Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
SE IL LIBRO DI DESTRA PIÙ VENDUTO È QUELLO DEL GENERALE VANNACCI, COSA RESTA DEL PROGETTO DELLA CONTRO EGEMONIA CULTURALE? QUALCHE POSTO IN TV, NOMINE NEI MUSEI, QUALCHE DENARO PER LE FONDAZIONI
In certi circoli della destra si era diffusa una certa grandeur dopo la
vittoria elettorale dello scorso anno. Pareva finalmente propizio il momento per la costruzione di una élite di destra, un distillato culturale di conservatorismo dalle sfumature eleganti. Ci si aspettava una fioritura di fondazioni, centri culturali, case editrici, riviste, pamphlet raffinatissimi
E invece, nemmeno un anno dopo, il libro di destra più venduto è quello autoprodotto del generale Vannacci e i presunti protagonisti della nuova egemonia culturale sono ridotti alla difesa dell’autore col coltello tra i denti.
Non si tratta certo di proteggere D’Annunzio, Montale, Prezzolini o Ratzinger dalla censura della sinistra, ma di rivendicare le tesi estremistiche, la prosa incespicante, i concetti sempliciotti e tribali, il lessico da caserma, la posa da deep web di un alto ufficiale il cui comportamento, sul piano istituzionale, suscita più di un dubbio.
Insomma dell’alta cultura, e dell’organizzazione ad essa necessaria, per combattere l’egemonia del gramscismo con i suoi stessi mezzi nemmeno l’ombra. Siamo lontani persino dalla più radicale, ma sempre presa a modello, Francia: a Parigi signori come Zemmour, Onfray, Finkielkraut e Bellamy dimostrano di saper scrivere e padroneggiare concetti storici e filosofici.
Invece la compagnia della destra culturale italiana cede subito al richiamo della foresta e si immola per un generale che vuole fare politica e che, per altro, mette anche in difficoltà le forze della maggioranza con i suoi argomenti brutali.
Allora cosa resta del progetto della contro egemonia culturale dei conservatori? Qualche posto in televisione, un manipolo di nomine nei musei e negli enti culturali, qualche denaro per le fondazioni. Non rimane, insomma, che l’ordinaria amministrazione del potere.
Sarebbe stato più onesto che tentar di nobilitare il caso Vannacci come parte di un progetto di contro egemonia o come reazione alle tendenza censorie della sinistra. La destra pertanto torni a ciò che sa fare: rivendicare e alimentare la cultura popolare, scagliarsi contro i progetti dirigisti e pedagogici del progressismo, ma lasci perdere i progetti intellettuali di grande ambizione.
In primis perché nei circoli vicini ai partiti della maggioranza mancano quantità e qualità per realizzare un progetto di quel tipo e in secondo luogo perché all’elettorato di destra non interessa nulla dell’egemonia culturale.
A quella porzione d’Italia basta il bestseller fatto in casa del generale Vannacci. Con buona pace dei gramsciani di destra.
(da Domani)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
DABAIBA E’ STATO SPONSORIZZATO DALL’ITALIA MELONIANA…ENNESIMO FALLIMENTO ITALIANO CHE FINANZIA I TRAFFICANTI DELLA GUARDIA COSTIERA LIBICA
L’analisi del giornalista che meglio conosce la realtà libica: Nello Scavo, inviato di Avvenire. Scrive Scavo sul quotidiano della Cei: “L’inviato delle Nazioni Unite in Libia, Abdoulaye Bathily, ha dato lo sfratto al premier in carica Dbeibah. Una proposta a sorpresa che segna il ritorno degli Stati Uniti nelle sabbie mobili libiche. Per anni gli Usa hanno lasciato fare, a patto di non venire esclusi dalla partita e avviare una stabilizzazione che non concedesse vantaggi a Mosca e non creasse i presupposti per incendiare anche i Paesi confinanti. Non è stato così.
L’attuale premier Dbeibah è accusato fra l’altro di avere sabotato i piani originari pur di tenere il potere e rinviare il tempo delle elezioni, e di un suo possibile addio per mano dell’elettorato. Nell’esecutivo ha imbarcato personaggi come il capo milizia Trabelsi, divenuto ministro degli Interni.
Ha ridato slancio alle ambizioni del “comandante Bija”, il maggiore della guardia costiera e uomo di punta del clan al-Nasr, a cui è affidato l’addestramento dei cadetti nonostante su di lui pendano le sanzioni internazionali per svariati traffici illeciti e crimini contro i diritti umani. Ha permesso di fare carriera ad al-Khoja, altro capobanda che ha posto la sua banda armata a disposizione del governo ed ora coordina il dipartimento contro l’immigrazione illegale e i campi di prigionia statali, recentemente accusato dagli osservatori Onu di essere parte integrante nella filiera per il traffico di esseri umani, armi, droga e petrolio.
Per il diplomatico senegalese dell’Onu Abdoulaye Bathily, a questo punto occorre «un governo unificato, concordato dai principali attori», invocato come «un imperativo per condurre il Paese alle elezioni». Dunque un esecutivo che riporti ai tavoli di Tripoli anche la Cirenaica del generale Haftar.
L’emissario dell’Onu ha fatto pressione sul Parlamento, conosciuto come Camera dei Rappresentanti, e su un secondo organo consultivo, l’Alto Consiglio di Stato, per finalizzare le leggi elettorali.
«Il mantenimento della stabilità della Libia – ha avvertito Bathily – è ancora più critico alla luce dei recenti scontri a Tripoli (con 55 morti in poche ore, ndr), dei disordini regionali in Sudan e Niger e degli scontri che hanno avuto luogo nella regione del Tibesti, nel sud, pochi giorni fa, tra l’esercito ciadiano ed elementi armati».
Ma la sorpresa sono gli Usa, che si sono mostrati insofferenti all’inettitudine politica dell’Europa, che da Bruxelles a Roma non è riuscita a fare altro che accaparrarsi contratti energetici senza incidere sul terreno, anche a causa degli sgambetti di Parigi ai danni dell’Italia, e del gioco ambiguo di Mosca, Turchia, Egitto e monarchie del Golfo.
La conferma arriva per bocca dell’ambasciatrice Usa all’Onu, Linda Greenfield. Ha fatto sapere che a Washington sono pronti a supportare la formazione «di un governo tecnico e tecnocratico il cui unico compito sarebbe quello di portare il Paese a elezioni libere ed eque». Poiché le tensioni regionali e il rinnovato attivismo del gruppo russo Wagner in Cirenaica e in Niger, contribuiscono a generare «profonda preoccupazione».
Le mosse annunciate attraverso il Palazzo di Vetro suonano come un ridimensionamento dell’Italia nello scenario libico.
Francois Delattre, ambasciatore francese al Palazzo di Vetro, ha annunciato che Parigi sposerà il progetto dell’inviato del segretario generale a Tripoli, sostenuto dagli Usa, e anche il rappresentante permanente del Regno Unito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, James Kariuki, ha chiesto che «chiunque minacci la stabilità del Paese nordafricano sia sottoposto a sanzioni» e che «i leader politici libici lavorino in modo costruttivo con l’inviato Onu per procedere verso le elezioni».
All’Italia non resta che accodarsi, dopo avere tentato di sostenere le istituzioni libiche anche a suon di motovedette, addestramento, equipaggiamento e importanti impegni di spesa.
Senza mai menzionare la Libia, il ministro degli Esteri Tajani aveva annunciato ad Avvenire che «a novembre ospiteremo a Roma il vertice Italia-Africa a livello di capi di Stato e di governo. In quell’occasione presenteremo che cosa intendiamo per nuovo “Piano Mattei”».
Ma per quella data potrebbe esserci a Tripoli un nuovo «governo tecnico» con un’agenda diversa dagli impegni presi con Roma per gas, idrocarburi e migranti”.
(da Globalist)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
LEGA E FORZA ITALIA TEMONO DI ESSERE FAGOCITATE ALLE URNE… LE VOCI SUL DUALISMO TRA “FAZZO” E MANTOVANO
Palazzo Chigi diventerà un comitato elettorale permanente con
vista sulle Europee nelle mani di Giovanbattista Fazzolari, braccio ambidestro di Giorgia Meloni. Pronto a dettare la linea e i tempi delle scelte politiche del governo.
La nomina a coordinatore della comunicazione del sottosegretario-ideologo-ghostwriter è solo – si fa per dire – l’ufficializzazione di un ruolo che “Spugna” ha sempre portato avanti da quando i patrioti sono alla guida del paese. Con la differenza – come svelato da questo giornale – che dal primo settembre l’incarico sarà ancora più ufficiale.
Obiettivo: sfondare il muro del trenta per cento alle elezioni di giugno. Quelle che decideranno il peso di Fratelli d’Italia a Bruxelles. E’ la missione affidata a Fazzolari, l’amico geniale di Meloni, il sintetizzatore: in arte “Spugna”. “Preparato, con le sue idee a volte un po’ pirotecniche”, dicono al Foglio i vertici di Forza Italia.
E proprio nell’aggettivo pirotecnico (bum!) si nascondono i timori degli alleati della presidente del Consiglio, Antonio Tajani e Matteo Salvini. Il partito fondato da Silvio Berlusconi e la Lega sanno che dovranno distinguersi nei prossimi mesi per non farsi fagocitare alle urne e non passare dopo l’otto giugno da camerieri.
Ecco, il ruolo di “Fazzo” – l’antifrancese, nonostante gli studi allo Chateaubriand e la passione per Hugo, ma anche il figlio di un diplomatico che non ama la mediazione – servirà a questo: a costruire il comitato elettorale del governo. Per Meloni è la “persona più intelligente che abbia mai conosciuto”, per gli alleati è un petardo pronto a esplodere.
Fazzolari in questi mesi ha fatto asse con il capo di gabinetto Gaetano Caputi, alimentando allo stesso tempo le voci di corridoio (chissà quanto ingigantite) di un dualismo con il felpato Alfredo Mantovano, sottosegretario di grandi relazioni e codici. “Giorgia – raccontano dalla Fiamma magica – tra i due non avrebbe dubbi su chi scegliere: uno è suo fratello, l’altro è una persona competente che le serve”.
Il primo è lui: Fazzolari, creatore del centro studi di Fratelli d’Italia, mente del programma. Prima del partito, poi del governo. Sovranismo in purezza, spruzzatO di complottismo sulle banche, in passato battaglie contro il Green pass e timidezza sui vaccini: sempre tutto ragionato (a modo suo) secondo una coerenza ideologica che sembra inscalfibile.
Così Meloni stringe il cerchio. In un duplex con la nomina della sorella come responsabile della segreteria politica. Anche in questo caso è un messaggio da dare all’esterno perché il peso di Arianna in Via della Scrofa è noto anche ai muri. Nell’ansia di controllo della premier, la sua presenza è fondamentale.
Non ci sono solo i Gabbiani di Colle Oppio da tenere a bada (una decina di parlamentari legati a Fabio Rampelli, meloniani come tutti, ma critici sulla conduzione interna). C’è anche Giovanni Donzelli, uomo macchina del partito, anche lui meloniano – ci mancherebbe – ma in grado di costruirsi con il tempo una rete di parlamentari che a lui è molto legati. E’ il caso di tutti gli eletti, fra Camera e Senato, in Toscana, terra donzelliana, ma anche di Augusta Montaruli e, raccontano, Carolina Varchi.
Il motto dunque non cambia: io, patria e famiglia. Con tutti questi pensieri ieri Meloni è ritornata a Palazzo Chigi dopo le vacanze passate fra Puglia e Albania. Un’ora nel suo studio – con tanto di foto postata mentre prende appunti – per dare una rinfrescata ai dossier che l’aspettano. A partire dal Consiglio dei ministri di lunedì prossimo.
(da agenzie)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
UN PRIMO PASSO PER LA FORMAZIONE DI UN PARTITO GUIDATO DAL GENERALE DESTITUITO, CON L’OBIETTIVO DI PESCARE NELLA DESTRA SCONTENTA DA SORA GIORGIA
Operazione Vannacci, secondo atto. Sta per nascere un partito dichiaratamente ispirato alla figura e alle tesi del generale. Una formazione di ultradestra che sposa tesi all’insegna della xenofobia, l’intolleranza, il tradizionalismo più vieto. Si comincia oggi, a Lamezia, con Roberto Vannacci in probabile collegamento telefonico, come annuncia un colonnello in pensione, Fabio Filomeni, ex incursore, già suo braccio destro nelle operazioni in Afghanistan e altrove.
Per il momento è una semplice associazione culturale, che prenderà il nome del libro, Mondo al contrario. E però, secondo il coordinatore Filomeni, sarà «un centro di aggregazione del pensiero di tutti coloro che credono nella libertà di espressione, diritto sancito dalla nostra Costituzione».
L’uomo è ormai pronto al grande salto. Ieri è arrivato a commentare le parole del Capo dello Stato, pronunciate al Meeting di Rimini. Ed è una prima assoluta che un generale si permetta di dire la sua sul presidente della Repubblica che, secondo Costituzione, ha il comando delle Forze armate e la presidenza del Consiglio supremo di difesa.
Ma torniamo all’appuntamento di Lamezia. L’ambizione è creare un partito che magari possa farsi largo alle Europee, pescando tra gli scontenti della svolta governista di Giorgia Meloni. Qualche segnale è già arrivato da sigle sindacali minori di polizia o delle forze armate. Ma è molto più vasta l’area che occhieggia anche al putinismo e all’antiamericanismo.
L’ex colonnello Filomeni ha un curriculum militare anche lui di tutto rispetto, incursore paracadutista che ha partecipato dagli inizi degli Anni’90 a numerose missioni in Africa, Balcani e Medioriente. Ebbene, il Filomeni è anche lui autore di un paio di pamphlet come il suo idolo Vannacci. Dove l’idea forte è il ripudio della Nato e l’ammirazione per la Russia.
Nel 2021 ha già scritto «Baghdad: ribellione di un Generale: Non abbandono i miei uomini esposti all’uranio impoverito», per raccontare lo scontro di Vannacci con il Capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Cavo Dragone.
Con il suo nuovo volume, però, uscito ad aprile, segna una svolta politica. Morire per la Nato?, il titolo. La risposta è scontata. «La Nato, l’alleanza militare più longeva della storia, dopo la caduta del Muro di Berlino ha cambiato pelle. Con il crollo dell’Unione Sovietica, venendo meno la sua principale ragione d’essere, la Nato è divenuta paradossalmente sempre più aggressiva trasformandosi in uno strumento in mano alla nazione che esercita la più forte influenza destabilizzante del pianeta: gli Stati Uniti d’America».
Inutile ricordare che quella di Filomeni è la tesi di Mosca, di una Nato sempre più aggressiva e degli Stati Uniti che destabilizzano il mondo. E Vannacci, con maggiori cautele essendo in servizio, ha scritto anche lui pagine encomiastiche sulla Russia di Putin, «società ordinata», dove «incontravo, ben dopo l’imbrunire nei grandissimi e bellissimi parchi cittadini, donne sole e mamme con bambini senza il benché minimo timore di essere molestate da qualcuno»
(da La Stampa)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
UNA CARICA DI POLITICI TROMBATI PER GESTIRE LA DEPURAZIONE
L’Italia paga ogni anno decine di milioni di euro di multe
all’Unione europea, per le irregolarità nella raccolta, depurazione e e smaltimento delle acque di scarico. Prima ancora del danno economico, il trattamento non corretto delle cosiddette acque reflue provoca danni ambientali enormi alle coste e al mare, soprattutto nel Sud.
Il 25 agosto, il governo ha scelto tre uomini, per affrontare questo problema complesso, che si trascina da decenni. Si tratta di un professore di italiano e storia, un avvocato e un commercialista. Nessuno di loro ha nel curriculum esperienze significative nella materia di cui dovrà occuparsi, ma tutti e tre possiedono un’altra caratteristica, evidentemente giudicata più importante della competenza. Tutti infatti hanno fatto militanza ed esperienze di politica attiva nei partiti dell’attuale maggioranza di centrodestra, a partire da Fratelli d’Italia, e possono vantare legami solidi con alcuni big nazionali.
Un commissario per depurare l’acqua
Piccolo passo indietro, per capire di cosa stiamo parlando. Dal 2017 esiste a livello nazionale una struttura commissariale straordinaria per la depurazione delle acque. L’organismo è composto da un commissario e due vice, che si occupano della realizzazione degli impianti necessari a risolvere le criticità, rilevate in diverse procedure di infrazione (con relative sanzioni economiche) dell’Unione europea, contro il nostro Paese. Gli interventi programmati in totale sono oltre 90 – per un valore di oltre 3 miliardi di euro – concentrati per la maggior parte in Sicilia e Calabria.
Il commissario uscente alla depurazione è Maurizio Giugni, direttore del dipartimento di Ingegneria civile, edile, ambientale e professore ordinario di Infrastrutture idrauliche all’Università di Napoli. Un tecnico di primo piano, che ora verrà sostituito da Fabio Fatuzzo. Anche Fatuzzo all’apparenza può sembrare uno ‘del mestiere’, perché attualmente è presidente di Sidra, la società che gestisce la rete idrica di Catania. La sua storia in realtà racconta di un background molto diverso.
La lottizzazione delle acque
Nato a Messina nel 1951, laureato in filosofia, poi professore di italiano e storia alle superiori, il neocommissario Fatuzzo fin da ragazzo entra nelle fila del Fronte della Gioventù – l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano -, di cui arriva ai vertici nazionali. Dal 1980 al 1990 è consigliere comunale del Msi poi, dopo la svolta di Fiuggi, aderisce ad Alleanza Nazionale, con cui diventa prima assessore comunale a Catania e poi deputato, dal 2001 al 2006. Nel 2010 segue Gianfranco Fini nella scissione dal Pdl, ma appena un anno dopo torna nei ranghi della destra, al seguito di Adolfo Urso, attuale ministro meloniano del Made in Italy.
Qua finisce la parte di impegno politico attivo della carriera di Fatuzzo, che dal 2010 al 2019 si ricicla come direttore generale di Acoset, una piccola società idrica, che si occupa dell’area attorno all’Etna. Nel frattempo, l’ex deputato si avvicina a Fratelli d’Italia, a cui aderisce nel 2019. Poco dopo, guarda caso, è nominato presidente di Sidra dall’allora sindaco Fdi di Catania (e attuale parlamentare) Salvo Pogliese. Fatuzzo dunque non sembra nuovo a nomine, dal retrogusto di lottizzazione politica.
D’altronde, il neocommissario alla depurazione può vantare un solido rapporto anche con un altro ministro meloniano e ras del partito in Sicilia, Nello Musumeci, anche lui ex capo missino nel catanese. Ancor più diretti, sono i legami con il ministro del Mare e della Protezione Civile di uno dei due subcommissari, scelti dal governo, Salvatore ‘Totò’ Cordaro. Quest’ultimo è stato assessore al Territorio e all’Ambiente nella giunta regionale guidata da Musumeci, dal 2017 al 2022.
Eletto per tre volte deputato all’Ars, dopo essersi avvicinato all’Udc di Cuffaro, nel 2022 Cordaro è entrato in Fratelli d’Italia, accolto dalla “gioia” di Musumeci, che nell’occasione aveva definito il salto di barricata, “una scelta coraggiosa e coerente”. L’ex assessore però ha anche un’altra caratteristica, che lo rende perfetto per il nuovo ruolo: dopo non essere stato candidato alle elezioni politiche, né a quelle regionali, era rimasto senza una poltrona.
L’altro subcommissario sarà invece Antonino Daffinà, calabrese, commercialista, già consigliere comunale e assessore di Vibo Valentia, dove è dirigente di Forza Italia. Con il partito che fu di Silvio Berlusconi, Daffinà ha provato a candidarsi al Senato nel 2018 e al Consiglio Regionale, nel 2020, senza successo. Di lui si è parlato anche come possibile prossimo candidato sindaco a Vibo, anche se sul suo nome pesa la macchia delle citazioni (da non indagato) nelle carte di alcune inchieste sulla ‘Ndrangheta, della Direzione Antimafia di Catanzaro.
Per completezza di cronaca, va detto che anche nella squadra uscente della struttura per la gestione delle acque reflue, c’era una personalità con una connotazione partitica, l’ex senatore Pd Stefano Vaccari, mentre l’altro subcommissario, Riccardo Costanza, era un ingegnere ambientale, dunque anche lui un tecnico, come il commissario Giugni. Fatto sta che le nomine tutte dal sapore politico del governo Meloni hanno provocato uno scossone, anche dentro la maggioranza.
Pochi minuti dopo l’annuncio ufficiale, infatti, il presidente della Regione Sicilia, il forzista Renato Schifani, ha criticato duramente le scelte. ” Il mio grande stupore – ha detto Schifani – consiste nel fatto che si è passati dal professore Maurizio Giugni, dotato di altissima competenza a un ex parlamentare che non presenta alcuna preparazione specifica. Lo stesso dicasi per uno dei due vice commissari”. Schifani ha proseguito ricordando come la Sicilia sia la regione più interessata dagli interventi su raccolta, depurazione e scarico delle acque reflue e ha concluso: “Mi auguro che il governo nazionale rifletta attentamente su queste scelte”.
(da Fanpage)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
LE CIFRE DI SALVINI SONO GONFIATE… INTERVISTA AL PROF. DOMENICO MARINO
Tempi di realizzazione chimerici e dati sull’occupazione sovradimensionati. Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini è certo che l’estate prossima potrà festeggiare l’avvio del cantiere per la costruzione del Ponte sullo Stretto.
Al meeting di Comunione e Liberazione lo annuncia a chiare lettere: “L’anno prossimo di questi tempi i cantieri del Ponte sullo Stretto saranno aperti, qui da Rimini dallo stand del Mit potrete vedere le telecamere puntate sui cantieri”, ha detto ieri il vicepremier leghista dal palco. Il decreto per far partire i lavori per l’opera, che definisce l’assetto della società Stretto di Messina Spa e riavvia le attività di programmazione e progettazione, ha ricevuto l’ok definitivo in Parlamento lo scorso 24 maggio.
Pochi giorni fa il segretario della Lega ha anche pronosticato un alto numero di occupati legato alla costruzione dell’infrastruttura, indicando la fantasiosa cifra di “100mila posti di lavoro”.
In realtà questo numero è assolutamente gonfiato secondo il professor Domenico Marino, docente di Politica economica ed Economia dell’innovazione all’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
A Marino – che è anche è anche co-autore del dossier di Kyoto Club, Lipu e WWF ‘Lo Stretto di Messina e le ombre sul rilancio del ponte’, e sull’infrastruttura ha pubblicato un libro, dal titolo ‘L’insostenibile leggerezza del Ponte’ – abbiamo chiesto se il disegno e le promesse da Salvini siano davvero realizzabili.
L’incognita dei tempi di realizzazione del ponte
“Se si tratta di fare semplicemente un’inaugurazione, probabilmente si potrà fare – ha spiegato Marino a Fanpage.it – Non sarebbe neanche una cosa nuova, perché tra il 2009 e il 2010, è stata simbolicamente posta la prima pietra del ponte quando sono stati affidati i cantieri per la variante ferroviaria di Cannitello, che poi ha prodotto un ecomostro che ancora deturpa il litorale calabrese, perché l’opera non è stata mai completata, e si sono spesi quasi 20 milioni di euro, con l’unico risultato di danneggiare l’ambiente”.
“Ma nel giro di un anno è altamente improbabile, quasi impossibile, che si riescano a ultimare tutte quelle procedure che permettono di avviare davvero i lavori. Il primo problema è il progetto definitivo del 2011, quello che è stato approvato dal Consiglio di Amministrazione della Società Stretto di Messina S.p.A. e che si vorrebbe far resuscitare: da allora è cambiata la normativa antisismica, e quindi è in gran parte da rifare. Poi ci sarebbe un’altra questione, non di poco conto, che può dare origine a contenziosi giuridici infiniti, e cioè la mancanza della Valutazione di Impatto Ambientale, perché la procedura è rimasta incompleta e va rifatta: quando la la Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale si è riunita non ha deciso perché la maggior parte delle prescrizioni che erano state date non erano state ottemperate. Per rifare la procedura di VIA ci vuole più di un anno. Già questo ci dice che l’ipotesi di aprire i cantieri tra un anno è abbastanza remota”.
“Poi ci sono altri problemi giuridici: il primo è che si vuole far rivivere anche l’appalto vinto da WeBuild, e questo è controverso per due ragioni. Intanto il costo dell’opera negli anni è quadruplicato, e ai sensi della normativa nazionale ed europea bisogna ricorrere a nuova procedura di gara, perché l’appalto originario per la realizzazione del ponte era del valore di 4 miliardi di euro, poi portati a 6 sulla base degli indici di costo ISTAT, e ora sarebbe di 13-14 miliardi di euro secondo quanto dice Salvini, un importo di quattro volte superiore. L’Unione europea impone di rifare il bando di gara quando l’importo dell’opera supera del 50% il valore originario dell’opera messa a bando. Questo renderebbe di per sé impossibile affidare direttamente a WeBuild l’appalto”.
“Un altro problema giuridico riguarda proprio WeBuild, perché il consorzio è entrato in contenzioso con lo Stato. Quindi risulta alquanto anomalo che un’impresa che ha un contenzioso aperto con lo Stato poi possa gestire un appalto per conto dello Stato. Queste illegittimità di fondo potrebbero essere fatte valere da chiunque abbia l’interesse di non vedere realizzata l’opera. Penso a una persona che ha subito un esproprio per la costruzione del ponte o alle associazioni ambientaliste, che potrebbero far valere le proprie ragioni in tribunale”, ci ha detto Domenico Marino al telefono.
“Ma c’è anche un altro aspetto. In teoria il ponte potrebbe essere completato in 4 anni, ammettendo per assurdo che tutto fili liscio e che tutto si realizzi secondo i tempi annunciati da Salvini. Ma il risultato sarebbe che noi avremmo il ponte ma non sapremmo come salirci sopra, perché il progetto riguarda solo l’impalcato. Tutte le opere necessarie a portare le automobili e i treni sul ponte, a 60 metri di altezza, non sono state ancora neanche progettate. Per cui si dovrebbe fare tutta la procedura per esempio per costruire gli svincoli, serve la progettazione di massima, definitiva ed esecutiva, poi queste opere vanno messe a bando e infine vanno fatti gli espropri. In Calabria si prevede di fare gli svincoli tra Gioia Tauro e Palmi, ma di tutto questo non esiste nulla. Nessuno sembra averci pensato, e allora ci sono due ipotesi: o non hanno proprio considerato il problema, ma sarebbe da dilettanti; oppure nessuno sostanzialmente crede che il ponte possa davvero essere realizzato”.
Impossibile adesso fare una stima definitiva dei costi
Ma se anche tutti questi ostacoli di cui abbiamo parlato venissero aggirati, che garanzie abbiamo del fatto che i costi alla fine non supereranno la soglia di quei 14 miliardi di cui parla Salvini? Secondo il professore garanzie non ce ne sono.
“Quando parliamo di 13,5 miliardi stiamo parlando solo dell’impalcato. A questo bisognerebbe sommare anche le spese per fare gli svincoli. Ma sulle cifre del ponte c’è stata un’escalation: nel 2006 il consorzio guidato da Salini-Impregilo, oggi WeBuild, ha vinto il bando di gara per 4 miliardi di euro, e di fronte alle critiche sul fatto che questa cifra non era realistica veniva risposto che in realtà era più che sufficiente. Ora, guardando le cose con gli occhi del 2023, per quanto possa esserci stata un’inflazione elevata, e non c’è stata se non nell’ultimo anno, per quanto i costi dal 2006 possano essere lievitati, sicuramente non possono essere aumentati del 400%. Al massimo potrebbero essere lievitati del 50-60%. Quindi o erano sbagliati i costi previsti nel 2006, o è stata fatta una stima per eccesso oggi”, ha spiegato il professore.
“Ma in realtà nessuno può sapere davvero quanto costerà questo ponte finché non ci sarà il progetto esecutivo. Qualunque ingegnere anche appena laureato sa che per stimare il costo di un’opera, secondo il Codice degli appalti, è necessario prima il progetto di fattibilità tecnica ed economica (ex progetto preliminare), poi il progetto definitivo e infine il progetto esecutivo, che spiega punto per punto, bullone per bullone, quello che deve essere fatto. Ad oggi non abbiamo neanche un progetto definitivo approvato perché come dicevamo non abbiamo la VIA sono cambiate le norme antisismiche e quindi le strutture dovranno subire delle modifiche rispetto a quelle che erano state progettate originariamente tra il 2006 e il 2010. Oggi si dice quindi che l’infrastruttura costerà 14 miliardi, ma potrebbero servire anche 24 miliardi. Senza il progetto esecutivo si possono fare solo delle stime di massima”
Reggio Calabria e Messina non saranno più vicine
Secondo il professor Domenico Marino con il ponte non ci sarebbero vantaggi per la mobilità, in termini di riduzione dei tempi di percorrenza del tratto Messina-Reggio Calabria. Anzi, stando ai calcoli del professore, quel tragitto potrebbe addirittura allungarsi. “Come tutti sanno, escludendo i picchi di flusso di agosto, se oggi parto dal centro di Reggio per raggiungere quello di Messina ci impiego mediamente 45-60 minuti, utilizzando il trasporto navale. Con il ponte dovrei partire da Reggio Calabria, arrivare tra Palmi e Gioia Tauro, una distanza percorribile con 20-25 minuti di macchina, prendere lo svincolo per salire sul ponte, attraversarlo e poi entrare a Messina. Sicuramente questo mi porterebbe via più di un’ora. Quindi un cittadino di Reggio o di Messina non avrebbe nessun vantaggio in termini di tempo nell’utilizzo del ponte”.
Il ministero dei Trasporti alla fine di maggio ha diffuso un documento di Faq (Frequently asked questions) sull’opera, smentendo alcune presunte fake news. Una di questa era relativa proprio ai tempi di percorrenza: il dicastero guidato da Salvini scriveva che il tempo medio di attraversamento attuale dello Stretto oggi è di 40-60 minuti, paragonabile al tempo di viaggio che un’automobile impiega per percorrere circa 100 km. Insieme agli interventi programmati dal PNRR sulle reti di trasporto, secondo il ministero, il ponte permetterebbe di ridurre i tempi di viaggio complessivi di oltre il 50% per gli spostamenti ferroviari e di circa il 70% per gli spostamenti stradali.
“Non è così, è falso, perché il tempo medio di attraversamento dello Stretto, cioè il tempo di navigazione, oggi è di 20-25 minuti. Può esserci una minima variazione in base alle condizioni del mare. Basta guardare gli orari sul sito delle Ferrovie dello Stato e dei traghetti Caronte che fanno la tratta Messina-Villa San Giovanni. Dopodiché naturalmente ci sono anche i tempi morti, che però non superano i 20 minuti. È chiaro che se il calcolo si fa con la situazione che c’era vent’anni fa, quando i treni dovevano salire sulle navi per poi essere scaricati dopo l’attracco, probabilmente i tempi di cui parla il ministero sono corretti. Ma ora non è più così, i passeggeri scendono dal treno a Villa San Giovanni, prendono il mezzo veloce, e poi risalgono sul treno a Messina. Per quanto riguarda invece le automobili le stime del ministero dei Trasporto sono proprio sbagliate. Con un investimento di 100 milioni di euro noi potremmo avere un trasporto moderno nello Stretto, ma con inquinamento zero, superando tutti i limiti dell’attraversamento attuale. Sulle lunghe distanze, per i cittadini in transito che arrivano per esempio dal Nord, potrebbe esserci un vantaggio di 10 minuti. Ma non è un beneficio che giustifica 14 miliardi di investimento”
Dati sull’occupazione gonfiati: il ponte non garantirà 100mila posti di lavoro
Matteo Salvini ha assicurato che il ponte “porterà 100mila posti di lavoro”. Lo ha dichiarato alla Versiliana lo scorso 12 agosto. L’economista però ha smascherato la propaganda del governo, spiegando che la stima di 100.000 posti lavoro creati non si riferisce all’opera a regime, ma Salvini allude in realtà alle ula (unità lavorative anno) impiegate nei lavori di costruzione. Secondo Marino la nuova occupazione creata potrà durare al massimo una decina di anni. Ma una volta completata l’opera questi lavoratori torneranno a essere disoccupati.
“I politici come al solito sono abituati a enfatizzare le cifre, senza approfondirne il significato. Nel progetto definitivo del ponte, l’unico che abbiamo a disposizione, sono previste 40mila ula, che non sono posti di lavoro, ma unità di lavoro equivalenti. Ma queste 40mila ula non sono posti di lavoro definitivi, sono solo posti di lavoro temporanei che servono unicamente alla costruzione dell’opera. Ma anche in questo caso, quando si parla di ula, non si fa riferimento alla Calabria e alla Sicilia”.
“L’impalcato, che è la parte più consistente secondo il progetto definitivo, verrebbe costruito altrove. La gran parte delle lavorazioni sarebbero al di fuori delle due Regioni. Quello che interesserebbe la Calabria è il movimento terra, perché per costruire due torri di 400 metri bisogna sventrare una montagna. Ma questa è la parte meno importante dal punto di vista economico, e meno remunerata. Da noi rimarrebbero quindi le lavorazioni secondarie e quelle necessarie a mettere su l’impalcato, che però sarà per lo più realizzato da imprese specializzate che porteranno la loro manodopera da fuori. L’80% della manodopera sarebbe esterna. Quindi l’impatto occupazionale su queste Regioni non sarebbe elevato”.
“A regime, probabilmente, il ponte porterà invece a una riduzione dei posti di lavoro. Perché nell’ipotesi in cui si dovesse ridurre il traffico navale, la riduzione dei posti di lavoro nel settore non verrebbe compensata dai posti creati a regime dal ponte, che saranno sostanzialmente quelli legati alla gestione dei pedaggi e alle manutenzioni, che costituirebbero una vera e propria tassa che calabresi e siciliani dovrebbero pagare ogni anno. Un’opera lunga tra i 3.200 e i 3.300 metri è un’opera che ha bisogno di una manutenzione costante”.
Non è vero che costerebbe di più non fare il ponte che farlo
La tesi del ministero è che a questo punto costa più non fare l’opera, piuttosto che farla. Nelle Faq del Mit si ricorda che la mancata realizzazione del ponte ha già comportato e potrebbe ulteriormente comportare il pagamento di ingenti penali e indennizzi, dovuti ai contenziosi fra lo Stato e gli aggiudicatari dei contratti di appalto caducati.
“Dire che pagheremmo di più non facendo l’opera è potenzialmente vero ma abbastanza improbabile, nel senso che WeBuild ha aperto un contenzioso con lo Stato, ma questo è sicuramente inferiore a 1 miliardo. Se parliamo di quasi 14 miliardi per la realizzazione dell’infrastruttura è assolutamente incomparabile l’eventuale indennizzo che si dovrebbe pagare. Un’affermazione del genere poteva avere forse un senso quando il costo dell’opera si aggirava intorno ai 4 miliardi”, ha detto Domenico Marino.
(da Fanpage)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
NELL’HOTSPOT CI SONO 4.000 PERSONE…TUTTA COLPA DELLA LAMORGESE, OVVIO
Continua il flusso di persone migranti che attraversano il
Mediterraneo per arrivare in Italia, e a Lampedusa è record per quantità di soccorsi e di persone sbarcate in una sola giornata. Il numero di arrivi in Italia quest’anno ha superato quota 100mila già a Ferragosto, e ormai va verso 110mila. Ieri, 25 agosto, nell’arco di 24 ore a Lampedusa ci sono stati 65 sbarchi, per un totale di 1.918 persone portate in salvo. Oggi, dalla mezzanotte, sono già 17 i nuovi sbarchi, con 519 persone.
Record di arrivi a Lampedusa, 4000 persone nell’hotspot
La situazione è critica. All’hotspot di contrada Imbriacola, gestito dalla Croce rossa e teoricamente attrezzato per ospitare circa 400 migranti, al momento ci sono tra le 3.500 e le 4mila persone, di cui circa 200 sono minori non accompagnati. La Prefettura di Agrigento ha già disposto che, nelle prossime ore, il traghetto di linea Galaxy partirà trasportando 740 migranti verso Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, dove arriverà verso sera. Da qui proseguirà la redistribuzione in varie strutture di accoglienza.
Gli arrivi, peraltro, non avvengono solo con salvataggi in mare. Ieri sei gruppi di persone sono stati bloccati da carabinieri e Guardia di finanza dopo essere riusciti a sbarcare in autonomia a Lampedusa. Un gruppo è stato individuato a Porto ‘Nonti, senza riuscire a trovare l’imbarcazione con cui è arrivato. Altri due (50 persone in tutto) sono arrivati al molo commerciale, altri ancora a Cala Croce e al santuario della Madonna dell’aiuto (82 persone). La Guardia costiera è intervenuta anche per assistere 47 persone rimaste sulla scogliera di Cala Galera, dopo aver lasciato alla deriva la propria imbarcazione.
Il sistema di smistamento sotto pressione a Porto Empedocle
A Porto Empedocle è stata istituita un’area di transito per le pre-identificazioni. Qui gli agenti di polizia della Questura (ufficio immigrazione) si occupano di fotosegnalazioni e delle altre pratiche. Centinaia di persone si trovano in questa area, e dovranno essere ulteriormente trasferite entro metà mattinata. Il piano è questo: tre autobus porteranno 130 persone a Pollazzo, uno accompagnerà 30 persone a Messina e altri due, con 80 persone, si dirigeranno in Abruzzo. Altri 20 andranno a Caltanissetta.
Questa sera, con l’arrivo di altre 740 persone, le procedure riprenderanno. Alcuni trasferimenti sono già decisi e dovrebbero interessare tutta Italia: 150 persone in Veneto, 40 in Umbria, 150 in Emilia-Romagna e 100 a Vibo Valentia, in Calabria. Le 440 persone interessate da questi spostamenti sarebbero già state identificate, ancor prima di lasciare Lampedusa, così da permettere di mantenere i ritmi altissimi imposti dalla frequenza degli sbarchi.
In arrivo 700 persone a Catania
Gli sbarchi proseguono non solo a Lampedusa. Oggi un altro arrivo è già attesa a Catania. Nel porto del capoluogo siciliano dovrebbe arrivare verso le ore 12 la nave Dattilo, della Guardia costiera italiana. A bordo ci sono circa 700 persone migranti, di cui 200 soccorse direttamente in mare e altre 498 sono state prese a Lampedusa, sempre per agevolare i trasferimenti. Una volta sbarcate, le persone saranno assistite e poi distribuite nelle strutture per l’accoglienza.
(da Fanpage)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
COSÌ LA “FAMIGLIA” PROVA A TIRARE ANCORA DI PIÙ LE REDINI. A PARTIRE DALLE LISTE… È SCONTRO APERTO TRA LOLLOBRIGIDA E DONZELLI… LA FAIDA PER LA SCELTA DEI CANDIDATI IN PUGLIA E FRIULI
In questi mesi, Francesco Lollobrigida si è visto spesso a Montecitorio, mai così tanto da quando lo scorso ottobre è stato nominato ministro dell’Agricoltura. Un caffè in buvette, una chiacchierata sui divanetti, un capannello in cortile. E’ la prova che la nomina di sua moglie Arianna Meloni a capo della segretaria politica di Fratelli d’Italia è stata meditata ed è il frutto di un attento e insistito monitoraggio dei gruppi parlamentari.
Per capire cosa sta succedendo dentro il partito creato undici anni fa da Giorgia Meloni bisogna partire proprio dalla Camera. Salire al sesto piano e osservare la fila di deputati che attendono di parlare con Arianna, nella stanza che da fine giugno si è ritagliata vicino all’ufficio parlamentare della sorella premier.
C’è una naturale evoluzione delle correnti, e un altrettanto fisiologica complessità territoriale da dover gestire. Il clan Meloni teme di perdere la presa su FdI proprio nell’anno che porterà alle Europee. E così la famiglia prova a stringere ancora di più il controllo sul partito.
C’è un nome che in queste ore ricorre nelle ricostruzioni velenose dei vertici di FdI. Dicono che Giovanni Donzelli stia provando ad allargare la sua influenza sui gruppi parlamentari. Il deputato è il responsabile nazionale del partito. Un ruolo che gli ha dato un potere enorme, finché non è arrivata Arianna a gestire tessere, liste elettorali, soldi.
Donzelli non lo vive come un ridimensionamento e smentisce chi vuole descriverlo come un antagonista di Lollobrigida: «Sfido chiunque a sostenere che non andiamo d’accordissimo». Ma sa benissimo che sono queste le voci messe in circolo dalle fonti parlamentari e di governo del partito. Fonti che non provengono solo dall’ala sconfitta, quella del vicepresidente Fabio Rampelli, l’anima dei Gabbiani di Colle Oppio, il volto della destra romana che ha plasmato le origini della premier, colui che ancora si sente il padre politico tradito dalle sorelle Meloni.
Di sicuro c’è che Donzelli pensa di non aver avuto la giusta gratificazione. È l’unico dei fedelissimi della leader rimasto fuori dal governo. E Lollobrigida, ex capogruppo nella scorsa legislatura, gli ha preferito come suo successore alla Camera il più mite Tommaso Foti. A Giorgia Meloni hanno sussurrato delle ambizioni di Donzelli, di una truppa di parlamentari – soprattutto toscani – che si sta strutturando attorno a lui, e che avrebbero messo Foti nel mirino.
Ma controllare gruppi di deputati e senatori vuol dire anche controllare i territori, dove il partito in crescita ha imbarcato cacicchi, transfughi, rastrellatori di voti. Il conflitto interno per un posto in lista, in vista della grande battaglia proporzionale per le Europee, è la logica conseguenza.
Una faida che è già in atto in Puglia, come in Friuli o altrove. Per Meloni, tutto questo può solo complicare la vita del governo, rendere più difficile la convivenza nella maggioranza e dunque il lavoro sulla manovra economica, da cui dipenderà molto della credibilità che FdI dovrà mettere sul tavolo della campagna elettorale.
Il partito-famiglia serve a evitare che si formino quelle correnti che intossicarono Alleanza Nazionale. Meloni è ossessionata dal rapporto di fiducia con i suoi. Non vuole dibattiti sulla leadership, o sul congresso che da tempo chiedono gli uomini di Rampelli per ridiscutere la linea di un partito nato nella destra sociale e che la premier sogna di trasformare in una forza conservatrice molto più larga negli orizzonti europei e globali.
Aver piazzato Arianna al vertice e il fidatissimo sottosegretario Giovanbattista Fazzolari al coordinamento della comunicazione tra governo e gruppi parlamentari, serve per vigilare su ogni spiffero che non sia perfettamente sincronizzato con la linea decisa di giorno in giorno a Palazzo Chigi. E che proprio Fazzolari, che ha già la delega all’attuazione del programma, detterà a chi si occuperà di avere a che fare con la stampa in una sorta di ufficio propaganda che riporterà direttamente alla premier.
(da Stampa)
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Agosto 26th, 2023 Riccardo Fucile
L’EGEMONIA CULTURALE DELLA FOLLIA INTEGRALISTA FA PROSELITI TRA GLI SPOSTATI
«Adesso basta! Siamo state minacciate. Oggi un uomo è entrato e
ha iniziato a leggere un passaggio della Bibbia dove Dio punisce tutti quelli che non credono che l’unico e possibile amore sia quello tra uomo e donna. Con voce molto alta e alterata ci ha aggredite verbalmente dicendo che siamo delle pervertite e che la nostra libreria è perversa perché vendiamo libri inclusivi, che parlano di tutte le forme di famiglia e di tutte le forme d’amore». Lo denunciano su Facebook le responsabili de “Il Mosaico Libreria dei Ragazzi” di Imola.
«Per questo – proseguono le libraie – secondo lui siamo responsabili della depravazione della società e dei bambini, e Dio punirà noi e la nostra libreria per aver diffuso un morbo nella città di Imola, in cui a detta sua queste cose non sono gradite. Ci ha tenuto poi a precisare, che il gruppo di cui fa parte ci osserva e ci farà pagare delle conseguenze. Noi siamo spaventate da tutta questa violenza e dalle minacce ricevute. Abbiamo sporto denuncia, ma vogliamo raccontarvi questo fatto perché non è possibile che ad oggi succedano queste cose».
Un episodio che ha colpito Alessandro Zan, responsabile Diritti nella segreteria nazionale Pd, che esprime solidarietà alle esercenti per il «vergognoso episodio», auspicando che «le Forze dell’ordine facciano chiarezza subito».
(da Open)
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