Settembre 11th, 2015 Riccardo Fucile
E GLI HOTEL POTREBBERO TRASFORMARSI IN ESATTORI
Mentre il governo si prepara a cancellare l’imposta sulla prima casa che garantisce gettito prezioso ai comuni italiani, allo studio del governo ci sarebbe la volontà di dare una spinta a un’altra imposta: la tassa di soggiorno pagata dai turisti.
Ne scrive oggi il Corriere della Sera.
Le ipotesi sul tavolo sono ancora diverse, ma l’obiettivo è chiaro: tirar fuori più soldi da una tassa che finora non ha funzionato. Oggi è applicata in pochi Comuni, 650, neanche uno su dieci. E porta nelle casse dei sindaci 270 milioni di euro l’anno. Briciole in un’epoca di tagli. Un aumento del tetto massimo – oggi fissato a 5 euro per notte a persona, con l’eccezione di Roma che arriva fino a 7 – è tra le ipotesi sul tavolo
La via maestra che il governo vorrebbe percorrere è quella di un incentivo fiscale che spinga verso l’adozione dell’imposta anche quei comuni che oggi non la utilizzano, oltre 7 mila a fronte dei 650 che invece già ne beneficiano.
Si studia inoltre la possibilità di agganciare l’imposta non al numero delle stelle ma a al costo della Camera.
C’è poi un problema da risolvere. Negli ultimi mesi sono in aumento i casi di «evasione» della tassa di soggiorno.
In hotel l’imposta si paga separatamente dal conto. E se il cliente non la vuole saldare l’albergatore non lo può obbligare. L’idea è recuperare i soldi evasi dai turisti direttamente dall’hotel, che a quel punto avrebbe tutto l’interesse a trasformarsi in esattore per conto del Comune.
Un’idea che piace al ministero dell’Economia ma meno, molto meno, a quello dei Beni culturali.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 11th, 2015 Riccardo Fucile
LA PUGLIESE “FUNKY TOMATO” HA GIA’ VENDUTO 20.000 BOTTIGLIE… L’AZIENDA A FILIERA PARTECIPATA CHE DICE NO AL CAPORALATO E ASSUME I MIGRANTI
Esiste un’alternativa al caporalato. Può sembrare retorica, ma su mezza ettaro di terra spalmato tra Puglia e Basilicata è gia realtà .
Una chiave possibile sta nelle mani di Funky Tomato, una azienda che coltiva, raccoglie e imbottiglia pomodoro a filiera partecipata.
Opponendo al pagamento a cottimo dei lavoratori un regolare contratto. E facendosi finanziare dai propri clienti: chi crede nel progetto ha pre-acquistato i prodotti, 20mila bottiglie di salsa, pelati e pomodori a pezzi.
Il team all’origine dell’iniziativa ha i piedi ben piantati nell’agricoltura.
Paolo è agricoltore, come Gervasio, Giulia fa monitoraggio per le condizioni sanitarie dei braccianti, Mimmo è un sociologo, Enrico è un perito agrario, Giovanni è ingegnere, Mamadou è mediatore culturale, Giordano si occupa della comunicazione. Nella zona dove hanno scelto di lavorare e in altre del sud Italia, la filiera del pomodoro coinvolge migliaia di agricoltori e un centinaio di stabilimenti di trasformazione, per un giro d’affari annuo compreso tra 1,5 e 2 miliardi di euro. Centinaia di baracche e di casolari abbandonati nelle campagne diventano le case di migliaia di braccianti stranieri che rispondono alle leggi del caporalato, del pagamento a cottimo (3,5 euro per un cassone di pomodori da 300Kg), delle irregolarità contrattuali.
“Il nostro obiettivo era trovare un’alternativa al caporalato per i migranti che arrivano nel nostro territorio alla ricerca di impiego”, spiega ad HuffPost Paolo Russo, membro della squadra che ha lanciato il progetto, “perciò dovevamo garantire loro una quantità abbastanza alta di giorni. Il minimo di giornate lavorative per ottenere il sussidio di disoccupazione agricola è 52. Abbiamo offerto loro questo e un regolare contratto bracciantile stagionale da 39 ore settimanali, a 47 euro per 6 ore e 40.”
Con questi standard, Funky Tomato ha potuto permettersi di assumere quattro dipendenti: Mamadou, senegalese, Yakouba e Walim, entrambi burkinabè, e Anita, una giovane mamma italiana precaria.
“Questo è il senso dell’aggettivo ‘funky’, che viene usato per indicare una contaminazione tra generi musicali diversi. È lo stesso per i migranti: contaminano e arricchiscono la nostra cultura, sono una risorsa enorme e non elementi di passaggio”, aggiunge Russo.
La storia di Mamadou è esemplare. “Quando l’abbiamo conosciuto, in un appartamento di Rosarno, ascoltava Radio Radicale per ore”, raccontano i suoi compagni di viaggio.
Mamadou in Senegal faceva il pescatore e quando è arrivato in Italia si è messo a fare il buttafuori nelle discoteche.
Poi è rimasto senza lavoro, ma non ha voluto cedere al caporalato: “Io sono un uomo libero”. Ora è uno dei protagonisti del progetto. Come lui, anche gli altri due lavoratori Yakouba e Walim, hanno rifiutato il lavoro ingiusto dopo averlo sperimentato; hanno sentito diffondersi la voce che Funky Tomato cercava delle persone e hanno deciso di fare un tentativo.
“Sono loro ad avere scelto noi, non il contrario”, ci racconta Russo, “e noi siamo contenti di fare conoscere loro un modello non industriale e intensiva, perchè capiscano che l’agricoltura non è solo sfruttamento ma artigianato e qualità . Qui acquisiscono delle capacità , imparano delle mansioni che possono tornargli utili per trovare altri lavori. Vorremmo iniziare a collaborare con gli Sprar: i migranti non devono essere visti come manovalanza ma essere aiutati a diventare tecnici con specifiche competenze”.
Certo, il lavoro è impegnativo. Resistere al mercato con una azienda piccola, artigianale e biologica, non è semplice.
Il prezzo di 1,70 euro per chilo di prodotto trasformato è alto rispetto ai prodotti industriali, ma basso rispetto ad altri nati sotto una simile stessa etica produttiva.
Gli acquirenti sono principalmente ristorazioni che a loro volta fanno micro-distribuzione, distributori equo solidali, minori, qualche privato. “Volevano diventare utili per un’economia virtuosa”, spiega Russo, “creare qualcosa che durasse nel tempo e creasse continuità territoriale. Ci stiamo riuscendo, si è creato un gruppo bellissimo. Ora miriamo a continuare, espanderci, magari sviluppare un progetto simile con l’olio. Ripartiremo con i pomodori la prossima primavera”.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 11th, 2015 Riccardo Fucile
SONO I PAPA’ CHE A VOLTE DIMENTICANO
Chi non è nè bestia nè gufo ed è dotato di un animo sensibile resterà colpito dall’affermazione di quell’insegnante precaria fiorentina che ha appena ottenuto una cattedra (precaria) nella sua città .
«Speravo in un incarico a Firenze, già a Empoli sarei stata costretta a rinunciare per i miei figli. Le mamme sanno cosa vuol dire».
In effetti le mamme lo sanno e fanno fatica a farsene una ragione. Le mamme professoresse, intendo.
L’ultima riforma del governo concede il Graal del posto fisso — il sospirato «ruolo» — a chi accetta un trasferimento di sede.
Di solito dall’estremo Sud all’estremo Nord, dove c’è più carenza di posti. Cambiare radicalmente aria è un sogno a venti o trent’anni e una necessità tragica quando muori di fame o sotto le bombe.
Ma se la tua esistenza è strutturata in una condizione di relativa tranquillità , andartene altrove in cerca di fortuna può rivelarsi uno strappo insopportabile.
Intorno ai quaranta la vita ti ha già cucito addosso una mezza dozzina di fili.
C’è un coniuge da sopportare, e qui talvolta il distacco chilometrico può rivelarsi una distanza di sicurezza. Ma ci sono anche figli, genitori e suoceri anziani da accudire. Una rete di assistenza che grava sulle spalle della donna-prof e si sbriciolerebbe nel caso di un suo trasferimento da Siracusa a Trento.
Prima di definire ingrate e scansafatiche certe insegnanti, come hanno fatto alcuni membri del governo, bisognerebbe riflettere sulle parole della professoressa precaria di Firenze.
Tanto più che di nome fa Agnese e di cognome Landini (nell’anima).
Renzi da sposata. Perchè una mamma lo sa.
Sono i papà che a volte se ne dimenticano.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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Settembre 11th, 2015 Riccardo Fucile
CONTINUA A PIANGERE MISERIA COL SUO “BILOCALE” MA NON DICE DELL’AFFARE FATTO GRAZIE AL DEGRADO: COMPRATA PER APPENA 40.000 EURO
Il Matteo Salvini che non ti aspetti va in onda su Agorà estate . “Accogliere chi scappa dalla guerra? Sì. Anche domani. Anche a casa mia”.
La conduttrice Serena Bortone sente profumo di notizia e lesta domanda interrompendolo: “Lei ospiterebbe un profugo a casa sua?”.
Il leader della Lega non può tornare indietro e chiude la parentesi così: “Ma ci mancherebbe altro, certo io ho un bilocale e quindi non potrebbe sbizzarrirsi tanto”. Poi precisa che l’offerta vale solo se il migrante è siriano e scappa dalla guerra, niente bengalesi in fuga dalla povertà .
Il problema di spazio sembra però facilmente risolvibile.
Per realizzare la promessa di ospitalità ai siriani in fuga Salvini ha infatti una facile soluzione a portata di mano.
Perchè oltre al piccolo “bilocale” dove il leader della Lega ha dichiarato di vivere, e dove un ipotetico ospite dovrebbe “sbizzarrirsi”, ha anche altro nelle sue disponibilità . Non occorre andare lontano.
Basta fare una passeggiata nel centro di Milano, zona di Porta Romana, e fermarsi nei dintorni di viale Bligny al civico 42, per vedere cartelli che offrono appartamenti “in palazzo multietnico”: è il cosiddetto “fortino”, 213 tra mono e bilocali nel cuore della città , costruiti alla fine dell’800, destinati agli operai negli anni ’50 e oggi abitati da circa 600 persone, soprattutto egiziani, brasiliani, cingalesi.
È lì che il segretario ha la fortuna di possedere una mansarda al quinto piano, che si affaccia sui cortili dove bambini nordafricani e sudamericani rincorrono un pallone tutti i pomeriggi.
Il leader del Carroccio quel palazzo di viale Bligny lo conosce bene: già il 18 novembre del 2011 nella veste di consigliere comunale della Lega Nord, firmava una mozione indirizzata al sindaco Giuliano Pisapia.
Dopo avere denunciato il degrado dello stabile, lo spaccio e la presenza di immigrati abusivi, il futuro leader del Carroccio chiedeva al sindaco di Milano di intervenire. Poi il 14 maggio del 2012 compra quell’appartamento per 40 mila euro da due signore milanesi e il 13 giugno 2012 torna alla carica: “Le centinaia di proteste di residenti e commercianti fino ad oggi hanno trovato solo l’indifferenza del Comune di Milano”. Salvini per il palazzo di viale Bligny 42, dove aveva appena comprato casa, chiedeva “verifiche a tappeto di residenze, affitti, attività illegali e altri abusi in essere. Entro una settimana conto di chiedere a Prefetto e Questore il posizionamento di un presidio fisso delle forze dell’ordine 24 ore su 24”.
Infine la minaccia: “Qualora questi solleciti non bastassero, sarò pronto a passare personalmente alcune notti in un appartamento dello stabile per porre fine a questa vergogna”.
Nell’aprile del 2013 finalmente si fa vedere nel palazzo in occasione di una manifestazione per il decoro dello stabile e a Luca Fazzo del Giornale dice che non ha comprato per speculare ma per avere“una finestra sul degrado”.
Oggi finalmente potrebbe trasformarla in una porta sull’accoglienza.
È questo il senso dell’annuncio di ieri ad Agora? Davvero Salvini pensava a viale Bligny quando si offriva per ospitare un siriano?
La speranza svanisce subito: “No no.La mia mansarda non è ancora pronta, ci sono dei lavori”.
Dopo tre anni dall’acquisto ancora lavori in corso?
Nel palazzo dicono che tutte le mansarde sono occupate e l’unica che si affitta è “in ottime condizioni”. Tanto che qualche speranza era lecita dopo l’annuncio di ieri.
Ma Salvini nega di essere il proprietario di quello in offerta: “Macchè —dice il segretario leghista — nel mio appartamento manca persino il pavimento, l’avevo preso ai tempi per portare un po’ di ordine nel palazzo, siccome ci sono i trans e gli spacciatori. Ma i lavori sono infiniti”.
Marco Lillo e Giuseppe Pipitone
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 11th, 2015 Riccardo Fucile
ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI GRANATA CHE CI AZZECCA LA PRESENZA DI MATTEO ROSSO, CAPOGRUPPO DI FDI IN REGIONE LIGURIA?
Non siamo tra coloro che ritengono che la figura di Paolo Borsellino “appartenga” a uno specifico mondo.
Il suo insegnamento e il suo percorso rappresentano non solo la coerenza di un’idea di legalità propria di un’area politica, ma un patrimonio comune di tutti gli italiani, al di là degli steccati oggi ritornati tanto di moda.
Facile che figure “elevate” in termini etici finiscano per essere utilizzate anche per meno nobili fini partitici, magari anche da coloro che a destra hanno sancito in parlamento che Ruby fosse la nipote di Mubarak o votato le peggiori leggi per togliere potere ai magistrati.
Ma pensiamo che un limite debba esserci, nel rispetto delle diverse impostazioni.
L’occasione di questa riflessione ci è data dalla presentazione a Genova del libro di Fabio Granata “Meglio un giorno. La destra antimafia e la bandiera di Paolo Borsellino”, organizzato da Gioventù Nazionale Liguria con la collaborazione del gruppo consiliare di Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale in Regione.
Occasione ghiotta per un certo ambiente per comprendere cosa si debba intendere a destra per legalità , se non fosse per una “incompatibilità ” etica che emerge nell’elenco dei relatori.
Come possa un rinviato a giudizio per peculato essere tra i relatori di un convegno nel nome di Paolo Borsellino, è cosa che stupisce e indigna.
Il fatto che sia contestualmente il capogruppo in Regione di Fratelli d’Italia non è certo una attenuante, semmai un’aggravante sul metodo di selezione della sua classe dirigente.
Non contestiamo ovviamente il suo ruolo regionale, questo è un problema di chi lo ha eletto sapendo che era indagato e che, in caso di condanna in primo grado, decadrebbe in base alla legge Severino.
Ognuno è libero di fare capolista chi gli pare e di pagarne le conseguenze.
Ma l’accostamento a “meglio un giorno…” se lo potevano evitare.
Perchè proprio Paolo aveva sempre invitato a fare un passo indietro coloro, che anche in assenza di una condanna, fossero anche solo sospettati di comportamenti non rispettosi della legge.
E se non tutti hanno la dignità di saltare un turno in attesa del giudizio, c’è anche chi pensa che “meglio un giorno”, magari proprio “quel giorno”, qualcuno farebbe meglio a stare a casa.
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