NEL GHETTO LIBICO DEI TRAFFICANTI DI UOMINI: LA FOTO DELL’ORRORE
DALL’INTERNO DELLA FORTEZZA DI SABHA, AL CONFINE DEL DESERTO: USCITI VIVI IN SETTE, DOPO VIOLENZE E TORTURE ATROCI
In sette, usciti vivi dal Ghetto di Sabha, la più spaventosa delle prigioni dei trafficanti di uomini in Libia, hanno trovato il coraggio di collaborare con la polizia e la magistratura italiana, accusare e riconoscere alcuni dei loro carcerieri e ora aiutare gli inquirenti nella caccia al feroce “generale Alì”, il capo dei miliziani che gestiscono la fortezza al confine del deserto in cui sono tenuti prigionieri centinaia di migranti costretti a subire torture e violenze atroci per chiedere alle famiglie altri soldi come riscatto per la loro liberazione.
Per la prima volta, una foto proveniente dall’interno del Ghetto di Alì, entra a far parte degli atti dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Marzia Sabella, e affidata ai sostituti procuratori Geri Ferrara e Giorgia Spiri che ha già portato nei mesi scorsi all’individuazione in due centri di accoglienza italiani di due dei carnefici del centro di detenzione, arrestati e ora sotto processo.
In un incidente probatorio i sette migranti che collaborano hanno ribadito le loro accuse nei confronti dei loro carcerieri e fornito le sconvolgenti prove, tra cui le foto custodite nei loro telefonini e inviate alle famiglie, di quello che accade dentro quella fortezza inaccessibile difesa da filo spinato e guardie armate di kalashnikov.
E per la prima volta è stata fornita anche una descrizione del misterioso generale Alì: arabo, scuro, capelli lunghi, dall’andatura zoppicante e le spalle incurvate, non giovane nè vecchio. Abiterebbe in una villa sulla collina che domina il ghetto, alle porte della città di Sabha, e adesso la Dda di Palermo ha fatto partire la caccia all’uomo con la collaborazione dei servizi di sicurezza.
Drammatiche le testimonianze dei sette migranti sopravvissuti che hanno visto uccidere e stuprare, donne e bambini morire di fame ed essere buttati via in sacchi di immondizia.
Ad aprire la strada della collaborazione un giovane nigeriano: “Nel mio paese studiavo legge e so che la tortura è un reato universalmente riconosciuto in tutto il mondo. Per questo quando sono arrivato a Lampedusa, ho deciso subito di denunciare tutto alla polizia”.
(da “La Repubblica”)
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