Aprile 17th, 2017 Riccardo Fucile
ASMA E’ NATA NEL REGNO UNITO E HA LAVORATO NELLA FINANZA PER J.P. MORGAN
Un gruppo di deputati britannici LibDem hanno scritto una lettera al ministro degli Interni Amber
Rudd nella quale si chiede di togliere la cittadinanza ad Asma Assad, la moglie del presidente siriano che è nata nel Regno Unito. Lo riporta il Guardian.
La richiesta è arrivata dopo che Asma ha pubblicato sui social media messaggi di sostegno al regime di Bashar dopo l’attacco chimico e la reazione americana.
«La first lady della Siria ha agito non da privata cittadina ma come portavoce della presidenza siriana», ha spiegato Tom Brake, delegato dei liberaldemocratici per gli affari esteri. «Boris Johnson ha chiesto ai paesi di fare di più per la Siria. Ma il governo britannico potrebbe dire ad Asma: o smetti di usare la tua posizione per difendere atti barbarici oppure ti leviamo la cittadinanza», ha aggiunto.
Dopo i raid degli Stati Uniti la firts lady siriana ha scritto su uno dei suoi profili che «è stato un atto irresponsabile espressione di una visione cieca e limitata della realtà politica e militare». Nata a Londra nel 1975, Asma ha lavorato nella finanza per J.P. Morgan prima di sposarsi con Assad nel 2000.
(da agenzie)
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Aprile 17th, 2017 Riccardo Fucile
FUORI CITTA’ REGNANO POVERTA’ E DESOLAZIONE
Pyongyang ieri ha indossato l’abito delle feste.
«Sono sei mesi – dice il colonnello dell’esercito popolare coreano Jo Bong-Chol – che lavoriamo e ci prepariamo alla parata».
I nordcoreani celebrano in grande stile il «Giorno del Sole» dedicato al fondatore dello Stato e suo «presidente eterno», quel Kim Il-sung nonno dell’attuale leader.
Sfilano i militari e i gioielli tecnologici e missilistici. E poi quattro ore di cori, passo d’oca, pianti di gioia e slogan della parata civile.
Le danze di massa popolari che vengono eseguite con precisione e rigore nelle grandi piazze d’armi sono un tripudio di musiche e colori gioiosi. Alle tinte accese dei lunghi abiti femminili si accompagnano bouquet di fiori finti con i quali vengono eseguite intricate e precise coreografie a tempo di musica. Il senso del regime, al di là della bellezza estetica delle danze, sta tutto qui: annullare l’individualità e promuovere un corpo sociale livellato.
Pyongyang (2,5 milioni di abitanti), è soltanto una delle dimensioni che compongono il Paese, ma indubbiamente quella più scenica e appariscente.
E ancora più quando l’idolatria della storia entra in scena. Negli ultimi tre anni è cambiata molto: interi quartieri sono stati costruiti sulle fondamenta di quelli precedenti, edifici imponenti e colorati innalzati in tempi brevi (la retorica di regime sostiene «nell’arco di un anno»), e nuovi centri ricreativi aperti per intrattenere la popolazione e «adeguarne lo stile di vita a standard contemporanei».
Nelle strade c’è più traffico di un tempo, molte più persone parlano al cellulare e nella metropolitana qualcuno gioca alla versione asiatica di «Candy Crash Saga» sullo smartphone.
Agli angoli dei quartieri sono stati aperti negozi di ogni genere e piccole edicole alimentari che un tempo non esistevano; la classe media è in crescita e incentivata a spendere quel poco che le viene retribuito oltre alle razioni mensili di base.
Tuttavia, l’apparenza di una Pyongyang evoluta e in sviluppo è presto smentita non appena ci si avventura fuori dai confini della capitale. La provincia di Pyongyang, a nord della capitale, è caratterizzata da lande desolate e paesaggi spettrali. Le strade sono in maggior parte sterrate e disastrate.
Per coprire poche decine di chilometri ci possono volere diverse ore di viaggio. I campi destinati all’agricoltura sono in prevalenza rocciosi e vengono arati con fatica, in parte a mano e in parte con l’ausilio di mucche scheletriche che ogni tanto collassano a terra e sembrano non volere più rialzarsi.
I trattori si contano sulle dita di una mano e risalgono al periodo dell’influenza sovietica, mentre non esistono sistemi d’irrigazione e i fertilizzanti scarseggiano. Anche se nel quadro di desolazione alcuni timidi ciuffi d’erba cercano di emergere dal terreno, la siccità sembra avere il sopravvento a discapito degli sforzi di una popolazione stanca ma determinata a eseguire i propri compiti.
A questa desolazione si aggiunge la sospensione, decisa a febbraio da Pechino, delle importazioni di carbone dalla Corea del Nord, per dare efficacia alle risoluzioni Onu contro i test missilistici di Pyongyang. Carbone che rappresenta il 40% dello scambio commerciale Corea-Cina. E Pechino continua a fare pressioni sul suo alleato: Air China ha annunciato che interromperà i voli Pechino-Pyongyang.
Sulle colline intorno a Hoechang, ad appena 60 chilometri da Pyongyang, nei primi Anni 50 erano state combattute alcune delle battaglie più cruente della Guerra di Corea. Su questi crinali – dove le trincee, i cannoni della contraerea e i cunicoli scavati nella roccia sono ancora visibili e rimangono pronti per il prossimo combattimento – anche il figlio maggiore di Mao trovò la morte nel 1950.
Nicola Busca
(da “La Stampa”)
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Aprile 17th, 2017 Riccardo Fucile
UN ALTRO REFERENDUM CHE DIVENTA UN BOOMERANG PER CHI L’HA INDETTO
Ancora una volta, un referendum diventa un boomerang per chi l’ha indetto. Ma all’uomo forte della
Turchia, il presidente Erdogan, va meglio che al premier britannico Cameron — battuto di misura sulla Brexit — e al premier italiano Renzi — travolto sulla riforma costituzionale.
Perchè Erdogan il referendum lo vince, sia pure di stretta misura e non a mani basse come sperava.
La riforma costituzione in senso presidenziale passa, ma il risultato elettorale consegna a Erdogan ormai ‘presidentissimo’ un Paese spaccato, nonostante o, forse, anche a causa della repressione dell’opposizione e delle ‘purghe’ di giudici, generali, professori, intellettuali e giornalisti critici dell’involuzione autoritaria e islamica di un Paese da quasi un secolo laico e aperto all’Europa e all’Occidente.
Nello scrutinio, il sì è partito fortissimo, ma il suo vantaggio s’è progressivamente eroso: quando erano state scrutinate un terzo delle schede, il sì era ben sopra il 60%; alla metà , era sceso sotto il 60%; ai due terzi, era sotto il 55%; e alla fine s’aggirava sul 51%.
Ci sono stati 24 milioni 325mila voti per la riforma, 23 milioni 170mila contro (su 55 milioni di potenziali elettori). Fra i turchi all’estero, che hanno votato con percentuale record (1,3 milioni, il 45%), i no hanno nettamente prevalso con il 60%. Il sì ha vinto nella maggioranza delle 81 province turche.
S’è votato dalle 08.00 alle 17.00 — ore locali. Il referendum non prevedeva un quorum: l’esito veniva deciso dalla maggioranza semplice dei suffragi espressi. Sull’ufficializzazione dei dati, pesano le contestazioni del maggiore partito d’opposizione turco, il Chp socialdemocratico, che mette in discussione il 37% dei suffragi espressi per brogli o irregolarità .
Il risultato del voto allontana ulteriormente e forse definitivamente la Turchia dall’Unione europea, perchè incoraggia scelte, come il ripristino della pena di morte e la subordinazione del giudiziario all’esecutivo, che vanno contro i valori fondanti dell’Unione europea.
E aumenta l’imbarazzo per i Paesi dell’Ue che, con l’intesa raggiunta lo scorso anno, hanno consegnato alla Turchia di Erdogan — con l’impegno a versare somme cospicue — il controllo del flusso dei migranti dalla Siria verso la Grecia e la rotta dei Balcani. Difficile, comunque, a questo punto che i negoziati di adesione, già in stallo, si sblocchino.
Inoltre, il risultato, dando a Erdogan maggiore potere, nonostante il risultato risicato, aumenta l’insicurezza internazionale. Il presidente turco s’è già mostrato uomo dalle alleanze aleatorie: prima amico di Israele, poi nemico; prima nemico della Russia, poi amico, poi di nuovo nemico; prima complice e partner d’affari dell’autoproclamato Califfo, poi in prima linea contro i miliziani del sedicente Stato islamico.
In un contesto internazionale già caratterizzato dalle volatilità e imprevedibilità decisionali di leader come Trump, Assad, Kim, un Erdogan più forte incrementa il potenziale disordine mondiale, mentre accresce il controllo sulla Turchia traversata al proprio interno da opposizioni diverse, etniche, politiche, terroristiche, su cui il regime gioca mescolandole e confondendole.
Non è oggi l’Europa ad allontanarsi dalla Turchia. E la Turchia ad allontanarsi dall’Unione, magari ferita dalle diffidenze e dalle riluttanze mostrate in passato da Bruxelles e da singoli Paesi Ue verso Ankara, le cui aspirazioni europee erano state a più riprese e in tempi diversi tradite o deluse. E ora Erdogan ha la convinzione d’avere di nuovo una spalla a Washington, al di là della collocazione e del ruolo strategici della Turchia nella Nato.
Il ministro degli Esteri turco Cavusoglu, dopo avere votato nel suo seggio ad Antalya, ha criticato quei Paesi stranieri che “hanno cercato di dire ai turchi che cosa dovrebbero fare”. Uno strascico della campagna segnata da forti tensioni, specie tra la Germania e l’Olanda e il regime di Erdogan.
Il referendum e il suo risultato sono l’occasione per fare chiarezza: il discorso dell’adesione all’Ue è chiuso, ammesso che sia mai stato davvero aperto. Il rapporto dell’Unione con la Turchia va gestito senza ambiguità su questo punto: no all’involuzione autoritaria, ma vicinanza a quei cittadini turchi che si battono per difendere la libertà d’espressione, la laicità delle Istituzioni e la democrazia.
Giampiero Gramaglia
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 17th, 2017 Riccardo Fucile
TRA DENUNCE DI BROGLI E CONTESTAZIONI, IL MITO DEL “PONTE” TRA EST E OVEST SCRICCHIOLA SEMPRE PIU’
La Turchia ha scelto. Ha virato verso la repubblica presidenziale. Ha imboccato la via, probabilmente senza ritorno, verso la trasformazione in un’autocrazia di stampo mediorientale.
E’ questa la prima fotografia del paese all’indomani del referendum costituzionale turco del 16 aprile, che ha visto l’Evet, il ‘sì’, vincere di misura con il 51.22% sull’Hayir, il no (al 48.64%), consegnando un paese del tutto spaccato, una volta espressione di un combinazione tra il conservatorismo religioso, il nazionalismo e la crescita economica delle trainanti Tigri Anatoliche.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan, leader dell’AKP, nel suo primo discorso al termine dello spoglio, ha parlato di cambiamento storico, della “democrazia matura” in Turchia.
“Oggi è il giorno della vittoria”, ha detto, richiamando a gioire per il risultato anche chi ha scelto il fronte del ‘no’. “I risultati del referendum hanno portato a qualcosa che spero sia benefico per il nostro paese, a dimostrazione di una maturità eccezionale e che ha votato a favore del cambiamento costituzionale”, ha aggiunto Erdogan.
Non è mancato un accenno, nelle sue parole, al golpe di luglio: da quando cioè nel paese vige lo stato d’emergenza, che ha scandito anche le operazioni di voto di ieri. “Il nostro è un sistema democratico. Oggi la Turchia ha compiuto una scelta storica”.
La percentuale raggiunta dai sostenitori del ‘no’ ha assottigliato di molto il peso specifico della vittoria dell’Evet, in particolare a fronte dell’alta affluenza al voto (circa l’86% degli aventi diritto).
A guardare la mappa fornita dall’agenzia di stampa filogovernativa, l’Anadolu Haber Ajans, che dopo la chiusura dei seggi alle 16 (ora italiana) ha cominciato a colorarsi regione per regione evidenziando la scelta referendaria, il ‘no’ si impone nelle città più grandi, come Istanbul e Ankara, roccaforti dell’AKP, e Smirne.
Sorprende meno il no della zona del sud-est curdo e del più laico Mar Egeo.
La protesta montata nelle settimane scorse da parte del fronte del no si è alla fine rispecchiata anche nelle percentuali di voto del Mar Nero e dell’Anatolia centrale, di ispirazione più conservatrice.
Il voto all’estero sembra poi essere una delle notizie più interessanti: nel resto del mondo, i seggi consegnano una vittoria del sì ancora più forte che nella patria della mezzaluna, con punte in Olanda, Germania e Austria del 76,70% per il sì, contro il 23,30% per il no.
E se la Turchia ha cambiato il suo volto in un giorno, dopo un processo riformista durato anni, in questa giornata campale non è mancata la prova per la sicurezza del paese.
Il presidente Erdogan è arrivato al seggio nel quartiere di Uskudar a Istanbul, scortato da militari armati e con i cecchini schierati sui palazzi intorno. Non sono mancati gli incidenti ai seggi: 3 i morti nella zona di Diyarbakir, dove uno scontro acceso, degenerato in sparatoria, si è registrato tra membri del partito filo curdo, l’HDP, e alcuni dell’AKP.
Un altro momento di tensione si è avuto quando Ali Bayramoglu, ex sostenitore del partito del Sultano e giornalista del quotidiano Yeni Safak, è stato fortemente contestato da alcuni simpatizzanti dell’AKP proprio mentre si stava dirigendo ai seggi per votare.
L’ombra dei brogli intanto si fa sempre più spessa e pesante.
A far sentire la propria voce sono i membri del Chp, il partito repubblicano del popolo: i laici sono decisi a contestare il 60% dei risultati e hanno parlato di 2,5 milioni di voti incerti.
Merak Aksener, leader nazionalista, ha dal canto suo parlato di dati di scrutinio parziali e manipolati. Il tutto a fronte di una missione dell’OSCE, presente in Turchia con 24 osservatori da 7 paesi, che nei giorni scorsi ha prodotto un report (bollato poi come “nullo” dal presidente Erdogan) che evidenziava lo stato di emergenza in cui si è svolto il referendum.
Con il sì non cambia solo la struttura statale di un paese che in tanti avrebbero voluto a modello dell’intero Medio Oriente già alla vigilia delle cosiddette ‘primavere arabe’ e che ha deluso le aspettative di molti che vedevano in lei il “ponte” con l’Europa. Dopo decine di emendamenti alla riforma presidenziale come presentata originariamente, il pacchetto arrivato al voto in questa domenica pasquale prevede 18 modifiche costituzionali, oggetto di discussione da quando Erdogan era ancora sindaco di Istanbul, e cambia totalmente l’assetto nella divisione dei tre poteri, che adesso risulta polarizzata.
Nello specifico, il presidente verrà eletto direttamente dal popolo, potrà legiferare per decreto e assumere tutti i poteri finora in capo al primo ministro, la cui figura verrà abolita. Il presidente avrà inoltre il controllo sul potere giudiziario e sceglierà i ministri.
Scende il numero dei giudici della Corte Costituzionale, che passano da 17 a 15 (12 dei quali nominati dallo stesso Presidente). I componenti dell’Assemblea di Ankara, seppur di fatto depotenziata nei suoi poteri, che da oggi potrà solo chiedere informazioni sull’operato del governo senza poter presentare la mozione di sfiducia, arrivano a 600.
A loro il potere della messa di stato d’accusa del presidente, che richiederà la maggioranza assoluta. Un presidente che potrebbe restare alla guida della Turchia per più tempo del padre della nazione, Ataturk.
La nuova costituzione sarà effettiva nel 2019 e azzererà di fatto il primo mandato di Erdogan, consentendogli di restare in sella fino al 2029, o addirittura fino al 2034 in caso di scioglimento anticipato del Parlamento.
Ad ogni modo, Erdogan avrà adesso mano libera su tutto: il prossimo passo potrebbe essere l’indizione di un nuovo referendum, questa volta sulla pena di morte, abolita nel 2004 quando lo spirito europeista nel paese sembrava essere una certezza.
Ed è così che la scelta referendaria fa allontanare ancora di più il paese del Sultano dalla vicina Europa, creando una frattura su quel ponte che in un tempo non tanto lontano rappresentava una finestra tra Est e Ovest.
Alessia Chiriatti
(da “La Stampa”)
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