Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
MORALE DELLA FAVOLA: È SOLO UNA LEGGE POPULISTA E MEDIATICA,.. IL PRELIEVO, COMUNICATO AD MINCHIAM, SERVIRÀ SOLO A IRRITARE I MERCATI. E INFATTI OGGI ARRIVANO I “PIZZINI” DI “MOODY’S” E “FINANCIAL TIMES”: “NEGATIVA PER IL SETTORE”; “MINA LA REPUTAZIONE DELL’ITALIA”
La nuova tassa sugli extra profitti “è credit negative” per il settore: è la conclusione degli analisti di Moody’s.
Secondo i calcoli proforma su cinque banche che rappresentano oltre il 60% del margine di interesse del sistema bancario italiano a fine 2022 (UniCredit, Intesa Sanpaolo, Bper, Banco Bpm e Mps) “la nuova imposta ridurrà sensibilmente il loro reddito netto”, con un peso di “circa il 15% dell’utile netto 2022 del sistema”.
Inoltre l’imposta va “ad aggiungersi a una serie di altri vincoli alla redditività delle banche italiane, come la modesta attività di prestito o l’aumento delle spese operative”.
Anche il Financial Times dedica un lungo articolo in apertura di pagina 3 al tema.
‘La Robin Hood tax danneggia la reputazione dell’Italia’, titola il quotidiano finanziario britannico, sottolineando come la tempesta scatenata dalla misura decisa dal governo ‘metta alla prova la capacità di Giorgia Meloni di afferrare la realtà del mercato’.
Il quotidiano parla dello sforzo della premier di ‘rafforzare il sostegno della destra populista’: ma ‘la gaffe del governo italiano – si legge – ha inflitto un serio danno alla credibilità degli sforzi del primo ministro Giorgia Meloni di presentarsi come un’amministratrice responsabile dell’economia’.
Nell’articolo da Londra, che raccoglie anche le opinioni di analisti ed esperti italiani, il Financial Times ricorda anche che il governo Meloni nelle scorse settimane è stato sottoposto ‘al fuoco delle polemiche interne per i ritardi nell’attuazione del Pnrr e per l’inattesa contrazione del Pil nel secondo trimestre’.
E sottolinea come la presidente del Consiglio abbia dovuto affrontare ‘critiche per la decisione di abbandonare la misura del reddito di cittadinanza’ che era stata assunta per sostenere le fasce più deboli della cittadinanza.
(da agenzie)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
DOPO MESI DI ASSALTO ALLE FASCE PIU’ DEBOLI, ORA LA MELONI ATTUA UNA OPERAZIONE DI “POVERTY WASHING” PER GETTARE UN PO’ DI FUMO NEGLI OCCHI
Indossare il costume di Robin Hood prima di andare al mare. 
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha addirittura rispolverato il format social “Gli appunti di Giorgia” per mettersi di fronte a una videocamera e fornire la narrazione di un governo che toglie alle ricche banche per dare risorse – nei prossimi mesi – ai più poveri.
Un video che, oltre alla propaganda, ha un valore tutto politico con il corollario di resa di conti interna, con il capello messo dalla premier sulla misura che colpisce extraprofitti bancari. E così viene liquidata la versione delle ore precedenti, che descriveva il vicepremier, Matteo Salvini, come il grande sponsor del blitz. «Lo abbiamo voluto noi di Fratelli d’Italia, e gli altri sono stati d’accordo», è il senso del messaggio trasmesso. «Abbiamo tassato un margine ingiusto a vantaggio delle banche», ha scandito la presidente del Consiglio durante il monologo durato quasi mezz’ora. Con quelle risorse, ha promesso, «aiuteremo famiglie e imprese».
Un impegno generico per quella che si configura come una maxi operazione di “poverty washing”, un modo buono per gettare un po’ di fumo negli occhi – alla vigilia della pausa estiva – dopo dieci mesi di sistematico assalto alle fasce più deboli del paese.
Sempre ammesso che le risorse derivanti dalla tassazione degli extraprofitti siano impiegate per il sostegno ai redditi più bassi e non a finanziare la flat tax, il sogno recondito dell’alleanza di governo. E un regalo ai ricchi.
ATTACCO AI POVERI
Ma se il futuro è tutto da scrivere, il passato è già agli atti. Giorno dopo giorno, il governo Meloni ha portato avanti una costante opera di smantellamento degli aiuti dati ai più poveri, a cominciare dall’eliminazione del reddito di cittadinanza.
Quella del 2023 potrà, infatti, passare agli annali come l’estate della tassa agli istituti di credito, ma è pur sempre la stessa stagione degli sms che hanno spazzato via il sussidio a 169mila famiglie. Altre seguiranno a ruota.
«Lascia le persone davanti alle tv», è stato il mantra delle destre teoriche dell’equazione Rdc-divanismo. Certo, il centrodestra aveva promesso la cancellazione della misura e non è indietreggiato. Senza nemmeno pensare alla tempistica, togliendo i soldi in un periodo dell’anno particolarmente delicato.
A fare il paio con la scarsa attenzione alle fasce più deboli c’è la conclamata ostilità all’introduzione del salario minimo. Meloni ha dato il placet all’incontro con i leader delle opposizioni per affrontare il tema. Le premesse non sono delle migliori: «Rischia di essere peggiorativo», ha affermato ieri sugli effetti del salario minimo. Il vertice si presenta come una passerella agostana. Del resto già in passato ne aveva parlato come «uno specchietto per le allodole». Ora, visti i sondaggi favorevoli alla norma, la si butta sulla tattica. «Cerchiamo di presentare insieme una proposta seria sui salari bassi», ha tagliato corto.
Ma l’impoverimento non passa solo per l’eliminazione dei sussidi o per la contrarietà agli interventi sui salari.
Negli ultimi mesi la graduale erosione del potere d’acquisto è stata causata anche, se non soprattutto, dall’aumento dei prezzi. E che colpisce maggiormente i “soliti poveri”. L’inflazione, infatti, continua la galoppata. A giugno, nonostante una frenata, il “carrello della spesa” – i beni alimentari più acquistati – ha fatto registrare un aumento del 10,5 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.
Il carovita è quindi una tassa mangia-reddito e l’esecutivo assiste, inerte, agli eventi. Il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ha convocato un tavolo per stipulare un «patto anti-inflazione», che non ha prodotto esiti di rilievo. Eppure, nei mesi scorsi, l’esecutivo aveva propagandato il potenziamento del garante sulla sorveglianza dei prezzi, il cosiddetto Mr. Prezzi, ruolo attribuito all’ex fedelissimo di Totò Cuffaro in Sicilia, Benedetto Mineo. Voluto da Giancarlo Giorgetti e confermato da Urso, il suo operato è impalpabile. L’unica cosa che notano i cittadini sono i rincari dei prodotti a ogni livello.
NO SUSSIDI, SÌ MANCE
Un’altra fulgida testimonianza dell’ostilità verso i poveri è il definanziamento del fondo contro la morosità incolpevole, introdotto dal 2013 e che nel 2022 era stato alimentato con uno stanziamento di 50 milioni di euro.
Il risultato? Decine di migliaia di famiglie sono private dello strumento che garantiva il minimo per pagare l’affitto, dopo la perdita improvvisa di lavoro. Salvini, rispondendo a un’interrogazione alla Camera, ha promesso che saranno individuate le modalità di finanziamento per il 2024 attraverso la Legge di bilancio. Intanto le famiglie più in difficoltà si devono ancora arrangiare fino alla fine dell’anno in corso.
E dire che il governo anti-Reddito di cittadinanza, contrario ai sussidi, a metà luglio ha annunciato un piccolo bonus, la social card, un mini sussidio, peraltro previsto – al momento – una tantum. La platea dei beneficiari è formata da famiglie con un Isee inferiore a 15mila euro.
Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha illustrato le magnifiche sorti della carta, ribattezzata “Dedicata a te”, con la dotazione di 382,5 euro per l’acquisto di beni di prima necessità da luglio fino alla fine dell’anno. Ma se già la cifra è inadeguata, la vera beffa è nella modalità di spesa: la card è utilizzabile solo per un elenco ben preciso di prodotti, quelli indicati dal governo. Insomma, il pesce fresco sì, quello surgelato no, zucchero sì, marmellata no. E alla fine si concede una «mancetta» solo a patto lo Stato.
Ma che la povertà non sia in cima ai pensieri del governo emerge anche dalle piccole cose.
Nel decreto lavoro, approvato a maggio, era prevista l’istituzione di un osservatorio sulla povertà. Dopo oltre tre mesi la ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, non ha provveduto a emanare il decreto per definire la composizione e la modalità di funzionamento dell’organismo. Gli indigenti, insomma, devono aspettare. Se non un Robin Hood, almeno delle misure meno punitive.
(da editorialedomani.it)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
I GIOVANI SOTTO I 25 ANNI HANNO UN SALARIO PARI AL 40% DEL SALARIO MEDIO… TRA SFRUTTAMENTO. STAGE, PRECARIETA’ STIAMO INNESCANDO UNA BOMBA AD OROLOGERIA
Che i giovani guadagnino in media meno delle persone con maggiore esperienza lavorativa di per sé fa parte di una norma accettata e accettabile. È il “quanto” in meno e le sue ragioni che sollevano problemi non solo di equità, ma di sostenibilità, tanto più che i salari medi italiani sono tra i più bassi in Europa.
Un salario pari al 40% del salario medio, come è il caso dei giovani sotto i 25 anni, indica una situazione di fragilità economica che impedisce ogni progettualità, a partire dall’uscita dalla famiglia di origine per provare a stare sulle proprie gambe.
Non si tratta solo di salari inaccettabilmente troppo bassi, rispetto ai quali l’esistenza di un salario minimo legale avrebbe un effetto di protezione, ma di condizioni lavorative in cui si mescolano stage, tirocini più o meno efficaci a fini professionalizzanti, tempo parziale involontario, precarietà contrattuale e conseguente discontinuità lavorativa, in modo ulteriormente accentuato se si è donne.
È un fenomeno iniziato già negli anni Novanta del secolo scorso, ma che ha conosciuto una accelerazione negli ultimi dieci anni, peggiorando le condizioni di ingresso e permanenza nel mercato del lavoro per ogni coorte successiva.
La ricerca realizzata dal Consiglio nazionale giovani insieme a Eures denuncia le conseguenze di lungo periodo per le diverse coorti di giovani lavoratori in termini pensionistici. Per chi ha oggi fino a 35 anni, la pensione arriverà attorno ai 74 anni e sarà di importo molto modesto, circa tre volte l’assegno sociale, cioè quanto prende un anziano/a povero che non abbia maturato un numero sufficiente di contributi, o non ne abbia nessuno per non aver mai avuto un’occupazione, almeno non nel mercato del lavoro regolare. Il lavoro povero di oggi si tradurrà in pensione povera domani, con la beffa che, per ottenerla, bisognerà lavorare per più anni, ben dentro l’età anziana, rispetto a chi va in pensione oggi o ci è andato nei decenni scorsi.
È noto da tempo il fenomeno per cui in media chi ha iniziato a lavorare presto, ha svolto lavori pesanti e con una remunerazione modesta in media non solo prende una pensione (a volte molto) più bassa di chi ha studiato a lungo, ha iniziato a lavorare più tardi e in occupazioni meno faticose e fisicamente usuranti.
Ne può anche godere per un tempo più ridotto, perché le sue speranze di vita sono più ridotte, non riuscendo sempre a fruire di tutta la ricchezza pensionistica maturata, che va a finanziare quelle dei più fortunati la cui vita sopravanza i contributi pensionistici accumulati.
Oggi, con l’andata a regime del sistema contributivo, a questa disuguaglianza nelle chance di fruire della pensione per molti anni si aggiunge quella prodotta dal paradosso per cui saranno i lavoratori più poveri e con lavori fisicamente più faticosi, specie se hanno avuto una carriera lavorativa discontinua, a dover lavorare anche ben dentro l’età anziana per poter maturare il diritto a una pensione non miseranda. Ne abbiamo già visto le avvisaglie con la famigerata quota 100 che, come era da attendersi, è stata fruita nella stragrande maggioranza da lavoratori maschi con carriere lavorative continue e una buona pensione, non le lavoratrici e neppure i lavoratori con carriere discontinue o comunque con pensioni basse.
Ma non si tratta solo di mettere a punto strumenti per impedire di produrre una generazione di anziani poveri e per contenere le diseguaglianze generazionali in vecchiaia, come quelli proposti dal Consiglio nazionale giovani. La fragilità economica delle generazioni più giovani ha effetti non solo sulle loro condizioni di vita e su ciò che possono o non possono fare. Ha conseguenze anche sulla società nel suo complesso, innanzitutto peggiorando il già squilibrato bilancio demografico. Giovani che, pur lavorando, non guadagnano abbastanza per mantenersi, pagare un affitto con continuità, far progetti al di là del quotidiano, difficilmente decideranno di avere figli.
La sovrapposizione di diseguaglianze generazionali e sociali rischia di diventare una bomba a orologeria, se non per tutta la coorte di età oggi sotto i trentacinque anni, certo per la parte più svantaggiata. E soprattutto le giovani a bassa istruzione, infatti, sono coloro maggiormente e più a lungo esposti alla precarietà lavorativa, ai contratti intermittenti e sotto-pagati, che non consentono di fare progetti a medio-lungo termine, non solo rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, ma anche dei coetanei “più fortunati”, con una educazione migliore e con una dotazione di capitale sociale più ricca e articolata. Tra i lavoratori sotto i 25 anni, quelli in condizioni economiche più fragili sono la maggioranza. Invece di indugiare in una narrativa che vuole i giovani (poveri) come senza voglia di lavorare, sarebbe opportuno intervenire sulle condizioni i cui troppi di loro sono costretti a farlo.
(da La Stampa)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
MELONI SPUTTANATA DALLA PROPOSTA DI LEGGE PRESENTATA ALLA CAMERA NEL 2019 DAI SUOI PARLAMENTARI… QUANDO ERA ALL’OPPOSIZIONE DICEVA TUTTO IL CONTRARIO DI ADESSO
Il salario minimo per legge è “fondamentale” per arginare “il
lavoro sottopagato” e i casi di “sfruttamento”. E non è vero, come sostengono alcuni sindacati, che livellerebbe al ribasso gli stipendi di chi oggi è coperto dalla contrattazione collettiva.
Chi lo dice? Non Elly Schlein, non Giuseppe Conte, nemmeno Nicola Fratoianni. Ma il partito di Giorgia Meloni.
Tutto il contrario di quanto sostiene la premier adesso, da ultimo negli “Appunti di Giorgia”, pubblicati via social ieri per stroncare la proposta delle opposizioni, che sarà discussa domani a Palazzo Chigi. A smentire la presidente del Consiglio è appunto Fratelli d’Italia. O meglio, una vecchia proposta di legge presentata da FdI alla Camere nel 2019. La prima firma è quella di Walter Rizzetto, deputato semplice all’epoca e oggi promosso a presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio. Insomma, è l’uomo che alla Camera da mesi sta gestendo la pratica salario minimo, quasi sempre cassando le richieste delle minoranze.
“Provvedimento necessario”
È curioso allora spulciare la pdl di quattro anni fa, perché si scopre che le tesi di FdI sono quasi del tutto sovrapponibili con quanto domani pomeriggio, alle 17, chiederanno Conte, Schlein e Calenda nella Sala Verde di Chigi. La grande obiezione di Meloni, formulata di nuovo ieri nel filmato social, è che il salario minimo sarebbe “controproducente” perché un tetto minimo potrebbe produrre l’effetto opposto a quello sperato, schiacciando i salari oggi più alti verso la soglia base. Obiezione condivisa da un pezzo di sindacato (vedi la Cisl). Ecco, FdI nelle premesse di quella proposta di legge confutava questa tesi seccamente. Si legge testuale: “Non si ritiene condivisibile la tesi espressa da alcune organizzazioni sindacali, le quali affermano che l’istituto in questione avrebbe effetti negativi, poiché porrebbe le basi per una diminuzione dei salari nel medio termine. Riconoscere un salario minimo, invece, è un provvedimento necessario per sostenere i lavoratori più marginali e riconoscere il lavoro come strumento di dignità, in coerenza con i fondamentali princìpi della Repubblica”. Vanno contrastati, scriveva FdI, “fenomeni di sfruttamento che sarebbero arginati con l’istituzione per legge del salario minimo orario nazionale”. Pari pari quello che vanno ripetendo in queste ore dal Pd ai 5 Stelle ad Azione.
Un “valido complemento”
E ancora: “Laddove la contrattazione è forte, un salario minimo può essere un valido complemento. In Belgio, Francia, Olanda e Spagna, ad esempio, coesistono la copertura dei contratti collettivi e il salario minimo nazionale”. Altro che “specchietto per le allodole”, come lo bolla oggi la premier. Agli articoli 2 e 3 della proposta di legge di FdI difatti si prevedeva “l’istituzione del ‘salario minimo orario nazionale’ da riconoscere a tutte le categorie di lavoratori e di lavoratrici per i quali la retribuzione minima non sia individuata dai contratti collettivi nazionali di lavoro ovvero qualora tali contratti stabiliscano un corrispettivo minimo orario inferiore”. E “i CCNL che prevedono importi salariali inferiori al salario minimo orario nazionale sono sottoposti a nuova contrattazione al fine di adeguarli al medesimo salario”. È esattamente lo stesso schema della proposta di legge comune delle opposizioni, firmata anche da Verdi, Sinistra e +Europa. L’unica differenza è che il testo del campo largo fissa già una soglia minima a 9 euro l’ora, mentre FdI nel 2019 voleva affidare il compito a una commissione di esperti “per la determinazione dell’importo”. Chissà se qualcuno dell’opposizione porterà questa proposta domani a Palazzo Chigi, per dire a Meloni: “Ma non eri d’accordo con noi?”
(da La Repubblica)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
L’UE E’ SEMPRE PIU’ LONTANA
«La sanità pubblica è un bene prezioso ma fonte di troppi sprechi, bisogna razionalizzare la spesa». In realtà hanno finito tutti sempre per «razionarla», perché ad usarla come un bancomat sono stati i governi democristiani prima, poi quelli di centrodestra, così come quelli di centrosinistra. Una «razionalizzazione» che in dieci anni, dal 2010 al 2020, è costata qualcosa come 37 miliardi di tagli, che non hanno risparmiato niente e nessuno, dagli ospedali alla medicina territoriale, dai macchinari sempre più obsoleti al personale in fuga da una sanità pubblica che li paga poco e li fa lavorare male.
Con la pandemia momentaneamente i finanziamenti sono risaliti. Ma, passata la paura del Covid, con il governo Meloni è già cominciata la discesa, che nel 2025 porterà a soli 75 miliardi le risorse disponibili al netto dell’inflazione. Nel 2006 erano 90.
Numeri che smascherano il vero andamento degli investimenti in sanità, che da decenni marciano al passo del gambero.
Del resto il bilancio del decennio passato per la sanità è tutto un segno meno. Sono meno 4.800 i medici ospedalieri, meno 9.000 gli infermieri, meno 8.000 i medici di famiglia e le guardie mediche. Meno 30.492 anche i posti letto, con 111 ospedali e 113 pronto soccorso ad aver chiuso i battenti, mentre al contrario il privato convenzionato, quello che spesso lascia al pubblico i malati più complessi e meno redditizi, ha raddoppiato, passando da 445 a 993 strutture che lavorano pagate dalle Regioni.
Puntare l’indice contro questa o quella maggioranza può servire a chi fa propaganda. Ma la realtà storica è un’altra. Quella di in un sistema di welfare dove è sempre stato più facile attingere ai bilanci della sanità, perché la spesa per le pensioni si può evitare che cresca ma non si può tagliare, così come quella assistenziale per disabili e fragili, visto che da noi funziona elargendo assegni anziché servizi come avviene nei Paesi del Nord Europa.
I tagli peggiori sono quelli avvenuti a cavallo della tempesta economico-finanziaria tra il 2010 e il 2019 e in quegli anni alla guida del Paese si sono succeduti nel tempo Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte. Quindi chi è innocente scagli la prima pietra. E con il perpetuo definanziamento del nostro Servizio sanitario nazionale non ci si stupisca poi che le liste d’attesa arrivino anche a superare i 12 mesi per una tac o una mammografia, oppure se oltre l’80% delle apparecchiature diagnostiche è obsoleto e quindi soggetto ad andare in panne o se gli over 65 assistiti a domicilio non sono nemmeno il 3% contro quel 10% indicato come minimo sindacale dallo stesso ministero della Salute. Insomma, quella del Ssn che dà tutto gratis a tutti, come per tanto tempo ci si è vantati, è diventata una barzelletta. E non poteva che essere così, perché pretendere di avere il sistema più universalistico al mondo quando si spende meno di tutti è quanto meno anacronistico. Basti pensare che per riallinearci alla spesa degli altri paesi Ue, secondo l’ultimo rapporto del Crea-Sanità, occorrerebbero qualcosa come 50 miliardi.
Per recuperare il passo dell’Europa servirebbe quindi una crescita annua del finanziamento di 10 miliardi per 5 anni, più quanto necessario per garantire la stessa crescita degli altri Paesi europei presi a riferimento, ovvero altri 5 miliardi. Anche al netto della guerra e del caro energia, pura utopia. A meno che non si metta mano a serie politiche economiche di sostegno della crescita. Il ragionamento di Federico Spandonaro, economista sanitario dell’Università San Raffaele di Roma dei più accreditati, oltre che presidente del Crea, da questo punto di vista non fa una piega. «Dal duemila ad oggi la nostra sanità ha viaggiato a un ritmo di crescita della spesa nettamente inferiore agli altri Paesi Ue e questo ha comportato una costante crescita della spesa sanitaria privata, con conseguente riduzione del livello di equità del sistema di protezione». Il problema per Spandonaro non è tanto se si poteva o meno fare di più, «quanto il fatto che il Paese nel suo insieme non cresce, per via dell’enorme sommerso. Quindi bisognerebbe recuperare l’evasione e decidere quali settori possono dare un maggior contributo all’aumento del Pil. E uno di questi può essere a mio avviso proprio la sanità». Parole che cozzano con uno dei capitoli della Melonomics, quello delle sanatorie fiscali. Ben 12 quelle finite in manovra
Che il futuro della sanità sia a tinte ancora più fosche degli anni passati del resto lo dicono i numeri della Def, il documento di programmazione economica del governo, che rispetto al Pil segna una caduta libera degli investimenti in sanità dal 7,4% del 2021 a meno del 6% nel 2025. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, da tempo dice che «il confronto bisogna farlo con le risorse effettive, e quelle crescono». Ma si dimentica di un dettaglio non da poco: secondo le elaborazioni dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani della Cattolica, nel 2025 l’inflazione si sarà infatti mangiata 15 miliardi del fondo sanitario.
Così raddrizzare la barca diventa difficile se non impossibile. Tanto più se manca il motore che fa girare tutto, ossia il personale. «I medici stanno scappando, uno su tre ad aprile voleva lasciare, magari per andare in Paesi dove sono molto più pagati che da noi. Alla fine l’avranno vinta le assicurazioni, che è poi quanto di più iniquo possa accadere», profetizza il presidente dell’Ordine dei medici, Filippo Anelli.
Ma la fuga è generalizzata. I professionisti della salute sono infatti 25 mila in meno rispetto a dieci anni fa mentre la popolazione anziana è aumentata e così i malati cronici. I quali tra l’altro richiedono più territorio. Quello che si vorrebbe rafforzare con Case e Ospedali di comunità, tagliati di un terzo dal governo in sede di revisione del Pnrr, perché i costi per tirare su le strutture sono aumentati. Ma soprattutto perché mancano medici e infermieri. E quelli l’Europa non ce li paga. Dovremmo assumerli noi. Con quali soldi non si sa, visto che le tasse le si vogliono ridurre senza recuperare quei 100 miliardi l’anno non versati dagli evasori.
(da La Stampa)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
LE FAKE NEWS DEL VIDEO DELLA PREMIER
Dopo aver ascoltato gli “Appunti” della presidente del
Consiglio il leader del M5S, Giuseppe Conte, ha mormorato: “Vuol dire che venerdì a palazzo Chigi le faremo un disegnino”. Poi, nella dichiarazione pubblica si è attenuto a frasi più sobrie. Il disegnino però sarebbe utile perché Giorgia Meloni nel suo video ha travisato la realtà.
Dice Meloni
“Il salario minimo potrebbe non essere soluzione efficace. Perché in Italia abbiamo un’altissima percentuale di lavoratori coperti da contratti nazionali che prevedono tutti anche una retribuzione minima. Se io decidessi di stabilire una cifra minima oraria di retribuzione per tutti che inevitabilmente dovrà stare nel mezzo (qui non spiega, forse semplifica i riferimenti al salario medio e mediano, ndr) mi troverei con un salario minimo legale che in molti casi potrebbe essere più basso dei minimi contrattuali. Rischiamo il paradosso di un salario sostitutivo e non integrativo peggiorando il salario di molte più persone di quelle a cui invece lo migliorerebbe”.
La vera proposta
Chi conosce la materia sa che la presidente del Consiglio non conosce la legge presentata dalle opposizioni, oppure, più probabilmente, la conosce ma la travisa.
Ecco il testo presentato a luglio dai leader delle opposizioni: “Per ‘retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato’ si intende il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa, non inferiore, ferme restando le pattuizioni di miglior favore, a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge effettivamente la sua attività, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Il trattamento economico minimo orario stabilito dal Ccnl, non può comunque essere inferiore a 9 euro lordi”.
Si demanda così ai contratti la fissazione dei minimi contrattuali e, solo in seconda battuta, si interviene con il salario minimo legale.
Fake Rdc
Anche sul Reddito di cittadinanza la premier ha voluto intorbidire le acque: “Sul reddito di cittadinanza ho sentito molte polemiche e tantissime falsità. Primo: non perdono il reddito le persone disabili e non lo perdono gli over 60 come è stato scritto. Non lo perde chi ha figli minori a carico, neanche chi è in particolari condizioni di fragilità”. La quantità delle precisazioni su punti che nessuno ha contestato, fa pensare che il nervo sia ancora scoperto per il governo. Ma poi si alterano i dati. “Quando, nel dicembre scorso, abbiamo previsto che il reddito di cittadinanza sarebbe cessato dopo 7 mesi per chi era occupabile, ci risultava che le persone che avrebbero perso il reddito a fine luglio sarebbero state circa 300 mila. Ma quando il reddito è effettivamente cessato, queste persone sono molte di meno: circa 112 mila”.
Qui si ripete quanto detto dalla ministra Calderona, ma l’Inps ha inviato il famigerato sms a 169 mila nuclei e conta di inviarlo ad altri 80 mila. Ma l’Ufficio parlamentare di Bilancio a giugno stimava in 553 mila i nuclei che rimarranno senza tutela.
Dice ancora Meloni: “Da luglio a settembre si stimano nuovi 1,5 milioni di posti di lavoro quindi ci sono buone possibilità per questi ‘occupabili’ di trovare lavoro”.
Ma a fruire del RdC ci sono tantissimi lavoratori dequalificati e soprattutto si dimentica che in termini di ore lavorate i dati sull’occupazione sono gli stessi del 2019.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
MELONI ASSECONDA CATEGORIE PENALIZZANDO I CONSUMATORI
Le ha fomentate, accolte e gridato in loro difesa in campagna elettorale. E adesso a loro in fondo dà conto. Nei primi mesi di governo con atti concreti, o con slogan, ha continuato in questa strategia con un unico obiettivo: il consenso di alcune corporazioni che da anni bloccano qualsiasi modernizzazione del Paese e vivono di privilegi e rendite. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni che lancia in resta va contro le banche, su altri settori dell’economia è più che cauta.
I tassisti
Sui taxi, blocco sul quale da sempre qualsiasi governo va a sbattere, l’ultimo Consiglio dei ministri ha partorito una norma “topolino”: il tutto di fronte alle storie e alle immagini delle file chilometriche all’uscita di stazioni e aeroporti per i taxi introvabili. I numeri sono chiari: a Roma c’è un’auto bianca ogni 363 abitanti, a Parigi ce n’è una ogni 120. Il Cdm si è limitato a prevedere la possibilità nei Comuni di nuove licenze, ma solo per chi ne ha già una e che potrà utilizzare quella aggiuntiva come vuole, noleggiandola anche a terzi. Nei Comuni capoluogo e sede di aeroporti si potranno mettere a gara nuove licenze fino a un massimo del 20% in più: ma chi parteciperà al bando dovrà avere auto elettriche e di ultima generazione. Norme che non scalfiscono un blocco che detta legge ed è difeso da Fratelli d’Italia in tutti i territori, a partire da Roma dove i meloniani stanno raccogliendo firme contro la nuova Ztl che prevede anche per i tassisti l’obbligo di auto meno inquinanti per circolare. Ma almeno in questo caso nessun ministro ha interessi diretti nel settore.
I balneari
Come invece accade per la lobby dei balneari, autorevolmente rappresentata dalla responsabile del Turismo ed “ex” socia dello stabilimento Twiga Daniela Santanchè: “ex” perché ha ceduto le quote al compagno Dimitri Kunz e all’amico di sempre Flavio Briatore. Chi sta seguendo il dossier sulle concessioni balneari che per una direttiva europea devono essere messa a gara? Ma il ministero del Turismo, chiaramente. La strategia del governo è quella di prendere tempo, con l’ennesima mappatura dello stato dall’arte. E poi provare a bandire una gara, dando però tanto vantaggio a chi ha già le concessioni da rendere impossibile che “terzi” possano entrare in questo business redditizio, a fronte di canoni irrisori. A proposito: il Twiga paga allo Stato circa 23 mila euro all’anno, a fronte di un fatturato di 8 milioni. Si parla al governo almeno di un possibile aumento dei canoni? No.
Agricoltori e pescatori
Altra lobby che conta e che ha una forte influenza sul governo della destra è quella delle associazioni di categoria degli agricoltori: a partire dalla più potente, Coldiretti. Il ministro e cognato d’Italia Francesco Lollobrigida ha imposto lo stop alla ricerca sulla carne in laboratorio. Chi chiedeva questa norma? Coldiretti, naturalmente. Poi il governo ha detto no al salario minimo, ha tolto il Reddito di cittadinanza a una fascia ampia di disoccupati e aumentato il decreto flussi per lavoro stagionale. Chi invocava insieme queste tre norme? Le associazioni di categoria dei padroncini dei campi. Lollobrigida ultimamente ha promesso anche una “battaglia in Europa” a difesa della pesca: anche di quella a strascico, che distrugge i fondali e non rispetta l’ecosistema. La ragione ufficiale è che “i paesi dell’Africa del Nord la usano nel Mediterraneo”: con questa scusa il governo chiede a Bruxelles di tornare a venti anni fa anche in Italia
Negozianti e ristoratori
Poi ci sono le lobby che il governo accarezza con messaggi più che confortanti: a partire da quella dei commercianti legati soprattutto al mondo di Confcommercio. Appena insediatosi il governo Meloni aveva annunciato lo stop al tetto del contante, poi rimasto a 5 mila euro ma che secondo le indicazioni del governo Draghi doveva essere ridotto a mille euro. Poi la presidente Meloni una sera da Catania ha aggiunto: “La lotta all’evasione si fa alle grandi compagnie, non ai piccoli commercianti a quali chiedi il pizzo di Stato”. Giù applausi.
E a proposito di lobby care al governo Meloni: sui benzinai, e la loro resistenza alla trasparenza, stava cadendo il ministro Adolfo Urso, reo di aver assicurato alla premier che le associazioni di categoria non avrebbero scioperato, mentre poi l’hanno fatto. Apriti cielo. Il governo è corso ai ripari ed è saltata fuori la norma sui prezzi medi da affiggere davanti ai distributori, norma che ha aumentato i prezzi a danno dei consumatori. Cioè dei cittadini, vittime delle lobby accarezzate da Palazzo Chigi.
(da La Repubblica)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
IL 31% DELLE STRUTTURE CONTROLLATE PRESENTAVA IRREGOLARITA’ AMMINISTRATIVE O IGIENICHE… HANNO TROPPO DA FARE A MANTENERE PRIVILEGI ASSURDI PER PENSARE A RISPETTARE LE NORME VIGENTI
Otto dei 20 stabilimenti balneari chiusi dai Nas nella loro
ultima operazione erano in esercizio senza autorizzazione. Ma non era solo la burocrazia a mancare. In tutta Italia sono stati scoperti stabilimenti e villaggi turistici fuori norma che nei controlli sono risultati essere 257 – ovvero il 31% di quelli ispezionati -poiché presentavano carenze igieniche, erano allestiti in strutture abusive, servivano alimenti scaduti o di cui era impossibile tracciare la filiera. I carabinieri hanno emesso 415 sanzioni penali e amministrative per un totale di 290 mila euro. Sono 11 i titolari di attività deferiti dall’autorità giudiziaria, mentre 20 strutture sono state chiuse immediatamente a causa delle condizioni sanitarie e igieniche «gravi», per un valore economico stimato di oltre 4 milioni di euro.
Gli scarafaggi morti in cucina
I problemi sanitari più diffusi sono stati riscontrati nelle cucine, che spesso erano anche allestite in spazi troppo ridotti per poterne garantire un funzionamento sicuro e una manutenzione adeguata. Altri luoghi spesso sporchi erano gli spogliatoi e i bagni. In molti locali non venivano effettuate le pulizie periodiche, e nemmeno le dovute sanificazioni e deratizzazioni. Tra quelli marci, scaduti, e impossibili da tracciare sono stati sequestrati alimenti per due tonnellate che sarebbero altrimenti finiti nello stomaco di numerosi clienti. Eclatante il caso di uno stabilimento non lontano da Livorno, sul cui pavimento, in cucina e nel deposito degli alimenti, sono state trovate blatte morte. Più in alto, sui piani di lavoro, gli strumenti erano sporchi e unti. A Catania, i Carabinieri del Nas hanno sequestrato 90 litri di olio d’oliva rancido in contenitori senza etichette, oltre a 5 chili di carne in cattivo stato di conservazione. Diverso il caso di uno stabilimento in provincia di Reggio Calabria, che di sera diventava una discoteca all’aperto dove il giorno dell’ispezione erano presenti almeno 500 persone, senza che mai fosse stata conseguita la licenza per questo tipo di attività che ne garantisse la sicurezza.
(da agenzie)
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Agosto 10th, 2023 Riccardo Fucile
RICERCA EURES: CI VORRANNO 52 ANNI DI LAVORO PRIMA DEL RITIRO
Una ricerca del Consiglio Nazionale dei Giovani e di Eures dice che gli under 35 dovranno lavorare fino a 74 anni per avere una pensione dignitosa. Ovvero poco più di mille euro al mese.
Perché la combinazione tra discontinuità retributiva e stipendi (con contributi) bassi determinerà il ritiro dal lavoro soltanto per vecchiaia. Con importi pensionistici prossimi all’assegno sociale.
Il dossier “Situazione contributiva e futuro pensionistico dei giovani” dice che gli under 35 potrebbero lasciare il lavoro dopo il 2050, ovvero a 66 anni, con un assegno di 900 euro lordi. Ovvero il doppio dell’assegno sociale. Ma per ritirarsi dal lavoro bisogna maturare un assegno che sia 2,8 volte superiore al minimo.
E quindi la media si alza a 69,8 anni. Solo così l’assegno raggiungerebbe i 1249 euro (sempre lordi, ma 951 al netto dell’Irpef). Per superare la soglia dei mille euro (arrivando a 1099) bisogna posticipare l’uscita a 73 anni e mezzo.
52 anni di lavoro
Il che significa per molti lavorare in totale per 52 anni. Anche se bisogna considerare la discontinuità dei contributi previdenziali a causa del lavoro intermittente. Per i lavoratori con partita Iva invece l’importo dell’assegno con 73,6 anni di contributi sarebbe di 1650 euro lordi mensili. Ovvero 1128 al netto dell’Irpef. Un valore che equivale a 3,3 volte l’assegno sociale. La prima finestra utile di pensionamento si aprirebbe a 69 anni e mezzo. E prevedrebbe un ritorno pensionistico pari a 805 euro (sempre al netto dell’Irpef). Il Messaggero spiega oggi che il governo potrebbe mettere in campo dei correttivi nella prossima legge di bilancio. Sotto forma di interventi di garanzia per la previdenza pubblica e il riscatto della laurea. Potrebbe essere agevolato il costo del riscatto per gli under 35. Oggi ogni anno riscattato costa 5776 euro. Così aumenterebbe l’assegno senza costi per lo Stato.
La riforma fiscale
Nella riforma fiscale si pensa di inserire invece uno sgravio del 100% di un anno dal versamento dei contributi. Per promuovere l’occupazione degli under 30. Alessandro Fortuna, consigliere di Presidenza con delega alle politiche occupazionali e previdenziali, evidenzia la grave distorsione del sistema pensionistico, così come attualmente definito, «non soltanto proietta nel tempo le diseguaglianze reddituali, rinunciando a qualsivoglia dimensione redistributiva. Ma addirittura risulta punitivo verso i lavoratori con redditi più bassi, costretti a permanere nel mercato del lavoro (al di là dell’anzianità contributiva) per tre o addirittura sei anni più a lungo dei loro coetanei con redditi più alti e ad una maggiore stabilità lavorativa».
(da agenzie)
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