Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
PER OTTENERE 16 MILIARDI DA USARE PER SPOT ELETTORALI, IL PREMIER HA CAMBIATO MOLTE CARTE: DALLA CLAUSOLA MIGRANTI AL PACCHETTO SICUREZZA, DALLA TURCHIA AI COSTI DELLA CRISI LIBICA
Ormai non passa giorno senza un botta e risposta tra Roma e Bruxelles con al centro la famigerata flessibilità .
L’ultima giravolta è la richiesta di escludere dal calcolo del deficit i costi sostenuti dall’Italia per la crisi libica: la solita “clausola migranti”, ma definita in modo diverso per evocare un parallelo con i fondi concessi alla Turchia per gestire l’arrivo dei siriani.
Il vero pomo della discordia è ben noto, ma è facile perderlo di vista tra le polemiche sulle “perversioni burocratiche” europee, i richiami a ipotetici “patti di umanità ” contrapposti a quello di stabilità e le risposte piccate della Commissione Ue “offesa” dall’Italia.
Quasi cinque mesi di tira e molla da cui emergono anche i dietrofront e le contraddizioni del premier: basti dire che venerdì scorso a Berlino ha battuto i pugni sul tavolo chiedendo alla Ue di chiarire come verrà contabilizzato il contributo al fondo per Ankara, ma il 29 dicembre aveva rivelato che la risposta era già arrivata, come puntualizzato a stretto giro dal portavoce della Commissione.
Il conto della flessibilit�
Il governo attende per il mese di maggio il verdetto dell’esecutivo comunitario sulla legge di Stabilità . In particolare ha bisogno che Bruxelles dia il via libera a un aumento del deficit dall’1,4% del Pil (il valore inizialmente concordato per il 2016) fino al 2,4%: una differenza che vale circa 16 miliardi, con cui il governo ha finanziato più di metà delle uscite della manovra per il 2016.
In più, per Palazzo Chigi è indispensabile poter ottenere uno “sconto” anche per il 2017: in caso contrario quando verrà varata la prossima manovra occorrerà trovare 25 miliardi solo per disinnescare le solite clausole di salvaguardia (aumento dell’Iva e delle accise sulla benzina) e tagliare il deficit.
Per giustificare lo scostamento, il governo ha chiesto di poter sfruttare tre diverse clausole di flessibilità .
Le prime due sono espressamente previste dalle linee guida varate a gennaio 2015 alla fine del semestre italiano di presidenza Ue: si tratta di quella che permette di tener fuori dal deficit i contributi al fondo istituito dal piano Juncker per promuovere gli investimenti e di quella riconosciuta agli Stati che fanno riforme strutturali (vedi il Jobs Act e la riforma della pubblica amministrazione).
La prima vale lo 0,3% del prodotto interno, la seconda lo 0,5%, di cui lo 0,4 già accordato e uno 0,1 aggiuntivo ancora sub iudice.
In aggiunta, Palazzo Chigi e il Tesoro rivendicano uno 0,2% aggiuntivo, pari a circa 3,3 miliardi, per far fronte all’emergenza migranti.
Per la quale però l’Italia, come ricostruito a suo tempo da ilfattoquotidiano.it, di miliardi ne spende solo 1,1.
Subodorando l’orientamento negativo su questo punto, lo scorso novembre Renzi ha aggiunto in corsa al treno delle richieste un nuovo vagone: il pacchetto cultura-sicurezza che comprende tra l’altro il bonus di 500 euro per i neodiciottenni.
Il 3 febbraio il premier ha poi tirato fuori dal cappello un coniglio solo apparentemente diverso: i costi sostenuti “per la crisi in Libia”.
Cioè sempre i soldi spesi per l’emergenza migranti, ma legati idealmente a uno scenario di guerra per far passare l’idea che devono essere valutati con gli stessi criteri applicati all’esodo siriano attraverso la Turchia.
Secondo Repubblica e il Messaggero, però, i colpi di scena non sono finiti: il premier sarebbe disposto a rinunciare ai 3,3 miliardi “per i migranti” in cambio del rinnovo delle clausole per gli investimenti e le riforme anche nel 2017, anno pre-elettorale. Perchè in caso contrario sarebbe molto difficile rispettare la promessa di tagliare l’Ires e l’Irpef.
Chiara Brusini
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
PER APPORRE SCRITTE CI DOVRA’ ESSERE AUTORIZZAZIONE DEL CONSIGLIO REGIONALE, STOP A POTERE DELLA GIUNTA PER GLI SLOGAN SULLA FACCIATA
Per chiedere l’utilizzo degli spazi del Pirellone, sede del parlamento lombardo, si dovrà chiedere il permesso al Consiglio regionale.
Dopo le polemiche per la decisione del governatore leghista Roberto Maroni di proiettare sul Palazzo della Regione una scritta “pro Family Day”, è passata a voto segreto una mozione presentata dal Movimento 5 Stelle (primo firmatario Eugenio Casalino) e sostenuta da Pd e Patto Civico di Umberto Ambrosoli.
Il provvedimento è passato con 38 sì e 31 no, con il voto decisivo di almeno sei consiglieri di centrodestra.
L’opposizione di centrosinistra parla di “schiaffo al presidente della Regione Lombardia“. Con la votazione del consiglio, si chiede alla giunta non solo di “concordare con l’Ufficio di presidenza del consiglio regionale qualsiasi iniziativa pubblica che coinvolga le strutture e gli uffici di Palazzo Pirelli“, ma anche di stabilire con opportuna norma che il Pirellone deve essere “lasciato nella piena disponibilità del Consiglio regionale”.
A presentare la mozione è stato il consigliere grillino Eugenio Casalino che in Aula ha spiegato: “L’utilizzo di palazzo Pirelli da parte della giunta della Regione Lombardia in occasione del Family day mette in discussione l’autonomia del consiglio regionale. Ciò che è accaduto in occasione è grave non tanto per il contenuto, ma per la metodologia seguita”.
Soddisfatto anche il Partito democratico: “Il Consiglio ha restituito a Maroni lo schiaffo subito con la scritta su Palazzo Pirelli”, hanno detto la vicepresidente del Consiglio regionale Sara Valmaggi e il capogruppo democratico Enrico Brambilla.
“Lo sfregio rimane, ma ora dovranno dare seguito alla mozione e un fatto come quello non dovrà più accadere. Certo, avremmo preferito se anche i partiti che sostengono Maroni avessero fatto sentire la loro voce anche prima e non si fossero dovuti risolvere ad esprimere il loro disappunto solo a voto segreto, ma almeno il risultato è indiscutibile: il consiglio dice che Maroni ha sbagliato”.
(da agenzie)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
ORMAI IL DIBATTITO SULLE UNIONI CIVILI HA PASSATO IL SEGNO
«Questa qui, Monica Cirinnà , mi sembra un pò la donna del capitolo diciassettesimo dell’Apocalisse, la Babilonia, che adesso brinda prosecco alla vittoria. Signora, arriverà anche il funerale, stia tranquilla. Glielo auguro il più lontano possibile, ma arriverà anche quello».
A pronunciare queste frasi choc è don Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, durante la rassegna stampa mattutina.
Nel mirino del sacerdote la parlamentare prima firmataria del ddl sulle unioni civili, in discussione in questi giorni al Senato. Che su Twitter prontamente e con senso dell’umorismo replica: ‘Mò me lo segnò, echeggiando una famosa scena del film «Non ci resta che piangere» in cui Massimo Troisi replica in questo modo a chi gli diceva «ricordati che devi morire».
Scena che Monica Cirinnà infatti allega al tweet.
Don Fanzaga aveva già tuonato nei giorni scorsi, sempre dai microfoni dell’emittente religiosa, contro la legge sulle unioni civili, definendo le famiglie omogenitoriali una «sporcizia».
La rete si è scatenata twittando solidarietà alla senatrice Cirinnà e contumelie, come spesso avviene sui social, contro il sacerdote.
(da agenzie)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
CRITICA A WALL STREET E ALLA POLITICA ASSERVITA AL POTERE DEL DENARO: OVUNQUE VA RIEMPIE LE SALE, PIACE AI GIOVANI
C’è una storia che Bernie Sanders ha raccontato ai giornali qualche giorno fa.
Era una domenica mattina, lo scorso maggio, e il senatore del Vermont era in macchina, diretto per un comizio all’American Indian Center di Minneapolis. Cinque giorni prima aveva annunciato la sua candidatura a presidente. La strada era intasata di traffico, si procedeva a rilento.
“C’è un incidente?”, chiede Sanders, preoccupato di non arrivare in tempo all’appuntamento. “No, sono quelli qui per te”, gli risponde un suo assistente.
Sin dall’inizio della campagna, Bernie Sanders è stato capace di riempire stadi, arene, palestre e ogni tipo di sala che abbia utilizzato per i suoi meeting.
Sono arrivati in migliaia, a Denver, a Madison, in città non particolarmente sensibili al messaggio progressista come Dallas e Houston.
A Phoenix lo hanno accolto in più di 11 mila, in 28 mila a Portland. Ovunque, Sanders ha portato il suo messaggio di giustizia sociale, di critica dello strapotere di Wall Street e di una politica troppo asservita al potere del denaro.
“Siamo un movimento che farà una rivoluzione”, ha scandito spesso, mentre la folla dei sostenitori cresceva e la proposta politica si precisava: aspettativa pagata, college statale gratuito, aumento dei minimi salariali, sanità universale sul modello europeo.
A questo punto, dopo l’Iowa, dopo il sostanziale pareggio con Hillary Clinton (la Clinton ha vinto per un esile 0,3 per cento), è ancora troppo presto per dire se Bernie Sanders e il suo movimento riusciranno davvero a scatenare quella “rivoluzione” di cui lui parla.
È comunque un fatto che Sanders non è più l’outsider che era all’inizio; non è più il “senatore socialista del Vermont” che, a fine carriera (ha 74 anni) si toglie la soddisfazione di un ultimo urrà e sfida Hillary, la stella del firmamento democratico, in una gara comunque impossibile.
No, a questo punto Bernie Sanders è qualcosa di più. Una possibile spina nel fianco della dirigenza democratica. O, magari, un’occasione per quegli stessi leader democratici.
Visto che la politica non dovrebbe avere a che fare con i soldi, ma che i soldi in politica contano, c’è un dato che conferma la “realtà ” della candidatura Sanders: i tre milioni e mezzo in piccole donazioni, con una media di 27 dollari a persona, raccolti da Sanders in questi mesi.
È un dato di cui il senatore va particolarmente fiero, che continua a citare nei suoi comizi, che ha sottolineato anche in una pubblicità elettorale acquistata il giorno prima del voto sui giornali locali dell’Iowa. in cui Sanders scriveva: “La verità è che non puoi cambiare un sistema corrotto accettando il suo denaro. La mia campagna è finanziata da milioni di piccole donazioni da parte di persone come voi, che vogliono reagire a questo stato di cose”.
Il dato politico — il candidato contro Wall Street, il candidato che osa mettersi contro la lobby dei soldi — si sostanzia però in un dato organizzativo importante. Con i milioni raccolti in donazioni grandi e piccole, Sanders può continuare nella campagna: comprare spazi televisivi, aprire uffici, assumere collaboratori. Insomma, può continuare a essere rilevante.
Lunedì sera, al party elettorale di Sanders all’Holiday Inn di Des Moines, i presenti erano soprattutto lo zoccolo duro dei “sandersiani”: giovani universitari, professionals, professori universitari, in generale la borghesia bianca e progressista. Ascoltavano musica, ballavano.
Quando è comparso Sanders, la prima cosa che ha detto è la frase più volte ripetuta: “La nostra è una rivoluzione”.
Tra i presenti si potevano comunque incontrare reduci della guerra in Iraq, ex-sostenitori di Ron Paul e dei libertarians, gente che lavora nella finanza, tassisti ispanici e gente che ha saputo del party attraverso Grindr, la app di incontri gay; segno che il richiamo di Sanders si allarga ben oltre le frange più minoritarie del progressismo della East Coast, dove il senatore ha costruito la sua carriera politica.
C’è del resto un elemento che avvantaggia ulteriormente Bernie Sanders, ed è legato a Barack Obama.
Sanders raccoglie molti dei delusi, in campo democratico, per gli otto anni della presidenza Obama. Con lui sono quelli che ritengono le riforme di Obama troppo timide, che contestano la sua riforma sanitaria non particolarmente coraggiosa, la sua politica estera comunque aggressiva, i suoi interventi sui diritti civili poco significativi.
D’altra parte l’America, in questi otto anni di Barack Obama, si è comunque spostata a sinistra. Il presidente ha moltiplicato l’intervento federale in economia, dall’Obamacare al salvataggio delle banche e dell’industria automobilistica; è intervenuto per decreto su immigrazione e armi; ha accompagnato la legalizzazione dei matrimoni omosessuali; ha rilanciato la politica ambientale come una priorità .
La strategia ha contribuito a orientare in senso più progressista l’intero partito democratico, che ora guarda a Sanders non più come al “socialista” esterno al discorso politico accettabile e riconosciuto.
Ma che guarda al socialista Sanders come parte integrante del discorso democratico.
C’è poi, a favorire ulteriormente la sfida di Sanders, l’immagine di Hillary Clinton. Agli elettori democratici dell’Iowa, prima di entrare nel seggio, sono state poste alcune domande sui loro candidati.
Soltanto il 10 per cento degli intervistati ha dichiarato di fidarsi dell’“onestà e trasparenza” della candidata.
Sono stati troppi gli scandali che hanno perseguitato la Clinton negli ultimi mesi: Bengasi, la storia delle mail inviate dal suo account di posta elettronica privata quand’era segretario di stato. E poi ci sono le parcelle ricevute da Goldman Sachs e dalle altre grandi multinazionali cui Hillary ha offerto i suoi servigi.
E ancora i finanziamenti raccolti dalla Clinton Foundation un po’ ovunque nel mondo — e spesso in posti non particolarmente raccomandabili.
È questo quadro che dà fiato, e speranza, alla campagna di Sanders.
La Clinton resta ancora, senza dubbio, la favorita nella corsa democratica. È la candidata più ricca e organizzata. Quella che possiede la rete dei contatti giusti e una macchina rodata e capillare.
Probabile che, passato il New Hampshire — il prossimo Stato dove si vota e dove Sanders è favorito — la ex First Lady possa godere di un percorso meno agitato negli Stati del Sud, dove è grande favorita.
Dalla sua c’è anche un limite di Sanders, che per vincere dovrebbe allargare il suo consenso alla working-class bianca, alle minoranze che continuano a snobbarlo.
Ma Sanders, in Iowa, ha comunque segnato un punto importante. Ha mostrato all’America che il “movimento” di cui continua a parlare esiste davvero.
E ha mostrato al partito democratico che, se vuole comunque portare Hillary Clinton alle elezioni generali di novembre, non può farlo senza ascoltare le richieste e i sogni della “People for Bernie Sanders”.
Roberto Festa
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
“FARO’ UNA COALIZIONE CON LE FORZE DEL CAMBIAMENTO”
Il re di Spagna ha deciso: adesso tocca ai socialisti tentare di traghettare il Paese fuori dalle secche di una scena politica frammentata, litigiosa e costellata di veti incrociati. Pedro Sà¡nchez è pronto a provarci. Ma chiede un mese di tempo per negoziare un accordo di governo con i leader di tutti i partiti, a destra e a sinistra, eletti in parlamento il 20 dicembre scorso, con l’esclusione però degli indipendentisti catalani: con chi vuole dividere la Spagna, ha spiegato, l’intesa non è possibile.
A tutti gli altri lancia un appello: «Siamo chiamati a intenderci, affinchè il cambio diventi realtà »
Giovane economista – compirà 44 anni il 29 febbraio – votato alla politica già a venti, segretario del Psoe da un anno e mezzo, Sà¡nchez si è presentato alla Zarzuela, la residenza di Felipe VI, sapendo di avere già l’incarico in tasca, dopo che Mariano Rajoy, leader dei conservatori e premier uscente, aveva gettato la spugna di fronte al rifiuto dell’opposizione, di fatto ormai diventata maggioranza, di siglare un patto: «Ma il Partido Popular – non ha dimenticato Sà¡nchez – ha ancora sette milioni di elettori, che meritano il mio rispetto. Ora bisogna muoversi, non si può attendere un minuto di più per togliere la Spagna da questa situazione di stallo».
La manovra si annuncia temeraria.
I risultati delle ultime elezioni hanno chiuso l’epoca del bipolarismo tra conservatori e socialisti, e la loro alternanza al governo. Pesantemente ridimensionati, ora devono fare i conti con nuove formazioni all’attacco, come la sinistra populista di Podemos, frutto dell’onda lunga del movimento degli Indignados e guidata dal poco malleabile professore di Scienze Politiche, Pablo Iglesias, 37 anni.
O come Ciudadanos, partito nato in Catalogna una decina d’anni fa e arrivato a Las Cortes con un altro giovane leader, il conservatore Albert Rivera, 36 anni, che ha fatto tutta la sua campagna elettorale promettendo di restare all’opposizione.
E con il quale Pablo Iglesias non vuole stabilire alcuna alleanza governativa.
Quando è stato il suo turno di conferire con il re, Iglesias ha messo in chiaro che è disposto ad appoggiare i socialisti, in cambio della vice presidenza del governo e di ministeri sostanziosi per i suoi compagni.
Anche ricorrendo all’estrema sinistra, come lo storico partito di Izquierda Unida, Sà¡nchez faticherà in quel caso a trovare la base parlamentare necessaria. E, se anche dovesse miracolosamente farcela, grazie a strategiche astensioni, faticherà a pilotare un consiglio dei ministri tanto eterogeneo: «Mi vedo governare con quanti condividono con me la necessità di approvare un nuovo statuto dei lavoratori – ha detto – di metter fine alle amnistie fiscali e di adempiere agli impegni europei».
L’alternativa è il ritorno alle urne.
Elisabetta Rosaspina
(da “il Corriere della Sera”)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
IL MEZZO SARA’ UTILIZZATO A SUPPORTO DELLE ATTIVITA’ DI SOCCORSO IN MARE
Flavio Insinna ha donato la sua barca a Medici Senza Frontiere. L’attore e attuale conduttore televisivo di “Affari Tuoi” su Rai1, ha donato “Roxana”, la sua imbarcazione veloce di 14,80 metri, all’organizzazione medico-umanitaria, a supporto delle attività di soccorso e assistenza in mare lungo le rotte della migrazione verso il continente europeo. «Siamo molto grati a Flavio Insinna per questo gesto di grande generosità e per aver voluto sostenere la nostra azione lungo le rotte della migrazione. Stiamo valutando con i nostri centri operativi come impiegare questa importante donazione a supporto delle attività medico-umanitarie di Msf in mare, dove ancora oggi migliaia di persone in fuga da conflitti e povertà continuano a rischiare – e purtroppo a perdere – la loro vita per trovare sicurezza in Europa” ha detto Gabriele Eminente, direttore generale di Msf.
I numeri dell’azione Msf per la migrazione in Europa sono triplicati.
Nel 2015 Msf ha effettuato oltre 100.000 consultazioni mediche e psicologiche – sulle navi di ricerca e soccorso e nei progetti in Grecia, Italia e Balcani – e ha soccorso 23.747 persone in mare.
In Grecia, Msf fornisce assistenza in mare a rifugiati e migranti in arrivo – oltre 62.000 da inizio anno di cui almeno 272 hanno perso la vita durante la traversata – e a terra offre cure mediche, protezione, servizi igienici e beni di prima necessità nelle Isole del Dodecaneso così come a Lesbo e Samo.
(da agenzie)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
A GIUGNO IL PROCESSO PER RIXI, BRUZZONE E IL FRATELLO D’ITALIA ROSSO: IN CASO DI CONDANNA DECADONO PER LA LEGGE SEVERINO
È un terremoto politico, che inguaia e imbarazza la giunta Toti: Edoardo Rixi va a processo l’8 giugno per le “spese pazze” sostenute dai gruppi regionali dal 2010 al 2012.
Il rinvio a giudizio deciso dal gip Roberta Bossi tocca due volte il cuore della Lega. Perchè non finisce sul banco degli imputati solo l’assessore allo Sviluppo Economico, il vice di Matteo Salvini, ma anche un altro personaggio che conta del Carroccio, Francesco Bruzzone, attuale presidente del Consiglio regionale.
Le accuse sono peculato e falso.
La difesa degli imputati si riassume nel concetto: “così facevano tutti”, come ha evidenziato la stampa cittadina stamane.
Viene prosciolto, perchè il fatto non sussiste, Mario Amelotti, ex contabile del Pd, mentre Maurizio Torterolo, ex consigliere della Lega, ha già patteggiato due anni. Ridotte le accuse a carico dell’ex capogruppo democratico Antonino Miceli, per il quale sono caduti due dei tre capi di imputazione, sempre per peculato, mentre ne resta un terzo per 38 mila euro di scontrini da giustificare.
Secondo l’accusa, sostenuta dal pm Francesco Pinto, i consiglieri si sarebbero fatti rimborsare spese private con soldi pubblici spacciandole per attività istituzionali.
Si va dalle birre da 6 euro acquistate a Pontida in occasione delle feste del periodo di Bossi, ai quindici scontrini di fila emessi dallo stesso bar Caffè dell’Angolo di Mondovì, ai 1774 euro spesi nella pelletteria di lusso a Tolentino, fino agli acquisti al “Chocolate Town” all’Outlet di Serravalle.
In ballo c’è pure l'”affaire Quadrifoglio” un ristorante di Carcare fonte inesauribile di ricevute del consigliere che lo ha inguaiato, Maurizio Torterolo, quello che ha patteggiato due anni scoprendo le carte. Venivano dimenticate da ignari clienti e lui le presentava a rimborso.
Alla Lega Nord il magistrato contesta pure di avere speso soldi pubblici per viaggi in mete turistiche come a Courmayeur e Limone Piemonte, Aosta.
Alberghi in città d’arte come Venezia e Pisa. Anomalie sono pranzi e cene, fatti soprattutto in giorni festivi, come Pasqua e Pasquetta, 25 aprile e primo maggio o Ferragosto.
Sono finite in mezzo pure le spese di parcheggio. Un consigliere si sarebbe fatto rimborsare anche una notte passata in un motel a Broni, in provincia di Pavia.
Nel mirino finiscono gli scontrini di ostriche consumate al Cafè de Turin di Nizza, menù bambini e anche un cenone di Capodanno.
Nel budget regionale compaiono pure 84 scontrini in uno stesso ristorante di Savona, cene a Mondovì.
Altro capitolo riguarda i regali di Natale, questione che aveva già pesato su vari partiti: strenne, agende, libri, grappe e bottiglie di spumante che secondo la procura sono state pagate dai cittadini.
Le somme vanno da poche centinaia di euro fino a oltre 10 mila euro come quella per un agriturismo a Cogne.
Dalle carte delle indagini, il vice segretario federale Rixi risulta che all’epoca avesse il dono dell’ubiquità : presentava il rimborso dell’autostrada per un viaggio a Milano per “l’espletamento del mandato popolare”, ma dal Telepass risultava invece ad Aosta. Presentava rimborsi da 106 euro per viaggi a Cremona, quando le fiamme gialle invece hanno appurano analizzando i passaggi ai caselli che si trovava a La Spezia.
E quando diceva di essere a La Spezia, la macchina girava tra Genova Est e Ovest.
Ci sono poi altri viaggi di “lavoro” dubbi.
A Pontida, per il raduno, è parco nelle spese perchè alloggia in un B&B, ma secondo la Finanza il conto è per due persone.
Ma quello che impressiona di questa inchiesta, oltre all’accusa di falso ideologico e peculato in concorso, la montagna di euro sperperati (la Lega avrebbe percepito indebitamente oltre 97 mila euro, il numero degli indagati, è che è chiamato in causa tutto l’ufficio di presidenza del consiglio regionale, vale a dire l’organismo che con il presidente e i vice presidenti e i segretari governa l’assemblea legislativa della Liguria.
Il capogruppo di Fratelli d’Italia, Matteo Rosso, allora in Forza Italia, deve rispondere di 22.434 euro di rimborsi non dovuti, compresi persino degli scontrini della “casa del Bottone”.
Su di loro incombe come un macigno la legge Severino che impone la decadenza dalle cariche pubbliche in caso di condanna, già in primo grado.
(da “il Secolo XIX”)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
LA VERITA’: IL M5S RISCHIA UNA MULTA PERCHE’ E’ L’UNICO PARTITO A NON AVER PRESENTATO UN BILANCIO CERTIFICATO IN BASE ALLA NORMA SULLA TRASPARENZA
Si sa che quando si parla di finanziamenti pubblici ai partiti gli animi si scaldano in fretta. E infatti da ieri gira una notizia che, se fosse vera, farebbe infuriare chiunque: il Partito Democratico vorrebbe far multare il Movimento 5 Stelle per aver rifiutato i rimborsi elettorali.
A denunciare la truffa è il deputato Danilo Toninelli, che su Facebook lancia l’allarme con preghiera di «massima diffusione».
Tutto ruoterebbe, secondo Toninelli, attorno a un emendamento al Milleproroghe presentato da Ernesto Carbone e Sergio Boccadutri.
Secondo il riassunto fatto da Toninelli su Facebook, l’emendamento direbbe che «chi non si iscrive al Registro dei partiti per avere i finanziamenti pubblici, subisce una multa di 200.000 euro».
Recuperando il testo dell’emendamento, però, si scopre che non è esattamente così. Recita il testo: Al comma 4 dell’articolo 9 della legge 6 luglio 2012, n. 96, aggiungere in fine il seguente periodo: «Ai partiti e ai movimenti politici che non ottemperano all’obbligo di trasmissione degli atti di cui al secondo e al terzo periodo del presente comma, nei termini ivi previsti, o in quelli eventualmente prorogati da norme di legge, la Commissione applica la sanzione amministrativa di euro 200.000».
E cosa dice l’articolo 9 comma 4 della legge 69/2012?
Afferma che i partiti sono tenuti a presentare, entro una data prestabilita, i documenti relativi alla loro rendicontazione, tra cui «la relazione contenente il giudizio espresso sul rendiconto dalla società di revisione».
Obbligo inserito non per ottenere i rimborsi elettorali (non solo, almeno, visto che è una delle condizioni necessarie per accedere ai finanziamenti pubblici) ma per «garantire la trasparenza e la correttezza nella propria gestione contabile e finanziaria».
Se, infatti, come sostiene Toninelli, si volesse punire la scelta del Movimento 5 Stelle di non usufruire dei rimborsi elettorali, si dovrebbe prima intervenire sull’articolo 3 della stessa legge, che al comma 1 specifica cosa debbano fare i partiti e movimenti «che intendono usufruire dei rimborsi per le spese elettorali e dei contributi a titolo di cofinanziamento».
Il punto, quindi, è semplice: il Movimento 5 stelle non è obbligato a chiedere i rimborsi elettorali e non rischia una multa perchè non vuole usufruirne (scelta legittima e, per certi punti di vista, anche lodevole) ma perchè non presenta un bilancio consolidato.
Ed è l’unico a non farlo in Parlamento.
Toninelli, intanto, ha già annunciato di voler presentare degli ulteriori emendamenti per escludere dalla sanzione chi «non si è iscritto al registro dei partiti, cioè quello tramite il quale si ha accesso ai finanziamenti».
Un’inesattezza che è alla base di tutta la vicenda: l’iscrizione al registro è una condizione necessaria per ottenere i rimborso, ma questo deve essere comunque richiesto espressamente ai Presidenti della Camera e del Senato.
Francesco Zaffarano
(da “La Stampa”)
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Febbraio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
“ALL’ITALIA SERVE UN’EUROPA CAPACE DI GESTIRE SICUREZZA E MIGRAZIONI”
Nel suo studio a Sciences Po, l’Istituto di studi politici, una delle Grandes Ecoles di Parigi, Enrico Letta scruta la carrellata delle notizie del giorno e si ferma sul documento di apertura alla Gran Bretagna del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk.
E commenta: «Col prossimo referendum, perdere la Gran Bretagna sarebbe, per davvero e non retoricamente, una spinta verso la dissoluzione dell’Europa. Immaginiamo la Gran Bretagna che lascia l’Unione vista con gli occhi degli asiatici o dei brasiliani: dopo tanti allargamenti sarebbero autorizzati a pensare, e non solo loro, ad un fatale arretramento. Dobbiamo saper cogliere l’occasione del referendum inglese per riformare l’Europa: così non va. Ma non la si riforma con l’anti-europeismo facile».
Oramai nell’opinione pubblica cominciano ad insinuarsi domande di fondo, semplici: questa Europa serve all’Italia? Quale Europa serve all’Italia?
«All’Italia serve stare in Europa anzitutto perchè la geografia e la storia ci hanno immerso in un mare instabile. Per decenni abbiamo appaltato la politica di sicurezza agli americani e dunque se non stiamo dentro una rete di alleanze, dentro un sistema di difesa e di sicurezza, rischiamo di affondare. All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, perchè soluzioni nazionali non esistono. Non dobbiamo assolutamente staccarci, isolarci».
Il «Financial Times» torna ad evocare per l’Italia un destino greco: drammatizzazioni senza fondamento?
«Quando leggo cose come quelle che scrive il “Financial Times” mi preoccupo. Questo tipo di politica italiana verso l’Europa, molto aggressiva e incattivita, finisce per isolarci e rischia di farci diventare una seconda Grecia, piuttosto che il centro dell’Europa. Ma il nostro destino è sempre stato e deve restare lo stesso: Francia e Germania. Sì, devo esprimere una preoccupazione: ci stiamo isolando in modo preoccupante».
In questi giorni si è chiarito una volta per tutte il vero nervo scoperto di Berlino e Bruxelles: i conti italiani non tornano e metterebbero di nuovo a rischio il resto dell’Unione. Ma non è legittima la via italiana: meno tasse, un po’ di deficit per alimentare la domanda?
«È evidente che non è facile chiedere flessibilità con una legge di stabilità in deficit e priva di spending review. Se la flessibilità diventa uno strumento per fare deficit, ci sono problemi. Il governo sta alzando la voce per coprire questa legge di Stabilità ».
Ora è facile negarlo, ma nel periodo nel quale ha governato il Paese le è venuta la tentazione di una scorciatoia, magari nel tentativo di far slittare uno dei termini di «rientro»?
«Nel breve periodo nel quale sono stato presidente del Consiglio la mia preoccupazione era quella di far uscire l’Italia dalla procedura di infrazione e in quella fase non era possibile immaginare altro. L’obiettivo lo abbiamo raggiunto, sono soddisfatto: è bene ricordarsi dove eravamo. Per evitare di tornarci».
La politica europea sull’immigrazione è entrata in una crisi inimmaginabile ancora qualche mese fa: un’Europa così non serve all’Italia…
«All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, un’Europa nella quale torni la parola solidarietà , parola che fino a qualche tempo era considerata impronunciabile perchè erano altri i termini che contavano, a cominciare da competitività . Solidarietà è una parola che oggi pronuncia la Germania, dopo la decisione di accogliere un milione di rifugiati. La pronuncia l’Italia che ha bisogno di solidarietà nella gestione dei flussi migratori».
Italia che sembra al centro di un ricatto: se c’è una seconda frontiera dietro le Alpi, noi non siamo dentro una tenaglia?
«Per noi il più grande pericolo è una mini-Schengen che escluda i mediterranei: un pericolo mortale. Vorrebbe dire che l’Italia esce dal cuore dell’Europa. E il cuore dell’Europa è passare le frontiere senza passaporto. Ma noi dobbiamo essere paladini di una vera battaglia, che non può essere quella per i 281 milioni sui fondi per i rifugiati. Dobbiamo batterci per realizzare un corpo di polizia frontaliero: cinquemila uomini, capaci di gestire, e bene, la frontiera esterna dell’Unione. Un vero corpo europeo. Con agenti italiani all’aeroporto di Berlino e tedeschi a quello di Atene. Non sarebbe una spesa in più ma una spesa in meno rispetto alla prospettiva di nuove frontiere interne. Se non si fa così, muore Schengen. Si fa una mini-Schengen che ci escluderà , perchè la geografia ci penalizza».
Ma complessivamente non resta un forte pregiudizio anti-italiano a Bruxelles, retaggio di vecchie politiche e di vecchie leadership?
«Se il debito resta enorme, quelle sono cifre, non pregiudizi. Dell’Italia ci si può fidare ma in un tempo nel quale la comunicazione pesa, i giornali si leggono e si traducono, prendere a male parole o fare la politica del capro espiatorio con Bruxelles non funziona. Lo so che far polemica è un gioco per prendere voti in Italia. Ma attenzione all’effetto-paradosso: una polemica anti-europea per contendere voti a Grillo e Salvini, finisce per alimentare l’anti-italianismo all’estero e l’anti-europeismo in Italia. Soffiare su quel fuoco lì è un gioco a perdere. Non è con l’anti-europeismo che si cambia l’Europa, che invece va riformata. E non è con il nazionalismo che si salva l’Italia».
Regolamentazioni come il bail in servono all’Italia?
«In questo campo la battaglia italiana, anche nei confronti della Germania, non può essere quella dallo zero virgola col cappello in mano, ma invece quella di completare l’Unione bancaria, che è rimasta a metà , assieme al fondo di garanzia europeo. La strada la sta indicando Draghi: occorre completare l’Unione economica e sociale».
Fabio Martini
(da “La Stampa”)
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