Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
RICOLLOCATO IN EUROPA L’82% DEI MIGRANTI ARRIVATI… E ANCHE I RIMPATRI FORZATI SONO AUMENTATI DEL 10%… LA PACCHIA SOVRANISTA E’ FINITA
I dati parlano chiaro e non sono soggetti a interpretazioni o peggio manipolazioni sovraniste: sono quelli ufficiali del Viminale e riguardano i primi otto mesi dell’anno quando governava Salvini e gli ultimi quattro a gestione Lamorgese.
Dato generale: i migranti approdati in Italia nel 2019 sono 11.097 contro i 23.126 dello scorso anno.
Ricollocamenti in altri Paesi europei
In applicazione all’accordo di Malta voluto tenacemente dalla Lamorgese in relazione ai ricollocamenti dei migranti salvati dalle navi umanitarie e sbarcati in Italia si è raggiunto l’82 per cento dei migranti sbarcati presi in carico dalla Ue.
Primi otto mesi dell’anno gestiti da Salvini: 85 migranti ricollocati, media di 11 al mese.
Ultimi quattro mesi gestiti da Lamorgese: 345 migranti ricollocati, media di 86 al mese.
Il Viminale fa sapere che “grazie ad uno snellimento delle procedure i tempi di ricollocamento saranno sempre più rapidi e quindi anche i trasferimenti”.
I dati parziali dei rimpatri per i migranti che non hanno diritto all’asilo sono in aumento del 10% rispetto alla gestione Salvini e Lamorgese sta lavorando in silenzio per incrementarli ulteriormente nei primi mesi dell’anno prossimo.
(da agenzie)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
ALTRA CLAMOROSA GAFFE: I RIFIUTI ROMA LI MANDA IN VENETO E IN ABRUZZO… MA SE LI MANDASSE A SMALTIRE NEGLI IMPIANTI ALL’AVANGUARDIA IN EMILIA ROMAGNA SAREBBERO MILIONI CHE PIOVEREBBERO SUI COMUNI EMILIANI: LA LEGHISTA CI VUOLE SPUTARE SOPRA?
Lucia Borgonzoni, la candidata della Lega alla guida dell’Emilia-Romagna ha le idee chiare, anzi chiarissime.
Sulla Sanità e sull’addizionale regionale IRPEF vuole fare come il Veneto, su altre
cose invece il modello Veneto viene accantonato per amor di propaganda.
Il nuovo fronte è quello dei rifiuti. Ieri dallo zio Giletti Salvini ha detto che «una Roma così sporca, disorganizzata, con i topi in strada, le buche, i gabbiani, gli autobus in fiamme non l’ho mai vista».
La Borgonzoni ha subito rilanciato andando all’attacco su un presunto accordo per i rifiuti romani al grido di «l’Emilia-Romagna non è la discarica del Paese».
Con chi ce l’ha la senatrice leghista? Con l’attuale presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che a suo dire ha voluto questo famigerato accordo per “importare” i rifiuti di Roma e che rientra «nella strategia di Bonaccini per cercare di ammiccare ai vertici dei Cinque Stelle sperando di raggranellare qualche voto alle elezioni».
Per qualche oscura ragione alchemica dare una mano alla Raggi a Roma trasformerebbe i rifiuti in voti per il PD alle Regionali.
Eppure quando nel 2018 l’Emilia-Romagna si era offerta di “accogliere” nei termovalorizzatori di Parma, Modena e Granarolo nel bolognese 15mila tonnellate di rifiuti romani non risulta che la Borgonzoni o la Lega si fossero opposti. Del resto Salvini è uno dei più accesi sostenitori della costruzione degli inceneritori. E c’è di più: gli inceneritori, per funzionare e per produrre utili, hanno bisogno di rifiuti.
Succede però che Bonaccini abbia smentito l’esistenza dell’accordo di cui parla Borgonzoni: «non c’è alcun accordo in essere o in discussione per importare rifiuti di Roma in Emilia-Romagna».
Nessuna strategia per guadagnarsi i favori dei pentastellati. Quelli che a Parma avevano eletto il sindaco che doveva bloccare l’inceneritore che nel 2017 avrebbe dovuto accogliere parte dell’indifferenziato romano che la Capitale e il Lazio non sono in grado di smaltire.
E il bello è che in passato l’indifferenziato romano, quello destinato ai termovalorizzatori, in Emilia-Romagna ci andava senza problemi, e senza che i leghisti facessero le barricate per fermarlo.
La ragione è semplice: per la città che “esporta” i suoi rifiuti altrove si tratta di un costo, per gli impianti che li “importano” invece si tratta di un guadagno, visto che Roma paga circa 150 euro a tonnellata gli impianti fuori regione che si occupano dello smaltimento
E proprio con la Raggi la Capitale aveva deciso di mandare i suoi rifiuti indifferenziati a Vienna e in Abruzzo (ma anche a Padova, dove c’è un termovalorizzatore del gruppo HERA).
In Emilia-Romagna invece per il M5S costava “troppo” mandarli (sbagliando pure i conti) e AMA chiese all’Abruzzo di aprire un accordo interregionale per lo smaltimento dei rifiuti.
Ora al di là del fatto che i rifiuti romani possano andare a Padova (che è in Veneto) piuttosto che a Parma è un semplice dettaglio.
Quello che Borgonzoni dovrebbe capire è che per i suoi concittadini dell’Emilia-Romagna i rifiuti “altrui” rappresentano un affare perchè generano profitto per gli azionisti di HERA, tra questi ci sono 118 comuni, molti dei quali si trovano in Emilia-Romagna come Bologna (che detiene il 12,599%), Modena (6,863%), Imola (7,375%) e Ravenna (6,470%).
In breve: la candidata del partito che è favorevole agli inceneritori non si accorge che senza materia prima (l’Emilia-Romagna ha una percentuale molto alta di differenziata) quelle strutture non potrebbero funzionare e racconta di improbabili favori da parte di Bonaccini alla Raggi.
Pecunia non olet, ma forse per la Borgonzoni il problema è proprio quello.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
“INCOMPRENSIBILE, PRIMA DOVEVA PARLARNE CON NOI”… IL GIOCO DELLE PARTI: UNO IN DIFFICOLTA’ CERCA DI FARSI L’IMMAGINE DA STATISTA, L’ALTRA GIOCA A FARE LA PASDARAN INTRANSIGENTE
Giorgia Meloni non ci sta.
Alla leader di Fratelli d’Italia non piace la proposta di governissimo di Salvini che secondo alcuni sarebbe dettata da un accordo con Renzi.
E in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera la presidente del partito più in crescita negli ultimi sondaggi dice che il Capitano prima di annunciarla avrebbe dovuto parlarne con gli alleati:
«È una proposta incomprensibile. Che peraltro Salvini ha fatto a Pd e M5S prima di sottoporla a noi, i suoi alleati. Mi sembra un modo alquanto strano di tenere i rapporti nella propria coalizione».
Ma cosa non si capisce, Giorgia Meloni, della richiesta di Matteo Salvini a Conte di un tavolo con tutti i leader di partito per affrontare assieme «cinque emergenze» e poi tornare al voto?
«Intanto il merito: si vuole andare al governo insieme, o si vogliono scrivere assieme provvedimenti su alcune materie?».
Nel primo caso, cosa risponderebbe? «Proposta irricevibile, come è ovvio».
Giancarlo Giorgetti la butta lì: magari, con Mario Draghi premier, un governo d’emergenza potrebbe avere un senso…
«Ma basta con governi nati in laboratorio: se Draghi vuole fare il premier si candidi, e se vince farà il premier. Qualunque altra ipotesi per me non esiste».
Torniamo a Salvini allora: un tavolo per affrontare alcune emergenze sarebbe davvero impossibile?
«Vediamo di essere chiari: se la maggioranza propone provvedimenti condivisibili, noi non abbiamo problemi: FdI ha votato il taglio dei parlamentari, quando tutte le altre opposizioni votavano contro. Ma sulle grandi materie, come si può pensare che ci si trovi tutti d’accordo?».
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
MA IN ITALIA PAGA SOLO LA SPECULAZIONE RAZZISTA SUI POCHI IMMIGRATI CHE ARRIVANO DALL’AFRICA (IN CALO DEL 17%), DEGLI ITALIANI COSTRETTI A CERCARE LAVORO ALL’ESTERO AI SOVRANISTI NON FREGA UNA MAZZA
Aumentano gli italiani che si trasferiscono all’estero, diminuiscono invece gli immigrati dall’Africa. A rivelarlo sono i dati dell’Istat.
Nel 2018 le cancellazioni anagrafiche per l’estero sono 157 mila (+1,2% sul 2017). Di queste, quasi tre su quattro riguardano emigrati italiani (117 mila, +1,9%).
Le iscrizioni anagrafiche dall’estero sono circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all’anno precedente (-3,2%) dopo i costanti incrementi registrati tra 2014 e 2017.
Sono dunque 816 mila gli italiani che si sono trasferiti all’estero negli ultimi 10 anni.
Oltre il 73% ha 25 anni e più; di questi, quasi tre su quattro hanno un livello di istruzione medio-alto.
Il calo, invece, degli immigrati in Italia provenienti dal continente africano nel 2018 è pari al -17%
Gli italiani emigrati
Nel decennio 1999-2008 gli italiani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati complessivamente 428 mila a fronte di 380 mila rimpatri, con un saldo negativo di 48 mila unità . Dal 2009 al 2018 si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni per l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri); di conseguenza, i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 70 mila unità l’anno.
La regione da cui emigrano più italiani, in valore assoluto, è la Lombardia con un numero di cancellazioni anagrafiche per l’estero pari a 22 mila, seguono Veneto e Sicilia (entrambe oltre 11 mila), Lazio (10 mila) e Piemonte (9 mila).
In termini relativi, rispetto alla popolazione italiana residente nelle regioni, il tasso di emigratorietà più elevato si ha in Friuli-Venezia Giulia (4 italiani su 1.000 residenti), Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta (3 italiani su 1.000), grazie anche alla posizione geografica di confine che facilita i trasferimenti con i paesi limitrofi.
Tassi più contenuti si rilevano nelle Marche (2,5 per 1.000), in Veneto, Sicilia, Abruzzo e Molise (2,4 per 1.000). Le regioni con il tasso di emigratorietà con l’estero più basso sono Basilicata, Campania e Puglia, con valori pari a circa 1,3 per 1.000.
A un maggior dettaglio territoriale, i flussi di cittadini italiani diretti verso l’estero provengono principalmente dalle prime quattro città metropolitane per ampiezza demografica: Roma (8 mila), Milano (6,5 mila), Torino (4 mila) e Napoli (3,5 mila); in termini relativi, tuttavia, rispetto alla popolazione italiana residente nelle province, sono Imperia e Bolzano (entrambe 3,6 per 1.000), seguite da Vicenza, Trieste e Isernia (3,1 per 1.000) ad avere i tassi di emigratorietà provinciali degli italiani più elevati; quelli più bassi si registrano invece a Parma e Matera (1 per 1.000).
Nel 2018 il Regno Unito continua ad accogliere la maggioranza degli italiani emigrati all’estero (21 mila), seguono Germania (18 mila), Francia (circa 14 mila), Svizzera (quasi 10 mila) e Spagna (7 mila). In questi cinque paesi si concentra complessivamente il 60% degli espatri di concittadini. Tra i paesi extra-europei, le principali mete di destinazione sono Brasile, Stati Uniti, Australia e Canada (nel complesso 18 mila).
Gli spostamenti interni
Si continua a spostarsi per i lavoro dal Sud verso il Settentrione e il Centro Italia e il fenomeno è in lieve aumento. Secondo il rapporto Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente | nel 2018, sono oltre 117 mila i movimenti da Sud e Isole che hanno come destinazione le regioni del Centro e del Nord (+7% rispetto al 2017). A soffrire sono soprattutto Sicilia e Campania, che nel 2018 perdono oltre 8.500 residenti italiani laureati di 25 anni e più per trasferimenti verso altre regioni.
I flussi di cittadini stranieri
Tra gli italiani che espatriano si contano anche i flussi dei cittadini di origine straniera : si tratta di cittadini nati all’estero che emigrano in un paese terzo o fanno rientro nel luogo di origine, dopo aver trascorso un periodo in Italia e aver acquisito la cittadinanza italiana.
Le emigrazioni di questi “nuovi” italiani, nel 2018, ammontano a circa 35 mila (30% degli espatri, +6% rispetto al 2017). Di questi, uno su tre è nato in Brasile (circa 12 mila), il 10% in Marocco, il 6% in Germania, il 4% nella ex Jugoslavia e in Bangladesh, il 3,5% in India e in Argentina.
I paesi dell’Unione europea si confermano le mete principali anche degli espatri dei “nuovi” italiani (55% dei flussi degli italiani nati all’estero).
In particolare, con riferimento al collettivo dei connazionali diretti nei paesi dell’Ue, si osserva che il 17% è nato in Marocco, il 16% in Brasile, il 7% nel Bangladesh.
Ancora più in dettaglio, i cittadini italiani di origine africana emigrano perlopiù in Francia (62%), quelli nati in Asia nella stragrande maggioranza si dirigono verso il Regno Unito (90%) così come fanno, ma in misura molto più contenuta, i cittadini italiani nativi dell’America Latina (26%). I cittadini nati in un paese dell’Ue invece emigrano soprattutto in Germania (42%).
Età e livello di istruzion
Nel 2018, gli italiani espatriati sono prevalentemente uomini (56%). Fino ai 25 anni, il contingente di emigrati ed emigrate è ugualmente numeroso (entrambi 18 mila) e presenta una distribuzione per età perfettamente sovrapponibile.
A partire dai 26 anni fino alle età anziane, invece, gli emigrati iniziano a essere costantemente più numerosi delle emigrate: dai 75 anni in poi le due distribuzioni tornano a sovrapporsi. L’età media degli emigrati è di 33 anni per gli uomini e 30 per le donne. Un emigrato su cinque ha meno di 20 anni, due su tre hanno un’età compresa tra i 20 e i 49 anni mentre la quota di ultracinquantenni è pari al 13%.
Considerando il livello di istruzione posseduto al momento della partenza, nel 2018 più della metà dei cittadini italiani che si sono trasferiti all’estero (53%) è in possesso di un titolo di studio medio-alto: si tratta di circa 33 mila diplomati e 29 mila laureati. Rispetto all’anno precedente le numerosità dei diplomati e laureati emigrati sono in aumento (rispettivamente +1% e +6%). L’incremento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto a cinque anni prima gli emigrati con titolo di studio medio-alto crescono del 45%, rispetto a 10 anni prima sono 182 mila.
Quasi tre cittadini italiani su quattro trasferitisi all’estero hanno 25 anni o più: sono poco più di 84 mila (72% del totale degli espatriati); di essi 27 mila (32%) sono in possesso di almeno la laurea.
In questa fascia d’età si riscontra una lieve differenza di genere: nel 2018 le italiane emigrate sono circa il 42% e di esse oltre il 35% è in possesso di almeno la laurea, mentre, tra gli italiani che espatriano (58%), la quota di laureati è pari al 30%. Rispetto al 2009, l’aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10 punti percentuali) che tra gli uomini (+7%), Tale incremento risente in parte dell’aumento contestuale dell’incidenza di donne laureate nella popolazione (dal 5,3% del 2008 al 7,5% del 2018).
I rimpatr
L’altra faccia della medaglia è costituita dai rimpatri: nel 2018, considerando il rientro degli italiani di 25 anni e più con almeno la laurea (13 mila), la perdita netta (differenza tra rimpatri ed espatri) di popolazione “qualificata” è di 14 mila unità . Tale perdita riferita agli ultimi dieci anni ammonta complessivamente a poco meno di 101 mila unità .
La ripresa delle emigrazioni di cittadini italiani è da attribuire in parte alle difficoltà del nostro mercato del lavoro, soprattutto per i giovani e le donne e, presumibilmente, anche al mutato atteggiamento nei confronti del vivere in un altro Paese – proprio delle generazioni nate e cresciute in epoca di globalizzazione- che induce i giovani più qualificati a investire con maggior facilità il proprio talento nei paesi esteri in cui sono maggiori le opportunità di carriera e di retribuzione .
I programmi specifici di defiscalizzazione, messi in atto dai governi per favorire il rientro in patria delle figure professionali più qualificate, non si rivelano quindi del tutto sufficienti a trattenere le giovani risorse che costituiscono parte del capitale umano indispensabile alla crescita del Paese.
Le iscrizioni anagrafiche dall’estero registrate nel corso del 2018 ammontano a 332.324, in calo del 3,2% rispetto all’anno precedente; di queste, 286 mila riguardano cittadini stranieri (86% del totale). A livello nazionale il tasso di immigratorietà è pari a 4,7 immigrati stranieri ogni 1.000 abitanti.
I flussi migratori verso l’Italia
L’andamento dei flussi migratori in ingresso nell’ultimo decennio per macro-aree di provenienza evidenzia un calo generale delle immigrazioni per tutti i paesi esteri: dopo l’incremento dovuto alle regolarizzazioni e all’ingresso di Romania e Bulgaria nell’Unione europea osservato nei primi anni Duemila, i trasferimenti dall’estero hanno avuto un lento declino.
Dal 2015 al 2017 le immigrazioni sono tornate ad aumentare per via dei flussi numerosi provenienti dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo, caratterizzati prevalentemente da cittadini in cerca di accoglienza per asilo e protezione umanitaria . Nel 2018, questi ingressi hanno subito una battuta d’arresto.
Nel 2018 le iscrizioni anagrafiche dall’estero più numerose provengono, in valore assoluto, da paesi europei: la Romania con 37 mila ingressi (11% del totale) si conferma il principale paese di origine seppur in deciso calo (-10% rispetto al 2017). Meno numerosi i flussi provenienti dall’Albania (oltre 18 mila) ma in forte aumento rispetto all’anno precedente (+16%).
Seguono le iscrizioni da Ucraina (8 mila, -2%), Germania (oltre 7 mila, +9%) e Regno Unito (poco meno di 7 mila, +12%). Per gli ultimi due flussi si tratta prevalentemente di cittadini italiani che fanno rientro in patria dopo un soggiorno all’estero.
Nettamente in diminuzione le immigrazioni provenienti dal continente africano, in particolare quelle provenienti da Nigeria (18 mila, -24%), Senegal (9 mila, -20 %), Gambia (6 mila, -30%), Costa d’Avorio (5 mila, -27%) e Ghana (5 mila, -25%) che durante il 2017 avevano fatto registrare aumenti record.
Il Marocco è l’unico paese africano che segna una variazione positiva rispetto all’anno precedente (17 mila, +9%).
Tra i flussi provenienti dall’area asiatica, i più cospicui sono quelli da Bangladesh e Pakistan (entrambi 13 mila, ma in calo rispettivamente di 8% e 12%), le immigrazioni dall’India invece ammontano a oltre 11 mila e aumentano del 42% rispetto al 2017.
In aumento anche le iscrizioni dall’America: dal Brasile si contano circa 24 mila iscritti (+18%), dal Venezuela circa 6 mila (+43%) e dagli Stati Uniti oltre 4 mila (+16%).
Le immigrazioni di cittadini italiani ammontano a 47 mila nel 2018 (14% del totale iscritti dall’estero).
Si tratta di flussi provenienti in larga parte da paesi che sono stati in passato mete di emigrazione italiana. Ai primi posti della graduatoria per provenienza si trovano, infatti, Brasile e Germania (che insieme originano complessivamente un quarto dei flussi di immigrazione italiana), Regno Unito (10% sul totale immigrati italiani), Svizzera (9%) e Venezuela (7%). Per alcuni di essi è plausibile l’ipotesi del rientro in patria dopo un periodo di permanenza all’estero.
(da agenzie)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
PERCHE’ SALVINI E DI MAIO, ALLORA VICEPREMIER, NON HANNO DATO L’ALLARME E NON SONO INTERVENUTI E ORA FANNO FINTA DI NON SAPERE?
Un’eventuale liquidazione della Banca Popolare di Bari, da venerdì sotto commissariamento, avrebbe “rilevanti ricadute” su economia e risparmio locale, per non parlare di un possibile “effetto contagio” a causa di una crisi di fiducia in altre piccole banche del territorio.
In un documento in cui ricostruisce le tappe della vicenda dell’istituto pugliese, Bankitalia si difende dalle accuse, sottolineando che il Governo sapeva della gravità della situazione da febbraio, e spiega perchè il salvataggio era inevitabile.
In una lunga nota, Bankitalia ripercorre la cronistoria della Popolare di Bari dal 2010 a oggi. A inizio 2019 fissa l’ultimo stallo gestionale, a febbraio 2019 la comunicazione al Governo gialloverde della gravità della situazione:
“Nella prima metà del 2019, in numerosi incontri svoltisi in rapida successione, la Vigilanza sottolinea agli esponenti aziendali la necessità di preservare la coesione nella governance in una fase particolarmente delicata per la banca. Inoltre, in vista del parziale rinnovo del Cda, nel maggio 2019 la Banca d’Italia trasmette una lettera di intervento al Collegio sindacale e al Cda per sottolineare la necessità di inserire nel Cda elementi dotati di autorevolezza, reputazione e adeguati requisiti di esperienza. Il Cda registra un parziale rinnovo a fine luglio 2019. Il 18 giugno 2019 vengono avviati presso la capogruppo accertamenti ispettivi di vigilanza a spettro esteso.
L’ispezione si concentra in una prima fase sul ricambio della governance, avvenuto a fine luglio, per poi passare all’analisi della qualità del credito. I risultati, ufficializzati a dicembre, evidenziano l’incapacità della nuova governance di adottare con sufficiente celerità ed efficacia le misure correttive necessarie per superare la stasi operativa e riequilibrare la situazione reddituale e patrimoniale della BPB. Emergono inoltre gravi perdite patrimoniali che portano i requisiti prudenziali di Vigilanza al di sotto dei limiti regolamentari.
Nel corso del periodo descritto continui sono stati gli scambi informativi con la Consob, documentati in numerosi resoconti di incontri e in una ventina di lettere formali. Numerose e continue sono state inoltre le interlocuzioni con l’Autorità giudiziaria. L’aggravamento della situazione aziendale della Popolare di Bari è stato più volte portato all’attenzione anche del Ministro dell’Economia (lettere del 27 febbraio, 3 maggio, 2 ottobre e 26 novembre 2019)”.
Nel suo approfondimento, Bankitalia sottolinea perchè sia stato necessario l’intervento del Governo per la Popolare di Bari sia per i risparmiatori, sia per i territori di riferimento della banca, sia per l’impatto occupazionale di una liquidazione.
Alla banca fanno capo poco meno di 600.000 clienti, tra cui oltre 100.000 aziende; a queste ultime è riferibile circa il 60% degli impieghi (intorno a 6 miliardi di euro). I depositi da clientela ammontano a 8 miliardi, di cui 4,5 miliardi di ammontare unitario inferiore a 100.000 euro e come tali protetti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD). La banca ha quote di mercato significative, nell’intorno del 10%, sia degli impieghi sia della raccolta, in Puglia, Basilicata e Abruzzo. Il radicamento capillare della banca e la sua natura di cooperativa sul territorio hanno determinato l’ampia diffusione degli strumenti finanziari emessi dalla banca
Il numero dei soci è pari a 70.000 circa, con quote di partecipazione mediamente pari a 2.500 azioni, corrispondenti a 5.900 euro, considerando l’ultimo prezzo rilevato sul mercato Hi-MTF prima della recente sospensione (2,38 euro).
Le obbligazioni della banca (senior e subordinate), pari nel complesso a 300 milioni di euro, sono per oltre i due terzi in mano a privati e clientela al dettaglio.
Nell’ipotesi in cui si dovesse pervenire a uno scenario liquidatorio con rimborso dei depositanti (senza cessione di attività e passività ad un altro intermediario), le ricadute del dissesto sarebbero assai rilevanti, sia sul tessuto economico sia sul risparmio locale. La liquidazione implicherebbe innanzitutto l’azzeramento del valore delle azioni che esacerberebbe il contenzioso legale con i soci, già elevato a motivo delle modalità di collocamento degli aumenti di capitale 2014-15 (550 milioni, quasi integralmente sottoscritti da clientela al dettaglio), ritenute dalla Consob non coerenti con la normativa sui servizi di investimento e da essa sanzionate.
Subirebbero la stessa sorte anche i prestiti subordinati (ca. 290 mln, di cui 220 mln collocati a clientela al dettaglio)
Sulla base di prime stime, verrebbero inoltre colpiti integralmente i creditori chirografari e i depositi eccedenti i 100.000 euro non riconducibili a famiglie e piccole imprese, con il rischio che siano colpiti, in quota parte, anche quelli superiori a 100.000 euro facenti capo a tali ultimi soggetti.
Il FITD dovrebbe effettuare rimborsi a favore dei depositanti protetti per un importo complessivo di 4,5 mld di euro circa, a fronte di una dotazione finanziaria che a dicembre 2019 sarà pari a 1,7 mld.
Ciò implicherebbe l’esigenza di attivare integralmente il finanziamento per 2,75 mld. sottoscritto nell’agosto 2019 dal FITD con un pool di banche e finalizzato a fornire prontamente al Fondo risorse per i rimborsi. Per la restituzione del finanziamento potrebbe essere necessario il ricorso a contribuzioni straordinarie a carico del sistema bancario, che determinerebbero perdite significative.
La cessazione dell’attività della banca implicherebbe il blocco dell’operatività con forte pregiudizio della continuità di finanziamento di famiglie e imprese; gli impatti sul territorio sarebbero considerevoli, anche alla luce della cospicua quota degli impieghi erogati dalla banca nelle regioni di insediamento. Anche gli impatti occupazionali (circa 2.700 dipendenti) sarebbero rilevanti e difficilmente assorbibili dalla debole economia locale.
La crisi della BPB potrebbe inoltre incrinare la fiducia dei depositanti di altre piccole banche locali, innescando un effetto contagio.
Tutto ciò rende di fatto non praticabile una liquidazione dell’intermediario senza cessione di attività e passività ; quest’ultima opzione richiede l’individuazione di una banca interessata ad acquisire il compendio aziendale e ciò potrebbe risultare particolarmente problematico a causa delle difficili condizioni economiche dell’area di insediamento e della situazione dell’azienda.
La cessione di attività e passività sarebbe comunque impossibile (per carenza di controparti interessate) senza un consistente aiuto di Stato a fondo perduto, al fine di coprire lo sbilancio di cessione e, in funzione delle richieste del cessionario, anche gli oneri di riorganizzazione e il fabbisogno di capitale a fronte degli assorbimenti patrimoniali da parte delle attività acquisite, secondo lo schema della liquidazione delle banche venete.
(da agenzie)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
IN 5 ANNI TAGLIATI 30.000 DIPENDENTI… MA NEL 2019 L’UTILE SALIRA’ A 10,5 MILIARDI
Le banche italiane tagliano i lavoratori mentre aumentano gli utili.
Vittoria Puledda su Repubblica Affari & Finanza racconta come i primi dieci istituti di credito italiani registreranno nel 2019 una forte crescita degli utili netti.
Ma grazie anche a una drastica cura di tagli: in cinque anni sono usciti dall’organico o stanno per farlo circa 30.000 dipendenti
I primi dieci istituti italiani hanno bilanci in crescita ma al tempo stesso stanno pianificando una drastica cura di riduzione del personale: in cinque anni sono usciti o stanno per farlo 30.000 dipendenti.
Secondo le stime di Bloomberg dovrebbero chiudere l’anno sfiorando i 10,5 miliardi di utili, al netto delle poste straordinarie.
Intanto però riducono il personale, anche se senza sanguinosi piani di ristrutturazione aziendale con annessi licenziamenti: si tratta di pensionamenti che non vengono sostituiti ma sono anticipati magari grazie a Quota 100, uscite volontarie o incentivi all’esodo.
Un modo come un altro per ridurre il peso — e quindi il costo — della manodopera in un settore dove l’automazione sta prendendo il posto dell’impiegato allo sportello.
Anche perchè, come è stato ricordato recentemente da Fabio Panetta — appena nominato membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea — l’onda lunga del Fintech non è ancora arrivata in pieno sul mondo del credito.
Si vedrà se avrà davvero la forza di uno tsunami, ma certo non sarà limitata a pochi prodotti com’è adesso.
Così come sono ancora relativamente scarsi gli investimenti in tecnologia fatti dalle banche italiane (che per ora si sono dedicate in modo prevalente al settore della sicurezza). Insomma, le trasformazioni alle porte avranno una potenza difficile da valutare.
E questo spinge sicuramente gli istituti di credito ad azionare la leva più diretta (e più facile), quella dei costi del personale.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
PER SALVARE I RISPARMIATORI DELLA BANCA CI SONO SOLO DUE OPZIONI: BAIL IN O SALVATAGGIO PUBBLICO… ESSERE CONTRO IL BAIL IN VUOL DIRE FAR PAGARE IL BUCO AI CONTRIBUENTI, QUELLO CHE VUOLE SALVINI
Ieri sera Matteo Salvini era a Bari ed era anche in collegamento con lo “zio” Massimo Giletti a Non è l’Arena.
Quale migliore occasione par parlare della crisi della Banca Popolare di Bari e attaccare il governo? Ed infatti il leader della Lega ha imbracciato lo scudo e si è subito schierato a difesa dei risparmiatori (anzi i “piccoli risparmiatori”), delle famiglie e dei cittadini.
In che modo? Chiedendo di modificare la direttiva europea sulle banche, quella che prevede il bail in.
Durante il suo intervento Salvini ha detto che «la direttiva europea sulle banche, il famoso bail in che più o meno vale il MES di oggi deve essere cambiato perchè non è possibile che paghino le famiglie per errori di qualcuno che sta ai vertici delle banche per mancato controllo di chi è pagato per controllare».
Sull’account Twitter ufficiale del leader della Lega il concetto è stato sintetizzato così: «bail in deve essere cambiato. Non possono pagare i cittadini per errori di certi vertici».
Come al solito quello che Salvini vuole dire non è chiaro. Perchè al di là della generica e taumaturgica proposta di “cambiamento” (dal MES, all’Emilia Romagna passando per i trattati europei) non è chiaro come secondo la Lega dovrebbe essere cambiata la direttiva BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive).
Perchè Matteo Salvini non dice come intende salvare la Popolare di Bari?
Dopo il commissariamento ci sono sostanzialmente due opzioni: il bail in o il salvataggio pubblico. Ce ne sarebbe anche un’altra, vale a dire la possibilità di vendere parte dell’istituto ad un’acquirente privato ma è evidente che in pochi sarebbe intenzionati a farlo.
La Lega non vuole il bail in, quindi l’unica possibilità per salvare la Popolare di Bari è quella di utilizzare i soldi pubblici, ovvero quelli dei contribuenti e dei cittadini.
Ma al tempo stesso la Lega non vuole che siano i cittadini a pagare per gli errori dei vertici quindi non si capisce in che modo si potrebbe salvare, secondo i leghisti, la banca.
Perchè se non si vogliono toccare o usare i soldi dei contribuenti l’unica strada percorribile è quella del bail in (che significa appunto salvataggio interno).
Durante la procedura di bail si procede alla svalutazione di azioni e crediti per convertirli in azioni al fine di assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in difficoltà . La direttiva europea tanto contestata da Salvini stabilisce una gerarchia di chi deve essere chiamato a coprire le perdite siano azionisti, obbligazionisti e correntisti sopra i 100 mila euro (ovvero per la parte eccedente i 100 mila euro).
I cosiddetti piccoli risparmiatori che hanno un deposito inferiore ai 100mila euro invece non sono chiamati a dover ripianare le perdite della banca perchè sono protetti dal Fondo di garanzia dei depositi.
Abolire o “modificare” il bail in significa che per salvare una banca — e i risparmi privati dei correntisti — si vogliono usare i soldi dei cittadini e dei contribuenti.
Nel caso della Popolare di Bari, ammesso e non concesso che Salvini sappia cosa sia il bail in, il leader del Carroccio sembra voler dire che deve essere lo Stato a ricapitalizzare la banca.
Qualcuno quindi pagherà per mantenere le promesse di Salvini, ma non saranno i famigerati “banchieri” (per i quali eventualmente ci sarà un processo e ai quali penseranno i giudici). Salvini vuole salvare la Popolare di Bari con i soldi di tutti gli italiani? Lo dica senza giri di parole.
Se invece pensa che possano essere i “banchieri” a metterli di tasca propria o è ingenuo o è in malafede.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
L’ANALISI DI CARLO COTTARELLI SUL TRACOLLO DELLA BANCA POPOLARE DI BARI: “TROPPI PICCOLI PRESTITI ELARGITI SENZA GARANZIE ADEGUATE”
“Serve nazionalizzare” la Banca Popolare di Bari, “come sostiene Di Maio?”. Per Carlo Cottarelli, nazionalizzare non ha senso e lo Stato avrà solo svantaggi. L’economista spiega il suo punto di vista in un’analisi sulla Stampa:
â€³È una domanda che non ha molto senso nell’immediato. Se i soldi immessi nella Popolare di Bari andranno a costituire, come sembra inevitabile, parte del capitale della banca è ovvio che lo stato, indirettamente, diventerà in parte proprietario della banca. La questione, semmai, è se lo Stato debba rimanere permanentemente nel capitale della banca come, per ora, è rimasto nel capitale del Monte dei Paschi. Io non vedo quale vantaggio rispetto al settore privato abbia lo stato nel gestire una banca. Ed è paradossale che quelli che ora dicono che le perdite della Popolare di Bari erano dovute a intrallazzi tra banca e politica, vengono poi a proporre la sua nazionalizzazione. Misteri della politica!”
Cottarelli osserva come il tracollo della Popolare di Bari “fosse annunciato”, ma sottolinea l’importanza di rispondere lo stesso a quattro domande sulle sue cause e conseguenze:
“Primo, perchè la Popolare di Bari è andata in crisi?
[…] È chiaro che ad andare in crisi sono le banche mal gestite. E sembra proprio che la Popolare di Bari sia stata mal gestita con prestiti dati a chi non era poi in grado di ripagarli […]. È probabile che, come in tutti gli altri casi di crisi bancarie degli ultimi anni, le perdite non siano dovute a pochi prestiti di importo elevatissimo, ma a un numero elevatissimo di prestiti di ogni dimensione. Questo è importante perchè ci si tolga dalla testa l’idea che sia possibile recuperare facilmente le perdite […] al contrario di quello che alcuni politici sembrano suggerire, non c’è modo di recuperare le perdite, se non in piccola parte”.
Seconda domanda: chi ci metterà ora i soldi per coprire quelle perdite?
″[… ] in questo caso non c’è dubbio che ci siano anche risorse immesse, indirettamente, dallo Stato”.
Terza domanda: a cosa servirà il miliardo immesso nella Popolare di Bari?
”[…] non è ancora chiaro – sottolinea Cottarelli – chi verrà protetto con i soldi pubblici”.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 16th, 2019 Riccardo Fucile
LA PROTESTA DELLE ALTRE ONG ANCORA BLOCCATE DAI SEQUESTRI AMMINISTRATIVI DEL DECRETO SICUREZZA: “LIBERATE LE NOSTRE BARCHE, ABBIAMO VITE DA SALVARE”
Tre missioni di soccorso in mare nei giorni di Natale. Le navi umanitarie tornano nel Mediterraneo in un momento particolarmente difficile in Libia dove decine di migliaia di migranti cercano di sfuggire alla guerra.
Tre giorni fa è ripartita da Marsiglia la Ocean Viking di Sos Mediterranèe e Medici senza frontiere, da Napoli invece si è mossa la spagnola Open Arms e nei prossimi giorni riprenderà il mare da Palermo anche la Alan Kurdi della tedesca Sea-eye. ” Salpiamo! La missione 72 fa rotta verso il Mediterraneo centrale, la frontiera più letale del pianeta – dice la Open Arms – questo Natale lo passeremo lì per proteggere chi rischia la vita e per chiedere a tutti: a che distanza dalla riva si perde il diritto alla vita?”.
Ferme, ancora sotto sequestro amministrativo nei porti siciliani in virtù del decreto sicurezza, restano la Sea-Watch, le due imbarcazioni di Mediterranea, la Mare Jonio e la Alex, e la Eleonore della tefesca LIfeline.
Le Ong hanno più volte sollecitato il nuovo governo a liberare le navi ma il loro appello non è stato accolto ed è in corso una battaglia legale davanti ai tribunali amministrativi.
Da nove giorni in Italia non si registrano sbarchi, nè autonomi nè con barche di soccorso. Il forte maltempo ha rallentato le partenze ma diverse barche sono state comunque intercettate dalla guardia costiera libica e riportate indietro.
I migranti approdati in Italia nel 2019 sono 11.097 contro i 23.126 dello scorso anno
(da agenzie)
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