Aprile 28th, 2014 Riccardo Fucile
L’EX CAVALIERE PER RIMONTARE, IN VISTA DEL VOTO, ATTACCA PM E CONSULTA NELLO STUDIO DELLA D’URSO SU CANALE 5
Berlusconi cerca il miracolo. Lo fa a casa sua, a Cologno Monzese, negli studi di Barbara D’Urso, la platea che un anno e mezzo fa lo ha aiutato a risorgere quando tutti lo davano per spacciato.
Il suo è un comizio di un’ora e mezzo dove si fa accompagnare dalla conduttrice a parlare di paludi della politica come di Dudù, dalla corte costituzionale all’affidamento ai servizi sociali e a Beppe Grillo, definito “uno sfasciacarrozze che ha mandato in parlamento degli urlatori come lui”.
È arrivato di buon pomeriggio, senza troppi annunci come del resto farà stasera collegandosi a Piazza Pulita, la trasmissione della 7 condotta da Corrado Formigli.
In camerino con lui Mariarosaria Rossi e Deborah Bergamini, pochi altri fedelissimi che di volta in volta si sono affacciati per salutarlo. Padrone di casa, ovviamente.
Nello studio 10, scenografia di Domenica Live e di molti altri programmi, c’era un fabbro.
Fu lui, abituato com’era all’epoca, a tirare fuori il blocchetto degli assegni e a comprare lo studio. E alcuni che oggi sono al seguito della corte dei miracoli c’erano già allora.
Una volta in diretta torna Berlusconi, il solito. Non risparmia attacchi alla magistratura, ai “pubblici ministeri di sinistra” e nemmeno alla corte costituzionale, “11 membri di sinistra, solo quattro vicini al centrodestra”.
Ci arriva nel rispondere alla prima domanda della D’Urso, quella sull’affidamento ai servizi sociali: “Ho già parlato con una delle loro assistenti, mi sono messo a disposizione, credo che già da oggi dovrei essere convocato da coloro che gestiscono il centro dove andò a fare animazione o, comunque, quello che loro vorranno. Non è un problema. Sono a loro disposizione”.
Non pronuncia mai la parola condanna, perchè l’uomo davanti alle telecamere ci sa stare.
L’ora nel camerino gli è servita per ripassare un copione. Se uno si sintonizzasse e non conoscesse la sua storia, non essendoci il contraddittorio, può avere l’impressione di trovarsi davanti a un volontario, non a una persona che deve scontare una pena passata in giudicato.
Poi — prima di tirare una stoccata a Napolitano “non firmò una legge e mi fece perdere credibilità in Europa” — nella sua domenica, rispolvera l’argomento Matteo Renzi.
“Io non ho mai detto di aver rotto con lui un dialogo. È stato un fraintendimento dei giornali. Con Renzi al quale non nascondo la mia stima, l’enorme capacità lavorativa e la simpatia, abbiamo una intesa per quello che riguarda la legge elettorale , che è una legge ordinaria. Sulle riforme le nostre obiezioni sono arrivate quando Renzi ha iniziato a parlare di nomine dei sindaci al Senato, di senatori nominati direttamente dal presidente della Repubblica. Quello non era in discussione. Io credo fermamente che delle riforme alla carta costituzionale siano necessarie per il governo del Paese. Ma non così. Il presidente del Consiglio ha pochi poteri, non può neanche sostituire un ministro. Sono 64 giorni che Renzi siede a palazzo Chigi e ha già aumentato le tasse sulla casa che saliranno del 32-34%, ha aumentato le imposte sui conti correnti elevandole al 26%, un punto di più della media europea. Insomma, Renzi non fa che continuare le vecchie abitudini della sinistra. Non c’è altro modo per abbassare le tasse che tagliare la spesa pubblica, noi abbiamo indicato dove, ma non sempre è stato possibile farlo perchè contro di noi c’è stato lo schieramento dei sindacati e dell’opposizione di sinistra che ha seguito la strada del tanto peggio tanto meglio. Ora — prosegue — vogliono consegnarci alla damnatio memoriae parlando dei 9 anni dei 20 anni in cui abbiamo governato come fallimento, come se noi non avessimo fatto nulla e invece io ho qui le 40 riforme fatte in 9 anni di governo. Abbiamo fatto più noi in 9 anni che tutti i 50 governi dal ’48 a oggi”. Per poi concludere. “Bisogna arrivare all’elezione diretta del presidente della Repubblica”.
Sull’argomento Alfano, a domanda precisa della D’Urso, l’ex cavaliere non entra nel merito. Non usa la parola traditore – a vederlo in faccia l’avrebbe voluto fare — ma appare quasi scontato che nelle prossime elezioni politiche, non le europee, l’obiettivo è di riportare a casa i fuoriusciti e non di continuare a perdere pezzi.
“È il tempo di creare una grande casa dei moderati. Purtroppo, fino a oggi, il male di questo Paese è che gli italiani hanno sbagliato a votare. Ma la politica ha bisogno di essere svecchiata, di ripartire, non di incancrenirsi in interessi di bottega”.
Il pubblico applaude. Lo invoca. Ma troppo facile, è a casa sua.
Non sappiamo se la stessa platea la troverebbe da Michele Santoro. Probabilmente no. Anche pare che abbia deciso che andrà anche a Servizio Pubblico.
Insomma, Berlusconi, da come parla e come si muove, non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Giudica la pratica europee una transizione, quasi persa.
Parla di svecchiamento della politica, ma lui a mollare non ci pensa assolutamente.
Emiliano Liuzzi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 28th, 2014 Riccardo Fucile
“SI CACCIANO I POVERI”: E POI VANNO ALLA SANTIFICAZIONE DI PAPA RONCALLI
Viale Papa Giovanni XXIII è un pezzo del cuore di Bergamo: si snoda dalla stazione ferroviaria al
centro, fende i palazzi senza soluzione di continuità offrendo prospettive da cartolina su Città Alta.
È il principale collegamento con le Mura e da metà anni 60 è dedicato ad Angelo Roncalli, il pontefice che oggi sarà proclamato santo ed è tra i più importanti figli della terra orobica
La canonizzazione è sentitissima, salutata da mesi con eventi ai quattro angoli della provincia. Sotto il Monte, terra natale di papa Roncalli, ospita frotte di pellegrini e il capoluogo non ha voluto essere da meno nell’omaggio.
L’amministrazione comunale ha commissionato un monumento, l’idea era installarlo proprio lì, sul viale.
Poi le dimensioni del gruppo scultoreo (alto tre metri, largo quattro) hanno suscitato un polverone e al momento l’opera se ne sta in attesa negli studi trevigiani di Carlo Balljana, l’autore.
Passo falso da nulla, rispetto a quanto succede alla vigilia della festa con le panchine anti-clochard.
Decisa a valorizzare la prospettiva da cartolina di cui sopra, oltre a dare lustro alla via che del nuovo santo porta il nome, la giunta di centrodestra ha varato una certosina opera di recupero estetico.
Non ci si è fermati al belletto, perchè, insomma, oltre alla santificazione c’è la campagna elettorale.
Così sul viale del Papa, centrale ma collegato alla stazione meta di senzatetto, tra aiuole rinfoltite e nuova pavimentazione sono comparse le panchine modificate.
Struttura in legno, bracciolo in ferro nel mezzo, funzionalità chiara: qui ci si siede, non ci si sdraia.
Debuttano, in ossequio al bon-ton, le panche anti-clochard: la tempistica fa l’effetto del gesso sulla lavagna, stride la tolleranza zero sulla strada dedicata a un pontefice passato alla storia come il «Buono».
«Semplicemente il decoro va tutelato, ce lo chiedono i cittadini. Qualcuno aveva anche domandato di togliere del tutto le sedute, non ci è sembrato il caso: l’area è molto turistica. E le panche sono fatte per sedersi», chiosa l’assessore alla Sicurezza, Massimo Bandera.
Che è leghista, come chi s’inventò l’accorgimento.
Era il 2007, il sindaco veronese Flavio Tosi installò le panche: tuonarono le parrocchie parlando di «vessazione», attaccò l’opposizione, il comico Crozza fece recapitare in municipio una poltrona con cactus per cuscino.
Eppure le panche scaligere sono ancora lì e la politica del bracciolo scomodo fa proseliti. Anche molti anni dopo.
Il sindaco Franco Tentorio taglia corto: «È un modo per evitare bivacchi».
I competitor al voto criticano: «Sfoggio muscolare».
Ma è don Fausto Resmini, che a un passo dal viale gestisce una mensa per i poveri, a dire tutto con un’immagine: «Ho visto i paletti, ho pensato alle punte per tenere lontani i piccioni che sporcano. Qui però parliamo di esseri umani. Si cacciano i poveri, ma non è così che si risolve il problema».
Roncalli, il santo, sarebbe stato d’accordo.
Anna Gandolfi
(da “il Corriere della Sera“)
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Aprile 28th, 2014 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA DEL GEOMETRA CANTAGALLO ALLA BASE DEL PROCESSO “MARI-MONTI”: IL PAPABILE GOVERNATORE DEVE RISPONDERE DI TRUFFA E FALSO PER LA PROGETTAZIONE DELLA STATALE 81… AVREBBE FAVORITO IL GRUPPO TOTO
“Luciano D’Alfonso, in maniera entusiasta, disse che per fortuna Toto era riuscito a riprendersi l’appalto, spiegando che inizialmente l’asta se l’era aggiudicata una ditta del Nord Italia, se non ricordo male dell’Emilia-Romagna, mentre in seguito Toto era riuscito a riprendersela pagando un miliardo delle vecchie lire alla stessa ditta perchè si ritirasse, in modo tale che la Toto potesse subentrare come secondo miglior offerente”.
È il 2 settembre 2008, e il geometra Giuseppe Cantagallo rende questa testimonianza davanti alla Guardia forestale di Pescara e al Nucleo operativo dei carabinieri di Penne, Comune del Pescarese.
D’Alfonso è oggi candidato del Pd alla presidenza della Regione Abruzzo.
Cantagallo è una figura chiave del processo che ruota intorno alla progettazione e alla realizzazione della Statale 81, conosciuta come Mare-Monti: la strada fantasma bloccata dopo appena quattro mesi dall’inizio dei lavori, ma che sarebbe riuscita lo stesso a “ferire” la riserva naturale del lago di Penne.
È lui il progettista a cui venne chiesto “a parole” di occuparsi della redazione del progetto esecutivo.
Ed è lui a raccontare il rapporto disinvolto che sembra intercorrere tra l’ente pubblico Provincia e l’azienda privata Toto spa.
Il processo, che muove i primi passi, conta undici imputati, tra cui Luciano D’Alfonso che, in qualità di ex presidente della Provincia di Pescara, deve rispondere di truffa e falso.
Imputati anche Carlo, Alfonso e Paolo Toto accusati, a vario titolo, di corruzione, truffa aggravata e falso ideologico.
E poi, Fabio De Santis, ex responsabile del procedimento della strada, già finito sotto inchiesta a Firenze insieme alla cosiddetta “cricca dei Grandi appalti” del G8 della Maddalena; e il progettista Carlo Strassil, lo stesso che in una telefonata intercettata del 16 luglio 2009 rideva della ricostruzione dell’Aquila.
La prossima udienza ci sarà il 7 maggio e sarà dedicata all’ammissione delle prove.
Il Tribunale ha ammesso la richiesta delle parti civili di citare la Toto spa come responsabile civile nel procedimento.
“Con Toto ci si può parlare”. Secondo l’accusa, guidata dal pm Gennaro Varone, l’appalto è stato stravolto al fine di renderlo vantaggioso per l’impresa Toto.
È proprio Cantagallo, sentito per diverse ore dagli inquirenti, a ricostruire quella che sembra essere una regia occulta.
Il geometra riferisce di alcuni colloqui con D’Alfonso (risalenti ai primi mesi del 2001), uno di questi nell’ufficio di Lucio Marcotullio nella Brioni Roman Style di Penne. “D’Alfonso nell’occasione aveva con sè una fotocopia della Gazzetta ufficiale che pubblicava l’aggiudicazione della gara d’asta indetta per la realizzazione della Mare-Monti, che era stata definita opera di interesse nazionale….
Spiegando la cosa, D’Alfonso la commentava in maniera entusiasta dicendo testualmente, tra l’altro, ”…con Toto ci si può parlare!…è un’azienda vicina al nostro gruppo…” Ricordo bene che l’incontro avvenne prima della consegna dei lavori alla ditta Toto”.
Tra le promesse, un posto all’Anas.
È nell’aprile del 1999 che la Provincia dà a Cantagallo 30 milioni di lire con due bonifici, per la redazione dei rilievi topografici. Ma le spese da anticipare sono tante e il geometra non ci sta.
“Sono tornato a Pescara da D’Alfonso e gli ho chiesto un ulteriore acconto; questi mi rassicurò dicendo che mi avrebbe fatto prendere altri 30 milioni, ribadendo anche le promesse di una mia assunzione all’Anas e di lavori da parte dell’Anas stessa… Dopo quest’ultimo incontro avuto con D’Alfonso a Pescara”, continua Cantagallo, “quest’ultimo ha sempre evitato di incontrarmi e all’epoca non riuscivo a spiegarmene il motivo, mentre in seguito sono giunto alla conclusione che forse lui si aspettava di ricevere da me parte dei soldi erogatimi dalla Provincia. Ad essere sinceri, se lo avessi intuito prima, considerato il mio stato di bisogno dell’epoca, con una famiglia da sostenere con tre figli all’università , probabilmente avrei anche acconsentito”.
Filo diretto con Toto.
A maggio del 1999, Cantagallo era alle prese con la redazione dell’elenco prezzi necessario per la redazione del computo metrico, e aveva dei dubbi.
“Poichè Luciano D’Alfonso mi aveva detto di procedere celermente”, racconta il teste, “lo contattai rappresentando le mie difficoltà nella redazione di detto elenco; lui mi invitò, per risolvere il problema, a contattare un certo Rapposelli, comunicandomi il telefono dell’ufficio dello stesso. Preciso che il D’Alfonso si limitò a dirmi che era un geometra, senza specificare altro. Non so se ho ancora il numero di telefono, ma quando chiamai quel numero scoprii che era quello della Toto Spa di Pescara”.
La strada nella riserva per risparmiare.
La variante alla Mare-Monti che entra nella riserva naturale, secondo Cantagallo, “serviva sicuramente per recuperare il ribasso d’asta”. Proprio per quanto riguarda la variante al progetto, Cantagallo parla di un incontro che gli sarebbe stato preannunciato telefonicamente dallo stesso D’Alfonso, all’inizio dell’estate del 2001.
Alla riunione, dice il progettista, era presente anche Carlo Toto “che mi venne presentato in quell’occasione, tant’è vero che Fornarola (ndr allora sindaco di Penne) gli chiese di darmi un lavoro, ma questi disse che se ne sarebbe riparlato in seguito”.
Il racconto prosegue: “Entrando in ufficio, notai aperta una planimetria sulla quale era già stata tracciata una variante alla Mare-Monti che sicuramente aveva portato Carlo Toto, che prevedeva una sostanziale modifica del tracciato con l’inserimento di un viadotto”.
Melissa Di Sano
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 28th, 2014 Riccardo Fucile
I DUE SANTI
Dinanzi ad una folla sterminata, composta e commossa, papa Francesco eleva alla gloria degli
altari Angelo Roncalli e Karol Wojtyla.
“Uomini coraggiosi”, li chiama. Sottolineando l’autenticità del loro parlare e credere, riconducendo le loro diversità nel solco della testimonianza appassionata che ognuno è riuscito a dare.
È la giornata dei quattro papi, evento straordinario per la Chiesa. Lo spirito dei romani, impassibile dinanzi a qualsiasi inedito della storia, twitta ironicamente: “Oggi a Roma più papi che linee della metropolitana”.
Quattro papi all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, ma la giornata non diventa l’esaltazione del papato.
Una regia precisa, voluta da Francesco, imprime al rito di massa il sigillo della sobrietà , della non-retorica.
Non si sentono urla entusiaste, non si sentono slogan ritmati. La passione per Giovanni Paolo II che anima larga parte della platea, stretta fra il colonnato del Bernini e che si prolunga fino a Castel Sant’Angelo in una fiumana di fedeli di ogni nazione, non esplode in manifestazioni di tifo.
Francesco ha voluto una celebrazione che sia una messa, non una parata trionfale, e il filo del suo discorso è lontano da ogni apologia del ruolo papale.
Centro e capo della Chiesa — fa intendere nella sua predica — è il Cristo con le sue “piaghe”.
Gli uomini, anche i papi, valgono in quanto sono capaci di confrontarsi con le ferite del Cristo e di “vedere in ogni persona sofferente Gesù”. È uno spostamento di accento, che demitizza le figure papali ed era già presente nel discorso di addio di Benedetto XVI, quando accennò che chi guida la Chiesa non è il pontefice, ma Cristo. Impressionante, ancora una volta, è la lunga preghiera silenziosa praticata in piazza San Pietro da centinaia di migliaia di persone seguendo Francesco.
È una giornata particolare questo 27 aprile 2014. Punto di arrivo e di partenza per la Chiesa cattolica. Giovanni XXIII, così spesso sabotato in vita, riceve il massimo riconoscimento che le forze ecclesiastiche conservatrici vollero negargli, impedendo che fosse acclamato santo al termine del Concilio.
E vengono finalmente soddisfatti tutti coloro — polacchi in testa — che reclamarono la santificazione di Giovanni Paolo II già durante il suo funerale.
I polacchi rappresentano la massa d’urto dei pellegrini stranieri giunti a Roma. Per loro Wojtyla è un eroe nazionale. Un grande sovrano, simbolo di religione e di patria. Bandiere e striscioni polacchi straripano in piazza rispetto ai vessilli di altri paesi.
Ma non sfugge che la folla in questa occasione è calata a confronto con giornate passate. Il primo maggio 2011, quando fu beatificato Wojtyla, i pellegrini erano un milione. Tra il 4 e il 7 aprile 2005, quando una massa infinita di fedeli e uomini e donne di ogni religione e visione del mondo si mise in file per via della Conciliazione per entrare in basilica e dare un ultimo saluto a Karol, i partecipanti erano tre milioni. Questa volta sono mezzo milione intorno a San Pietro e altri trecentomila sparsi nelle piazza romane davanti ai teleschermi.
Per tutti, però, è un’esperienza indimenticabile, a cui — ripetono — “dovevano prendere parte” . Molti arrivano in piazza san Pietro già con le valige, pronti per partire dopo la cerimonia. Molti hanno bivaccato la notte alla bell’e meglio per poter conquistare i posti più vicini al sagrato. Molti hanno pregato nella veglia notturna organizzata nelle chiese romane.
È una giornata particolare, perchè di fronte a due miliardi di telespettatori (tanti ne calcola il Vaticano sul pianeta) Francesco ha invitato Benedetto XVI a prendere parte al rito e va ad abbracciarlo due volte, all’inizio e alla fine.
Ratzinger, il viso più disteso e rasserenato rispetto ai mesi scorsi, è arrivato per primo sul sagrato. Tutto bianco nei paramenti e con una grande mitria vescovile bianca in testa. Resta il simbolo di una dedizione assoluta alla Chiesa.
E Francesco, portandolo sotto la luce dei riflettori mondiali, lancia il messaggio che la cattolicità dovrà abituarsi a vedere pontefici in pensione. Forse tra dieci anni sà rà lui — Bergoglio — al medesimo posto, seduto in prima fila accanto all’altare.
L’omelia di Francesco concede poco agli elogi e all’illustrazione delle biografie, è misurata, non c’è spazio per improvvisazioni.
Il papa argentino legge il testo con il volto grave. Se accenna a Roncalli e Wojtyla è per illustrare l’immagine di Chiesa, che sta proponendo da un anno: “testimonianza della bontà di Dio e della sua misericordia”. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, dice, hanno conosciuto le tragedie del Novecento, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte in loro era Dio, era la fede in Cristo Redentore, “più forte in loro era la misericordia di Dio”.
L’essenziale del Vangelo, insiste Francesco, senza paura di ripetersi, è l’amore, la misericordia, in semplicità e fraternità . E qui si è avvertito che il papa argentino si stava rivolgendo con insistenza alla Chiesa, alla Curia, agli episcopati, al clero, ai credenti di oggi. Il Concilio, ha spiegato, è servito per riportare la Chiesa alla sua “fisionomia originaria”.
Diseguale, nella sua breve omelia, è stata la descrizione dei due pontefici.
Francesco è parso più vicino a Giovanni XXIII, definito “docile allo Spirito Santo”, guida-guidata dallo Spirito. Wojtyla è stato definito il “Papa della famiglia”. Appellativo giusto, vista l’insistenza con cui ha trattato i temi familiari, ma limitato se si guarda all’ampiezza del suo pontificato.
Marco Politi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 28th, 2014 Riccardo Fucile
LA VEGLIA SUI SAMPIETRINI
Un sacerdote con il breviario, capelli corti, tonaca nera, attraversa una viuzza con i sampietrini malfatti, che ancora non sono le cinque, o forse le quattro. Ha il passo agitato. Ha la fretta di chi s’è segnato un appuntamento da anni e adesso rischia di fare tardi e lo spaventa — l’incedere lo testimonia — la figuraccia che non contempla perdono.
Questa sagoma con il colletto bianco sparisce appena supera le prime statue di ponte Sant’Angelo, per una notte sorvegliate da migliaia di pellegrini, migliaia di coperte, sacchi a pelo, indumenti caldi, che soltanto qualche ora prima, che ancora la notte era fresca, cantavano e ballavano per ingannare la fatica e l’attesa.
Anche senza il sostegno coreografico di una ventina di pastori peruviani che saltavano, battevano le mani e incitavano la folla, e pure quelli che sfidavano il Tevere e bivaccavano ai suoi margini, ignari dei ratti famelici pronti a depredare le provviste.
Una suora col giornale, sdegnata per il vano contributo di tre consorelle, alza la mano con una bottiglietta d’acqua: “Me la apri, per favore? Grazie, questo è un gesto di carità ”.
La suora sfoglia le pagine con timidezza per non fare rumore, per non svegliare una distesa di uomini e donne, tanti ragazzi, che non mollano il posto davanti a un maxischermo ancora spento, ora che sono le cinque esatte, e che presto farà vedere immagini di repertorio.
Un gruppo di amici libanesi, ventenni, punta un varco accessibile fra le mura di Castel Sant’Angelo e il tratto pedonale di lungotevere, che agenti presidiano percorrendo cento metri avanti e indietro senza sosta.
In quel momento, che le cinque sono passate da un po’, un conforto di aurora lo suggerisce, la polizia sta per smantellare le barricate intorno a piazza San Pietro per far entrare i fedeli e sottoporre le carovane ai controlli.
Il gruppo di amici libanesi ha ciccato quel momento, e così avanza a rilento fra i pellegrini che sbadigliano. Uno di loro imbraccia una bandiera libanese, più che altro uno striscione con i colori bianco e rossi e il cedro verde nè chiaro nè scuro, e comincia a intonare una Ave Maria, piano, lento, poi forte, ancora più possente.
Un signore africano rinuncia, non ha voce per cantare e non ha la tempra per seguire i libanesi e allora, cordiale, s’avvicina a un signore italiano che picchetta un quadrato di sampietrini dove c’è spazio per una sediolina pieghevole e, magari, per allungare le gambe.
Il signore africano chiede ospitalità al signore italiano che rivendica il possesso di un amico, che non s’intravede (eppure sono quasi le sei), di quel pezzetto di territorio conquistato con estrema accortezza: “à‰ occupato”.
I volontari non fanno neanche in tempo a dividere via della Conciliazione in due settori, per motivi di sicurezza, che i drappelli polacchi e i ritratti di Wojtyla già troneggiano ovunque e spediscono in minoranza i francesi, gli spagnoli, gli argentini, gli africani, gli asiatici ben rappresentati dai filippini, che con apprezzabile educazione non spingono mai chi li precede e camminano con un’attenzione che sfiora l’apprensione.
Non sono neanche le sei e venti — gli ambulanti già vendono il drappo vaticano a un euro, roba di plastica — che Piazza San Pietro sta per essere circondata: comitive munite di ombrelli e cartelli affluiscono da qualsiasi angolo, non possono indugiare, non c’è spazio per tutti.
E i varchi nascosti dal colonnato (con poliziotti ben visibili) sono l’ultimo ostacolo. La gente protesta con sempre maggiore fastidio, urla “vergogna, vergogna” e in tanti si sentono male perchè la calca è insopportabile e molti, per evitare il peggio, sono costretti a scavalcare le (basse) recinzioni di ferro.
La scalinata di San Pietro è un giardino di fiori, piante e decori. Il tempo sta per scadere, che le otto sono ormai dimenticate.
Ma una compagnia di adolescenti spagnoli s’è arresa a una spietata evidenza, e le fermate di metropolitana chiuse lo certificano: queste piazze (e pure questo articolo) non possono contenere 800.000 pellegrini che vogliono assistere a una domenica con quattro papi, e neanche il coraggio dei polacchi che hanno guadato la Mitteleuropa con macchine scassate.
Gli spagnoli anticipano Francesco e recitano la messa assieme a un sacerdote con un microfono, c’è anche un uomo tanto paziente che regge un altoparlante, ma i ragazzi preferiscono la cuffia.
La celebrazione comincia prima che siano le dieci come previsto. Comincia prima che Francesco proclami santi Roncalli e Wojtyla.
In questi giorni, forse, gli orologi non servivano.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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