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RENZI COPIA LE RICETTE DELLA BANCA JP MORGAN: PIÙ RIGORE E MENO SOCIALISMO

Agosto 19th, 2014 Riccardo Fucile

SMONTARE LA COSTITUZIONE, ASSERVIRE IL PARLAMENTO AL GOVERNO, GIUSTIZIA E BUROCRAZIA ASSERVITE ALL’ECONOMIA: ECCO COSA SCRIVEVANO GLI ANALISTI NEL RAPPORTO DEL 2013

Alla fine del maggio dello scorso anno un report di Jp Morgan, banca d’affari statunitense, fotografava la crisi economica europea e segnalava la necessità  di riforme strutturali.
Anche riguardo alle Costituzioni nate in seguito alla caduta dei fascismi.
Il documento, in 16 pagine, si sofferma anche sulla situazione italiana ed è divenuto parte del dibattito politico nazionale.
Eccone un’ampia sintesi.

La gestione della crisi nell’Eurozona ha due aspetti: la creazione di nuove istituzioni e la soluzione dei problemi nazionali che hanno afflitto il cammino dell’euro fin dall’inizio.
A questo proposito bisogna tener presente che secondo la Germania — il Paese che più di ogni altro determina in che modo viene gestita la crisi — i problemi nazionali vanno risolti dalle singole nazioni prima di procedere a ulteriori passi sulla strada dell’integrazione”.

Si è pertanto creato un quadro disomogeneo. In alcune zone sono stati compiuti progressi notevoli, mentre in altre il processo di aggiustamento è a malapena iniziato. Nell’insieme possiamo affermare che il processo di aggiustamento si trova grosso modo a metà  del suo cammino.
O ci pensa la Bce o tocca alle periferie    
“Questo approccio alla gestione della crisi ha avuto un impatto enorme sulla macroeconomia deprimendone il rendimento e incrementando il livello di dispersione”.
Certo è che l’Eurozona non è in grado di sopportare altri tre anni come gli ultimi tre.
“Secondo il nostro giudizio si tornerà  a crescere senza abbandonare il necessario processo di aggiustamento”.    
“Ma senza un molto più energico intervento della Bce, la crescita rimarrà  modesta e l’Eurozona resterà  esposta agli choc dei mercati. A un certo punto però le cose cambieranno. Ciò potrebbe accadere in due modi: o a seguito del riuscito processo di aggiustamento a livello nazionale, oppure a causa di forti pressioni politiche e sociali a livello periferico”.    
Il dato di fondo della gestione della crisi negli ultimi tre anni va individuato nella convinzione che i problemi strutturali nazionali andassero affrontati a livello nazionale prima che la regione tentasse di accelerare il processo di integrazione.
“Prima ancora del salvataggio di Cipro, i Paesi dell’Eurozona hanno dovuto sopportare il peso della ricapitalizzazione delle banche e delle riforme strutturali. La crisi cipriota non ha fatto che rafforzare la convinzione secondo cui i problemi nazionali andassero affrontati a livello nazionale. La Germania ha sempre pensato che un intervento “ex ante” non avrebbe avuto altro effetto se non quello di rendere meno probabili gli aggiustamenti “ex post”.
Per adottare questo approccio era necessaria una liquidità  sufficiente a fronteggiare i terremoti dei mercati. Per questo la Bce si impegnò a sostenere le banche.
Spagna, Italia, Germania   e le riforme da fare    
Ma questo approccio divenne problematico quando le tensioni dei mercati colpirono la Spagna e l’Italia nel 2011, Paesi troppo grandi per poter essere aiutati con semplici iniezioni di liquidità .
“Le Operazioni monetarie definitive (OMT) furono lo strumento attraverso il quale la Bce permise alla Germania di continuare a imporre una gestione della crisi di suo gradimento”.  
“All’inizio della crisi si pensò che i problemi strutturali nazionali fossero in larga misura di natura economica: eccessivi costi bancari, non adeguato allineamento del tasso di cambio interno reale e rigidità  strutturali. Ma col tempo apparve chiaro che pesavano molto anche i problemi di natura politica. Le Costituzioni e gli ordinamenti creati nella periferia meridionale dell’Europa dopo la caduta del fascismo, hanno caratteristiche che vanno cambiate se si vuole proseguire sul cammino dell’integrazione. Quando la Germania parla di un decennio per il processo di aggiustamento, ovviamente pensa sia alla riforma economica sia a quella politica”.  
La natura della gestione della crisi ha avuto un impatto enorme sul paesaggio macroeconomico.
L’impatto maggiore è stato a carico della crescita regionale con l’effetto, tra l’altro, di accrescere le tensioni politiche.
L’interrogativo è se la macroeconomia può far registrare miglioramenti anche senza modificare la gestione della crisi. A nostro giudizio la risposta è: sì, ma solo in misura limitata.
Banca centrale e Stati   Arriva la pagella    
Cruciale sarà  il comportamento della Bce. Negli ultimi mesi la Bce è apparsa incline a tollerare maggiormente le debolezze economiche. Quanto più la risposta della Bce sarà  limitata, tanto più si allontanerà  l’obiettivo dell’aggiustamento.
“La necessità  di affrontare i problemi nazionali a livello nazionale crea l’immagine del viaggio. I viaggi e le destinazioni variano da Paese a Paese.
Ma a che punto siamo del viaggio?     1) Aggiustamento del tasso di cambio reale: problema risolto per alcuni Paesi.     2) Riduzione del livello di indebitamento delle istituzioni finanziarie: a metà  del cammino.     3) Riduzione del livello di indebitamento delle famiglie in Spagna: ad un quarto del cammino.     4) Riduzione del livello di indebitamento delle banche: diffiuna risposta a causa delle profonde differenze tra Paesi e banche, ma le grandi banche hanno fatto progressi.     5) Riforma strutturale: difficile a dirsi, ma si segnalano progressi.     6) Riforma politica:     praticamente nemmeno avviata”.    
Quanto alla riduzione del debito sovrano, il Fiscal Compact impone due obiettivi di medio periodo: i Paesi con un debito eccedente il 60% del PIL debbono rientrare al di sotto di questa soglia entro venti anni; per gli altri Paesi l’obiettivo è non superare un deficit annuo dello 0,5%.
Famiglie indebitate e banche troppo fragili    
Per ciò che riguarda l’indebitamento delle famiglie la situazione varia molto da Paese a Paese. Questo problema colpisce in modo particolare Spagna e Irlanda. Meno chiaro è l’eventuale impatto sul Pil della riduzione del livello di indebitamento delle famiglie.
“Gli obiettivi per il sistema bancario nel suo complesso sono stati fissati dalla Bce e concernono il ritorno a più sostenibili rapporti tra capitale ed esposizioni e tra prestiti e depositi”.
Il rapporto prestiti-depositi rimane tuttora ben al di sopra del 120% in Italia,Spagna,PortogalloeIrlanda, Paesi nei quali il sistema bancario permane fragile ed esposto alle scosse del mercato e all’andamento della crisi economica nel suo complesso.
Lavoro e burocrazia   mali italici    
“Indicare con chiarezza un percorso per la riforma strutturale è molto difficile. Va misurata la situazione strutturale dell’economia ed è necessario individuare ciò che va cambiato e in quale misura va cambiato”. (…)
“In linea generale ci sono tre modi per valutare lo stato di salute dell’economia da una prospettiva strutturale. Il primo consiste nel prendere in esame gli indicatori quali la disoccupazione di lungo periodo e le rigidità  del sistema. Il secondo consiste nel valutare gli indicatori quantitativi quali quelli forniti dal Fraser Institute, dalla Banca Mondiale e dall’Ocse. Il terzo consiste nel tentare di misurare la percezione dei cittadini rispetto all’andamento dell’economia, cosa che ha fatto il World Economic Forum.
Il problema è che da questi indicatori non emerge necessariamente un quadro omogeneo.
Uno dei modi per sintetizzare i dati consiste nel creare una media ponderata dei vari indicatori. (…)
Osservando i dati vediamo che l’Olanda è il Paese nelle migliori condizioni di salute da un punto di vista strutturale, seguita a breve distanza da Finlandia e Irlanda. In fondo alla classifica troviamo Portogallo, Italia e Grecia.    
Esaminando in particolare il caso dell’Italia emerge che le riforme del 2012 rappresentano un progresso, ma che c’è ancora molto da fare.
“Tuttavia va considerato che per migliorare la situazione strutturale dell’economia,l’Italia non può limitarsi ad approvare nuove leggi, ma deve profondamente modificare la burocrazia e la giustizia. Questa realtà  si evince dal rapporto tra misure quantitative (leggi a tutela del lavoro e normativa a disciplina del mercato) e percezione sullo stato di salute dell’economia. L’Italia non sarebbe in termini quantitativi molto lontana dalla media dei Paesi dell’Eurozona, ma la percezione per quanto concerne il commercio e il mercato del lavoro è molto lontana da un livello accettabile. Da questo si deduce che il problema riguarda più l’interpretazione delle leggi da parte della complessa burocrazia pubblica e del sistema giudiziario che le leggi in quanto tali”. (…)    
La riforma e le Costituzioni     troppo “socialiste”    
C’è infine la questione della riforma del sistema politico.
“Come già  detto, con l’evolversi della crisi si è sempre più compreso che il problema non era solo economico, ma anche politico, in modo particolare in alcune aree dell’Eurozona”.
“Gli ordinamenti costituzionali dei Paesi periferici dell’Eurozona sono stati approvati all’indomani della caduta di regimi dittatoriali e condizionati da questa esperienza. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista a testimonianza della forza politica della sinistra in quel periodo della storia. Questi sistemi politici evidenziano in genere le seguenti caratteristiche:esecutivideboli,debolezza del governo centrale rispetto alle autonomie regionali, tutela costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi di costruzione del consenso tali da alimentare il clientelismo.
Questi Paesi non sono riusciti — se non in parte — a realizzare riforme economiche incisive a causa dei limiti costituzionali (Portogallo), del prevalere delle autonomie locali (Spagna) e dell’emergere di partiti populisti (Italia e Grecia)”.    

Il problema preoccupa tanto i Paesi periferici quanto l’Unione europea nel suo complesso. Si cominciano a intravedere alcuni cambiamenti.
La Spagna ad esempio si è mossa approvando misure idonee a introdurre un maggiore controllo finanziario sui centri di spesa periferici.
Ma, al di fuori della Spagna, si è fatto poco o nulla.
Il banco di prova sarà  il comportamento nell’anno prossimo dell’Italia e del suo nuovo governo che si è detto deciso a riformare il sistema politico.

Traduzione curata     da Carlo Antonio Biscotto
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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BOSSI: “SI’, LA LEGA MI PAGA LO STAFF”, RETROMARCIA DI SALVINI: “NON CI COSTITUIREMO PARTE CIVILE”

Agosto 19th, 2014 Riccardo Fucile

CONFERMATO L’ATTO DI CITAZIONE DELL’AVVOCATO DI BOSSI: “MI DEVONO SEI MILIONI DI EURO”… ORA SI CERCA DI ADDOSSARE TUTTA LA COLPA A BRIGANDI’

«Tra me e Umberto ci sono rapporti ottimi e trasparenti, non abbiamo tempo da perdere in beghe di partito», taglia corto Matteo Salvini a proposito dell’ultima rissa scoppiata nella Lega.
Con Bossi, come rivelato ieri da Repubblica, che attraverso il suo avvocato Matteo Brigandì vuole trascinare in tribunale il nuovo segretario, intenzionato a tagliare drasticamente i fondi messi a disposizione del vecchio leader e attinti dalle casse del movimento.
È tutto nero su bianco, lo racconta l’atto di citazione depositato al tribunale di Milano da Brigandì contro Salvini.
Il quale adesso smentisce con forza la circostanza che da quel documento traspare e cioè che la Lega si costituirà  parte civile contro il suo fondatore e i due figli Renzo e Riccardo, destinatari di buona parte di quei fondi sottratti al partito: «Non lo faremo », assicura Salvini, mentre i legali del Carroccio, in primis l’avvocato Domenico Aiello (quello del governatore Bobo Maroni) precisano che la costituzione di parte civile verrà  chiesta solo contro l’ex tesoriere Francesco Belsito e altri cinque imputati nel processo sulle irregolarità  nella gestione dei fondi, in cui si ipotizza una truffa ai danni dello Stato di circa 40 milioni
Ieri, dopo le rivelazioni di Repubblica , Salvini e Bossi si sono sentiti al telefono.
Per concordare la linea, che è quella di scaricare tutte le responsabilità  su Brigandì, furioso perchè la Lega non gli corrisponde i sei milioni arretrati di parcelle.
Il primo ha chiesto al secondo: «Umberto, che cos’è questa roba?». «Io non ne so niente», è stata la risposta del vecchio leader.
Che qualche ora dopo, intercettato sull’uscio di casa nella sua Gemonio, ha offerto ai cronisti la sua versione: «Se c’è qualcosa ha fatto tutto Brigandì».
Bossi nega pure di aver deciso di citare in giudizio il segretario della Lega per non veder sfumare i soldi che il partito, considerata la sua malattia, gli passa per garantirgli “l’agibilità  politica”(prima 900mila euro l’anno, poi ridotti a 450mila dopo un accordo privato che successivamente però è stato messo in discussione).
Quando gli chiedono se davvero la “sua” Lega gli negherà  quel sostanzioso contributo, Bossi risponde così: «Questo non l’ho sentito, siete voi i primi a dirmelo »
In ogni caso, «la Lega non dà  un contributo a me, ma paga alcuni uomini, tra cui quelli che mi fanno da autisti».
E la scrittura privata del 26 febbraio scorso, quella firmata da Bossi, il tesoriere Stefani, Brigandì e Salvini, e con la quale si garantisce all’Umberto che la Lega non si costituirà  parte civile contro di lui?
«Se c’è qualcosa — insite il Senatùr — l’ha fatto Brigandì».
Con Salvini son rose e fiori, almeno questo è il messaggio da trasmettere: «Di lui mi fido, se litigassimo vorrebbe dire favorire Roma, che ha fatto di tutto per distruggere la Lega: io mica abbocco alle trappole romane».
Segue una postilla, quasi una conferma del grande gelo sceso tra il vecchio e il nuovo segretario: di Salvini Bossi si fida, anche se, precisa l’uomo di Gemonio, «non aveva ancora detto ufficialmente di non volersi costituire parte lesa».
Ieri l’ha detto, chissà  se basterà  a chiudere l’incidente.
E in serata arriva la presa di posizione di un altro big del movimento, Roberto Calderoli: «È completamente falso che ci sia un’azione giudiziaria da parte di Bossi nei confronti della Lega, così come una mancanza di rispetto della Lega nei confronti del suo presidente ».
E la citazione per danni? Anche Calderoli addossa tutta la colpa a Brigandì: «L’iniziativa è stata opera di un singolo per motivi professionali che nulla hanno a che fare con Bossi: la Lega è unita, e uniti si vince».

Rodolfo Sala
(da “La Repubblica”)

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STANARE L’EVASORE, NON TARTASSARE SOLO I REDDITI FISSI

Agosto 19th, 2014 Riccardo Fucile

LA PROPOSTA DI TASSARE LE PENSIONI SOPRA I 2.000 EURO PRODURREBBE SOLO 3-4 MILIARDI ALLO STATO… MA DI RECUPERARE I 120 MILIARDI L’ANNO DI EVASIONE FISCALE RENZI NON PARLA

Ci risiamo. Dopo ferragosto, come da migliore tradizione meteorologica, si rompono i tempi della politica economica del governo, fin qui una bonaccia anche un po’ troppo prolungata.
E si annuncia grandine, se non tempesta. E, come da copione, la tempesta dirige sul ceto medio a reddito fisso.
Dopo anni di blocchi degli stipendi a partire dal 2010, una patrimoniale criptata sulla casa, il tetto ai massimi stipendi della Pubblica amministrazione (unico punto su cui in verità  c’erano solide ragioni per intervenire), erratici contributi di solidarietà  sui redditi più alti, magari smentiti dalla Corte costituzionale, adesso tocca alle pensioni.
Non quelle davvero d’oro e d’argento, che magari anche ci sta (ma per l’Erario sarebbe parvità  di materia), ma quelle che superano i 3.500 euro lordi: che al netto sono prossime a 2mila euro.
La misura, pare patrocinata dal consigliere economico del premier Yoram Gutgeld, potrebbe (questa sì) quantificarsi in tre o quattro miliardi di euro, da spalmare sui meno abbienti e magari rifinanziare pro quota gli 80 euro mensili, che aspettano di essere confermati per almeno tre anni e che faranno vedere i loro effetti a quanto pare solo tra due.
Ora, può darsi che l’abolizione del Senato, non ancora abolito, serva a sveltire il Paese e magari a concorrere a rimetterlo in moto.
Abbiamo fieri dubbi però che analoga speranza si possa nutrire per l’abolizione del ceto medio a reddito fisso.
Perchè di questo, con la paventata misura del contributo di solidarietà  sulle pensioni, più volgarmente tassa, si tratterebbe.
Tra misure di questo tipo e progetti di abbassamento dell’età  pensionabile per recuperare dal differenziale di risparmio di un dipendente che va in pensione qualche risorsa da portare su qualche nuovo assunto, la strategia di fondo con cui il nostro Paese vuole affrontare la stagnazione sembra essere sostanzialmente una redistribuzione egalitaria del reddito fisso disponibile in sostituzione di un welfare senza mezzi e di un lavoro che non c’è.
Una sorta di appiattimento socialista del reddito da lavoro dipendente o da pensioni, dove lo schema è abbattere lo spread tra incapienti, redditi più bassi e redditi con qualche capienza, facendo pagare a questi ultimi il costo della redistribuzione, in attesa che l’economia si rimetta in moto e il Pil torni a crescere.
Non c’è bisogno di essere un esperto per capire che una strategia di questo tipo, fondamentalmente depressiva, farebbe sedere il Paese ancora di più di quanto già  non sia seduto su sè stesso.
Nell’incapacità  di tosare la pecora del capitalismo, quello vero, si spellano, se non si ammazzano, gli agnelli del ceto medio.
Credo sia difficile, con ogni buona volontà , che essi accettino di fare, come i senatori, i tacchini di Natale, anche perchè è difficile tacciarli di essere tra i frenatori del Paese. Per un governo, peraltro di sinistra, non sarebbe piuttosto auspicabile che anzichè tassare il ceto medio a reddito fisso si affronti finalmente con risolutezza il problema di far pagare tasse da ceto medio a reddito fisso al ceto medio (e più che medio) sommerso dell’evasione fiscale?
Quello, in sostanza, che non ha tolto una o due settimane dalle due o tre di ferie che faceva come invece hanno fatto i dipendenti e i pensionati, già  fin qui troppo individuati come” redditi alti” e purtroppo certi, certissimi, cui ricorrere.
Per competenza giriamo la domanda al pool di economisti che quotidianamente consigliano il premier.

Eugenio Mazzarella
(da “il Messaggero”)

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GRILLO E QUELLA INSANA PASSIONE PER GLI AUTOGOL

Agosto 19th, 2014 Riccardo Fucile

NON C’E’ PIU’ TEMPO PER IL TAFAZZISMO E IL CAZZEGGIO, LE URGENZE DEL PAESE SONO ALTRE

È più forte di lui, ogni tanto Beppe Grillo deve farsi male da solo.
L’ultimo caso è l’avvincentissimo sondaggio sul “Giornalista dell’anno 2014”. Che senso aveva farlo? Nessuno.
Il sondaggio, vinto con 3.822 voti su 16.260 da Giuliano Ferrara (Premio Stercorario 2014), è una sorta di greatest hits della rubrica “Giornalista del giorno”, che a sua volta ha generato gli spin-off “Vignettista del giorno” e “Blogger del giorno”: spesso ci sono finiti disegnatori e blogger di questo giornale, notoriamente house organ del Movimento 5 Stelle.
Grillo dirà  che è una goliardata, e certo le cose gravi in Italia sono altre.
Ma proprio di questo dovrebbe parlare, magari sottolineando come perfino Delrio abbia dovuto ammettere che gli 80 euro erano poco più che una sòla, o rivendicando come il M5S avesse ragione quando avvertiva che la ripresa tanto millantata dal governo Renzi fosse lungi dal verificarsi.
Invece no: Grillo trova urgente lanciare il Premio Stercorario.
Da sempre il suo blog alterna articoli stimolanti (per esempio i contributi di Aldo Giannuli) e controinformazione meritoria a sfoghi ridicoli di yesmen ottusi e articolesse bolse dei primi Becchi che passano.
Giornali e tivù, quasi sempre, rilanciano solo ciò che, ancor più se estrapolato arbitrariamente, può mettere i “grillini” in cattiva luce: un alibi innegabile per Grillo, ma qualcosa non torna.
In primo luogo, agli italiani interessa poco di quel che scrive un giornalista. Al di là  di qualche caso sporadico, i giornalisti sono emeriti sconosciuti.
Nel momento in cui Grillo li espone al pubblico ludibrio, non solo li rende martiri (regalando ai detrattori ulteriori argomenti per la mitraglia) ma li toglie pure dall’oblio.
Tra i nominati ci sono figure che godono a essere odiate (Ferrara, Giordano, Sallusti), persone nel frattempo scomparse (Federico Orlando) e una galassia di oscuri carneadi. Chi è Tony Jop? Chi è Michele De Salvo? Chi lo ha mai letto Stefano Menichini? Nessuno, e infatti i giornali su cui firmavano son tutti morti per mancanza di masochismo (cioè di lettori disposti a leggerli).
Grillo ha regalato scampoli di celebrità  a firme che, spesso, neanche vengono riconosciute quando entrano in casa loro. Figuriamoci dagli italiani.
Il secondo punto debole risiede nella sensazione sgradevole che provoca quella rubrica: spesso Grillo si è limitato a pubblicare stralci fedeli degli articoli sgraditi, senza commenti ulteriori (se non dei lettori del blog, e non erano missive d’amore).
E molti di quegli articoli, in effetti, facevano abbastanza pietà .
Era però nel loro diritto: Repubblica , Huffington Post o L’Unità  (che nel frattempo ha chiuso i battenti) hanno tutto il diritto di criticare ferocemente il Movimento 5 Stelle. Sono giornali vicini al Pd, spesso gli dettano la linea (e vanno capiti: se aspettano Renzi, buonanotte).
E Grillo e Casaleggio tutto sono fuorchè infallibili. Sta poi al lettore capire chi scrive il giusto e chi no.
Grillo ha fatto un calderone indistinto, al cui interno ci sono mediani del potere e talenti autentici.
Per esempio, e non è l’unico in quella lista, Michele Serra. Grillo lo conosce bene. Un tempo erano amici e adesso no.
Lamentare la pochezza di Pigi Battista è come dire che l’acqua è bagnata: una banalità . Attaccare Serra perchè oggi è renziano e forse (anzi sicuramente) ai tempi di Cuore non lo sarebbe stato neanche sotto tortura, è una reazione infantile.
Grillo e Casaleggio, a questo punto, direbbero che nessuno come i 5 Stelle è stato massacrato a prescindere nella Seconda Repubblica.
Hanno ragione, e la semplificazione vile (“Di Battista sta coi terroristi”) di un lungo post criticabile ma certo non “terroristico” (“Non sto nè giustificando nè approvando, lungi da me. Sto provando a capire”) è solo l’ennesimo caso di un giornalismo che ai 5 Stelle fa le pulci e ai renziani perdona tutto.
Eppure i casi politicamente disperati, da quelle parti, non sembrano mancare: basta pensare alle Boschi, alle Bonafè, alle Picierno.
Tutto vero, ma non è abbastanza per lanciare quel sondaggio. Non serve a niente e non frega a nessuno.
E poi c’è il terzo punto. Il più importante.
Ora che quasi tutti i media incensano il “Pacioccone” Mannaro Renzi; ora che l’Europa comincia a rendersi conto che l’unica differenza tra lui e Berlusconi è che il primo ascolta gli U2 e il secondo Apicella; ora che i soli a fare opposizione e difendere la Costituzione sono i 5 Stelle: ora che tutto questo è evidente, quei nove milioni che hanno votato M5S nel febbraio 2013 — e che nel frattempo guarda caso son diminuiti — ne hanno pieni gli zebedei di questa inclinazione tafazziana.
Errori simili rischiano di vanificare tutto il lavoro fatto.
Non c’è più tempo per il cazzeggio, peraltro autolesionistico, e le urgenze — per i 5 Stelle, ma più che altro per il paese — sono davvero altre.

Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: LA PREVALENZA DEL CRETINO

Agosto 19th, 2014 Riccardo Fucile

DA UN PREMIER CHE SALI’ AL QUIRINALE CON IL NOME DI GRATTERI COME MINISTRO E SCESE LE SCALE CON QUELLO DI ORLANDO NON CI SI PUO’ ASPETTARE CHE UNA RIFORMA PATACCA

Ormai da tempo immemorabile, non appena si ventila l’ipotesi di riformare la giustizia, si varano subito norme per riformare i giudici: correnti, carriere, responsabilità  civile o disciplinare, Csm. E, non appena i detenuti superano il 150% dei posti cella, s’approntano leggi svuotacarceri per farne uscire un po’. Poi è arrivato Renzi.
E chi si è bevuto la favola del Rottamatore s’è illuso che la musica cambiasse
Per qualche minuto, non di più: il tempo di vederlo salire al Quirinale col nome di Gratteri alla Giustizia e tornare indietro con quello di Orlando.
A quel punto doveva essere chiaro a tutti che la riforma della giustizia — quella vera, che dovrebbe tagliare alla fonte il numero dei processi penali e civili, snellirne l’iter per abbreviarne la durata e punire severamente i delitti che ci hanno portati alla bancarotta — non avrebbe mai visto la luce.
Invece i boccaloni han continuato a cascarci, grazie anche alle paginate di fuffa giornalistica intitolate “Così cambierà  la Giustizia”, quando è chiaro a tutti che non cambierà  una mazza.
L’epocale Riforma, annunciata da Renzi entro e non oltre fine luglio, poi ridotta a 12 “linee guida” — una serie di pensierini da terza elementare o da letterina a Babbo Natale da discutere in Rete — è stata spostata entro e non oltre il 20 agosto (a proposito, è domani: novità ?).
E, se abortirà , non è detto che sia una disgrazia.
Intanto perchè sarebbe affidata alla classe politica più stupida e incompetente della terra.
E poi perchè soggiace al diritto di veto del noto pregiudicato, secondo il lodo Renzi che ricorda tanto il Comma 22: le riforme costituzionale ed elettorale si fanno con chi ci sta (cioè B.), mentre invece sulla giustizia bisogna ascoltare l’opposizione (cioè B.).
L’altroieri Piercamillo Davigo ha spiegato che le 12 linee guida “si occupano di cose inutili” perchè “contengono un errore di fondo: si vuole fissare ancora una volta la durata massima di un processo, anzichè cercare di ridurre il numero dei processi. Occorre disincentivare il ricorso ai tribunali. Chi ha torto deve pagare, non costringere chi ha ragione a fargli causa. Deve sapere che se finirà  davanti a un giudice e questi capirà  che ha torto, si prenderà  una condanna ancora più pesante. Non serve una rivoluzione, bisogna partire da pochi principi che avranno ricadute a lungo termine”.
Idem per le carceri: “L’Italia, rispetto agli altri Paesi europei e agli Usa, ha il numero di carcerati più basso rispetto alla popolazione, ma le carceri scoppiano. Per l’insipienza della classe politica, però, si andrà  a svuotarle di nuovo. Le soluzioni sono altre: costruire nuove carceri o limitare i reati per cui la pena si sconta in carcere”.
Nelle stesse ore Enrico Costa del Ncd rilanciava la boiata del “processo breve” (cioè della legge che ammazza i processi se non finiscono entro e non oltre la data fissata dal legislatore cretino).
E Donatella Ferranti del Pd salmodiava su Repubblica sulla necessità  di assicurare la “durata ragionevole ai processi” per “allinearci con gli altri paesi europei”.
Senza naturalmente spiegare quale ragionevole durata potrà  mai garantire un Paese dove ogni anno 8 mila magistrati si vedono piovere addosso 6-7 milioni di nuovi processi fra civili e penali, da celebrare in tre gradi di giudizio, con la collaborazione straordinaria di 250 mila avvocati che nel 2024 saranno 400 mila.
Intanto i politici cretini, a furia di varare inutili “pacchetti sicurezza” e di inventare reati assurdi tipo la clandestinità , il porto abusivo di bombolette di vernice spray e — ultimo nato — l’istigazione all’anoressia, convincevano gl’italiani che i delinquentelli di strada sono più pericolosi di bancarottieri, corrotti, corruttori, concussori, evasori fiscali e falsificatori di bilanci.
Finchè i governi erano composti da nutrite delegazioni di queste categorie criminali, si poteva capirli: sapevano quel che facevano.
Ora che non è più così, delle due l’una: o non sanno quello che fanno, oppure fanno quello che ancora non sappiamo.

Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano“)

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SUITE DA SOGNO: MILLE EURO A NOTTE, LE VACANZE IMPERIALI DI RENZI

Agosto 19th, 2014 Riccardo Fucile

STA IN UNO DEGLI HOTEL PIÙ LUSSUOSI DI FORTE DEI MARMI: MILLE EURO A NOTTE… E COI BERLUSCONES: LA VERSILIA DIVENTA LA COSTA DELL’INCIUCIO PD-FORZA ITALIA

Una Villa Imperiale. Oltretutto romana. Con suite da mille euro a notte.
Questo il buen retiro scelto da Matteo Renzi per i suoi giorni di vacanza a Forte dei Marmi.
Due suite da mille euro l’una (con un po’ di sconto sul prezzo di listino) all’Hotel Villa Roma Imperiale, uno dei più lussuosi del Forte.
Per la famiglia e la scorta. In Versilia il presidente del consiglio è arrivato dalla Sicilia sabato sera, 16 agosto, e ci resterà  tutta la settimana.
Assieme alla moglie Agnese e ai tre figli. Vita ritirata, tranquilla, blindatissima. Finora è uscito solo per andare a messa nella chiesetta della Resurrezione, per fare un giro in bicicletta e poco altro. Per il resto relax appartato. Libri e qualche partita a tennis. Con la protezione del sindaco, Umberto Buratti.
“Da noi nessuno chiede autografi o selfie e siamo sicuri che anche con Matteo sarà  così”, dice. Quindi, non vi azzardate.
Sul tavolo, secondo il suo staff, i dossier per preparare l’agenda in vista del consiglio dei ministri del 29 agosto. Ma senza mettere troppa carne al fuoco. Come gli ha suggerito Giorgio Napolitano: vai con più calma, una cosa alla volta, senza scadenze troppo strette. Pranzi in famiglia e molte telefonate.
Forse vedrà  il ministro Stefania Giannini, in vacanza in zona, per parlare della riforma della scuola. Sicuramente passerà  Luca Lotti. L’idea poi, per il fine settimana, è fare un’altra tappa in un posto “caldo”, per poi rientrare a Roma e fare il punto con Padoan e Orlando su economia e giustizia.
Questi sono luoghi familiari al premier: qui, a Viareggio, veniva a trascorrere le vacanze da ragazzino. Di queste strade Renzi conosce ogni chilometro. E l’albergo scelto, come direbbe Crozza-Briatore, è da “sciogno”. Anche se in realtà  si tratta di un quattro stelle. Sta nella parte più chic del Forte.
Dove, tra cinguettii, pini marittimi e qualche rombo di Ferrari, sorgono le ville storiche degli Agnelli, dei Moratti, dei Pirelli. Oggi affiancati dai milionari russi.
Gli unici che tengono in vita il mito del Forte un po’ decaduto: quest’anno si registra un crollo del 70 per cento. Anche perchè, di fronte alla crisi, qui nessuno pensa di abbassare i prezzi.
E per un giornaliero ombrellone e due lettini in certi stabilimenti si arriva anche a cento euro. Insomma, lusso. Ma se la gente normale si vede molto meno, in compenso, anche grazie all’inforcata di toscani al governo, in Versilia sono tornati i politici.
Così, dopo l’epopea salentina (patto del brodetto a Gallipoli D’Alema-Buttiglione, agosto 1994) e quella capalbiese (vippame radical chic capitanato dai Rutelli per tutti gli anni Novanta), il 2014 è l’anno della Versilia.
Così, se Renzi se ne sta chiuso nel suo 4 stelle, agli onori delle cronache sale Maria Elena Boschi: prima paparazzata in spiaggia a Marina di Pietrasanta e poi incrociata più volte al Forte, compresa nottata discotecara alla Capannina.
Sempre sorridente, con amici al seguito.
Immancabile, naturalmente, la coppia Sallusti-Santanchè, quest’anno al Forte si è visto anche il consigliere politico di Berlusconi, Giovanni Toti. Poi, oltre a Lotti e Giannini, avvistato in zona anche Denis Verdini. Habituè della Versilia sono pure Edoardo Fanucci (Pd), il senatore Andrea Marcucci (sempre Pd) e il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri.
Insomma, è qui, sulle spiagge della Versilia, che l’inciucio Pd-Forza Italia trova la sua coniugazione sabbiosa, tra un ghiacciolo al limone e un selfie col vip di turno beccato all’apericena al Twiga.
E se Renzi, un pomeriggio di questi, si degnasse a uscire dal suo fortino e fare due passi in spiaggia, magari proprio al Twiga di Daniela Santanchè, allora sì che l’abbraccio riformista avrebbe la sua Epifania, dopo i baci trasversali dell’ultimo giorno di lavoro a Palazzo Madama.     Perchè Renzi è “berlusconiano” anche nelle vacanze.
Hotel Villa Roma Imperiale di Forte dei Marmi. Mica l’anonimo recidence Roccamare di Castiglion della Pescaia, meta della famiglia Prodi. O l’alberghetto a Silvaplana, in Engadina, Svizzera, dove Mario Monti trascorse qualche giorno nell’agosto 2012.
Per non parlare di Enrico Letta, immortalato l’anno scorso nella casa di famiglia a Colignano, in provincia di Pisa, a giocare con moglie e figli nella piscina gonfiabile in giardino.
Dimmi dove vai in vacanza e ti dirò chi sei.

Gianluca Roselli
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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