Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
IN COSTANTE AUMENTO DAL 2008 IL VALORE DELLE ESPORTAZIONI VERSO L’ESERCITO DI TRIPOLI…NEL 2009 L’INCREMENTO E’ STATO DEL 20%, SEI LE MOTOVEDETTE FORNITE: UNA E’ SERVITA AI LIBICI PER MITRAGLIARE IL NOSTRO PESCHERECCIO “ARIETE”….VENDUTI ANCHE 30 ELICOTTERI, SISTEMI AVANZATI DI PROTEZIONE E AEREI DA COMBATTIMENTO…. CURIAMO ANCHE L’ADDESTRAMENTO DELL’ESERCITO E LA MANUTENZIONE DEI MEZZI MISSILISTICI
Petrolio, gas e appalti in cambio di armi.
Li abbiamo forniti anche noi a Muammar Gheddafi gli elicotteri, i missili, gli aerei, le bombe, con cui il raìs massacra il suo popolo.
Noi italiani che in fatto di produzione bellica ci piazziamo bene, nel gruppo di testa delle classifiche mondiali e quando si tratta di esportare, non andiamo troppo per il sottile nella scelta dei partner, senza badare se si tratta di dittatori o capi di regimi dove le libertà sono sistematicamente represse.
La Libia è un ottimo cliente, l’undicesimo maggior importatore di armi italiane e assorbe circa il 2 per cento delle esportazioni tricolori.
In cambio abbiamo ottenuto materie prime, appunto e un occhio di riguardo per le grandi imprese pubbliche e private, dall’Eni alla Finmeccanica, dall’Impregilo all’Anas.
Commenta Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Archivio disarmo, istituto di ricerche internazionali sull’industria bellica: “Solo ora si scopre che il governo libico è illiberale, come del resto quelli di altri paesi nordafricani.
Ma per anni l’Italia ha appoggiato questi regimi e in particolare la Libia, fornendo armi, opportunamente distraendosi sui temi fondamentali del rispetto dei diritti umani e delle elementari libertà civili”.
Dopo una leggera flessione tra il 2005 e il 2007, nel 2008 le spese libiche per gli armamenti hanno ripreso a crescere, fino a toccare la ragguardevole cifra di 1,1 miliardi di dollari mentre le industrie italiane approfittavano abbondantemente dell’infatuazione bellica del rais riempiendolo di armi. Secondo i Rapporti della Presidenza del Consiglio dei ministri sui lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito di armamenti, il valore delle esportazioni di armi italiane alla Libia è in costante aumento.
Le autorizzazioni per il 2009 sono state di 111,8 milioni di euro, con un incremento di circa il 20 per cento rispetto al 2008.
E anche nel 2010 ci sono state vendite massicce.
Una delle ultime forniture, per esempio, ha riguardato 3 motovedette della classe “Bigliani”, inviate in aggiunta ad altre 3 già fornite nel maggio 2009 in base al Trattato di Bengasi, firmato nell’agosto dell’anno precedente tra Silvio Berlusconi e Gheddafi, uno dei primi atti di politica estera della maggioranza di centrodestra vittoriosa alle elezioni della primavera precedente.
Con una di quelle imbarcazioni, 7 mesi fa fu mitragliato nel golfo della Sirte il peschereccio italiano Ariete.
Tra i principali fornitori di armi alla Libia c’è Finmeccanica, il grande gruppo italiano guidato da Piefrancesco Guarguaglini, partecipato al 2 per cento dalla Libia e specializzato in armamenti.
Ma ci sono anche industrie piccole e semisconosciute, come la Itas di La Spezia che secondo una nota del Servizio studi del dipartimento Affari esteri della Camera cura il controllo tecnico e la manutenzione dei missili Otomat, venduti dall’Italia al governo di Tripoli fin dagli anni Settanta del secolo passato.
Due anni fa Finmeccanica ha firmato con la Lia (Lybian Investment Authority) e con la Lap (Libya Africa Investment Portfolio) un Memorandum of understanding per la promozione di “attività di cooperazione strategica”.
Nello stesso periodo, un’altra società del gruppo Finmeccannica, la Selex guidata da Marina Grossi, moglie di Guarguaglini — al centro di indagini della magistratura italiana nei mesi passati — ha siglato con il colonnello di Tripoli un accordo del valore di 300 milioni di euro per la realizzazione di un grande sistema di protezione e sicurezza.
Tra il 2006 e il 2009 la Agusta-Westland, sempre della Fin-meccanica, ha venduta 10 elicotteri AW109E Power a Gheddafi (valore 80 milioni di euro), più altri 20 velivoli tra cui alcuni AW119K.
Finmeccanica fornisce anche l’addestramento degli equipaggi e la manutenzione dei mezzi tramite una joint venture con la Lybian company for aviation industry.
La Alenia Aeronautica, sempre Finmeccanica, fornisce aerei Atr-42 Surveyor per il pattugliamento.
Daniele Martini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
UN PRIMO RISULTATO DELLA “POLITICA DEL BACIAMANO” E DA SERVI DEL MACELLAIO DI TRIPOLI, IL GOVERNO BERLUSCONI L’HA OTTENUTO…I CITTADINI DI NALUT, DOVE PASSA IL GASDOTTO, FERMERANNO L’AFFLUSSO DEL GAS VERSO L’ITALIA….FRATTINI NEGA CHE CI SIANO PROBLEMI, MA LA UE AMMETTE: “C’E’ STATA UNA DIMINUZIONE”
Frattini nega che ci siano problemi, ma l’Unione europea accerta: “C’è stata una diminuzione”.
Al Arabiya: “Fermi i terminali petroliferi sul Mediterraneo”
La rivolta libica potrebbe avere conseguenze sul nostro Paese: le forniture di gas dalla Libia all’Italia si starebbero avviando verso una progressiva interruzione.
I manifestanti della città libica di Nalut hanno infatti minacciato di fermare l’afflusso di gas verso l’Italia chiudendo il gasdotto che passa proprio per la loro provincia.
I cittadini di Nalut, nella zona dei monti occidentali della Libia, a pochi chilometri dalla Tunisia, in un messaggio pubblicato sul sito Internet del gruppo di opposizione “17 febbraio”, si rivolgono “all’Unione Europea, e in particolare all’Italia”.
“La gente di Nalut ribadisce di far parte di un popolo libico libero e, dopo il vostro silenzio riguardo le stragi compiute da Gheddafi, ha deciso che interromperà dalla fonte l’afflusso di gas libico verso i vostri Paesi, chiudendo il giacimento di al-Wafa che attraverso la nostra zona porta il gas verso l’Italia e il nord Europa, passando per il Mediterraneo”.
I manifestanti di Nalut sostengono di aver preso questa decisione “perchè voi non avete fermato lo spargimento di sangue della nostra gente e del nostro caro paese avvenuto in tutte le città libiche. Per noi il sangue libico è più prezioso del petrolio o del gas”.
Il messaggio è firmato “la gente delle zone occidentali dalla regione di Nalut”.
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
IL PDL: “NIENTE LEZIONI DALLA LEGA, IN 15 ANNI HANNO AVUTO 17 MEMBRI NEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE”… LA LEGA:”NOI CON LE MANI PULITE”….E LA CIABO’ DI FUTURO E LIBERTA’ ATTACCA: “GLI ELENCHI SONO INCOMPLETI”
Pio Albergo Trivulzio, si riparte da zero.
Cinque membri del consiglio di amministrazione su sette hanno dato le dimissioni (tra cui il presidente Emilio Trabucchi) e il board è decaduto. Adesso, il governatore Roberto Formigoni di concerto con il sindaco Letizia Moratti procederà alla nomina del commissario straordinario.
Ci vorrà una decina di giorni.
Adesso si attendono gli elenchi del Golgi Redaelli e soprattutto dell’Aler. Spinge il Fli, con il coordinatore regionale, Giuseppe Valditara: «Chiediamo che vengano resi pubblici gli elenchi dell’Aler, la consigliera Barbara Ciabò ha già convocato i vertici per settimana prossima».
La stessa Ciabò (Fli) che chiede per giovedì l’audizione in Commissione Casa proprio del sindaco e del governatore: «Visto che il cda del Pat non c’è più e visto che i vertici del Pat sono stati nominati da Formigoni e dalla Moratti chiedo che ci vengano a spiegare dove sono finiti gli appartamenti scomparsi nel nulla».
In realtà , in commissione arriverà il direttore generale del Pat, Fabio Nitti che consegnerà l’elenco delle 105 abitazioni sfitte.
Mentre l’opposizione chiede che la scelta del commissario sia concordata con il Terzo Polo e il centrosinistra.
«La maggioranza – attacca Basilio Rizzo della Lista Fo – deve avere la sensibilità di fare delle scelte che siano il più possibile multipartisan. Chiediamo un confronto preliminare con i capigruppo sia in Comune sia in Regione».
Va più in là il capogruppo del Pd, Pierfrancesco Majorino: «La Moratti è moralmente corresponsabile. Ci faccia quindi il piacere di tacere e di fare le valigie, anticipatamente».
Se i vertici istituzionali si dicono soddisfatti del passo indietro del cda, la lotta politica non conosce tregua.
Anche perchè sulla nuova Affittopoli ci si giocheranno le prossime elezioni comunali.
L’attacco più duro arriva dal Pdl.
E non riguarda l’opposizione, ma un alleato strategico come la Lega che lunedì aveva definito la vicenda del Pat una «porcilaia».
Ma ieri, tra i consiglieri che hanno dato le dimissioni, manca il nome del rappresentante leghista, l’ex assessore della giunta Formentini, Marco Antonio Giacomoni.
Il motivo? Lo spiega lo stesso cda nella nota finale: «I consiglieri Marco Antonio Giacomoni e Luca Storelli hanno invece deciso di non dimettersi, ritenendo le dimissioni una ammissione di colpa inaccettabile, perchè non riconoscono che generiche contestazioni di stampa giustifichino l’abbandono di un incarico che tutto il cda ha svolto con impegno e correttamente».
Una scelta che non è piaciuta al Pdl: «Ringraziamo i rappresentanti del Pdl all’interno del cda – attacca il capogruppo azzurro in Comune, Giulio Gallera – che con gesto di responsabilità hanno dato le dimissioni e facilitano quell’indagine che dobbiamo fare su come siano state date in locazione le case. Ma siamo molto stupiti dalla Lega che prima urla e lancia accuse infamanti e poi rimane attaccata alla propria poltrona ostacolando il cambiamento».
Postilla: «La Lega ci stupisce ancora di più perchè è il partito che dal 2001 al 2006 ha retto l’assessorato alla Casa e al Demanio».
Rincara la dose il vicesindaco, Riccardo De Corato che ritira fuori dal cassetto la lista dei consiglieri di amministrazioni leghisti al Pat e all’Ipab.
Nel ’94, epoca Formentini, oltre il presidente, il Carroccio aveva 5 consiglieri. Alle Ipab, 8.
«La Lega, che si chiama fuori, solo dal ’94 a oggi ha avuto ben 17 tra presidenti e membri del cda passati tra il Pat e il Golgi Redaelli. Se era tutto una porcilaia perchè non ci hanno messo mano?».
La replica arriva a stretto giro di posta ed è affidata al segretario provinciale del Carroccio, Igor Iezzi: «Noi, che abbiamo le mani pulite e non compariamo in nessuna lista, vogliamo che sull’intera questione sia fatta piena luce”.
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
DURO ATTO D’ACCUSA SULLO SCANDALO CHE HA COINVOLTO BERLUSCONI E SULLA MACCHINA DEL FANGO OPERATA DAI SUOI GIORNALI… SOSTEGNO ALLE DONNE IN PIAZZA A DIFESA DELLA DIGNITA’
“Mubarak e sua nipote”; “Fermiamo la macchina del fango”; “Cardinale, non incontri il premier”; “Se non ora, quando? Migliaia in piazza”…
Sono solo alcuni dei titoli degli editoriali dei settimanali diocesani questi giorni in edicola dedicati a Berlusconi.
Che testimoniano la “rivolta” morale sul caso Ruby e sui festini di Arcore scoppiata nella base cattolica col placet dei vescovi.
Sono gli editoriali dopo la manifestazione delle donne e il rinvio a giudizio del premier.
Un severo atto d’accusa che arriva dalle Chiese locali attraverso i periodici della Fisc (la Federazione italiana settimanali cattolici): 188 giornali che distribuiscono oltre un milione di copie nelle diocesi, nelle parrocchie, nei conventi e nelle comunità monastiche.
Tra i più indignati La Voce del Popolo (Brescia), che pubblica una lettera-appello al segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone (“Cardinale, non incontri il premier”) per chiedergli di non partecipare con Berlusconi alla celebrazione dei Patti Lateranensi, perchè “la situazione morale e politica, i dubbi (poco dubbi per la verità ) sulla moralità e il rispetto della legge della nostra classe politica impongono scelte coraggiose da parte di chi dovrebbe guidare i fedeli…”.
Bertone – come si sa – poi ha visto il premier il 18 febbraio (un incontro freddo e senza faccia a faccia), ma è significativo che una delle diocesi italiane più importanti, Brescia, non abbia censurato una voce contraria.
Grande attenzione alla manifestazione delle donne del 13 febbraio.
“Dignità al femminile per risalire”, titola l’Unione Monregalese (Mondovì) che racconta l’appello “Se non ora, quando?” lanciato domenica scorsa “anche a Mondovì, per vedere restituita la dignità piena all’universo femminile deturpato da messaggi insistiti sulla bellezza esibita in modo sfacciato, sulla sessualità irresponsabile, sulla compravendita del corpo”.
Anche il Corriere di Saluzzo titola “Se non ora quando, migliaia in piazza” e parla di una “manifestazione rigorosamente apartitica e senza bandiere, ma inevitabilmente caratterizzata da slogan e battute con espliciti riferimenti alla vicenda Berlusconi-Ruby e al bunga-bunga”, col premier “additato più come cattivo esempio da non imitare che come avversario politico da sconfiggere”.
Tra i più severi i due settimanali di Torino: Il Nostro Tempo elogia l’intervento di suor Eugenia Bonetti al palco di piazza del Popolo (“Nelle parole di una suora il senso di un grande basta!”); e La Voce del Popolo, che dedica al premier due articoli: su Ruby, parlando di “Mubarak, e sua nipote”, e sul rinvio a giudizio (“Verso il rinvio…”).
Il Cittadino (Lodi) lancia un appello a reagire all’ondata di “fango e vergogna” invitando a “toglierci le pantofole” e a gridare forte il disagio a causa “della crisi economica e culturale del paese che ha raggiunto il suo culmine a causa dei fatti legati alle vicende del premier”.
Non meno emblematica La Cittadella (Mantova) che fin dal titolo (“Fermiamo la macchina del fango”) critica i giornali del gruppo Berlusconi per le inchieste denigratorie contro gli avversari del premier col vituperato “metodo”Boffo: “Nei giorni in cui nel nord Africa e in Medio oriente esplodeva una rivolta popolare di proporzioni epocali, noi ci trastullavamo, in politica estera, con i fax provenienti dall’isola di Santa Lucia”.
Con chiaro riferimento alla vicenda della casa di Montecarlo.
Il Popolo (Pordenone) si chiede nell’editoriale “Doppia morale pubblica e privata”, se si può “scindere la politica dalla morale” o “se è separabile la vita privata di un politico dalla sfera pubblica”, partendo proprio da Berlusconi.
E la risposta che dà il giornale è “no”, evocando l’insegnamento di Aristotele. L’Avvenire di Calabria sollecita una “necessaria” rivolta morale di fronte “all’indecente panorama politico italiano” nell’editoriale “Il coraggio di tentare”, in sintonia con Luce e Vita di Molfetta, che chiede ai politici “misura, decoro, rispetto”.
In linea con l’Araldo Abruzzese (Teramo) che nell’editoriale “Libere, non leggère”, parla della manifestazione del 13 febbraio sottolineando che “vogliamo un paese che rispetti le donne tutte” perchè “l’Italia non è una Repubblica fondata sul favore sessuale…”.
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
BENGASI, QUI NELLA CITTA’ LIBERATA IL POPOLO E’ IN FESTA…E’ UNA RIVOLTA CONTRO IL DITTATORE CHE RISPONDE MASSACRANDO DONNE E BAMBINI NEL SUO DELIRIO… DIVERSI MILITARI CHE SI SONO SCHIERATI CON IL POPOLO SONO STATO MUTILATI
La Libia della rivolta contro Gheddafi è come una cassaforte che soltanto nelle ultime ore i media cominciano a scassinare.
Come ha insegnato l’Iran dal 2009 in poi, meglio non avere reporter e telecamere in mezzo ai piedi se si vuole stroncare il dissenso come si deve. Così abbiamo dovuto accontentarci di vedere le immagini della nascente rivoluzione attraverso sequenze rubate dai telefonini o immortalate per un attimo dalla mano tremolante di qualche volenteroso dilettante.
Sembra che il primo giornalista a entrare in Libia dopo i massacri sia stato, ieri mattina presumibilmente, Ben Wedeman della Cnn.
Wedeman è passato dal confine egiziano, dove ieri sera torme di giornalisti occidentali erano ancora arenati nella zona dove l’esercito egiziano ha costruito un ospedale da campo per accogliere le migliaia di connazionali che stavano fuggendo in patria.
Poco più là di Marsa Matrouk: luoghi che ricordano l’epica di El Alamein e, più di recente, spiagge estive con acque cristalline.
A giudicare dai suoi reportage che raccontano il clima da Repubblica degli Insorti della Libia orientale, Wedeman non è ancora riuscito ad arrivare a Bengasi, che pure sulla carta non è distante.
Le condizioni di sicurezza devono essere minime.
Con il web messo fuori gioco (altro passaparola molto ascoltato dai dittatori di tutto il mondo), l’unico modo dall’esterno per raggiungere Bengasi è il telefono, che funziona male ma funziona ancora.
Dopo un po’ di chiamate a vuoto, Islam, ingegnere edile, risponde con voce squillante: «No, oggi Bengasi è tranquilla. La gente è nelle strade, non c’è traccia dei miliziani di Gheddafi. Qui sono tutti felici per come stanno andando le cose».
E adesso che cosa succederà ?
«Non lo so proprio, signore, so soltanto che non ci fermeremo. Non torneremo mai più sotto la dittatura di Gheddafi e della sua famiglia».
Si dice che in tutta la zona «liberata» stiano spuntando le bandiere rosso-nero-verdi con la stella e la mezzaluna del Regno di Libia, vietate dal regime. Probabilmente più uno sfregio a Tripoli che nostalgia di re Idris.
Rima, impiegata, abita vicino alla raffineria di Ras Lanuf, più o meno a metà strada tra Bengasi e Tripoli.
All’inizio esita: «Chi le ha dato il mio numero?».
Rassicurata, si scioglie. «A Bengasi la situazione è tranquilla», conferma.
Ma è Tripoli che la preoccupa: «Laggiù è stato un massacro. Ci sono migliaia di mercenari africani che uccidono la gente nelle strade. Non hanno pietà neppure delle donne e dei bambini. La popolazione è terrorizzata, nessuno esce più di casa, neppure per comprare il pane».
Gheddafi dice che a Bengasi la rivolta è guidata dagli islamisti, è vero? «No, è falso. Per favore raccontate al mondo la verità . Non credete alle parole di chi fa sparare addosso al suo popolo. Lo sa che a Tripoli hanno bombardato i dimostranti con gli aerei?».
Colpisce che in questa incipiente rivoluzione (qui, a differenza dell’Egitto, l’assalto al Palazzo c’è stato davvero, con la sua triste e inevitabile contabilità di sangue) non spuntano i nomi dei leader.
Per adesso è difficile farsi un’idea precisa di quale sia il volto dell’opposizione al Colonnello.
A rendere incerto l’esito della lotta è la posizione dell’esercito che in alcuni casi si è schierato con gli insorti.
Raccontano a Bengasi che ieri hanno portato all’ospedale diciassette soldati che erano stati torturati per aver appoggiato i ribelli.
Avevano nasi e orecchie tagliati. Sembra che nessuno sia riuscito a sopravvivere.
Claudio Gallo
(da “La Stampa“)
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
VIAGGIO NELLA ZONA “LIBERATA” DELLA LIBIA TRA I GIOVANI PROTAGONISTI DELLA RIVOLTA CONTRO IL MACELLAIO, MENTRE IN TELEVISIONE ESPLODE LA RABBIA DI GHEDDAFI
Per convincere soldati e poliziotti a fraternizzare con la piazza, i manifestanti hanno cominciato col dare alle fiamme il commissariato.
Quel gesto ha reso Tobruk la prima città caduta nelle mani degli insorti.
Ora è proprio davanti alle rovine di quell’edificio che da una settimana i manifestanti continuano a raccogliersi, mentre pennacchi di fumo si stagliano sull’orizzonte cristallino del Mediterraneo, innalzati da un deposito di munizioni bombardato dalle truppe guidate da un figlio di Muhammar Gheddafi.
È accaduto anche ieri pomeriggio, mentre il leader concionava in tv agghindato nella tunica marrone del beduino, nel patetico proposito di restituire spessore alla leggenda da lui confezionata riguardo alla sua nascita, per richiamare alla fedeltà i leader tribali che lo abbandonano: lui che si dice figlio di pastori della tribù dei Qadhdhafiya, nato nel 1942 sotto una tenda beduina nei deserti della Sirte.
Quando il suo ghigno sulfureo riempie lo schermo della tv, pochi si raccolgono a guardarlo, se non i più anziani nei caffè attorno alla piazza dove adesso sventola alto il tricolore con la mezzaluna “dell’indipendenza” al posto del vessillo verde introdotto da Gheddafi nel ’52 come simbolo della “rivoluzione popolare”.
Verde come il Libro pubblicato dal tiranno nel 1975 per regolare la Jamahiriyyia, l’immaginario Stato delle masse.
È lo stesso che, scolpito in copie di dimensioni monumentali, punteggia il Paese e infatti là fuori i giovani ora stanno demolendone uno a colpi di piccone.
“Ecco la giusta fine di quel libro assurdo”, si sgolano i ragazzi.
I tonfi del cemento che rotola a terra fanno da sordo controcanto alle raffiche di mitra che riempiono il cielo di Tobruk, sparate per festeggiare “la liberazione”.
Sono loro, i giovani, gli eroi della Nuova Rivoluzione, i grandi protagonisti dei moti libici.
Per questo, quando la voce di Gheddafi arriva dai televisori, e lui ringhia “Muhammar Gheddafi è il capo della rivoluzione, sinonimo di sacrifici fino alla fine dei giorni” esplodono le invettive degli shebab, i ragazzi: “Per ironia, il “capo della rivoluzione popolare” sta per essere rovesciato dalla vera Rivoluzione popolare della Libia”, fanno in coro.
“L’uomo è disperato”, ironizzano con un misto di rabbia e disgusto per la “stolta furbizia” del leader, che mette le mani avanti: “Se potessi dimettermi lo farei, ma non sono presidente. Però ho il mio fucile e mi batterò fino all’ultima goccia di sangue”.
Il coro quasi si smorza, incredulo, nell’ascoltare Gheddafi che nega le stragi di questi giorni: “Noi non abbiamo ancora fatto ricorso alla forza. Non ho ordinato di sparare un singolo proiettile”, ripete.
Lo fa sullo sfondo della mattanza dei mille morti denunciati questo pomeriggio dalle ong, a fronte dei 400 calcolati dalla Federazione internazionale della Lega dei diritti umani.
Un gruppo di medici mostra alcuni proiettili raccolti sul bitume.
Uno di loro ha in pugno un proiettile calibro 50, lo stesso calibro usato dalla Nato per trapassare i muri.
“Questo spiega l’osceno stato di certi cadaveri, maciullati”, dice.
Ma quando la voce di Gheddafi rimomba, indirizzandosi ai giovani con l’epiteto di “topi di fogna”; quando li minaccia: “Restituite immediatamente le armi, se no ci saranno mattanze”; e poi evoca i massacri di Tienanmen, nell’89 a Pechino, e la fine di Fallujah, il bastione sunnita iracheno distrutto dagli americani nel 2004, anche gli anziani gli lanciano epiteti di “Kalb, kalb”, cane, cane, “rognoso e rabbioso”.
Seguiti da “Abbasso il macellaio”.
Il frastuono copre il discorso del “re dei re d’Africa” (il titolo di cui s’è fregiato nel 2009 a capo dell’Unione africana) quando lui promette ai “rivoltosi la pena di morte”, legge i codicilli del Libro verde, e si appella ai libici: “Voi che mi amate, voi libici tutti, uomini e donne uscite dalle case, attaccate i topi di fogna nei loro rifugi, purgate la Libia centimetro per centimetro, casa per casa, strada per strada. Prendeteli, arrestateli, consegnateli alla polizia. Milioni mi difenderanno, fatevi sentire e gridate “Sacrificheremo l’anima e il sangue per il nostro leader”.
“Muhammar Gheddafi non è una persona normale, che si possa avvelenare o abbattere con una rivoluzione”, urla ancora e poi resta senza fiato il rais. Scrosci di risate in piazza e nei caffè.
“Il muro della paura è caduto”, commentano di rimando.
Finchè al tentativo di sminuirli: “Stanno soltanto copiando l’Egitto e la Tunisia”, gli shebab rispondono con lo slogan universale delle rivoluzioni arabe: “Erhal, erhal”, vattene, vattene.
Sono loro che hanno pagato il prezzo più alto, e che si preparano a prendere in mano le redini del Paese.
Loro, che vedi pattugliare i posti di blocco che puntellano la Libia liberata, ossia tutta la fascia orientale del Paese.
Indossano gli abiti più strampalati.
Felpe, maglioni a righe, giacconi da cacciatore.
Hanno tutti un cappello in testa, e ce ne sono dalle fogge più strane.
Molti, forse per ridicolizzare quelle di Gheddafi e del suo “amico” Berlusconi, si fasciano la testa di coloratissime bandane. S
cherzano, ridono, ballano, pur essendo tutti armati, chi di Kalashnikov, chi di rivoltelle, chi di mazze ferrate.
Dopo aver controllato il portapacchi delle auto, di solito benedicono il conducente con una frase del Corano.
E sono ancora una volta loro che accolgono i giornalisti con entusiasmo: “Perchè avete tardato?”.
“Finalmente”, dicono, possono consegnare i video dei massacri: immagini a volte troppo raccapriccianti, di corpi esplosi in pezzi. A
ltri filmati confermano le sparatorie sui dimostranti.
Alcuni gruppi sono già partiti verso Tripoli, mentre il movimento si sposta verso occidente a dare man forte alla protesta.
In senso inverso, cioè in direzione del confine egiziano, incrociamo pulmini carichi fino all’inverosimile.
Sono gli immigrati che tornano a casa.
Riportano notizie di Tripoli, di elicotteri che continuano a sparare sui manifestanti, di “orrende sevizie da parte delle milizie di Gheddafi, di notti di terrore coi mercenari che sparano su tutto e tutti, mentre i feriti restano a dissanguarsi sull’asfalto, perchè è impossibile soccorrerli sotto i tiri dei proiettili”.
I lavoratori stranieri vanno a imbottigliarsi alla frontiera di Musaid: aspettano in fila almeno seimila persone.
Altri due milioni pensano di espatriare.
Pietro Del Re
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
NON RIESCE AI BERLUSCONES L’OPERAZIONE AZZERAMENTO DEL GRUPPO: SE NE VANNO SOLO VIESPOLI E SAIA… ORA SI CREERA’ UN GRUPPO DEL TERZO POLO CON UNA VENTINA DI SENATORI
Si rompe il giocattolo Fli al Senato.
Ma Fini riesce a stoppare il temuto esodo.
A Palazzo Madama, dopo Pontone e Menardi, lasciano altri due dei dieci parlamentari che componevano il gruppo: Viespoli e Saia.
In sei, dunque, restano, Baldassarri in testa.
Mentre a Montecitorio rimangono in bilico, Urso e Scalia, in stand-by l’ex ministro Ronchi (e la compagna Cosenza).
A fine giornata, al quartier generale di Gianfranco Fini si tira un sospiro di sollievo. Ma è stata un’altra giornata campale.
Nel tentativo, in parte riuscito, di fermare l’emorragia verso il Pdl.
Giornata cominciata con la fuoriuscita di Barbareschi e Rossi, ufficializzata in aula dal vicepresidente della Camera Maurizio Lupi.
L’attore approda al misto, il deputato piemontese torna al Pdl.
Uscite già annunciate, ma sufficienti a portare l’asticella della maggioranza a 321.
Ore di operazioni concitate, al gran bazar Transatlantico.
Ad apertura di seduta, lo stesso Lupi annuncia che sei deputati Pdl passano al gruppo dei “Responsabili” (Lehner, Mottola, Orsini, Soglia, Stasi e Taddei), in modo da garantire quota 28.
Sufficiente alla maggioranza per riequilibrare le commissioni in bilico a Montecitorio.
Fli, nel frattempo, riunisce i suoi coordinatori regionali. Vertice tesissimo, non tutti condividono la svolta del congresso. Non si presentano il coordinatore siciliano, il deputato Scalia, e i senatori Baldassarri (Marche) e Saia (Veneto). Presagio di altre fughe.
Anche perchè dal Pdl il pressing è incessante, soprattutto su Urso e Scalia. Ronchi nega di fare da pontiere per il ritorno in blocco dei dissidenti al Pdl. Bocchino incontra Urso, su mandato di Fini e ne esce fiducioso: «Adolfo è un’energia positivissima per il nostro partito».
Sta di fatto che nel pomeriggio, in aula, Urso e Scalia vanno a sedere tra i banchi di Fli.
Mentre Patarino, altro considerato in ambasce, ripete di non aver «alcuna intenzione di lasciare Fli».
Bocchino è tranchant: «Ci spiace per gli addii, ma non mercanteggiamo». Briguglio rincara: «Quando i regimi sono alla fine ricorrono ai mercenari, Berlusconi come Gheddafi».
La notizia dell’ingresso dell’ex finiano Luca Bellotti con Denis Verdini a Palazzo Grazioli non fa in tempo ad arrivare alla Camera che Fabio Granata sbotta: «È in corso la più grande operazione di corruzione parlamentare della storia».
Ma è il lungo conclave degli otto reduci senatori Fli a monopolizzare le attenzioni, nel pomeriggio.
Al termine delle 4 ore, l’ormai ex capogruppo Viespoli notifica lo scioglimento: «Sono venute meno le prospettive politiche».
E non smentisce i contatti con Miccichè (Forza del Sud). Saia è già con un piede nel Pdl e il suo collega Butti, a Palazzo Madama, lo saluta così: «Betornato, abbiamo appena ucciso il vitello grasso».
Nella riunione la spaccatura è stata netta.
I sei finiani rimasti fedeli, al termine si ritrovano sul documento di Mario Baldassarri, di critica ai vertici ma di no alla scissione (pur ribadendo «mai con la sinistra»).
Con lui, Germontani, Valditara, De Angelis, Digilio e (pur con qualche titubanza) Contini.
Succede di tutto, in poche ore.
Al “Secolo d’Italia” si insedia il nuovo cda targato La Russa, Matteoli, Alemanno.
Duecento militanti di Fli manifestano davanti alla sede e la occupano.
I cinque consiglieri scorrono i conti del quotidiano finiano, non trovano nulla da imputare al direttore Perina e all’ex ad Enzo Raisi. Solo il disavanzo conclamato di 500 mila euro, circa (ma ridotto da 2,5 milioni).
Un buontempone li chiude a chiave nella stanza. Usciranno con l’aiuto di un fabbro.
Perina: «Dimissioni? Mai, se vogliono, mi caccino, sto andando a impaginare, come sempre. Ho incontrato il cda per chiedere garanzie per i 40 lavoratori, non mi hanno risposto». E il deputato Menia: «Vogliono chiudere una voce libera come in un regime».
La partita resta aperta.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
OCCUPATA IERI SIMBOLICAMENTE LA SEDE DELLA STORICA TESTATA DI DESTRA PER PROTESTARE CONTRO LA NOMENKLATURA DEI BERLUSCONES CHE VOGLIONO APPROPRIARSI DEL GIORNALE…GLI USURPATORI, ACCOLTI AL GRIDO DI “BUFFONI”, NON DANNO NEANCHE GARANZIE SUL POSTO DI LAVORO
E così la sede di via della Scrofa è stata occupata.
Dalle sinistre? No, dai futuristi.
È quello che è successo ieri, ed è solo l’ultimo capitolo dell’incredibile telenovela aperta dal tentativo dei berluscones dell’ex An di impossessarsi del controllo del Secolo d’Italia, che da anni è saldamente nelle mani dell’accoppiata futurista doc, Enzo Raisi-Flavia Perina.
La guerriglia va avanti da mesi.
Il deputato e la direttrice rivendicano i frutti del loro lavoro di questi anni: deficit ridotto a 500 mila euro (da due milioni) e giornale rifondato, reso glamour e intrigante.
I cinque commissari nominati dall’area La Russa-Gasparri, invece, rivendicano il diritto al controllo: “Ormai son fuori linea — spiega Mario Landolfi — non rappresentano più la sensibilità della destra, sembra che facciano il verso alla sinistra, hanno posizioni minoritarie”.
Il primo atto di guerra era stata la minaccia di chiudere i rubinetti della liquidità .
Il secondo, affiancare i cinque commissari a Raisi fino ad esautorarlo.
Il terzo era quello in programma per ieri: riunirsi e sostituire la Perina con un altro direttore (il candidato ideale era Gennaro Malgieri, che però ha declinato).
Ma qui sono iniziati gli effetti speciali e i guai.
Con il solo strumento di Internet, davanti alla sede del giornale e del partito si sono raccolti 200 militanti finiani pronti a fare di tutto per opporsi alla scelta.
I commissari (oltre a Landolfi, il deputato Alessio Butti, poi Valentino, Mugnai e Lisi) si sono trovati di fronte una muraglia umana di militanti e deputati: c’è, per esempio, Fabio Granata. C’è Raisi.
Ci sono i redattori del quotidiano che chiedono garanzie per il loro futuro, visto che il tam tam dice che l’obiettivo è ridurre l’organico e la foliazione per arrivare a un modello Foglio.
Entra Landolfi (che fra l’altro era un ex redattore) e parte un coretto: “Buuuu, buuuu!”.
Entra Butti e il coretto inizia a crescere, partono grida isolate: “Buffone!”.
I commissari salgono nella sede per cominciare la riunione, ma le soppresse non sono finite.
Gli animatori del sit-in li seguono.
La Perina chiede di entrare nella stanza riunione, anzi lo fa senza troppi complimenti: “Che succede?”, chiede Landolfi. “Cosa volete?”, aggiunge Butti.
“Vorrei — esordisce la direttrice — che deste garanzie sul mantenimento dei posti di lavoro”.
L’avvocato Valentino sembra quasi affranto: “Ma se ci siamo insediati da appena cinque minuti!”.
La direttrice, granitica: “Però quello che volete fare si sa da mesi…”.
Landolfi è categorico: “Non è vero nulla”.
La Perina: “Se le voci sono false, non dovete fare altro che smentirle…”. Landolfi, senza scomporsi: “Stiamo ancora controllando i conti, non possiamo dire nulla!”.
Ma la direttrice non molla la presa: “Ma come? tre mesi che ci pensate, ancora non avete un’idea?”.
A questo punto si arrabbia Butti e la tensione sale alle stelle: “Flavia, per piacere, smettila, di parlare a ruota libera…”.
La direttrice punta i piedi: “Vogliamo un comunicato in cui si garantisca che non toccherete i posti di lavoro”.
Landolfi media: “D’accordo”.
A fine serata, però, la rassicurazione non arriva.
Sentiamo Landolfi, che spiega: “Abbiamo bisogno di almeno un mese per decidere…”.
Ma alla domanda diretta conferma che la sorte della Perina è segnata: “Sarei ipocrita se non dicessi che ci deve essere assolutamente un cambiamento di linea. E quindi anche del direttore che garantisce quella linea”.
Volete un quotidiano berlusconiano?, chiedo.
E il deputato: “Possono anche sopravvivere delle quote di ‘eresia’, dei punti di vista vicini a Fini… Ma le idee della destra devono essere rappresentate”.
Poi il tono si fa quasi amareggiato: “Proprio ieri ho avvertito una brutta sensazione di estraneità alla nostra storia. La forma movimentista del sit-in. Il processo tardo-sessantottino intentato dalla Perina. sembravano degli extraparlamentari di sinistra!”.
Anche lo storaciano Fabio Sabbatani Schiuma protesta: “Ormai il Secolo sembra una succursale de l’Unità ”
Ma la Perina si arrabbia: “Ho scapocciato!”.
Prego? “È romanesco. Molti di noi sono entrati in sezione, ai tempi del Msi, a 13 anni. Questa è casa nostra e loro non hanno coraggio”.
Sta di fatto che tutto resta ancora aperto.
Se non altro perchè c’è un altro problema: la Perina, deputata, lavora gratis. E il giornale, in stato di crisi, non può fare assunzioni: “Dove lo trovano un altro che si fa il mazzo gratis?”.
Luca Telese
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 23rd, 2011 Riccardo Fucile
“IL PARLAMENTO DOVREBBE VOTARE CONTRO IL PREMIER E VARARE UN ESECUTIVO DI TRANSIZIONE PER PREPARARE IL VOTO”: QUESTO IL PARERE DEL PIU’ AUTOREVOLE QUOTIDIANO AMERICANO
Un governo di unità nazionale dovrebbe rimpiazzare l’attuale governo Berlusconi, per il bene dell’Italia.
E’ l’auspicio di un editoriale dell’Herald Tribune, edizione globale del New York Times, che aveva già giudicato più volte necessarie le dimissioni del leader del Pdl a causa degli scandali e dei processi in cui è sempre più coinvolto, ma ora indica anche espressamente la soluzione migliore per uscire dall’impasse in cui si trova il nostro paese.
“I governi italiani sono raramente noti per la loro efficienza”, comincia l’editoriale, che non è firmato e dunque rappresenta l’opinione della direzione del più autorevole quotidiano d’America.
“Ma perfino i problemi più urgenti del Paese vengono ignorati da quando un tribunale ha deciso che Silvio Berlusconi deve essere processato con l’accusa di prostituzione di una ragazza minorenne e abuso di potere per coprire lo scandalo”.
L’articolo osserva che questi sono tempi particolarmente difficili perchè l’Italia possa permettersi una stasi di governo.
Le nuove normative per l’euro attese nei prossimi mesi, lo sconvolgimento del vicino Nord Africa, dove l’Italia “contava su Gheddafi per il suo fabbisogno petrolifero e sul deposto presidente tunisino Ben Ali per contenere l’immigrazione”, lo stato poco salutare delle finanze nazionali e l’anemica crescita economica, sono i problemi per noi più urgenti, secondo l’Herald Tribune.
Berlusconi dice di “non avere intenzione di dimettersi e non ha l’obbligo legale di farlo”, non essendo ancora stato condannato e conservando una pur “esigua” maggioranza in Parlamento, ma “la sua autorità morale è a pezzi”, prosegue l’editoriale.
D’altra parte, pochi partiti o elettori desiderano nuove elezioni, in cui il solo partito che si aspetterebbe di guadagnare terreno sarebbe la Lega Nord. Ciononostante, conclude l’articolo, “solo una risoluzione democratica della crisi può cominciare a restaurare la salute politica e la rispettabilità dell’Italia”. Il parlamento italiano può votare “per rimpiazzare questo governo con una temporanea coalizione di unità nazionale il cui compito principale sia prepararsi per nuove elezioni”.
Alcuni leader politici “hanno già cominciato a premere per una soluzione del genere, altri ancora dovrebbero unirsi a loro” con la stessa richiesta.
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