Destra di Popolo.net

ELETTO MORRA CAPOGRUPPO M5S AL SENATO MA IL GRUPPO SI SPACCA A META’

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

24 VOTI A FAVORE, 22 CONTRARI, 2 ASTENUTI: IL CANDIDATO VOLUTO DA GRILLO E CASALEGGIO VINCE SOLO PER SOFFIO SUL “DIALOGANTE” ORELLARA

Nicola Morra è il nuovo capogruppo 5 stelle al Senato.
Nel ballottaggio ha ottenuto 24 voti.
Mentre lo ‘sfidante’, Luis Orellana ne ha conquistati 22. Due le schede bianche.
E il moVimento si è spaccato.
A Palazzo Madama, rigorosamente in streaming, è stata giocata la partita tra il dialogante Luis Orellana e il più vicino alla linea del quartier generale di Grillo, Nicola Morra.
In palio c’era il ruolo ma anche un deciso cambio di rotta della linea politica finora tracciata da Vito Crimi.
“Come da impegni sottoscritti con gli elettori – si legge nella nota diffusa ieri dai grillini – volge infatti al termine il mandato di Vito Crimi, che domani relazionerà  sui primi tre mesi di attività  del gruppo parlamentare al senato del movimento 5 stelle”.
Alla fine degli interventi dei due candidati in ballottaggio è stato trasmesso un video di commiato del capogruppo uscente Crimi, poi è iniziata la votazione a scrutinio segreto.
Ma il risultato inatteso ha finito per gelare i vertici Cinquestelle. segnale evidente che “nulla sarà  più come prima”.

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“PRENDEREMO A CALCI I DIRIGENTI DEL PDL, ALFANO PER PRIMO”: L’ESERCITO DI SILVIO CAMBIA OBIETTIVO

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

IL CO-FONDATORE VOLPE PASINI CHIEDE LE DIMISSIONI DI ALFANO

Il promotore della nuova Forza Italia e co-fondatore dell’esercito di Silvio – la formazione nata “per difendere Berlusconi dall’attacco giudiziario” – torna alla carica contro la classe dirigente del partito dopo il deludente esito delle Comunali.
“Ho sbagliato quando ho detto che bisognava tirare quattro calci nel sedere a quelli di sinistra che vengono a disturbare i comizi di Berlusconi – dice Volpe Pasini -, i calci vanno tirati ai nostri dirigenti”.
A cominciare da Alfano, di cui l’imprenditore friulano dice: “Se è un uomo, deve subito dimettersi da segretario”.
Dopo la pesante sconfitta alle amministrative, all’interno del Pdl tornano ad affrontarsi i falchi e le colombe.
Ma se molti si limitano a chiedere che Alfano venga affiancato da un altro co-segretario, l’Esercito di Silvio assume una posizione più radicale: via Alfano e rinnovamento radicale.

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INTERVISTA ALLA POLVERINI: “ALEMANNO HA FATTO TANTI ERRORI, CI VOLEVA UNA NOVITA'”

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

“IL TRAM 8? IO NON L’AVREI INAUGURATO”…”IL PDL ROMANO RIFLETTA, LA CRISI PARTE DAL 2010”

Renata Polverini, almeno lei, nelle file del centrodestra, ha votato?
«Certo che ho votato, sia 15 giorni fa sia ieri. Lo considero un dovere inderogabile. E aggiungo: come è bello stare insieme quando si vince, così si dovrebbe fare se si perde. Cosa che non sempre, dalle nostre parti, accade…».
L’ex governatrice del Lazio, dimissionaria 9 mesi fa per lo scandalo delle «spese pazze» in Regione, oggi deputata, parla schietto.
Invoca una «grande riflessione» nel Pdl romano e laziale.
Picchia duro contro la «smania correntizia». Non lesina critiche a Gianni Alemanno.
E se avessimo scelto la Meloni, vagheggia…
Partiamo dal «cappotto» che vi ha rifilato il centrosinistra o dal 55% di romani rimasti a casa?
«Ma no, la sconfitta è talmente pesante che è inutile che ci nascondiamo dietro l’astensionismo. In maggioranza sono stati i nostri elettori a non votare. E così il centrodestra ha sprecato una grande occasione, mi auguro non irripetibile».
Lo smottamento è partito dal caso di «Batman» Fiorito?
«Sicuramente quello per noi è stato un problema, in tutto il Paese: il messaggio, devastante, è arrivato ovunque. Ma quando i sindaci uscenti vengono tanto penalizzati è segno che c’è dell’altro».
Intanto non sarà  che è mancato Silvio Berlusconi? L’ex premier si è speso poco, giusto qualche intervista sulle tv locali.
«Ah, certo… La premessa è che se non c’è Berlusconi la proposta del Pdl perde fascino. Chi vedeva in lui una figura debole oggi farebbe bene a ricredersi definitivamente».
Però?
«Però c’è anche la questione, enorme, del centrodestra romano, che ho toccato da vicino perchè parte dal 2010, quando non fu presentata la lista Pdl alle regionali da noi vinte lo stesso. Quella vicenda, gestita malissimo, ha provocato effetti a catena, come la composizione di un consiglio e di una giunta dai profili meno alti, e analogamente la necessità  per Alemanno di tenere in equilibrio le varie componenti».
E Gianni dove ha sbagliato?
«Mmh…»
Suvvia. Lista troppo lunga?
«Beh, non dimentichiamo che per i sindaci gli ultimi 3 anni, con il calo delle entrate dovuto ai tagli dei governi nazionali, sono stati drammatici».
Dopodichè?
«Dopodichè Alemanno nel 2008, quando non si aspettava di vincere, forse non ha avuto il coraggio di circondarsi di figure di peso, anche perchè i leader che potevano sostenerlo erano stati traghettati in Parlamento. Secondo: venendo lui da esperienze nazionali, ha pensato che la vera sfida fosse dare alla città  lo status di Roma capitale, che però è solo un marchio. La gente nel sindaco vuole innanzitutto una persona che ce la metta tutta su temi come periferie, buche, traffico, casa, trasporti».
A proposito di temi concreti: il lavoro. Quanto ha pesato sulla sconfitta la Parentopoli Ama-Atac?
«Pure su questo è inutile che ci prendiamo in giro: brutta vicenda. Ma credo che lui l’abbia capito».
Anche l’inaugurazione del nuovo capolinea del tram 8 a piazza Venezia, poche ore prima del ballottaggio, poteva essere evitata?
«Guardi – ride – non è per scusarlo, ma io da Botteghe Oscure ci passo spesso: quest’anno è piovuto, gli operai erano fermi, quindi il ritardo nel lavori è giustificato… Però forse voleva chiedermi se io l’avrei inaugurato lo stesso, il tram, sotto elezioni?»
Esatto.
«No, alla vigilia del voto no. Al massimo avrei annunciato che era pronto».
La mobilitazione del voto cattolico non è bastata?
«Mah, lo dico sempre: dentro l’urna le persone sono sole. I valori sono importanti, il tema della vita fondamentale, però dal sindaco, che ci piaccia o no, la gente si aspetta che risolva i problemi di tutti i giorni».
Se aveste candidato Giorgia Meloni?
«Certo, un messaggio di novità  poteva essere utile… Ma mica si può impedire a un sindaco uscente di riproporsi. Se avessero fatto una richiesta del genere a me, non l’avrei trovata elegante».
E adesso da dove riparte il centrodestra, che un anno fa aveva Pisana e Campidoglio e oggi neanche la consolazione di un municipio?
«È urgente aprire una grande riflessione a Roma e nel Lazio. Dobbiamo guardarci in faccia, smetterla con la smania delle correnti che penalizzano tutti. Bisogna serrare le fila, e lo dico io che quando ho passato il peggior periodo della mia vita, pochi mesi fa, vicino a me ho sentito il partito nazionale, Berlusconi, Alfano, Lupi, ma, per il resto, lasciamo perdere…».

Fabrizio Peronaci
(da “La Stampa”)

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NEL GIORNO DELL’ADDIO DI ALEMANNO, LA MOGLIE FINISCE AL VIMINALE CON ALFANO

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

LACRIME E CASTA: LICENZIATO LUI, SISTEMATA LEI

Tra la tangenziale di Roma e piazzale delle Province, il civico uno di via Giano della Bella è un sito di archeologia industriale.
Da ieri è anche un simbolo di archeologia politica.
Perchè è qui che Gianni Alemanno ha organizzato il suo comitato elettorale ed è qui che il sindaco uscente si mette a piangere quando il disastro delle urne è chiaro da subito.
Alemanno, che i suoi camerati definiscono “un combattente con due palle così”, si abbatte tra le braccia di Antonio Lucarelli, il capo della sua segreteria, ed esplode in un pianto dirompente. Sconforto, rabbia, stress.
Qualcuno, sottovoce, azzarda una battuta consolatoria: “Poteva andare peggio”.
Cioè, non arrivare nemmeno al trenta per cento.
Ma anche quando capitola, il potere nero della Capitale mantiene la sua sfrontatezza. Stavolta al fianco di Alemanno c’è la moglie Isabella Rauti fu Pino. Dio, casta e famiglia. Nel giorno in cui il marito perde la poltrona, lei ne guadagna una grazie al ministro amico dell’Interno.
Angelino Alfano, del Pdl come Alemanno, la nomina consulente contro i femminicidi “per l’alta professionalità  e l’impegno costante nel settore”.
Formuletta di prammatica per giustificare l’incarico alla Rauti. Almeno potevano scegliere un giorno diverso. Poi dici l’arroganza della casta.
Le agenzie battono la notizia che l’intera famiglia Alemanno (Gianni, Isabella e il figlio adolescente Manfredi) è radunata nel comitato elettorale.
Sono le 13 e 30. Una pausa pranzo comunque mesta.
Da giorni i fatidici sondaggi che non si possono divulgare sui media annunciano la catastrofe del sindaco uscente.
Il primo ad ammetterlo, a urne chiuse, è Andrea Augello, sveglio senatore del Pdl con la nomea del Goffredo Bettini di destra.
Il modello Alemanno, però, tramonta dopo soli cinque anni a colpi di astensionismo e scandali.
Augello è il coordinatore della campagna elettorale e fa il profeta di sventura che sono le 15 e 30: “La sconfitta è evidente, Marino è il nuovo sindaco”.
Qualche ora più tardi integrerà , tra calcoli di voti e astensioni, tra realtà  e autoconsolazione: “È l’unico sindaco al mondo con l’opposizione al 70 per cento”. L’ormai ex sindaco è circondato da fedelissimi e alleati.
È il momento di cominciare a mettere la faccia sulla sconfitta. Tra le prime, al comitato, a farsi intervistare dalle tv è Barbara Saltamartini, deputata del Pdl e alemanniana d’acciaio.
Ripete come un mantra le due parole d’ordine che poi saranno riprese da tutti gli altri: “Aprire una riflessione” e “Pensare al radicamento”.
Riflessione e radicamento, a oltranza. Lo stesso Alemanno vuole riflettere. La sala stampa è quasi all’aperto. C’è il sole.
Il marito della nuova consulente di Alfano si presenta alle sedici passate: “Ho appena telefonato a Marino per fargli le mie congratulazioni e per mettermi a disposizione. Il risultato è netto, è evidente che l’astensionismo è stato troppo forte, il numero delle persone che hanno votato per me è sostanzialmente lo stesso tra primo e secondo turno. Il problema vero è il comprendere l’allontanarsi dei romani dalla partecipazione politica. Occorre aprire una riflessione nella destra su Roma e sul piano nazionale”.
Per il comitato vagano tante facce note della politica nazionale e romana.
C’è l’ex finiano Andrea Ronchi che parla con due donne.
Più in là , l’ex udc Luciano Ciocchetti, ras delle preferenze, non smentisce la sua fama di uomo concreto. Tiene banco in un capannello e chiede brusco ai suoi: “Ahò, Marchini quando seggi ha preso? Se lui rinuncia chi entra in consiglio? ”.
Ognuno ha un orto da curare e sorvegliare. Alemanno ritorna dai giornalisti dopo le diciotto. Mostra il petto agli sfottò della sinistra. Vuole morire in piedi: “Mi assumo io tutte le colpe e le responsabilità , non voglio fare lo scaricabarile. Ma questo non è un De Profundis, non scompariremo, c’è ancora bisogno di noi”.
Saluta e ringrazia l’onnipresente moglie Isabella e l’applauso finale è quasi un’ovazione.
Il convitato di pietra in questo comitato è Silvio Berlusconi.
Salvezza e dannazione, allo stesso tempo, del centrodestra.
Il solito Augello chiarisce: “Non è colpa di Berlusconi questa sconfitta. Sono tutte speculazioni tattiche. Un nuovo partito? Non serve e Gianni rimarrà  a fare il consigliere comunale. Qui il problema è recuperare i delusi. E lo fai se crei reti nuove, non altri partiti”.
Vincenzo Piso è un duro che viene dalla destra sociale di An, la stessa corrente di Alemanno. Oggi è coordinatore regionale del Pdl. Dice: “Il Pdl mi ricorda il Napoli di Maradona e quando Maradona non giocava erano guai”.
Maradona, ovviamente, è il Cavaliere
Alle sette di sera si smobilita ed ecco materializzarsi un’altra scena forte del disastro romano.
La sala stampa è vuota e Francesco Storace della Destra si siede dove prima c’era Alemanno. Si mette a scrivere sull’Ipad.
Un editoriale per il suo quotidiano online, il redivivo Giornale d’Italia.
Ha le idee chiare: “È mancata la faccia del Capo. Qui c’è gente che se farebbe ammazzà  pè lui e lui invece se n’è fregato”.
Il Capo è il Maradona di prima.
Alemanno ha perso. Di chi è la colpa?

Fabrizio d’Esposito
(da “il Fatto Quotidiano“)

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BERLUSCONI: “LA NOSTRA E’ UNA SCONFITTA ANNUNCIATA. MA L’UNICO VERO SCONFITTO E’ GRILLO”

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

“IL PDL NON FUNZIONA, VA CAMBIATO, MA SENZA DI ME NESSUNO CE LA FA”

“Così com’è, il Pdl non funziona, non serve più, se poi sbagliamo anche la scelta dei candidati è la fine». Raccontano che Silvio Berlusconi la considerasse una «sconfitta annunciata».
Ma non certo con queste proporzioni, coi numeri da cappotto.
Mastica amaro, il capo, e il risultato diventa miccia per l’annunciata «rivoluzione » di un partito «da rifare», da riportare alla versione light di Forza Italia.
Il Cavaliere resta blindato ad Arcore, solito pranzo coi figli, incontro coi vertici Mediaset, prima, e gli avvocati, dopo, lunga telefonata con Alfano.
Resterà  in Brianza anche oggi, nessuna voglia di rientrare a Roma e ricevere i dirigenti Pdl a Palazzo Grazioli (potrebbe farlo forse domani).
A chi lo chiama ripete che il governo non rischia, che anzi «il vero sconfitto è Grillo, che ha gridato in tutte le piazze contro l’inciucio e ha straperso».
Colpito dai picchi di astensionismo, Berlusconi non nasconde tuttavia le difficoltà . Non basta l’«ennesima conferma che quando non ci metto la faccia si perde», refrain tornato in auge anche ieri.
Il problema diventa il partito, la selezione dei candidati.
A Roma per esempio. Telefonata di consolazione con l’uscente Alemanno, ma raccontano che Berlusconi in privato abbia ricordato come avesse detto mesi addietro che il volto nuovo su cui puntare era Alfio Marchini, ma che nella Capitale Alemanno si è ostinato a sfidare tutti i sondaggi.
Indiscrezione che le fonti ufficiali smentiscono.
Ma, Roma a parte, il fatto è che anche negli altri 15 ballottaggi il Pdl è andato ko.
Per non dire della disfatta maturata, in serata, nell’ex granaio elettorale siciliano.
«Non sono stati capaci di trovare candidati credibili» è l’accusa lanciata da Arcore ai dirigenti.
Per il Cavaliere insomma ce n’è abbastanza per decretare la fine del partito così com’è esistito finora. In queste ore non è solo il “falco” Daniela Santanchè a chiedere una «riorganizzazione senza guerra tra bande», a dire che «dobbiamo riflettere su ciò che non funziona», a partire dalla «classe dirigente».
Adesso il rilancio del partito “leggero” – quello illustrato da Verdini, Santanchè e Capezzone una settimana fa al capo – può partire.
Nessuno mette in discussione il ruolo di Alfano, tantomeno Berlusconi.
Tuttavia molti dirigenti, risultati alla mano, sostengono in privato che il partito non può essere più gestito da un segretario part time, al contempo vicepremier e ministro degli Interni.
I “falchi” in queste ore non gli risparmiano nulla, fino a imputargli la terza, pesante sconfitta elettorale consecutiva, in due anni, nella “sua” Sicilia, tra amministrative e Regionali.
Da Catania a Palermo passando per la presidenza della Regione finita a Crocetta.
E allora la soluzione che torna a lievitare è quella, non già  di silurare, ma di affiancare il segretario.
Con un vice di peso o con un terzo coordinatore forte insieme a Verdini e Bondi.
E il nome che viene ripescato è quello dell’uomo forte e ras di consensi in Puglia, Raffaele Fitto.
Il quale, tuttavia, ripete ai colleghi come preferisca continuare a fare il «deputato semplice» e come potrebbe ripensarci solo se fosse Berlusconi a ridisegnare il partito, chiamandolo in causa.
La tensione in serata in via dell’Umiltà  si taglia col coltello.
Angelino Alfano dà  segni di nervosismo. Rilascia un’intervista al Foglio rassicurando sulla tenuta delle larghe intese ma – su input di Berlusconi – mettendo in allerta il premier Letta: «Invece di discolparsi con il “partito di Repubblica” dia una missione al governo».
Il sottosegretario Michaela Biancofiore, assai più schietta, dice che «essere berlusconiani significa sentire la pancia del proprio elettorato» che in questo momento non premia le larghe intese.
Ormai la pensa così anche Alessandra Mussolini convinta che il Pdl debba «interrogarsi: evidentemente questo governo pesa sul nostro elettorato, stanco e smarrito».
Altri, come Annamaria Bernini, pensano che ora è più probabile che «un Pd inebriato dal sogno di vittoria possa mettere in difficoltà  Letta».
Berlusconi per il momento vuole incalzare il premier sui temi economici, ma non certo staccargli la spina.
«Continuo a non credere alle elezioni anticipate, in alternativa ci sarebbe già  una maggioranza pronta» ha stroncato fino a ieri i pruriti dei “falchi”.
Del resto, lui è sempre più assorbito dagli incubi giudiziari, dalle sentenze imminenti. Solo a luglio si capirà  se Palazzo Chigi sarà  davvero fuori pericolo e fino a quando.

Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)

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ALEMANNO, LO SCERIFFO DI TREVISO E SCAJOLA: I PATRIARCHI ROTTAMATI

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

QUANDO ANCHE IL POTERE SI CONSUMA E IL TERRITORIO TI RIVOLGE LE SPALLE

Ogni tanto la rottamazione viene da sè, senza pasticci, senza prepotenze, come puro fatto di natura.
Inutile recriminare, i troni delle piccole patrie si svuotano e il comando sfugge di mano.
I padreterni, i patriarchi, i padroni e i santi patronali si ritrovano all’improvviso nel recinto degli sconfitti, alla mercè della loro stessa sottomissione.
Vale la pena di osservarli, quest’oggi.
Alemanno in tv con il braccialettone tribale che gli penzola dalla manica, due ne indossa la moglie Isabella, «Io voto e scelgo Alemanno » c’era scritto, chissà  di chi è stata l’idea, chissà  quanti ne hanno ordinati, bianchi e bordeaux, chissà  quanto sono costati.
Oppure Gentilini, lo Sceriffo di Treviso, 84 anni tra due mesi, che anche ieri ha parlato di sè in terza persona, come sempre ha fatto, incurante di sembrare un’ansiogena macchietta, una specie di oracolo dell’eccesso truculento, «il Vangelo secondo Gentilini » era la premessa, e un po’ anche l’esito.
Ma per una volta le sue parole hanno un che di drammatico: «Gentilini ha chiuso la propria testa e la propria bocca, si è chiusa un’era e Gentilini è finito». Finito.
La rottamazione, termine ambiguo e abbastanza infelice, procede per strappi e approssimazioni. Ciò nonostante, colpisce che ci sia anche chi non vuole o addirittura non riesce a riconoscerla. «In tempi brevi il Pdl deve riformarsi e attrezzarsi perchè si ritorni alle urne il prima possibile…». Questo manda a dire a caldo Claudio Scajola, dopo che il «suo» candidato a Imperia si è fermato a un misero 23,86 per cento.
L’ex ministro ha perso malamente quello che lui stesso in un superbo proclama preelettorale, «Sono stato il primo ministro del Ponente nella storia d’Italia, sono stato il personaggio politico ligure più significativo degli ultimi vent’anni», aveva definito: «Un referendum sulla mia persona». Eccolo dunque servito, «Sciaboletta», come è chiamato dalle sue parti: l’elsa è instabile, la lama arrugginita, il rigattiere si è già  fatto vivo.
Scajola, Alemanno, Gentilini. Difficile tenere insieme tre figure politiche e tre storie locali così diverse senza rendersi conto che il collante è la hybris, la dismisura che lungo l’ideale triangolo che collega Roma, la Marca e la Liguria «scatena le potenze infere castigatrici» (Ceronetti), in questofrangente sotto forma di umili schede elettorali.
Fino all’ultimo nella capitale si è imposto l’eccesso.
Martedì scorso, non pago evidentemente delle immagini che sui muri lo raffiguravano con il gatto di casa e sui giornali con un esponente di un clan non proprio raccomandabile, su twitter Alemanno ha pubblicato una incredibile foto di se stesso a capo chino, nell’atto di firmare un assegno.
A quattro giorni dalle elezioni, l’auto-didascalia offre un piccolo saggio di disinteressata eleganza promozionale: «Ho donato un contributo personale di 500 euro al Centro anziani di Val d’Ala, Montesacro » – là  dove pure viene da chiedersi come avrebbe potuto, il sindaco, «donare» un «contributo pubblico».
E davvero Roma si meritava qualcosa di meglio, anche come ricordo, e perfino nel modo di perdere.
I raid anti-prostitute in moto; il puntiglio sul palco della manifestazione finale al Colosseo, negato dalla Sovrintendenza; l’offensiva «valoriale», che te la raccomando; il vano richiamo al pericolo dei rom; le estreme mirabolanti promesse per i gonzi…
Per quanto sconfitto, è già  pronto per Alemanno, Aledanno, Retromanno, Alemagno, comunque un posto nel prossimo Parlamento europeo, se non altro perchè a Roma «nun se butta gnente».
Non lo stesso si potrà  dire di Gentilini, irredimibile nonnetto che per vent’anni ha alimentato un piccolo grottesco culto della personalità  e a cui Roberto Maroni un giorno rese scherzoso omaggio inginocchiandosi al suo cospetto.
«Nulla splende sotto il sole – sosteneva lo Sceriffo in maschera con pistole giocattolo – che io non abbia già  fatto». Io, io, io.
Una targa nel suo ufficio prima di sindaco e poi di prosindaco avvertiva l’incauto visitatore: «Qui dopo Dio comando io».
Il che gli ha consentito di esagerare discettando e in qualche modo anche operando, purtroppo, su finti mendicanti e panchine anti-bivacco, figli di «razza Piave» e immigrati da prendere a schioppettate, «culattoni» e pacche sul sedere.
Fino a quando, dopo l’ennesima invocazione della «pulizia etnica», un tribunale ha condannato Gentilini per istigazione all’odio razziale, divieto di tenere comizi per tre anni, cessati i quali ha voluto riprovarci, ma amareggiandosi, giacchè gli dei sanno essere crudeli con chi li sfida.
Sciaboletta Scajola è uno di questi, ma certo più astuto di Aledanno e assai meno pittoresco Gentilini, per quanto circonfuso anche lui da una specialissima aura che da ogni disgrazia politica (la galera, le stupide e cattive chiacchiere, la casa al Colosseo compratagli a sua insaputa) l’ha visto sempre e sistematicamente risorgere, in linea di massima con la benedizione di Silvio Berlusconi.
Beh, già  escluso dalle liste alle elezioni politiche, stavolta il personaggio versa in condizioni piuttosto catastrofiche.
«Non permetterò – aveva promesso – che una vita di sacrifici e impegno per il mio territorio venga descritta come un esempio di malaffare ».
Ma proprio questo in fondo è il guaio che unisce e in una certa misura affratella gli sconfitti: che non gli è più dato permettere o non permettere.
Anche il potere si consuma, ma più ancora consuma chi ne ha fatto cieco uso, senza comprendere che va e viene, ma soprattutto scappa e a volte perfino si ribella

Filippo Ceccarelli
(da “la Repubblica“)

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IL NAUFRAGIO DI MARONI

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

HA LAVORATO PIU’ PER SE’ CHE PER IL PARTITO, ORA DOVRA’ LASCIARE IL PASSO… E LA SCONFITTA IN VENETO TRAVOLGE IL SUO ALLEATO TOSI

Naufraga fra i canali della marca trevigiana la strategia con cui Maroni aveva sperato di resuscitare la Lega, dopo che già  erano state sconfitte le sue velleità  separatiste.
E cioè trasformarla in succursale nordista del berlusconismo, federando al suo interno il notabilato locale conservatore, restio ai vaniloqui sulla Padania ma desideroso di restare al potere, magari aggrappandosi a localismi di stampo bavarese o carinziano. Doveva essere la terza metamorfosi di un movimento che in 25 anni non è riuscito a fare la sua rivoluzione, ma invece si era inserito con abilità  nelle fragilità  culturali di una destra illiberale vincente, traslocando a Roma la sua classe dirigente, identificandosi con quel malgoverno e replicandone gli scandali, fino a rendere impossibile disciogliere il vincolo di sudditanza da Berlusconi.
Un colpo di mano ideato da Bossi nel 2010, con la complicità  di Tremonti, profittando del momento di massima debolezza del Cavaliere, aveva regalato al leghismo l’orgasmo di una Padania apparente: Zaia in Veneto e Cota in Piemonte al vertice di regioni in cui davvero l’elettorato di destra sceglieva Lega di fronte a un Pdl che andava in frantumi.
Ma che di mera illusione ottica si trattasse, lo aveva già  dimostrato, prima della disfatta di ieri, il paradosso Maroni: pur di coronare il sogno, e congiungere dal Pirellone lombardo i lembi di una ricca maxiregione, il segretario leghista si dichiarava pronto a rinunciare alla segreteria politica del suo movimento e a rinnovare il patto indecente con lo screditato Formigoni.
Così, quello che in teoria avrebbe dovuto risaltare come il momento della massima forza leghista, rivelava platealmente il suo bluff.
Maroni aveva dovuto umiliare pubblicamente Bossi e, con il fondatore, non colpiva solo il malcostume delle appropriazioni indebite di soldi pubblici, ma le stesse fondamenta indipendentiste.
Ad agitarle delegava un giovane compiaciuto nelle ostentazioni xenofobe ma privo di radicamento significativo, Matteo Salvini.
Ma a tutti era chiaro che il vero braccio destro di Maroni era Flavio Tosi, il sindaco di Verona che per primo aveva teorizzato la trasformazione del leghismo in federazione di liste civiche.
Paradosso nel paradosso, Flavio Tosi da ieri è il primo della lista degli sconfitti, avendo perso la roccaforte simbolica di Treviso, anche perchè non ha saputo fare a meno di ricandidarvi una figura detestabile per la sua matrice reazionaria e razzista, per giunta prossimo a compiere 84 anni, di cui gli ultimi venti trascorsi come Federale di Treviso: Giancarlo Gentilini.
Credo che l’Italia civile debba riconoscenza ai cittadini di Treviso che ci hanno liberato da una simile leadership che le recava oltraggio.
Ma la sconfitta del Carroccio è generalizzata, senza guardare troppo alle singole candidature
Maroni che aveva contravvenuto alla sua promessa di dimettersi da segretario del partito, una volta divenuto presidente della Regione Lombardia, e per questo aveva rinviato la scadenza congressuale all’estate 2014, ora non potrà  ignorare le accuse di tradimento rivoltegli da Umberto Bossi con non casuale scelta di tempi.
Bossi fino a ieri poteva apparire una figura patetica e isolata, ma ora è probabile che gli stessi governatori del Veneto (Zaia è in perenne contrasto con Tosi) e del Piemonte (Cota ha rapporti tesi con Maroni) finiscano per affiancarlo in uno scontro interno dall’esito incerto.
Il dissolversi dell’elettorato leghista, mai così esiguo da decenni, rende improbabile che il Nord sofferente per la crisi torni in futuro a investire su un revival di Bossi, preso atto del fallimento della leadership di Maroni che ha lavorato bene per sè ma non certo per il partito.
Ciò non significa che le pulsioni separatiste e reazionarie in cui per un quarto di secolo si è riversata la questione settentrionale abbiano fatto il loro tempo. Troveranno nuovi attori protagonisti.
Ma intanto il Nord Italia deve fare i conti con un’anomalia democratica evidente: le sue tre principali regioni – Lombardia, Veneto, Piemonte – sono guidate da altrettanti esponenti di un partito ultraminoritario che ha profittato della ricattabilità  di Berlusconi per impossessarsi di un potere sproporzionato.
Il naufragio della Lega segnala questo nodo da sciogliere a un Nord Italia ormai amministrato in larga misura da sindaci di centrosinistra.
E se anche Maroni, per rimanere abbarbicato al poco che gli resta, continuerà  a garantire una benevola astensione al governo Letta, il suo bluff va ben evidenziato.
Se non altro i leghisti abbiano la compiacenza di smetterla di spacciarsi come portavoce del popolo del Nord, quando sono un partitino che non raggiunge il 5%.

Gad Lerner
(da “La Repubblica“)

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ALEMANNO, SCONFITTA CAPITALE

Giugno 11th, 2013 Riccardo Fucile

LA CITTà€ VOTA A METà€ E SCEGLIE MARINO

Ha stravinto lui, il chirurgo che pareva un marziano.
Capace di doppiare l’avversario, e di prendersi tutti i (nuovi) 15 municipi della Capitale.
Vittoria da record in riva al Tevere, da quando esiste l’elezione diretta del sindaco: come da primato è stata l’astensione.
Ignazio Marino è il nuovo sindaco di Roma, eletto con il 63,93 per cento, a fronte del 36,07 dell’uscente Gianni Alemanno.
Sarà  l’ex senatore a caricarsi sulle spalle una città  stufa della politica, dove nel ballottaggio ha votato solo il 45,05 per cento dei romani.
Sufficiente per mostrare il cartellino rosso al sindaco uscente, l’Alemanno che il 28 aprile di cinque anni fa era entrato in Comune tra i saluti romani.
Marino ha subito chiarito: “Stasera (ieri, ndr) non andrò in Campidoglio, quel palazzo ha una sua sacralità  e i cambi di consegna debbono avvenire in maniera formale”. Ovvero, non ha fatto come Alemanno, che nel 2008, a urne ancora calde, si presentò davanti al Palazzo Senatorio.
Festeggiava i suoi oltre 780 mila voti, e un’impresa storica per la destra ex missina. Questa volta, nel secondo turno, Alemanno ha raccolto solo 374 mila consensi: praticamente gli stessi che aveva preso il 26 maggio (364 mila), con 19 candidati in corsa.
L’astensione, il nemico che il sindaco aveva provato a battere con appelli e manifesti disseminati per tutta Roma (“Vince chi vota”), gli è stata fatale.
Quel poco che è rimasto nelle urne si è spostato verso Marino, passato dai 512 mila voti del primo turno agli oltre 664 mila di domenica e lunedì.
Parte degli elettori di Cinque Stelle e Alfio Marchini ha scelto il chirurgo. Ma in tanti sono rimasti a guardare.
E il conto finale ricorda che Marino è stato scelto dal 28 per cento dei romani.
Poca gente alle urne, insomma, sia in centro che in periferia. Ma ovunque lo stesso risultato: municipi al centrosinistra.
Vittorioso persino nel XV (Salario-Tor di Quinto) roccaforte della destra, dove al primo turno il candidato del Pdl era in testa di 15 punti.
Ieri è stato ribaltone, grazie al traino di Marino: addirittura al 69 per cento, nella “rossa” Garbatella (VIII) dove pochi giorni fa Alemanno era stato contestato.
“Meglio di Veltroni nel 2006” ricordavano ieri dal Pd. Perchè quella volta il sindaco venne rieletto con il 61 per cento, proprio contro Alemanno, e tutti i municipi andarono a sinistra, tranne uno.
Ma in quel caso, prima del recente accorpamento, erano 19. Bene Marino, comunque. Vincitore chiaro sin dai primi minuti dopo la chiusura dei seggi. “Mi pare evidente che abbia vinto lui” ammetteva alle 15,26 Andrea Augello, il coordinatore del comitato Alemanno.
In tv e sulle agenzie, gli instant poll anticipavano che la partita non poteva riservare sorprese.
Poco dopo le 16, in grande anticipo sull’orario previsto, Alemanno si presentava davanti ai microfoni nel suo comitato: “Ho appena chiamato Marino per congratularmi”.
Riconosceva che “il risultato è netto” e prometteva “un’opposizione seria e non distruttiva, nell’interesse di Roma.
Al sindaco lasciamo un Comune risanato”. Soprattutto, precisava: “Dobbiamo fare autocritica, ma mi prendo tutte le responsabilità . Ringrazio il Pdl, e non ho recriminazioni verso Berlusconi: c’è stato con i suoi mezzi come le videointerviste”. Poi abbracci ai collaboratori e qualche lacrima. P
oco dopo, Marino ha pronunciato le sue prime parole da sindaco.
L’uomo che ha vinto da candidato simil-civico, lasciando spesso il Pd sullo sfondo, ha ringraziato subito “il partito e i partiti: dicono che sono stati lontanti ma è proprio l’opposto, quelle persone le ho viste lavorare anche per 36 ore”.
Marino vuole vedere “la gente che torna a sorridere per strada”. E promette: “Almeno una volta alla settimana girerò per la città . I nuovi bus, quelli più belli, dovranno andare nelle periferie”.
Chiosa con slogan: “Abbiamo liberato Roma, e ora daje”. In serata, il neo-sindaco ha festeggiato con famiglia e staff.
Enrico Gasbarra, segretario Pd Lazio e cerniera tra Marino e i moderati del partito, celebra: “Con Marino le istituzioni tornano patrimonio di tutti: e poi il Pd ha vinto in tutto il La-zio”.
Enrico Letta, da buon premier delle larghe intese, ha telefonato a Marino e Alemanno. Ma sulle agenzie ha insistito molto sull’astensione.
Da oggi, parte il toto giunta. Marino aveva assicurato: “Sceglierò gli assessori fuori dai partiti, mandate i curricula”.
Ma qualche nome alle liste lo concederà . Probabile che peschi anche tra i 29 consiglieri di maggioranza, nel primo consiglio comunale con 48 membri dopo la riforma di Roma Capitale. Ricorre il nome di Gemma Azuni (Sel), già  candidata alle primarie del centrosinistra.
Forte anche l’ipotesi Paolo Masini, consigliere uscente del Pd, zingarettiano.
Possibile Andrea Mondello, ex presidente della Camera di commercio, vicino a Marchini.
Voci sul deputato Walter Tocci (Pd), vicesindaco con Rutelli.

Luca De Carolis
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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