Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
UN DURO ATTACCO AL GOVERNO: “PER UN PERMESSO COSI’ CI VOGLIONO SETTIMANE, NON POCHI SECONDI. UN CONDANNATO PER OMICIDIO POTRA’ LASCIARE IL CARCERE, GENERANDO SFIDUCIA”
“Per noi servitori dello Stato che ogni giorno in carcere combattiamo, per conto dello Stato, una battaglia oscura ma importante per il rispetto della legalità, il sentimento di amarezza e di smarrimento è molto diffuso alla notizia che Chico Forti, condannato per omicidio negli Stati Uniti e sabato scorso tornato in Italia, potrà lasciare temporaneamente il carcere per incontrare la madre”.
Così, in una nota, Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria, mettendo in relazione la celere pronuncia dei magistrati di sorveglianza rispetto ad altre situazioni simili e – lamenta il sindacalista – “in sospeso da tempo”.
“Da quanto ci risulta lo stesso provvedimento adottato per Forti – evidenzia – ha bisogno di settimane di attesa e non di pochi secondi oltre a riguardare casi particolarmente gravi come il rischio di vita del congiunto da incontrare, evenienza che non è valida per Forti”.
“Non è in alcun modo giustificabile – aggiunge il sindacalista – un sistema giudiziario a due pesi e due misure, perché introduce innanzitutto sfiducia nel personale penitenziario al quale lo Stato chiede il massimo rispetto del regolamento penitenziario sino a pagarne direttamente, come riprova l’alto numero – 250 – di provvedimenti disciplinari, mentre si allargano le ‘maglie’ per detenuti con condanne per reati gravi. Accade invece, come abbiamo denunciato nei giorni scorsi, che un ottantenne, già agli arresti domiciliari, è tornato in carcere a Santa Maria Capua Vetere per scontare una pena residua. Purtroppo non è l’unico caso.
Al 2023 i detenuti in carcere con 70 anni e più sono 1208 (di cui 38 donne), e alcune decine i detenuti over 80 anni. Un quadro allarmante che – continua Di Giacomo – dovrebbe orientare i magistrati a non appesantire la situazione tanto più che i detenuti anziani, ad eccezione dei capo clan e uomini di spicco della criminalità organizzata, vivono la detenzione in condizioni di maggiore difficoltà, tanto più che in altri casi si usano benefici di pena. Tutto questo aggravando il già pesante lavoro del personale penitenziario che in molti casi deve fare da “badante” ai più anziani e che vive la condizione di disparità di trattamento e detenzione tra detenuti”, conclude la nota.
(da agenzie)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
RICORRE ALLE VIE LEGALI ANNA HAHOLKINA, DOPO AVER TROVATO LA SUA IMMAGINE SUI MANIFESTI ELETTORALI DELLA LEGA… “LA VERA COSTRIZIONE NON E’ IL VELO, MA DOVER FUGGIRE DALLA GUERRA”
Intende procedere per vie legali Anna Haholkina, modella ucraina, residente a Rimini, che nelle scorse settimane ha trovato a sua insaputa la propria immagine affissa sui muri di Milano per la campagna elettorale della Lega in vista delle europee.
La foto di Haholkina, trentenne, sul manifesto salviniano viene messa in contrapposizione con quella di una donna musulmana che indossa uno Niqab, a corredo lo slogan: “Donne Costrette / Donne Libere. Tu da che parte vuoi stare?”. Eppure Anna non ha mai prestato il proprio consenso per tale campagna, come aveva precisato a Fanpage.it nei giorni successivi alla scoperta: “Non voglio essere associata a nessun partito politico, ma vale anche per questioni religiose o di qualsiasi altro manifesto che esprimeva un pensiero non mio. Uso la mia immagine per professione, ma non a fini ideologici”.
La foto è stata presa da una piattaforma di vendita delle immagini stock, ma in un primo momento Haholkina non ha gli strumenti per procedere, perché il contratto è stato firmato in forma digitale ed è conservato nello smartphone della fotografa che ha realizzato lo scatto. Sentita quest’ultima, oggi in Canada, Anna riesce finalmente a rileggere la documentazione: “Nella liberatoria firmata – spiega a Fanpage.it – non era previsto l’uso dell’immagine per fini di propaganda politica, per la quale invece era necessaria un ulteriore autorizzazione”.
“Inoltre – aggiunge – la foto è stata tagliata, quella originale era a figura intera e avevo un tablet in mano: nella descrizione si parlava di una ragazza universitaria, non c’entrava nulla la politica. Quello scatto è stato scaricato diciotto volte, sempre a un prezzo tra i 2 e i 5 euro, cifra troppo bassa perché possa trattarsi di utenti con abbonamenti premium, per i quali le restrizioni sarebbero minori”.
Haholkina si è rivolta alle avvocate Enza Carriero e Federica Trapazzo per mandare avanti l’iter giuridico. “La violazione – spiega Carriero a Fanpage.it -, consiste nel fatto che quelle immagini erano sul sito solo per fini commerciali, con limitazioni per uso di propaganda politica, che avrebbe chiesto invece una specifica autorizzazione, mai pervenuta alla mia cliente. A questo punto avanzerò la richiesta di risarcimento danni, mentre la mia collega penalista agirà di conseguenza per le violazione in ambito penale”.
Intanto a Milano, dalla stazione al centro, i manifesti sono stati rimossi: “E questa – sottolinea l’avvocata – è già un’ammissione di responsabilità”.
“La mia contrarietà – commenta la modella -, ci sarebbe stata anche se a utilizzare senza consenso la mia foto fosse stato un qualsiasi altro partito, ma che sia nello specifico un partito filo russo, quando io sono ucraina, mi ha ferita ancora di più”.
E infatti conclude: “Desidero rivolgermi al ministro Salvini. Sono cittadina italiana, ma le mie radici si trovano in Ucraina. Alla luce di ciò, trovo profondamente offensivo che l’uso improprio della mia immagine derivi da un partito che in più occasioni ha legittimato l’invasione di un Paese sovrano da parte della Russia. Se vogliamo parlare di costrizione, potremmo iniziare a parlare delle migliaia di famiglie costrette a lasciare le proprie abitazioni, delle migliaia di mogli che hanno visto partire i propri mariti al fronte e delle migliaia di madri che non vedranno più i loro figli tornare a casa”.
(da Fanpage)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
AUTORE DI MANUALI SUL FISCO HA IL TORTO DI ESSERE TROPPO COMPETENTE IN UN AMBIENTE DI SCAPPATI DI CASA: “L’EVASIONE E’ COME IL TERRORISMO”…. POVERETTO, HA SBAGLIATO COLLOCAZIONE
Ha il cognome del leone, Leo, ma mangia solo verdurine. Non sbrana, non smania, alla Camera pranza da solo: “Dei fagiolini, grazie”. Quando Giorgia Meloni ha chiamato il suo viceministro dell’Economia, l’uomo redditometro, e chiesto come gli fosse venuto in mente di ripristinarlo, Maurizio Leo ha risposto: “Era un adempimento, io adempio”.
La destra di governo dovrebbe esibirlo, dire “ecco un competente”, e invece lo maltratta, lo irride. Si è già meritato dalla Lega il titolo di “vice Dracula” (l’ufficiale era Vincenzo Visco). Racconta Giulio Tremonti che tutta la Gdf ha studiato sul suo manuale, il “Leo-Monacchi-Schiavo”. E’ un classico, ma in Italia è esotico. Leo, il sahariano.
Per correggere questo suo “adempimento”, la rinascita del redditometro, una griglia che usa il fisco per controllare le spese dichiarate, è intervenuta Meloni. Ha incontrato Leo a Palazzo Chigi, sospeso il redditometro, avvisato sui social: “Con me mai nessun grande fratello fiscale”, frase che era stata utilizzata dai suoi cari alleati.
Ha fatto tutto da solo, il 7 maggio, e Leo ancora non si spiega: “Non capisco questa polemica, andava fatto”. Del redditometro se n’è accorto il Sole 24 Ore e Forza Italia e Lega non vedevano l’ora di usarlo contro di lui. Attendevano l’occasione da quando, audito in commissione di Vigilanza sull’anagrafe tributaria, da viceministro, ha dichiarato: “L’evasione è come un macigno, tipo il terrorismo”.
Sul redditometro non ha informato il suo ministro Giancarlo Giorgetti che se lo incontra lo abbraccia. Non ci sono più soldi in cassa e qui si parla di redditometro. FdI pensa di Leo: “Persona di garbo, come lui nessuno, ma resta un tecnico. Il suo limite”. Alla Camera viene strattonato dai deputati di FdI che gli dicono: “ ‘A famo ‘na rottamazione?” e lui “la famo, la famo!”. E’ sempre sorridente, disponbile. Troppo. Per Italo Bocchino “avrebbe le carte per fare il ministro dell’Economia”. Giorgetti gli propone sempre: “Vuoi prendere il mio posto?”, Leo: “No, no!”. Giovanni Tria, che ministro lo è stato, con il governo gialloverde: “Mi creda, ad averne come Leo”.
Da trent’anni forma le leve della Guardia di Finanza. E’ stato prorettore della Scuola superiore di economia, professore di questioni tributarie, tanto che gli ultimi comandanti generali delle Fiamme Gialle lo chiamano ancora “professore”.
Cena con i fratelli De Gennaro, Gianni e Andrea, quest’ultimo attuale comandante generale della Gdf. Al Mef ha ricoperto la carica di direttore centrale per gli affari giuridici, ed è stato allievo di Giuseppe Roxas, una colonna, già direttore del dipartimento delle entrate.
Leo è la buona pianta cresciuta a Viale XX Settembre. A destra è l’unico a capire di fisco, che ha riformato, il solo a sapersi muovere nella savana. Ama l’Africa, il Kenya. Possiede una casa a Malindi, dichiara un reddito di quasi tre milioni di euro, indossa abiti Brioni, gemelli ai polsini delle camicie.
Sembra passata un’epoca ma c’è stato un momento che la premier era solo un “underdog” e tutti gli economisti a cui chiedeva: “Ti va di fare il ministro dell’Economia?”, le rispondevano: “Grazie, come se avessi accettato”.
Fabio Panetta, le disse di “no”, perché puntava già a Bankitalia, Giorgetti, che rispose di sì, come la monaca di Monza, la mattina presto, in chiesa, pentito, chiede ora a Dio: “Padre, perché mi hai abbandonato? C’è Leo!”. Leo fa tutto quello che dice Giorgia, “Pronto!”, ma anche quello che impone la prassi.
Per i parlamentari che si occupano di economia è uno dei più grandi tributaristi italiani ma c’è la cattiveria: “E’ così bravo che se ti rivolgi a Leo non è certo perché vuoi pagare più tasse”.
Il suo studio, a piazza Sant’Apostoli, se solo lo vede Paolo Sorrentino, il regista di Parthenope, lo sceglie come set per la grande ma grande bellezza. Lo ha scoperto Gianni Alemanno, che lo coinvolge nella sua giunta, assessore al Bilancio, poi tre legislature in An. Meloni lo recupera. Per l’ ex sindaco di Roma, “Maurizio è un samurai del fisco. Me lo ha fatto conoscere mia sorella”. E’ Gabriella Alemanno, attuale commissario in Consob, madre di Edoardo Arrigo, oggi capo segreteria di Leo.
Alle suppletive del 2020, quelle che hanno permesso a Roberto Gualtieri, allora ministro dell’Economia, di entrare in Parlamento, la destra decise di candidargli contro il sahariano Leo e lui, raccontano, non voleva: “Ma devo proprio? Contro il mio ministro?”. Merita il “Premio coraggio 2024”, e un film di Bertolucci: “Un Leo nel deserto”.
(da ilfoglio.it)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
CRESCONO ANCHE VERDI-SINISTRA FORZA ITALIA DAVANTI ALLA LEGA
I sondaggi di Ipsos illustrati da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera dicono che Fratelli d’Italia è in calo, mentre il Partito Democratico conquista voti così come la Lega, Forza Italia e Alleanza Verdi Sinistra.
In calo invece il Movimento 5 Stelle mentre scendono gli astenuti. L’ultimo sondaggio prima del voto dell’8 e 9 giugno alle elezioni europee dice che FdI è al 26,5%. Un risultato ragguardevole ma che nasconde un calo di due punti percentuali rispetto alla precedente rilevazione.
Il Pd è al 22,5% e guadagna quasi un punto e mezzo mentre il M5s al 15,4% perde mezzo punto percentuale.
Forza Italia è al 9,2% in crescita dello 0,6% e sopra la Lega, stimata all’8,6% e in crescita.
Va forte anche Avs, che guadagna quasi un punto percentuale e si attesta al 4,6%, sopra la soglia per entrare a Strasburgo.
Anche Stati Uniti d’Europa è sopra la soglia (4,1%), mentre Azione è ancora sotto (3,6%). Libertà è al 2% e Pace Terra Dignità all’1,9.
(da agenzie)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
IL CAMALEONTISMO DELLA SORA GIORGIA: NON CRITICA MACRON E NON SI LEGA ALLA LE PEN, ATTACCA GENERICAMENTE “LA SINISTRA” MA NON CITA I SOCIALISTI…LA DISTANZA DA SCHOLZ E IL MONITO DI DRAGHI: “SERVE UN BUON RAPPORTO CON I FRANCESI”
È come se fosse prigioniera del suo doppio ruolo. Meloni la presidente del Consiglio, che siede tra i leader d’Europa. E Giorgia la leader di un partito sovranista, Meloni la premier, presidente in carica del G7 avrebbe dovuto completare il tour di presentazione tra gli altri sette “grandi”, del summit che si terrà in Puglia a giugno, recandosi di persona a portare l’invito anche in Francia e in Germania, come aveva già fatto in Giappone, Stati Uniti e Canada tra febbraio e marzo.
Ma Giorgia la leader di Fratelli d’Italia, nonostante la breve distanza, ha preferito non andare né a Parigi né a Berlino, per un puro calcolo politico. Non lasciarsi fotografare accanto al presidente francese Emmanuel Macron e al cancelliere tedesco Olaf Scholz durante la campagna elettorale. Farlo avrebbe significato offrire il fianco alle critiche e alle ironie del capo della Lega Matteo Salvini e di Marine Le Pen pronti a stanare Meloni sulla tentazione di alleanze trasversali con liberali e socialisti.
Anche a Palazzo Chigi, erano stati i diplomatici a sollecitare le due tappe. La premier avrebbe prima preso tempo, poi ha definitivamente chiuso a ogni possibilità. La logica elettorale, è stata la sua riflessione, non avrebbe premiato la scelta, nonostante si tratti di un impegno internazionale e istituzionale che in teoria dovrebbe rimanere protetto dalla propaganda politica. Tutto invece è sospeso fino al voto dell’8-9 giugno.
Il vero dubbio di Meloni è stato se andare o meno nei due Paesi europei nel pieno della corsa al voto. Uno guidato da un liberale, la Francia, l’altro da un socialdemocratico, la Germania. Entrambi, sia Macron sia Scholz bersagli delle destre sovraniste. Meloni non ha un rapporto uguale con i due leader. Al di là di quello che si pensa, l’intesa con Macron è migliore, anche di come viene rappresentata.
E fa leva su una maggiore capacità empatica di entrambi, e sui tanti interessi convergenti dei due governi (a partire dai dossier economici in Ue).
Più difficile, più freddo invece il rapporto con Scholz. Dove alla distanza politica con i socialisti, si aggiunge la distanza storica, radicale, tra l’Italia e i cancellieri tedeschi sulle politiche di bilancio. Questi mesi hanno insegnato a Meloni, quello che in fondo le raccomandò Mario Draghi prima di passarle la campanella di Palazzo Chigi. «È necessario avere un buon rapporto con i francesi». E dunque con Macron.
È un’affermazione che la premier ha fatto sua, anche se costa pronunciarla a chi della sfida alla Francia pensava di fare il perno della propria politica estera. Non che non ci siano motivi per tenere in vita il tradizionale ed eterno duello: le mire economiche e industriali di Parigi, la Tunisia e la Libia, il Sahel, l’indebolimento francese in Africa, i buoni rapporti (e dunque gli affari che fioriscono) con la Cina.
Sembrano passati secoli da quando, nei primi mesi del governo Meloni, Parigi e Roma litigavano quotidianamente sui migranti.
C’è da dire che Macron ha rivisto le sue ricette, anche in chiave anti-Le Pen, e si è spostato più a destra. Mentre in Italia la diplomazia suggeriva a Meloni di evitare lo scontro diretto con il presidente francese.
Nel corso di queste settimane, Meloni ha modulato i suoi attacchi. Se la prende con i socialisti […ma mai, o quasi, con i liberali, che hanno nel capo dell’Eliseo il punto di riferimento. Anche perché sarebbe più facile poi giustificare un’alleanza con partiti centristi che con i socialisti o i verdi. Resta il problema Le Pen, e di conseguenza Salvini. Meloni sta sempre molto attenta a non legarsi (ancora) troppo alla leader del Rassemblement National, a non cedere ai suoi richiami
(da la Stampa)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
UN UNICO SCOPO, FAVORIRE I DISONESTI CON LE SANATORIE FISCALI
Il Grande Fratello resterà un’invenzione geniale di George Orwell o più prosaicamente un noto programma trash della televisione. Non planerà sul fisco, come adombrato dalla destra in coro. All’orizzonte non si intravede alcuna stretta sull’evasione con il governo di Giorgia Meloni, che ha definito la caccia agli evasori «un pizzo di stato».
Nessuna preoccupazione per il bacino elettorale tradizionale del centrodestra, perché le tasse non diventeranno «bellissime» come nella celeberrima, quanto infausta, affermazione dell’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa. L’ordine di scuderia di palazzo Chigi è di non scalfire il blocco sociale di riferimento, fatto di imprese e professionisti, granaio di voti preziosi. Ancora di più in tempi di campagna elettorale. Per questo motivo è scattato il leitmotiv tranquillizzante.
La strategia è chiara: l’esecutivo di destra farà di tutto per mantenere e anzi ampliare lo status quo, altro che controlli sui redditi. Il mantra resterà quello della «pace fiscale» o della «tregua fiscale» tanto per citare il lessico bellico caro alla destra. Il resto dei contribuenti italiani, però, potrebbe non dormire sonni tranquilli. Qualcuno dovrà pur pagare il conto.
L’identikit tracciato è quello dei lavoratori dipendenti, soprattutto quelli pubblici, la categoria più invisa alla destra al potere. Impiegati, professori, personale sanitario, per loro non è prevista alcuna indulgenza. Devono farsi piacere le tasse. E pazienza se, tra le tante cose, stanno facendo i conti con l’erosione del potere d’acquisto dopo il picco di inflazione degli ultimi anni. Senza tacere dei tagli ai servizi di ogni tipo.
STILE BERLUSCONI
Insomma, la vicenda del redditometro è stata una parentesi, uno svarione nell’epopea meloniana, scaricato sulle spalle del viceministro, Maurizio Leo, con il titolare del Mef, Giancarlo Giorgetti, che ha tenuto un profilo bassissimo. Poco male, comunque. Il fuoco di fila di dichiarazioni ostili, da Fratelli d’Italia a Forza Italia passando per la Lega, rende bene l’idea che muove la destra al potere, gli istinti riassunti dallo slogan: “Meno tasse”. Una filosofia cara a Silvio Berlusconi, fin dai primi passi in politica, e che Giorgia Meloni ha mutuato, limitandosi a rivederla aggiornandola ai tempi nostri.
La stella polare del governo è sempre la delega fiscale, che nel prossimo Consiglio dei ministri vedrà un altro step con il decreto legislativo sulle sanzioni tributarie che deve «adeguare i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti, al fine di poter beneficiare della non punibilità o delle attenuanti tendendo conto dell’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale», come spiega la relazione illustrativa.
La delega fiscale, nel concreto, ha previsto – tra le tante cose – il concordato biennale preventivo, la madre di tutte le riforme per gli autonomi e le imprese. La misura consente di stipulare un accordo, preventivo appunto, con lo stato per il pagamento delle tasse sulla base delle ipotesi di guadagni. E quindi non sul fatturato concretamente ottenuto nel periodo di riferimento. Gli effetti del decreto legislativo, varato nello scorso gennaio, sono stati sintetizzati dal ragionamento del segretario della Cgil, Maurizio Landini: «Il lavoratore dipendente e pensionato ogni mese paga le tasse su quello che guadagna», mentre i lavoratori autonomi «possono concordare quello che guadagneranno nei prossimi 2 anni. Se guadagneranno di più non pagheranno le tasse».
La conseguenza di questa operazione? «Legalizzare l’evasione», è stata la sentenza di Landini. Un giudizio severo, ma che diventa difficile da contraddire. Se non con la retorica del «fisco amico» propugnata dal governo a reti unificate. Amico degli amici, però.
Non a caso la misura è stata accolta con grande giubilo dai professionisti, che fatturano centinaia di migliaia di euro. Mentre ha lasciato indifferenti i freelance, che invece stentano a mettere insieme mille euro al mese. Ma è una galassia di lavoratori che il governo di destra nemmeno prende in considerazione.
PUZZLE DI CONDONI
L’intervento strutturale sul concordato preventivo era stato anticipato da una serie di misure una tantum con la prima legge di Bilancio che aveva tracciato la rotta. Certo, non c’è stato un grande condono, ma c’è stata una sanatoria montata pezzo per pezzo. Un puzzle di almeno dodici sanatorie per evitare di dare troppo nell’occhio, riservando comunque delle carezze al proprio elettorato.
E, in questo senso, come si può definire decisione di rottamare le cartelle sotto i mille euro? Uno stimolo ad aspettare a saldare i conti con il fisco, tanto in qualche misura arriva sempre un intervento provvidenziale da lì a qualche tempo. Con il risultato di far sentire un po’ ingenui, per non dire altro, si mette in regola alla prima sanzione.
In perfetta continuità con questa logica c’è un intervento approvato successivamente, nell’ambito della delega fiscale: la cancellazione delle cartelle non riscosse entro cinque anni. Chi non ha ricevuto la richiesta dell’Agenzia delle entrate nei 60 mesi, può brindare: finisce tutto nella pattumiera.
E sempre il governo Meloni, attraverso le varie modifiche del rapporto tra cittadini e fisco, ha garantito una maxi-dilazione dei pagamenti. I debiti, superiori 120mila euro, possono essere saldati in 120 rate mensili con un pagamento completato in 10 anni. Benefici pressoché sconosciuti al dipendente statale con uno stipendio di 1.500 euro. La fotografia del panorama meloniano è scattata da Antonio Misiani, responsabile del Pd ed ex viceministro dell’Economia: «La montagna di promesse del governo di un nuovo rapporto tra fisco e cittadini partorirà un brutto topolino. Indulgente con i furbi, a danno di chi le tasse le paga fino all’ultimo euro».
Un progetto che avanza, redditometro o meno, a grandi falcate. E così il fisco diventa pacifico per alcuni. O, meglio, per i soliti con la (solita) destra al potere.
(da editorialedomani.it)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
CHI STRAPARLA DI VALORI OCCIDENTALI E CRISTIANI DOVREBBE ALMENO CONOSCERLI E PRATICARLI
ll candidato Vannacci (gemello diverso del Salvini) promette «il sabotaggio di chi vuole distruggere i valori occidentali, romani e cristiani». Ci fornisca, per cortesia, l’elenco completo dei suddetti valori: così che noi si capisca se saremo o non saremo sabotati. E soprattutto possa capirlo persino lui.
Tra i valori occidentali, per esempio, c’è senza dubbio alcuno la tolleranza, fondamento delle democrazie francese e americana e per li rami di tutte le successive.
Se l’intolleranza dovesse essere messa al bando con l’inflessibilità del mondo classico (ed eccoci ai valori romani: multietnici e multisessuali come pochi altri), il Vannacci, in compagnia del Salvini, sarebbe mandato in esilio in Dacia o in Bitinia a fare da servente di qualche capo barbaro, che farebbe capire a questi due vivaci omoni chi somministra gli sganassoni più forti; o in remote regioni germaniche a pescare alborelle, attività comunque ottima per mantenere vivace la pagina Instagram.
Quanto ai valori cristiani, il Vannacci e il Salvini, sbandieratore di rosari, rischiano davvero grosso. Se la parola di Cristo è quella evangelica, praticamente ad ogni rigo il duo è fuori contesto, fuori canone, fuori luogo.
Il rischio, ad ogni loro passo, ad ogni loro parola, è quello dell’apostasia: con la religione cristiana, due così, c’entrano quanto Pupo con la Costituzione.
Non fosse che il Nuovo Testamento (ecco i valori cristiani) è gentile anche con i meno disposti alla gentilezza.
Cristianamente parlando, dunque, il duo Vannacci-Salvini può contare sul perdono. Sui valori occidentali e romani, no, non possono contare. Non ne fanno parte.
(da repubblica.it)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
AL GIOVANE ANTONIOZZI VA RICONOSCIUTO DI NON AVER DATO SEGUITO ALLA MINACCIA DI FAR LICENZIARE I DUE CARABINIERI, SI E’ LIMITATO A PRENDERLI A CALCI
Il ragazzo fermato dai carabinieri di Roma per guida pericolosa abbassa il finestrino e minaccia: «Voi non sapete a chi sono figlio. Sono il figlio di Antoniozzi, il parlamentare, e vi faccio licenziare».
Non lasciamoci distrarre da quel «a chi sono figlio» che rivela un’invidiabile dimestichezza con la sintassi di Checco Zalone. Concentriamoci piuttosto sulla transizione dal classico «lei non sa chi sono io» al più articolato «lei non sai di chi sono figlio io».
Nel caso specifico, il punto debole è che il padre di cui il ragazzo si vanta di essere figlio è sì un parlamentare di Fratelli d’Italia, a sua volta figlio di un ex ministro (parentela di cui non sappiamo se si sia mai vantato da giovane con i carabinieri), però non proprio conosciutissimo dal vasto pubblico, e comunque non al punto da poter essere sbandierato come lasciapassare.
Il padre avrà appreso con giustificato orgoglio che il figlio ha un’elevata considerazione del suo casato.
Ma se l’essere imparentati con l’onorevole Antoniozzi autorizza a sentirsi imperatori del mondo, non vorrei trovarmi nei panni di un carabiniere costretto a chiedere la patente a una prozia di Lollobrigida: chissà quali maestosi alberi genealogici si sentirebbe sbattere in faccia a mo’ di avvertimento.
Quanto al giovane Antoniozzi, gli va riconosciuto di non aver dato seguito alla minaccia di far licenziare i carabinieri. Si è limitato a prenderli a calci, patteggiando una condanna a otto mesi di reclusione.
(da corriere.it)
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Maggio 23rd, 2024 Riccardo Fucile
L’ANTIRICICLAGGIO SEGNALO’ “SPESE PERSONALI” E “TRASFERIMENTI A FAVORE DI PERSONE POLITICAMENTE ESPOSTE”
Se i finanziamenti ricevuti dal Comitato Giovanni Toti, secondo i magistrati, potrebbero celare una forma di corruzione, c’è un capitolo della storia che attiene solo alla sfera dell’opportunità. Si tratta delle spese private fatte dal presidente della regione Liguria con soldi del Comitato, cioè dei suo donatori.
Una storia che segna un po’ l’inizio dell’inchiesta sul “Sistema”. E che si snoda tra ristoranti di mete turistiche extra-lusso, come Forte dei Marmi e Saint Tropez, hotel del centro di Roma e boutique d’alta moda.
Giovanni Toti, oggi agli arresti domiciliari per corruzione, era solito strisciare la sua carta oro da Prada, ma anche in alberghi d’eccezione. Segna l’inizio, dicevamo, perché è tutto scritto in una relazione dell’antiriciclaggio datata 2018, nella quale per la prima volta i detective finanziari segnalavano alla procura di Genova i grandi donatori dei comitati di Toti e indicavano anche dei trasferimenti di denaro dai conti delle strutture politiche ai conti personali del governatore.
Basti pensare che dal 2016 al 2018 oltre cento sono state le operazioni di addebito, per un totale di quasi 30mila euro, alla voce hotel Valadier, tra i più iconici alberghi di Roma. E poi pagamenti per l’affitto di case a uso personale e bonifici ai propri familiari.
Nulla di anomalo, certo, se non fosse che il denaro utilizzato dal presidente della Liguria per le sue spese personali era quello del tesoretto del comitato Change, la fondazione nata nel 2016 da un’idea dell’ex giornalista di Mediaset con «finalità divulgative», negli ambiti di «cultura, ambiente, politiche sociali, salute e sicurezza». Queste operazioni, finite allora sotto la lente dell’antiriciclaggio, sarebbero state effettuate a titolo personale in base ai versamenti del comitato, finanziato da privati.
Nelle carte dell’inchiesta giudiziaria – in tutto gli indagati sono 25, 10 i destinatari di misure cautelari – si parla infatti di soldi trasferiti dal nuovo comitato, nato dopo Change e in sua sostituzione, sui conti personali e privati di Giovanni Toti. Un modus operandi che, dunque, andava avanti da tempo.
L’Espresso nel 2018, oltre a rivelare i nomi dei finanziatori di Change, aveva anche svelato che 173mila euro incassati da Change erano finiti su più depositi personali del presidente e che quelli arrivati sul conto corrente aperto presso banca Generali erano stati usati non a caso per spese personali. Come si diceva, ristoranti, mutuo, abbigliamento e via discorrendo.
«Dagli approfondimenti svolti risulta che i fondi trasferiti dal comitato Change a Giovanni Toti vengono utilizzati per spese di natura personale. Inoltre, sono emersi trasferimenti a favore di altre persone politicamente esposte. In questi casi sembrerebbero utilizzati per finalità elettorali», si legge in una segnalazione di sei anni fa dell’autorità antiriciclaggio di Banca d’Italia. Tra questi c’era già allora Marco Bucci, al tempo impegnato nella prima campagna elettorale, che aveva ricevuto 102mila euro dal Comitato Change.
Per quanto riguarda i resoconti finanziari sulle spese personali, nessun rilievo penale: si tratta del denaro di privati che arriva a un comitato fatto da privati, i quali possono scegliere come usare quelle determinate risorse. Finalità divulgative? Finalità culturali, così come sbandierato da Toti in riferimento agli obiettivi di Change? In realtà, oltre alla «cultura» o alle «politiche sociali» c’è anche un pizzico di Prada. Ed quando l’antiriciclaggio cerca di far luce sui versamenti di Change e Toti che matura l’indagine di Genova sull’intreccio tra finanziamenti elettorali e concessioni portuali. Una storia fatta di soldi, interessi elettorali e imprenditoriali, di porti e spiagge (non solo di Forte dei Marmi o Saint Tropez), ma anche di vezzi, soggiorni in località esclusive, abiti griffati, ristoranti stellati. Quelli pagati, da molto tempo addietro, anche coi soldi dei benefattori che hanno creduto nel progetto politico di Toti.
(da editorialedomani.it)
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