specie umana per millenni”. Non è vero, quella che lui cita è un’idea di famiglia assolutamente moderna, ma chi sono io per smentirlo? Andiamo avanti. Se la prende con il socialismo reale e con il femminismo che promuovono aborto e divorzio. Attacca lgbtq+ e animalisti che vogliono il concetto di famiglia esteso anche a chi vive con un porcellino d’India per lasciare a lui la pensione di reversibilità. Scrive proprio così, non è vero ma sostiene lo sia.
Nel caso non si fosse capito, lui la pensa così: “Desideri biologicamente contronatura delle coppie arcobaleno”.
E lo spiega con discreta schiettezza: “I fluidi benpensanti ”. E per spiegare che “non sono normali” fa un esempio, se posso permettermi, un tantinello bizzarro:
“D’altra parte, seguendo lo stesso criterio potremmo affermare, con un ragionevole grado di certezza, che non è nella natura dell’uomo essere cannibale, che il Conte Ugolino, chiuso tra le mura della Torre della Muda, si sia mangiato i suoi figli non giustifica la naturalezza di tale comportamento”.
Poi, non si sa come, accenna al “cameratismo, altro termine passato purtroppo in disuso”, e poi va avanti scagliandosi contro gli asili nido e i servizi all’infanzia, secondo lui nati per colpa del “rifiuto, da parte dei movimenti femministi di tutto il mondo, della figura di donna-madre”. E io che pensavo gli asili nido fossero pochi e troppo cari, invece scopro che sono proprio sbagliati, e che non dovrebbero proprio esserci perché la donna – nella sostanza – è nata per prendersi cura a tempo pieno dei figli.
“Nella Cina di Mao e nella Russia di Stalin i bambini erano considerati figli del popolo e venivano allevati fuori dalle famiglie. Nelle democrazie occidentali cambiano i metodi ma le finalità non sono tanto diverse: media e ONG ecc. ecc.”.
Avete capito bene: la proliferazione degli asili nido è colpa delle ONG.
Poche righe dopo il generale si compiace che gli Albatros abbiano a disposizione molte femmine, li invidia proprio: “Beati loro”. Insomma, il generale invidia una specie di uccello. La questione batacchio torna predominante, ma passiamo al capitolo successivo.
Bella Ciao e le note zingaresche
Nessuno tocchi l’inno d’Italia, tanto per iniziare. Altro che “le zingaresche note della ballata di ‘Bella Ciao’”.
Il generale propone di far salutare la bandiera italiana prima di ogni lezione, e se la prende con Achille Lauro che l’ha profanata al Festival di Sanremo.
Il generale è contro lo ius soli e contro lo ius culturae, però ha una moglie romena che è diventata cittadina italiana dopo averlo sposato. Per specificazioni, chiedetegli in privato.
Poi ha un paragone non proprio gentilissimo per il sindaco di Bologna che ha cancellato la parola “patriota” dalle targhe dei partigiani: “Non vedo tanta differenza tra quest’atteggiamento e quello di ISIS che ha distrutto chiese millenarie in Siria con l’intento di cancellare una parte della storia”.
I gay non sono normali
Nonostante alcuni amici lo avessero avvertito che si tratta di un argomento ostico “caro Roberto una chiacchierata al bar non è come scrivere un libro”, lui è andato avanti e ha “schiacciato il tarlo del dubbio”. Il maschio Alfa si riconosce subito.
Il generale parte fortissimo: “1,5 milioni di persone si sono identificate nella categoria “gay, lesbiche, bisessuali o altri orientamenti sessuali” andando a costituire il 3,2% della cittadinanza di riferimento (…)
Secondo l’INAIL, 6 persone su 10 nella Penisola soffrono settimanalmente di mal di schiena: eppure nelle nostre serie TV, giornali, spot pubblicitari e cartelloni non vediamo rappresentate schiere di lombopatici che deambulano a malapena e che reclamano busti ortopedici gratis”.
Lo dice chiaramente: “Per un misero 3% di dichiarati “diversi” non possiamo capovolgere il mondo”.
Secondo lui farebbe tutto parte di una “strategia di far passare tutto ciò che non è etero come normale”. Perché per lui, ricordiamolo, “i gay non sono normali”.
“Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione! Non solo ve lo dimostra la Natura, che a tutti gli esseri sani “normali” concede di riprodursi, ma lo dimostra la società: rappresentate una ristrettissima minoranza del mondo”.
“Il gay, il masochista, il vegano, il mangiatore di cani o di gatti pure è un eccentrico, e tutte le porte gli devono essere aperte nel nome della parità, ma almeno non dovrebbe ostentare la sua eccentricità”.
Insomma chi mangia cani è come una persona gay, entrambi persone “eccentriche”.
Tutto questo, secondo il generale, ha una data di inizio: “Piano Strategico del 1989 di due intellettuali omoessuali”.
Poi si lamenta di non poter più usare tanti bei vocaboli che andavano invece di moda una volta, e li elenca: “Pederasta, invertito, sodomita, finocchio, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista, culattone sono ormai termini da tribunale, non ci resta che chiamarli gay importando un’altra parola straniera nel nostro lessico italiano”.
Da qui trova il gancio per parlare dello Schwa come di vocaboli sottoposti a castrazione, e rimpiange “i principi biondi nelle favole e le fanciulle da marito”.
Poi loda Oriana Fallaci, poi rivendica la possibilità di negare l’affitto a coppie gay in quanto gay.
Poi il libro si avvia alla conclusione – ma noi aspettiamo il seguito – mentre il generale riesce anche a dichiararsi contro la raccolta differenziata porta a porta perché ci obbliga a “tenerci in casa i gusci di cozze mangiati giorni prima”.
Ho terminato la lettura del libro, e fra tante critiche gli riconosco un merito: essere riuscito ad accorpare le peggiori cretinate tutte insieme.
La questione gravissima è che quelle idee – in qualche modo – serpeggiano nella società.
E se un generale ha deciso di pubblicarle, significa che ha sentito questo come il momento giusto per poterlo fare, per uscire allo scoperto, sicuro di trovare appoggi. E – al di là del cambio di ruolo che gli è stato imposto per il polverone sollevato – è riuscito nel suo intento: all’interno dell’Esercito italiano non risultano prese di distanza significative nei suoi confronti, mentre sono molti i commenti a suo sostegno, anche dall’interno del suo corpo: “Generale non sei solo”.
In questo momento il suo libro è il più venduto in assoluto su Amazon, per dirne un’altra.
Nessuno ha tolto i gradi a Roberto Vannacci, nessuno lo farà, è la storia d’Italia: tutti i torturatori del G8 a Genova hanno fatto carriera. Siamo sempre lì, non sperate che questa volta possa accadere qualcosa di diverso, anche se noi abbiamo il dovere di provarci: rompiamo le righe.
(da Fanpage)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
NEL MIRINO FINISCE IL BANDO PER I DIRETTORI DEI MUSEI, APERTO SOLO AGLI ITALIANI, E L’OCCUPAZIONE DELLA RAI
Tra folle di turisti che si accalcano, il primo direttore straniero della Galleria dell’Accademia di Firenze indica i capolavori che risaltano contro il blu intenso delle pareti. «Quando sono arrivata qui, era triste – ha detto Cecilie Hollberg – Abbiamo cambiato la vernice, l’illuminazione. Ora puoi davvero vederli». Poi si è diretta nella sala con del “David” di Michelangelo prima di affrontare il vero elefante nella stanza.
La tedesca avrà ancora un lavoro nell’era del primo ministro Giorgia Meloni, visto che il governo conservatore ha espresso una preferenza per più direttori italiani nei musei? Come altri, chiede chiarezza al ministro della Cultura.
I cittadini francesi hanno sempre gestito il Louvre, mentre gli spagnoli regnavano al Reina Sofia di Madrid. Non così in Italia, dove gli stranieri gestiscono molti dei teatri e dei musei più venerati del Paese. Ma ora la destra vuole cambiare.
Un’avanguardia di talenti stranieri ha infranto barriere secolari quasi un decennio fa, ottenendo i migliori lavori non solo alla Galleria degli Uffizi e al museo dell’Accademia di Firenze, ma anche alla Pinacoteca di Brera di Milano e al Museo di Capodimonte a Napoli. Hanno inaugurato il loro rinascimento, portando innovazione in istituzioni che in alcuni casi erano state gestite in modo inefficiente da dipendenti pubblici.
Ma i contratti per una serie di lavori chiave scadono quest’anno. E il governo Meloni ha adottato un processo di selezione che, secondo i critici, tiene conto solo della nazionalità quando, invece, queste decisioni dovrebbero essere governate solo dal merito.
Il destino dei direttori stranieri dei musei è parte di un dibattito in corso su governo e cultura in un Paese in cui i due notoriamente si mescolavano durante il dominio fascista di Benito Mussolini, quando l’arte, il cinema e l’architettura divennero strumenti ideologici.
Gli oppositori affermano che dare peso alla nazionalità rischia di portare un ritorno al clientelismo e alla politica che hanno ostacolato i musei italiani in passato, e arriverebbe in un momento in cui le principali istituzioni, tra cui il British Museum di Londra e il Metropolitan Museum of Art di New York, sono andati a caccia delle persone migliori a prescindere dal loro paese di nascita. Anche il Louvre ha aggiornato le regole, rivedendole e permettono di avere direttori stranieri.
Ma altri vedono un’altra mossa ancora più preoccupante per dare un’impronta conservatrice alla cultura. Notano che l’amministratore delegato della RAI è stato recentemente costretto ad abbandonare dopo essere stato accusato, tra le altre cose, di aver permesso un bacio tra persone dello stesso sesso trasmesso in televisione a livello nazionale. Le modifiche proposte al contratto di servizio della RAI, presentate in commissione parlamentare il mese scorso, affermano che l’emittente deve ora promuovere la “ricchezza del parto e della genitorialità”. Colpisce anche il linguaggio che richiede contenuti che rispettino la diversità di genere e l’orientamento sessuale.
Allo stesso tempo, il governo ha fatto pressioni per nuove mostre museali su alcune delle pietre miliari culturali della destra italiana, compresi i futuristi italiani strettamente legati all’era Mussolini.
«Siamo nel bel mezzo di una rinascita neofascista» ha detto lo storico dell’arte di sinistra Tomaso Montanari, membro del comitato direttivo della Galleria degli Uffizi.
La Meloni ha rifiutato categoricamente l’etichetta di neofascista come un’operazione di sciocco cecchinaggio da parte dei liberali. Il suo governo dice che si sta semplicemente muovendo per dare ai conservatori una voce paritaria in un mondo culturale dominato dalla sinistra.
Da quando è salita al potere in ottobre, il suo governo ha cercato di limitare i diritti dei genitori delle coppie dello stesso sesso, ma non ha seguito il percorso antidemocratico percorso da altri leader di estrema destra nell’Unione europea, tra cui l’ungherese Viktor Orban. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano paragona il governo Meloni a quello repubblicano di Reagan e ha assicurato al “Washington Post” che alcuni stranieri qualificati gestissero ancora le istituzioni culturali italiane nella prossima ondata di assunzioni.
Ma ha anche ammesso che avrebbe cercato di trovare un nuovo “equilibrio” dopo quelli che ha suggerito essere tentativi troppo zelanti di corteggiare i non italiani. «Secondo te, i francesi permetterebbero mai a un americano, o a un italiano, di dirigere il Louvre? – ha chiesto – Sarebbe molto difficile».
In una certa misura, l’interferenza politica nella cultura è normale per il corso italiano. Ma i critici dicono che il governo Meloni sta andando oltre gli sforzi del passato.
Alla RAI, l’ex amministratore delegato Carlo Fuortes si è dimesso a maggio, citando “uno scontro politico” con il governo e chiedendo di cambiare la “linea editoriale” e la “programmazione” della RAI. I membri della coalizione di governo avevano spinto per la sua cacciata.
I critici del governo si sono dimessi preventivamente o sono stati costretti ad andarsene. Uno di loro, lo scrittore e giornalista Roberto Saviano, Ha visto scomparire dalla programmazione il suo prossimo programma pochi giorni dopo aver definito pubblicamente Matteo Salvini, un “ministro della mala vita”. La nuova direzione della RAI non ha risposto a una richiesta di commento ma ha negato qualsiasi parzialità.
«In passato, lo spazio non è mai stato negato a nessun tipo di voce – ha detto Matteo Orfini del Partito Democratico – Non si sarebbe mai immaginato di poter eliminare o chiudere uno spettacolo di grande successo solo perché non piaceva a chi governava».
La dirigenza del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma si è dimessa questo mese dopo che gli alleati della Meloni in Parlamento hanno chiesto la loro cacciata. Fondato nel 1935 da Mussolini, il centro è stato un importante centro creativo, con illustri ex studenti tra cui il regista Michelangelo Antonioni e Dino De Laurentiis. I luminari del cinema italiano e gli attuali studenti hanno firmato una petizione per protestare contro la mossa contro la direzione e una ristrutturazione del comitato consultivo della scuola che i critici temono possa dare all’attuale governo più influenza sui progetti degli studenti.
Sangiuliano ha affermato che studenti e insegnanti saranno “completamente liberi di esprimersi”. Ma le principali personalità del mondo del cinema rimangono preoccupate. «Questa è una questione grave – ha affermato il noto regista italo-turco Ferzan Özpetek, che esplora spesso argomenti LBGTQ+ – L’arte deve rimanere autonoma e indipendente. Dobbiamo tenere gli occhi aperti».
I primi posti di lavoro nei principali musei italiani sono stati aperti agli stranieri nel 2015 dal governo di centrosinistra del premier Matteo Renzi. A seguito di una ricerca internazionale, un comitato che includeva l’ex capo della National Gallery britannica ha fornito una rosa di candidati al ministero. Gli stranieri sono stati quindi scelti per dirigere sette dei 20 principali musei e siti archeologici italiani.
Ora a Sangiuliano verrà consegnata una lista stilata da una commissione ministeriale tutta italiana, alcuni dei quali non provengono dal mondo dell’arte. I nomi saranno limitati all’Unione Europea e sarà richiesta la conoscenza della lingua italiana. Due importanti associazioni di storici dell’arte italiani hanno protestato contro il nuovo approccio, definendolo una politicizzazione della cultura.
«Temo che questo governo cercherà di evitare gli stranieri, e questo sarebbe un grosso errore – ha detto Fausto Calderai, presidente degli Amici della Galleria dell’Accademia di Firenze ed ex esperto di Sotheby’s – Non me ne frega niente se qualcuno è di Napoli o di Stoccarda». Ma Sangiuliano ribatte che il suo governo non sta facendo nulla di insolito. La selexione per il nuovo direttore del Reina Sofia di Spagna, ad esempio, ha limitato la possibilità di candidarsi a spagnoli, a cittadini dell’Ue e a coloro che hanno il diritto legale di lavorare in Spagna.
E’ proprio la nuova linfa straniera che ha contribuito a rinvigorire alcuni importanti musei italiani. Nel 2015, Eike Schmidt, un ex curatore tedesco della National Gallery of Art di Washington, è diventato il primo direttore non italiano della leggendaria Galleria degli Uffizi di Firenze, sede di opere importanti come la “Nascita di Venere” di Botticelli. Entro la scadenza del suo secondo mandato quadriennale quest’anno, avrà raddoppiato lo spazio espositivo, aumentato la partecipazione e aumentato le entrate del 150%.
Secondo le regole attuali, gli amministratori con due mandati non possono ripresentarsi per gli stessi posti di lavoro. Sangiuliano ha chiamato Schmidt, che è sposato con un’italiana, un “grande amico” e ha detto che gli piacerebbe vederlo dirigere “un altro grande museo italiano”.
Al museo dell’Accademia di Firenze, costruito nel XIX secolo per ospitare il “David” di Michelangelo, anche Hollberg ha avuto una miriade di problemi. Busti inestimabili sono stati lasciati nei corridoi degli uffici sul retro, tra cui un nudo femminile sdraiato di Lorenzo Bartolini (Li ha spostati tutti in uno spazio espositivo rinnovato.) L’acqua spesso non funzionava. Faceva un caldo così soffocante d’estate che una delle sale più grandiose della galleria poteva essere aperta solo al mattino.
Hollberg ha installato l’aria condizionata e ha migliorato l’illuminazione, i colori e le insegne. Ciò ha portato più spettatori a opere di maestri come Il Perugino e Botticelli, pezzi che in precedenza erano stati aggirati da folle sudate che gravitavano verso il “David”. La partecipazione ai musei dal 2015 è aumentata del 22%. Ha sei mesi di contratto in più rispetto a molti altri direttori perché la Galleria dell’Accademia è stata brevemente assorbita dagli Uffizi nel 2019. Ora viene nuovamente fusa, questa volta con il Museo Nazionale del Bargello di Firenze.
Spera di guidare la nuova e più grande istituzione. Sangiuliano ha detto che spetterà alla commissione decidere se è nella “lista dei contendenti”. «Penso che devi sempre selezionare i migliori – ha detto – Non è assolutamente interessante da dove vengano».
(da Washingtonpost)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
UNA LEGGE VIETA GLI ASSEMBRAMENTI PER PREVENIRE LE RIVOLTE E NEI LOCALI NON SI VEDONO MAI TAVOLATE DI AMICI
C’ è qualcosa che lascia disorientati per le strade di Minsk, come se
mancasse un po’ d’aria o la forza di gravità agisse diversamente. Certo sono biondi, parlano a bassa voce, non gesticolano e ridono poco, ma non basta. Al principio si pensa all’asfalto perfetto, ai parchi senza una foglia per terra, a piazze, strade, marciapiedi sovradimensionati, agli autobus elettrici, puliti e silenziosi.
Non fosse per il costruttivismo sovietico dei palazzi, sembrerebbe una Svezia senza mare. Il patto sociale con il potere qui si regge su stipendi bassi, ma buoni servizi pubblici e prezzi calmierati che permettono di vivere tranquilli. In Bielorussia non ci sono state le privatizzazioni selvagge della Russia degli Anni 90, qui le grandi imprese sono rimaste statali ed è sopravvissuto un egalitarismo sovietico, senza penurie e con in più le vacanze in Turchia.
Ma c’è dell’altro, non tanto nelle cose, piuttosto nelle persone. In un attimo capisci che sono tutti a due a due.
Due, due, due. Non di più. Errore, là sono in quattro, ma sono una famiglia. La regola del due è rispettata anche ai tavolini dei ristoranti. Famiglie oppure coppie. Non ci sono gruppi di amici, compagnie niente. Ecco l’atmosfera irreale di Minsk: la gente non si mischia, non si avvicina, non fa gruppo. Non è carattere nazionale, c’è una legge che lo impedisce, una legge contro gli assembramenti per prevenire le rivolte.
La Bielorussia è da trent’anni l’«ultima dittatura d’Europa», ora la deriva della Russia con l’elmetto di Putin ne contende il record, ma insomma l’aria resta quella.
«Gli arresti sono continui», ha dichiarato al New York Times mesi fa l’Ong premio Nobel 2021 Viasna. Ricontattati a Minsk nei giorni scorsi hanno risposto: «Troppo pericoloso incontrare giornalisti stranieri e anche inutile. Solo cancellando le sanzioni internazionali potrà riprendere il dialogo internazionale con il governo Lukashenko e quindi anche il nostro col regime».
Il punto di svolta sono state le elezioni del 2020. Un gruppo di esponenti del sistema (un miliardario, un ex ambasciatore e, il più outsider, un blogger) aveva pensato che il padre padrone del Paese, Alexandr Lukashenko fosse pronto a farsi da parte e anche gli elettori ci hanno creduto.
Così, quando il risultato di Lukashenko è stato l’80% contro il 19 degli exit poll e il 21 dei sondaggi, i bielorussi hanno osato scendere in piazza, non più due a due, ma in massa. L’Occidente ha reagito con le sanzioni Risultato: su neanche 10 milioni di abitanti, tra i 200 e i 500mila sono fuggiti all’estero. Un’emorragia che ha azzoppato il Pil.
Gli sfidanti originari del 2020 sono ancora in cella, i loro sostituti in esilio (tra loro il volto dell’opposizione Svetlana Thichanovskaya), mentre l’unica candidata ancora in libertà è Hanna Kanapackaja che ricavò (ufficialmente) dalle urne l’1,6%.
(da Il Corriere della Sera)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
E ANCHE CONTE SI RISVEGLIA DAL TORPORE: “I CITTADINI SONO ALLO STREMO PER IL SALASSO”
Dopo la cena pagata in Albania per rimediare alla fuga dei turisti italiani, c’è un altro scontrino più salato da saldare. Giuseppe Conte, in un lungo post sui social, ha parlato proprio di conti che non tornano rivolgendosi direttamente alla premier Giorgia Meloni: «I cittadini sono allo stremo per il salasso che gli viene imposto dal caro benzina.
Non parliamo certo di una cena a scappar via, ma di circa 2 miliardi di extragettito accantonati dal tuo governo tra i giorni più frenetici di partenza e rientro dalle vacanze». Il leader del Movimento 5 stelle chiede alla «cara Giorgia» – la chiama proprio così – «di non rimanere concentrata sul pagamento degli 80 euro al ristoratore albanese, un gesto buono per pavoneggiarti sulle copertine dei rotocalchi, ma di nessuna utilità per dare ossigeno ai conti degli italiani. Pensa – accusa Conte – a questo indegno bottino prelevato dai portafogli degli italiani, alle promesse strillate in campagna elettorale a proposito delle accise sul carburante».
La linea inflessibile del governo sulle accise però comincia a mostrare le prime crepe. La premier Meloni nel suo ritiro blindato in Puglia evita l’argomento, viste le ricadute elettorali e di consenso di un tema popolare come il costo della benzina, ma il fedelissimo Adolfo Urso, finora intransigente, ammette in un’intervista ad Avvenire che l’esecutivo potrebbe valutare misure per le famiglie con redditi bassi se i prezzi resteranno alti nel 2024.
La Lega, che non ha gradito il modo in cui il ministro delle Imprese Urso ha gestito il dossier – a cominciare dalla legge sulla cartellonistica dei distributori – vuole aprire un dibattito in legge di bilancio. L’idea di Matteo Salvini è usare l’extragettito Iva per limare le accise più vecchie. L’altro tema sul tavolo, su cui Palazzo Chigi ha avviato un approfondimento, riguarda un eventuale “bonus benzina”, una sorta di compensazione per le famiglie a basso reddito che soffrono di più i rincari.
Forza Italia, intanto, dopo le polemiche sulla tassa sulle banche che Antonio Tajani ha promesso di cambiare, apre un nuovo fronte. Il capogruppo alla Camera Paolo Barelli spinge per «l’applicazione della Flat tax per il lavoro autonomo e per incentivi alle aziende».
(da agenzie)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
QUALE? RIDARE INDIETRO I SOLDI ALLE BANCHE. L’IDEA È DI RICONOSCERE UN CREDITO DI IMPOSTA PER UN VALORE PARI A QUANTO VERSATO ALLO STATO
Garantire il massimo gettito possibile nel 2024, perché servono
assolutamente risorse per una manovra di bilancio difficile, e nello stesso tempo alleggerire il peso per le banche. I tecnici del governo e dei partiti avrebbero trovato la soluzione per raggiungere entrambi gli obiettivi.
E così placare i malumori nella maggioranza, l’irritazione delle banche, forse in parte anche le preoccupazioni di Bankitalia e Bce. Ma soprattutto confermare la linea del premier, che se ne è assunta la paternità ed ha rivendicato con forza il provvedimento.
§La soluzione per le banche passerebbe per il credito di imposta. A fronte del pagamento della nuova tassa, a metà del prossimo anno, alle banche verrebbe riconosciuto un credito di imposta di un valore pari, o di poco inferiore, che gli istituti potrebbero utilizzare negli anni successivi per compensare le normali imposte da pagare.
Il credito d’imposta potrebbe avere una durata di cinque o dieci anni, e ancora da valutare è la misura dello stesso, se pari al 100% del prelievo sugli extraprofitti o ad una quota inferiore. Una specie di tassa con l’elastico, che oggi si paga e domani si rimborsa.
Ai banchieri un punto di caduta del genere non dispiacerebbe. «Meglio un prestito forzoso che un esproprio», dice uno di loro che segue da vicino il dossier. All’esecutivo questo meccanismo garantirebbe l’incasso delle risorse attese per il 2024, circa 3 miliardi di euro.
La deducibilità del prelievo dall’imponibile fiscale del 2024, altra strada esplorata, è stata scartata proprio perché avrebbe portato l’anno prossimo meno gettito di quanto necessario nelle casse dello Stato. La ricerca delle risorse con cui finanziare i tanti impegni del 2024, dalla conferma del cuneo fiscale alla riforma dell’Irpef, passando per pensioni, contratti di lavoro e grandi opere, in questo momento è prioritaria.
Per realizzare il programma il governo deve ancora trovare almeno altri 20-25 miliardi di euro. [Tra le ipotesi per recupere gettito, però, ci sono anche altri prelievi straordinari, in settori economici che in qualche modo, secondo il governo, si approfittano di situazioni non normali. Il presidente della Farmindustria, Marcello Cattani, preoccupato dalle voci di un possibile prelievo straordinario sui produttori di farmac . « Spero che una misura simile non sia stata neanche pensata. Chiederemo rassicurazioni», dice il presidente di Farmindustria. «In primo luogo gli extraprofitti nel settore farmaceutico non ci sono. Poi è una questione ideologica: cosa vuol dire extraprofitto quando le imprese competono in un mercato concorrenziale e pagano regolarmente le tasse?».
(da il Corriere della Sera)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
UNA RAGAZZA: “QUESTA E’ LA FILA DELLA MISERIA, MA SERVONO SOLDI PER FARE LA SPESA”
Fila in pieno agosto a Napoli per richiedere la carta acquisti. Centinaia di persone sono in attesa in strada al sole, davanti all’ingresso degli uffici, per presentare domanda per ricevere la carta di pagamento del valore di 40 euro mensili.
Possono beneficiare della misura le persone che hanno compiuto 65 anni o hanno figli di età inferiore ai 3 anni e che si trovano in una situazione economica particolarmente disagiata.
I richiedenti sono davanti ad una sede del Comune in via Salvatore Tommasi, in zona Museo. Sul posto è presente anche un’ambulanza visto il caldo di agosto, il personale è pronto a intervenire in caso di malori.
Col passare del tempo, anche in seguito al tam-tam dei vicoli, le persone in fila sono aumentate ad alcune centinaia. Chi arriva fornisce il proprio nome a un addetto del Comune che regola l’accesso e attende di essere chiamato: a quel punto viene completata la pratica e al cittadino vengono rilasciati i documenti necessari per ritirare la carta acquisti in un ufficio postale.
“E’ poca roba, non è il reddito di cittadinanza, ma serve sempre. Oggi vai alla cassa di un supermercato, paghi cento euro e ti accorgi che nella busta della spesa non c’è praticamente niente”, dice un giovane che si qualifica “un padre di famiglia”. Un’altra signora, in fila da ore, chiede ai fotografi presenti di non essere ripresa: “Questa è la fila della miseria e, scusate, ma mi vergogno”.
Nella strada stretta davanti alla sede del Comune di via Tommasi il traffico è praticamente bloccato. Le persone in attesa cercano riparo al grande caldo facendosi aria con i ventagli ed hanno il loro da fare per tenere a bada i figli piccoli che hanno portato con sé.
(da agenzie)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
AL MEETING DI RIMINI, GIORGETTI AMMETTE: “SARÀ UNA LEGGE DI BILANCIO COMPLICATA, NON SI POTRÀ FARE TUTTO”
«Il tema della denatalità è fondamentale: non c’è nessuna riforma
o misura previdenziale che tiene nel medio e lungo periodo con i numeri della natalità che vediamo oggi in questo Paese». A parlare è il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che oggi ha partecipato in videocollegamento al Meeting di Rimini. Nel suo intervento, Giorgetti ha parlato anche della prossima legge di bilancio, che l’esecutivo dovrà presentare in autunno. Una legge che «sarà complicata, come tutte», ammette il ministro leghista: «Siamo chiamati, poiché facciamo politica, a decidere delle priorità: non si potrà fare tutto, certamente dovremo intervenire a favore dei redditi medio bassi, ma dovremo anche usare le risorse a disposizione per promuovere la crescita. Questo è l’indirizzo». Giorgetti avrebbe dovuto partecipare in presenza al Meeting di Rimini, ma è stato costretto a ripiegare sul videocollegamento per poter partecipare alle esequie di Giulio Alberto Pacchione e Lorenzo Paroni, i due finanzieri morti in un incidente sulle Alpi Giulie nel corso di un addestramento.
Il Pnrr e il nuovo Patto di stabilità
Oltre alle pensioni e alla legge di bilancio, Giorgetti è tornato a parlare anche del nuovo Patto di Stabilità, chiarendo quale sarà la posizione negoziale dell’Italia nei vertici che si terranno con gli altri Paesi Ue. «Noi non facciamo un problema di debito o mancata riduzione del debito, ma vogliamo che gli investimenti siano trattati in modo privilegiato e meglio rispetto alle spese correnti – ha chiarito il titolare del Mef -. Non possiamo, in un momento in cui siamo ancora in una situazione eccezionale, tornare a delle regole che ignorano la necessità di accompagnare e aiutare famiglie e imprese nella trasformazione che stiamo vivendo». Giorgetti ha poi aggiunto: «Spero che in Europa quando decideremo a settembre sulle nuove regole se ne tenga conto». E sempre a proposito di Unione Europea, il ministro del Carroccio ha affrontato anche la questione relativa al Pnrr. «Per quanto riguarda questo benedetto Pnrr, abbiamo queste risorse, che non possono essere sprecate e che devono essere usate nel modo migliore possibile – ha esordito Giorgetti -. Non c’è semplicemente il puntuale rispetto, il fare in fretta, ma anche il fare bene. Se fare in fretta significa fare male, è meglio fare bene ma valutare attentamente le situazioni, perché è un’occasione unica».
(da agenzie)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
NON C’E’ PIU’ LIMITE ALLA FOGNA: FIORI A TERRA, STATUETTE ROTTE E ACCESSORI RUBATI
Sono state profanate circa 1200 tombe al cimitero di Rivalta di Torino. Nella tarda mattinata di lunedì la conta dei danni era ancora in corso: dei vandali nella notte sono entrati nel campo santo e hanno rubato gli oggetti in rame, mandando in frantumi le statuette posizionate davanti ai loculi e gettando in terra i mazzi di fiori. Un oltraggio ai defunti, alla città.
A lanciare l’allarme è stato uno dei custodi del cimitero, che si è accorto del raid vandalico lunedì verso le 9, non appena hanno aperto i cancelli. Sul caso indagano la polizia, i carabinieri che stanno analizzando i circuiti di videosorveglianza dentro e fuori dal cimitero per identificare gli autori del danneggiamento.
“Non posso credere che ci sia gente così cattiva, insensibile e vigliacca – commenta il Sindaco Sergio Muro – vandalizzare un cimitero, luogo in cui riposano in pace i nostri cari, è un gesto deprecabile. Mi auguro di cuore che i responsabili vengano identificati al più presto”.
I vandali hanno colpito tutte le tombe nei campi I, II, III, IV e V. Risparmiando però le tombe storiche nel campo I.
Dispiacere nel dispiacere, “è stata rubata anche la sciarpa del Napoli che io stesso avevo posato sulla lapide dell’ex sindaco Nicola De Ruggiero (scomparso nel 2021) il giorno dello scudetto”, fa notare Muro.
Per un paio di giorni il cimitero resterà chiuso al pubblico (salvo funerali) per consentire il ripristino degli arredi e la pulizia dei viali.
(da agenzie)
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Agosto 21st, 2023 Riccardo Fucile
IL MINISTRO COSTRETTO A TAGLIARE ESAMI, FARMACI E POSTI LETTO… CON I SOVRANISTI SI MUORE POVERI E A CASA
Per la sanità con i medici in fuga, le liste d’attesa che trasformano
in un diritto di carta quello alle cure gratuite per tutti e una innovazione tecnologica che stenta ad entrare nei nostri ospedali si profila una manovra old style. Di quelle fatte con “zero euro” e “razionalizzazioni” della spesa, che tante volte in passato si sono trasformate in “razionamento” dei finanziamenti più che in lotta agli sprechi. Perché soldi da spendere in manovra ce ne sono pochi e quelli che al Mef si sta cercando di racimolare andranno soprattutto al taglio del cuneo fiscale, lasciando a mani vuote i ministri che prima della pausa estiva si erano recati in processione dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, con la loro lista della spesa.
Così aveva fatto anche il ministro della Salute, Orazio Schillaci, entrato in Via XX settembre con 4 miliardi di euro in richieste per estendere a tutti i medici gli incentivi riservati per ora solo a quelli dei pronto soccorso e che ne era uscito con la promessa che a quelle cifre non ci si poteva proprio arrivare, ma a 2,5-3 si.
E invece ora quei soldi l’ex rettore d Tor Vergata prestato alla politica dovrà cercare di racimolarli tagliando i rami secchi della “sua” sanità. Sempre che ce ne siano ancora dopo 37 miliardi di tagli in 10 anni. Impresa improba, che rischia di portare al collasso la sanità pubblica, visto che 15 dei 130 miliardi di fondo sanitario nazionale se li è già mangiati l’inflazione.
Ma sia i tecnici della Salute sia il Centro studi di Fratelli d’Italia, che ha nella deputata Ylenja Lucaselli la sua testa di ponte con il Tesoro, si sono già messi al lavoro per individuare le sacche di spreco su cui intervenire. Viene invece liquidata dall’Economia come una «balla agostana» l’idea di introdurre come per le banche una tassa sugli extraprofitti delle case farmaceutiche. Che avrebbe significato poi colpire Pfizer e Moderna che di incassi ne hanno fatti a palate con i vaccini anti-Covid. Una mossa ad alto rischio di incostituzionalità oltre che di ritorsioni da parte delle stesse case farmaceutiche in caso di nuove emergenze sanitarie che richiedessero l’uso di antidoti.
Così per abbattere le liste d’attesa Schillaci ha rispolverato vecchie formule. «Per ridurle non basta mettere soldi, bisogna razionalizzare e cercare l’appropriatezza delle prescrizioni», va ripetendo da un po’ di tempo a questa parte. Rimarcando che «ci sono tante persone che fanno esami inutili mentre chi sta male e ne ha realmente bisogno aspetta un sacco di tempo per fare accertamenti importanti». Da una ricognizione fatta dai suoi tecnici risulta che almeno il 20% degli accertamenti prescritti nelle ricette a carico del Sistema sanitario nazionale (Ssn) sono inutili. Detta così non fa forse un grande effetto ma parliamo di 8 milioni di tac, ecografie, radiografie e altri esami per i quali oggi gli italiani attendono mesi se non anni. Solo di risonanze in eccesso se ne conterebbero 700mila. Che qualcosa non torni lo dicono i confronti regionali: se in Veneto le risonanze muscolo-scheletriche sono 15,2 ogni mille abitanti, in Toscana e nel Lazio non si arriva a 10 contro una media nazionale di 11.
Anche tra i farmaci le prescrizioni superflue non sarebbero poca cosa. Solo di antibiotici in un caso su tre se ne potrebbe fare a meno. Insomma, che consumiamo prestazioni sanitarie anche quando non servono è difficile da contestare, ma lo è altrettanto smentire il fatto che in passato quando si è provato ad invertire la rotta i risultati e i relativi risparmi sono stati pari a zero. L’ultimo tentativo risale a gennaio del 2016 con il cosiddetto decreto Appropriatezza, che per 203 prestazioni dava indicazioni precise su quando dovessero essere prescritte a carico dello Stato e quando no. Il tutto corredato da sanzioni per i medici della ricetta facile, che si sarebbero dovute concretizzare in tagli al loro salario accessorio. Un provvedimento fortemente voluto dall’allora ministro Beatrice Lorenzin, la quale dopo l’insurrezione dei camici bianchi che l’accusavano di limitare la loro autonomia prescrittiva a danno dei pazienti fece dietrofront
A luglio, a soli sette mesi dal suo varo, il decreto Appropriatezza venne di fatto messo in soffitta dal Dpcm sui nuovi Livelli essenziali di assistenza, che limitava a 40 le prestazioni soggette a limitazioni, abrogando tra l’altro le sanzioni a medici e manager di Asl e ospedali.
Che si riesca oggi dove si è fallito allora è tutto da vedere, mentre la fuga di medici e infermieri dalla sanità pubblica procede inarrestabile in assenza di gratificazioni economiche, così come senza un potenziamento dell’offerta pubblica continuerà a crescere il ricorso alla sanità privata, che costa oramai agli italiani 40 miliardi di euro l’anno.
Nonostante questo la parola magica “razionalizzazione” verrà pronunciata in manovra anche per cercare di mettere ordine a reparti e sale operatorie negli ospedali. Che sono si sempre più a corto di letti, ma che secondo i numeri che stanno scandagliando i tecnici del dipartimento Programmazione della Salute sono paradossalmente utilizzati appena al 30% in alcuni reparti. Questo mentre in altri si scoppia, con tassi di utilizzo che arrivano al 120%. E lo stesso dicasi per le sale operatorie, in alcuni casi chiuse o attivate solo in parte.
Come mettendo ordine a questi squilibri si possano ricavare soldi per dare ossigeno alla sanità esangue è però un’altra storia. Già vista.
(da La Stampa)
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