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L’ITALIA DEGLI IMPUNITI: CHI PAGA DAVVERO IL CONTO?

SPESE PROCESSUALI, PENA PECUNIARIA: ALLA FINE LO STATO INCASSA MENO DEL 10% DEL DOVUTO

«Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse». Già nel 1764 il giurista e filosofo Cesare Beccaria nel celebre trattato Dei delitti e delle pene ha indicato uno dei pilastri fondamentali di ogni sistema giudiziario: a scoraggiare i crimini non è la severità delle punizioni, ma la certezza che quelle punizioni vengano effettivamente applicate. La capacità di eseguire le pene inflitte a chi ha violato il Codice penale, dunque, è una partita sulla quale l’apparato giudiziario gioca la propria credibilità e quella dell’intero Stato. Cosa succede in Italia?
Punizione senza conseguenze
Un reato su quattro viene punito esclusivamente con una pena pecuniaria, in pratica una multa. Si tratta di reati come le lievi lesioni personali colpose, i furti di piccola entità, o le violazioni delle norme
sulla sicurezza sul lavoro. Un reato su due, invece, viene punito sia con la detenzione che con una sanzione economica: dallo spaccio di droga a rapine, truffe, riciclaggio, ricettazione, peculato.Tra il 2019 e il 2022 sono state comminate pene per un totale di 3,2 miliardi di euro. Lo Stato italiano quanto è riuscito effettivamente a riscuotere? Solo 86,3 milioni di euro, ossia all’incirca il 3%. Nel calcolo della percentuale, che riflette anche l’andamento degli anni precedenti, sono considerate anche le somme che vengono ridotte per legge o cancellate per sopravvenuta inesigibilità, altrimenti il tasso di riscossione sarebbe ancora più basso. Vuol dire che lo Stato, per decenni, ogni 100 euro di dovuto ne ha incassati tre. Di fatto le sentenze sono rimaste sulla carta. Ma dove si annidano le responsabilità?
Giustizia paralizzata
Ricostruiamo il percorso burocratico: quando la sentenza diventa definitiva, la cancelleria del giudice dell’esecuzione compila un’apposita scheda con le voci di credito relative al fascicolo processuale. Equitalia Giustizia, società partecipata dal ministero dell’Economia e delle Finanze e sottoposta al controllo del ministero della Giustizia, acquisisce il fascicolo e procede alla quantificazione del credito e all’iscrizione a ruolo. Quindi l’Agenzia delle Entrate-Riscossione procede all’emanazione della cartella esattoriale. Questo iter, per legge, non deve superare i cinque anni dalla sentenza, altrimenti interviene la prescrizione. A quel punto il destinatario della cartella, che a suo tempo magari i soldi per pagare li aveva, se li è spesi o si è liberato dei suoi beni. Chi invece era nullatenente fin dall’inizio, tale è rimasto. E la questione finisce lì. Un’anomalia unica in Europa, segnalata da anni, e figlia di un meccanismo che genera inefficienze in tutti i passaggi, tant’è che la Corte
costituzionale, nella sentenza del 20 dicembre 2019 n. 279, denuncia: «La pena pecuniaria in Italia non riesce a costituire un’alternativa credibile rispetto alle pene detentive» (vedi anche Dataroom del dicembre 2019 qui).
La svolta della riforma Cartabia
Nel 2021 il governo Draghi e l’allora ministra Marta Cartabia decidono di cambiare passo: la riforma, che entra in vigore da ottobre del 2022, si pone come obiettivo la semplificazione del pagamento e la riscossione delle multe e delle ammende. Attenzione però: il vecchio sistema di recupero delle pene pecuniarie prosegue per i reati commessi prima del 30 dicembre 2022. Infatti anche nel 2023, su 889,5 milioni di euro da riscuotere, lo Stato ne ha incassati solo 30,2 (3,9%).
Per i reati commessi a partire dal 30 dicembre 2022, invece, scatta un meccanismo completamente diverso. Ora il pubblico ministero, con un ordine di esecuzione, intima direttamente al condannato di pagare entro 90 giorni utilizzando un bollettino PagoPA. Se non lo fa, il magistrato di sorveglianza converte la pena pecuniaria in semilibertà (cioè lo manda a dormire in carcere), oppure in lavori di pubblica utilità (in caso di accertata insolvibilità). Se il condannato è già in carcere, viene inasprita la pena detentiva.
Ebbene, cosa ha prodotto il nuovo metodo? Si può misurare sulle sentenze relative ai reati commessi in questi 2 anni e mezzo, e Dataroom è in grado di anticipare i risultati contenuti nella relazione 2025 al Parlamento: su 60,3 milioni di euro da incassare, sono stati portati a casa 8,2 milioni, vale a dire il 13,5%.
Nuovi reati e vecchio organico
I dati dimostrano che la direzione è quella giusta, anche perché in un ordinamento in cui la pena pecuniaria è effettiva, rappresenta una
valida alternativa alla detenzione e può ridurre il sovraffollamento carcerario. Per esempio in Germania, dove il sistema di riscossione funziona, le condanne alla sola pena pecuniaria sono il triplo di quelle italiane e il numero di detenuti in carcere decisamente inferiore all’Italia, pur avendo oltre 20 milioni di abitanti in più. Ma per raggiungere percentuali di incasso degne di un Paese civile è indispensabile rafforzare gli organici dei magistrati di sorveglianza che si occupano di convertire le multe non pagate in pene alternative. Inoltre, bisogna garantire che le sanzioni sostitutive della semilibertà e del lavoro di pubblica utilità siano effettivamente applicabili dai magistrati. Per questo servono spazi disponibili adeguati all’interno degli istituti penitenziari, e Uffici di esecuzione penale esterni con personale sufficiente per seguire tutti gli adempimenti previsti dal nuovo procedimento. Ad oggi sono scattate concretamente la semilibertà o i lavori di pubblica utilità solo per 154 condannati che non hanno pagato 287 mila euro.
Il contrabbando
Per il reato di contrabbando (cocaina, petrolio, opere d’arte, farmaci, pesticidi, sigarette, ecc.), anche applicando la nuova procedura per i reati doganali commessi dopo il 30 dicembre 2022, le cose sono più complesse. Il problema è che si tratta prevalentemente di reati commessi da stranieri che diventano rapidamente irreperibili. Ma questo non può comportare la resa del sistema giudiziario, e tantomeno giustificare il fatto che dal 2019 al 2023 si sia riusciti a incassare soltanto 183.800 euro su 4,8 miliardi (che vanno a sommarsi a quelli precedenti).
Le spese processuali
C’è poi il capitolo delle spese processuali. Lo Stato, per perseguire i reati deve necessariamente avvalersi di perizie, consulenze tecniche,
intercettazioni. Costi che devono poi essere risarciti dai condannati in via definitiva. Anche qui tra il 2019 e il 2023, a fronte di 1,2 miliardi di costi sostenuti, sono stati incassati 81,9 milioni, il 7,3%. L’iter burocratico delle spese processuali però è rimasto fuori dalla riforma Cartabia: queste somme continuano ad essere trattate come crediti ordinari, alla stregua di un divieto di sosta, e trasmesse all’Agenzia delle Entrate-Riscossione per il recupero. Anni dopo in caso di mancato pagamento si applicano le normali regole dell’esecuzione forzata: pignoramenti di beni mobili, conti correnti, stipendi o pensioni, con tutte le limitazioni del caso. Beni come letto, cucina e frigorifero sono impignorabili, stipendi e pensioni di norma sono aggredibili fino a un quinto dell’importo. Va considerato che in molti casi i debitori sono detenuti, irreperibili o nullatenenti.
Una strada più efficace, secondo coloro che sono quotidianamente sul campo nel recupero delle spese processuali, sarebbe quella di quantificarle direttamente nel dispositivo della sentenza, stabilendo importi forfettari esigibili in tempi brevi, e con il vantaggio di ridurre anche i tempi di conteggio degli uffici. È vero che uno Stato vince se condanna chi se lo merita, ma se non riesce ad incassare il dovuto, a perdere è l’intera comunità, che oltre a essere stata danneggiata dai reati commessi, deve pure farsi carico dei debiti.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza
(da corriere.it)

This entry was posted on lunedì, Giugno 9th, 2025 at 14:42 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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