Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
GOVERNISTI INFEROCITI: AD OGGI 40 SENATORI SU 92 NON VOTEREBBERO IL GOVERNO DRAGHI… IL DISPERATO TENTATIVO DI RIDURLI A 20… CASALEGGIO CONFERMA: “IL SUPERMINISTERO ALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA NON C’E'”
Cresce sempre di più lo scontro nel M5S. E Davide Casaleggio prova a mediare con un appello all’astensione tramite un post su Facebook invitando il Movimento a non spaccarsi sulla fiducia al governo Draghi, prevista per mercoledì al Senato e giovedì alla Camera. “Molti parlamentari mi segnalano che vorrebbero votare contro, non essendo passibili di sanzioni disciplinari sulla base dei precedenti e delle regole attuali, ma credo sia importante in questo momento lavorare per la massima serenità di tutti nel rispetto di regole e principi che ci siamo dati. Per questo motivo, auspico che chi senta il disagio nel sostenere questo governo percorra la scelta della astensione”.
Scrive ancora il presidente dell’Associazione Rousseau: “Credo che le azioni del Movimento 5 stelle debbano portare a una unione di intenti per poter mantenere una forza negoziale importante nei prossimi passaggi parlamentari a difesa delle riforme fatte. In questi giorni ho ricevuto migliaia di messaggi e solo durante questo weekend, sulla casella dell’Associazione Rousseau, è arrivata in media una email al minuto sulla mancata costituzione del Superministero che sarebbe dovuto nascere dalla fusione di Mise e Ambiente, come previsto – rimarca Casaleggio – dal quesito a garanzia dell’avvio del governo. Se non sarà possibile sottoporre un nuovo quesito agli iscritti credo sia comunque importante non creare una divisione nel gruppo parlamentare”, è la preoccupazione manifestata dal figlio del cofondatore del Movimento.
Parole che hanno agitato ancor più gli animi e in pochi minuti la rabbia è esplosa nelle chat dei parlamentari, sul piede di guerra è soprattutto l’ala governista. E anche i direttivi di Camera e Senato non la prendono affatto bene.
E mentre Beppe Grillo su Twitter manda al presidente del Consiglio, Mario Draghi, un preciso messaggio con un collage alla Warhol di foto del neo premier con una secca richiesta “now the environment. Whatever it takes”, (“ora l’ambiente, a qualsiasi costo”) citandone la sua frase più celebre, nel M5S la tensione resta ancora alta, soprattutto nel gruppo pentastellato del Senato.
La dirigenza dei cinquestelle sta tuttavia lavorando per ridurre l’area del dissenso a una decina di deputati e a massimo di 20 senatori. Ma al momento non si è voluta raggiungere alcuna mediazione e resta così ferma la posizione di quanti sono orientati a non dare, sia votando no sia astenendosi, la fiducia al governo di Mario Draghi.
Tanto che nella riunione che si è svolta oggi c’è anche chi, a un certo punto, vista la situazione, ha abbandonato il confronto.
La ‘deadline’ è fissata per mercoledì mattina, quando il premier illustrerà a Palazzo Madama il programma del nuovo esecutivo. E non è escluso che entro quel termine possa essere convocata un’assemblea congiunta degli eletti 5 stelle nei due rami del Parlamento, anche se, al momento, non è ancora stata fissata.
Intanto, le voci dei dissidenti si sono fatte sentire anche oggi: la senatrice Barbara Lezzi ha ribadito il proprio ‘no’ e la richiesta di una seconda votazione su Rousseau; a lei si sono uniti Mattia Crucioli, anch’egli senatore, e Pino Cabras, deputato. Alla Camera sarebbero orientati al no anche Francesco Forciniti, Alvise Maniero e Raphael Raduzzi.
Se al Senato, infatti, fonti riferiscono che sono numerosi i senatori ‘dissidenti’ rispetto alla decisione della maggioranza di sostenere il nuovo esecutivo, resta l’incognita pallottoliere M5S anche alla Camera.
A Montecitorio manca l’unanimità per il sì, ma i contrari – la cui consistenza numerica non è ancora definita – non si sono ancora espressi apertamente.
La dirigenza di M5S, da Vito Crimi a Luigi Di Maio, non sta con le mani in mano e ha aperto un canale di dialogo con con tutti i dissidenti sul cosiddetto “lodo Brescia” dal nome di Giuseppe Brescia che sabato ha fatto notare come si possa incidere sulle scelte del governo più come voce critica all’interno del Movimento che non fuori dalla maggioranza di governo.
Martedì 16 si voterà su Rousseau sulla nuova governance del Movimento che prevede un direttorio di cinque persone, entro cui potrebbe trovare posto la voce della minoranza, che avrebbe dunque garanzie interne. L’obiettivo è di ridurre da 40 a non più di 20 il numero dei senatori dissidenti (sui 92 complessivi) e a una decina quelli a Montecitorio (su 190).
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
GLI INCONTRI SEGRETI CON RENZI, SALVINI, DI MAIO E MELONI
Mario Draghi era già qui, in mezzo a noi, prima di apparire al Quirinale. Aveva già ammansito i partiti più sovranisti e populisti d’Italia. Aveva già ricevuto una telefonata di Matteo Salvini alla fine di gennaio.
Aveva già incontrato una, un’altra e un’altra volta ancora Luigi Di Maio. Aveva già recapitato un cortese invito a Giorgia Meloni. Questo è successo mentre si pensava che Draghi non ci fosse, un pensionato assorto fra gli ulivi umbri col suo cane bracco ungherese. Invece Draghi era pronto alla chiamata di Sergio Mattarella. No, nessun complotto ordito dalla plutocrazia. No, nessuna visione mistica di fantozziana memoria.
Draghi era pronto perchè Draghi non si fa trovare impreparato e fa sempre le cose che dice e non dice sempre le cose che fa.
E fra le cose che non ha detto c’è un intenso lavoro sui partiti più distanti — Lega, Cinque Stelle, Fratelli d’Italia — da quell’Europa che ha protetto per otto anni alla Banca centrale europea, una dozzina di mesi di contatti discreti, di presentazioni, di conoscenze.
Draghi è meticoloso, strategico, riservato: è politico. Non era nella misericordia di dio come l’uomo prima della creazione, «secondo il benevolo disegno della sua volontà », per dirla con la lettera di san Paolo agli Efesini.
Dopo il 31 ottobre 2019, l’ultimo giorno di servizio alla Bce, usato, evocato e soprattutto temuto dalla politica, Draghi si è preparato a qualsiasi evenienza. Per non fallire aveva soltanto una possibilità : trasformare il Parlamento più antieuropeista nel Parlamento che più velocemente si è convertito all’europeismo. Si è trattato di folgorazione o disperazione. Pazienza. Pure san Paolo ci è passato.
LA RESA DI MATTEO, I DUBBI DI GIORGIA
Il leghista Giancarlo Giorgetti è un amico di Draghi, ne ha un rispetto sacrale, è un tipo pragmatico, un tifoso del Southampton che il sabato e la domenica stacca col mondo e si guarda il campionato inglese.
Se risponde, non spegne mica il televisore e si ammutolisce appena segna una squadra. Per quasi due anni, dopo la sbandata del Papeete che ha ammazzato l’esecutivo gialloverde e l’alleanza con i Cinque Stelle, ha spiegato a Salvini un paio di concetti banali: i consensi non bastano per governare, è ferale inseguire Fratelli d’Italia a destra. Per Giorgetti la pandemia era l’occasione per rifare daccapo la Lega con un governo di tutti aggrappato a uno: a Draghi.
Salvini ha esitato a lungo, smentire sè stessi è più complicato che chiudere i porti sbraitando in televisione, poi l’ha sentito al telefono durante la caduta del governo di Giuseppe Conte, subito dopo il ritiro dei ministri di Italia Viva, in quegli attimi di deliquio quando fermo, con la testa nel guardaroba, la luce troppo fioca, le pile di pantaloni che vacillano, non sai che felpa metterti addosso perchè non sai più chi sei.
Per le consultazioni Salvini era già stirato dal verso giusto, non più o voto o morte, non più feroce con i migranti e dialogante con Mosca, anzi ha rinnovato il giuramento agli Stati Uniti, come se fosse la formula magica per accedere di nuovo ai palazzi del potere, e si è mostrato ai giornalisti con Giorgetti accanto che, infagottato in un giaccone con cappuccio, annuiva soddisfatto a ogni parola di Matteo.
Draghi si è affidato a Giorgetti per avvicinare Salvini, con Meloni e Di Maio ha utilizzato un metodo diverso. Premessa. Draghi ha trascorso un decennio da direttore generale al ministero del Tesoro, da lì ha attraversato l’ultimo decennio del Novecento, ha imparato il galateo istituzionale. Draghi non si offre, non trama, si rende disponibile per rendersi utile. Così un intermediario, non un politico, la scorsa estate si è rivolto a Meloni e Di Maio con una sorta di consiglio: perchè non vi fate una chiacchierata con l’ex capo Bce?
Di Maio ha accettato presto, il suo istinto di sopravvivenza, di antico e inconsapevole lignaggio democristiano, si è rivelato come spesso gli capita e il 24 giugno l’ha raggiunto in un ufficio appartato lontano dal ministero degli Esteri. Matteo Renzi l’ha saputo, e un po’ si è ingelosito. Il premier Conte l’ha sospettato, e ha reagito assai male.
Finchè il segreto, che a Roma è tutt’altro che eterno, il tempo di un aperitivo, è diventato la notizia che Di Maio ha confermato in modo infelice: «Mi ha fatto una buona impressione».
Da quel giorno Conte ha visto Draghi in ogni angolo buio di Palazzo Chigi, anzichè costruire un rapporto ha tentato di abbatterlo persino col pubblico dileggio: «Volevo candidarlo alla guida della Commissione europea, mi ha risposto che era stanco». Invece Di Maio non ha citato più Draghi, ma l’ha frequentato con cautela.
Meloni ci ha riflettuto, settimane, ne era lusingata, però ha declinato la proposta, non ha stretto la mano, pardon non ha dato il gomito all’ex banchiere, non per presunzione, non era sicura, ci tiene alla coerenza, ai simboli
Come fai a discutere con uno che, in pratica, l’Europa l’ha salvata dopo che hai ospitato con gli onori Steve Bannon, uno che, in teoria, l’Europa l’ha sfasciata.
LA SOSTA PER ARRIVARE SUL COLLE
Mario Monti atterrò in Italia e fu accolto come un signore compìto che veste in maniera straniante. Il loden affascinò gli italiani esausti dalle cronache anatomiche sulle “cene eleganti” nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. Monti pensò di governare senza la politica, Draghi non ha commesso lo stesso errore.
Era in cammino verso il Quirinale, per la successione a Mattarella, poi l’hanno fermato per dirottarlo a Palazzo Chigi. La politica è un passaggio obbligato per ambire alla presidenza della Repubblica. Appena ha ricevuto l’incarico da Mattarella, nonostante le prime ingenue reazioni di Riccardo Fraccaro e Vito Crimi, Draghi ha raccolto il sostegno di Salvini e Di Maio e un rifiuto, non polemico, di Meloni.
Forza Italia ha esultato, Berlusconi è sbucato dalle palme in Costa Azzurra dove si è trasferito, di colpo Gianni Letta è tornato a vent’anni fa. Come previsto.
Quello che non era previsto è accaduto nel Pd di Nicola Zingaretti, il partito di riferimento culturale di Draghi. Più di Rocco Casalino, Zingaretti ha creduto che Conte fosse indispensabile, si è impallato sulle elezioni anticipate, si è opposto ai leghisti e al solito si è corretto e si è adeguato. Zingaretti non ha aiutato l’ingresso in politica di Draghi, uno che all’epoca della Bce viaggiava spesso in aereo col premier Paolo Gentiloni per andare a Bruxelles.
Il Pd ha dato segni di delirio cominciando a litigare sul congresso per rimuovere Zingaretti con un presidente del Consiglio dimissionario e un altro ancora non insediato. I 5S hanno scoperto quant’è sfiancante essere un partito e non si capisce chi comanda fra Beppe Grillo, le piattaforme di Casaleggio, il multiforme Di Maio, la ficcante tattica di Crimi. Allora Salvini si è ingolosito e ha provato a intestarsi l’operazione Draghi. Non si stava male tra gli ulivi umbri con il cane bracco ungherese. Ormai l’apparizione è avvenuta e san Paolo è irreperibile.
(da “l’Espresso”)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
CINQUE MOTIVI PER DIRE CHE VIVRA’ AL MASSIMO UN ANNO, SALVO UN BREVE MATTARELLA BIS
Per fare un governo di corto respiro, giusto il tempo di presentare in Europa la lista della spesa e poi levare il disturbo, il presidente della Repubblica non sarebbe andato a scomodare un totem come Mario Draghi.
Avrebbe puntato su figure meno impegnative. Nè si sarebbe complicato l’esistenza con questo strano mix di ministri tecnici e politici: volendo sbrigarsela in fretta, avrebbe compilato una lista di valenti prefetti, onesti magistrati, valorosi generali e grand commis in pensione.
Sergio Mattarella ha incastrato Draghi e ha dato un contentino ai partiti perchè spera di aver messo in piedi qualcosa di solido, di duraturo.
Ecco, appunto: quanto potrà reggere il governo del presidente? Ci accompagnerà sei mesi, un anno o magari due, fino alla fine di questa legislatura?
Primo indizio: il programma di governo. La sua gittata è grosso modo di un anno. Tanto occorrerà (incrociando le dita) per vaccinare l’Italia; più o meno è il tempo che servirà per presentare il piano del Recovery Fund, farlo timbrare in Europa e iniziare ad attuarlo, che resta la condizione indispensabile per incassare il finanziamento Ue.
Poi può sempre accadere che, strada facendo, un governo nato per l’emergenza allarghi il suo raggio di azione.
Era accaduto nel ’96 con il governo Dini, con sommo scorno di Silvio Berlusconi che non vedeva l’ora di andare a votare.
Secondo indizio: l’anno che precede le elezioni è quasi sempre un anno buttato, non c’è più tempo per portare a termine Riforme con la maiuscola, al massimo riformette che servono a sfamare qualche vorace clientela. Tanto è vero che nella Prima Repubblica più d’una volta venne deciso, nella concordia generale, di anticipare le urne proprio per evitare lo strazio di un finale inconcludente.
Dunque non sarebbe uno scandalo se pure stavolta si decidesse di tagliare corto tra dodici mesi. Tanto più che, terzo indizio, abbiamo un Parlamento delegittimato dal referendum costituzionale dello scorso ottobre. Il taglio di deputati e senatori varrà dalla prossima legislatura, è vero; ma agli occhi della gente i nostri onorevoli sono per un terzo abusivi, prima toglieranno il disturbo e meglio sarà .
Se non ci fosse stato il Covid, e senza i 209 miliardi da incassare in Europa, lo stesso Mattarella li avrebbe mandati tutti a casa senza rimpianti. In questo modo, tra l’altro, sarebbe stato il prossimo Parlamento, nuovo di zecca, a scegliere il suo successore.
E qui spunta il quarto indizio: a gennaio 2022 si eleggerà il nuovo presidente della Repubblica.
Circola l’ipotesi, molto fondata, che possa trattarsi proprio di Draghi. Nulla impedisce che venga eletto un premier in carica: il vuoto al vertice dell’esecutivo verrebbe provvisoriamente colmato dal ministro più anziano, nella veste di facente funzioni.
A quel punto si dovrebbe cercare un altro premier o, più probabilmente, correremmo a votare. E se invece fosse eletto un altro presidente, il governo Draghi che fine farebbe?
Per antica consuetudine (ecco l’indizio numero cinque) il presidente del Consiglio corre a dimettersi non appena subentra il nuovo inquilino del Quirinale. Fino adesso, in 75 anni di Repubblica, le dimissioni erano sempre state offerte come gesto di garbo, come squisita forma di galateo, e puntualmente respinte.
Stavolta però si porrebbe un delicato problema: a dimettersi sarebbe un governo voluto da Mattarella, praticamente imposto alle forze politiche e al Parlamento. Non è detto che il suo successore voglia caricarselo per altri dodici mesi sulle spalle. Più facile che dica a Draghi: ”È stato bellissimo, arrivederci e grazie”.
Tirando le somme, cinque convergenti indizi portano a ritenere che questo governo vivrà fino alle prossime elezioni presidenziali, non oltre.
A meno che non capiti l’imprevedibile. Ad esempio che il Santo Protettore di Draghi, cioè Mattarella, accetti di farsi rieleggere al solo scopo di prolungare la vita del “suo” governo, salvo cedere il testimone a Super-Mario quando la legislatura si concluderà comunque, nel 2023. Detta così sembra fantapolitica.
Oltretutto Mattarella si è sempre dichiarato contrario a una rielezione, l’ha detto ripetuto in tutte le salse; ma ai piani altissimi la voce circola e di vero, forse, qualcosa c’è.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
LA FRASE VERGOGNOSA: “QUANDO SI CREA UN DANNO, BISOGNA INDENNIZZARE”… MA CHI L’HA CREATO IL DANNO? IL GOVERNO CHE CERCA DI LIMITARE LA PANDEMIA O UN VIRUS CHE SI PROPAGA IN TUTTO IL MONDO GRAZIE ANCHE A POLITICI SOVRANISTI CRIMINALI CHE PENSANO SOLO AI QUATTRINI E NON ALLA SALUTE DEI CITTADINI?
Il ministro della Salute Roberto Speranza ha firmato un provvedimento che vieta lo svolgimento delle attività sciistiche amatoriali fino al 5 marzo 2021, data di scadenza del DPCM 14 gennaio 2021.
“Il Governo si impegna a compensare al più presto gli operatori del settore con adeguati ristori”, afferma il ministero della Salute.
Il provvedimento, spiega il ministero della Salute, tiene conto dei più recenti dati epidemiologici comunicati venerdì 12 febbraio dall’Istituto Superiore di Sanità , attestanti che la variante VOC B.1.1.7, detta variante UK e caratterizzata da maggiore trasmissibilità , rappresenta una percentuale media del 17,8% sul numero totale dei contagi.
La preoccupazione per la diffusione di questa e di altre varianti del virus SARS-CoV-2, precisa il ministero, ha portato all’adozione di misure analoghe in Francia e in Germania. Nel verbale del 12 febbraio, il Comitato Tecnico Scientifico, con specifico riferimento alla riapertura degli impianti sciistici nelle Regioni inserite nelle cosiddette ‘aree gialle’, afferma che “allo stato attuale non appaiono sussistenti le condizioni per ulteriori rilasci delle misure contenitive vigenti, incluse quelle previste per il settore sciistico amatoriale”.
I ministri leghisti Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico) e Massimo Garavaglia (Turismo) chiedono che gli indennizzi per la montagna abbiano “la priorità assoluta”. “Non è solo questione di cifre: non è detto nemmeno che bastino i 4,5 miliardi richiesti quando la stagione non era ancora compromessa, probabilmente ne serviranno di più, a maggior ragione se ci sono altri stop.BGli indennizzi per la montagna devono avere la priorità assoluta, quando si reca un danno, il danno va indennizzato; già subito nel prossimo decreto”, affermano in una nota.
(da agenzie)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
DI CERTO LA LUNA DI MIELE CON DRAGHI SARA’ BREVE
Viene spontaneo chiedersi se l’unico modo per unire l’arco politico sia mettere il paese in mano a quell’èlite ‘tecnica’ che come un’ombra è sempre vicinissima alla politica, una èlite che fa carriera in parallelo alla classe politica, che entra ed esce dal settore privato e dalle grandi istituzioni e che, proprio per questo, può fare ora da ponte tra politica e alta finanza ora da timoniere dell’intera nazione.
L’effetto magico Mario Draghi conferma tutto ciò. Però stiamo attenti, anche se nell’euforia collettiva prodotta da un presidente del Consiglio super-tecnico, che non comunica attraverso i social ed è conosciuto nel mondo, gli italiani si sono dimenticati di come è stato messo alla porta il premier precedente, nel resto del pianeta ci si chiede ancora che diavolo sia successo in Italia nelle ultime due settimane.
In primis, perchè è caduto il governo? Bella domanda che mi è stata fatta in diversi programmi radiofonici britannici. Impossibile dare una risposta beve, bisogna spiegare chi è Matteo Renzi, come diavolo ha fatto ad essere stato eletto con il Pd ed a far cadere un governo di coalizione sostenuto dal Pd; come ha fatto a formare un suo partito in Parlamento di cui nessuno, ma proprio nessuno fuori dei confini italiani ne conosce l’esistenza; perchè Renzi ha ritirato i suoi ministri, che cosa aveva fatto Conte per beccarsi questa pugnalata a febbraio e non a dicembre o novembre? E così via.
Per chi ama la dietrologia c’è solo l’imbarazzo della scelta, la teoria più gettonata è la seguente: esisteva un piano ben stabilito per far cadere il governo Conte prima che questo mettesse le mani sui soldi in arrivo da Bruxelles.
In effetti l’appoggio di tutti i partiti per Draghi, fatta eccezione di quello guidato dalla Meloni, sembra avvallare questa tesi.
In secondo luogo, perchè Mattarella non ha dato l’incarico a Conte? In fondo il governo Conte aveva ottenuto la fiducia alle due Camere, quindi perchè non chiedergli di formare un nuovo governo con nuovi schieramenti?
Anche qui rispondere non è semplice, meglio buttarsi di nuovo sulla dietrologia. Bisogna prima di tutto spiegare che Mattarella fu uno degli uomini del governo Ciampi, anche lui ex governatore della Banca d’Italia e super tecnico; guarda caso Mario Draghi era ai tempi uno dei Ciampi’s boys, incaricato di svendere l’Italia dalla sua posizione al Tesoro negli anni Novanta al fine di entrare nell’euro… della tristemente famosa riunione sul Britannia non ne parliamo neppure, tutti sanno che a salirci a bordo per negoziare fu Draghi.
In terzo luogo, perchè in Italia il presidente del Consiglio non è eletto?
E già si sono accorti anche all’estero che il paese predilige gente che non è stata votata alle urne. Brutto segno che denota una sfiducia professionale nei confronti della politica — lo dice la frase di Mattarella ‘ci vuole un governo di altissimo livello’.
Nel mondo democratico il livello massimo si trova in Parlamento, tra chi è stato eletto, altrimenti a che servono le elezioni? Se è meglio avere dei tecnici alla guida del paese allora perchè eleggere un Parlamento? Ecco un’altra domanda che gli stranieri fanno spesso.
All’estero sarebbe inconcepibile avere a capo del governo gente non eletta. Immaginate che all’indomani del crollo della Lehman Brothers la Corte Suprema scelga quale presidente il capo della Federal Reserve piuttosto che far decidere agli americani. Il motivo ci vuole un presidente di altissimo livello. Inconcepibile!
In quarto luogo, che fine ha fatto il Movimento 5 Stelle, quello che voleva modernizzare la democrazia italiana, quello anti-establishment che ha fatto sognare anche le nonne italiane? È stato fagocitato dalla macchina politica? Ha subito il fascino della poltrona? Oppure non è mai esistito?
In fondo prima hanno accettato una coalizione con Salvini, poi con il Pd ed adesso con Berlusconi. Non è vero che Draghi è grillino, sono i grillini ad essere diventati come Draghi.
Si potrebbe andare avanti per ore ed ore in un gioco di domande e rispose surreali.
Rimane un fatto importante: nonostante abbia fatto un buon lavoro nella gestione della pandemia, il governo è caduto perchè non si voleva che distribuisse i prestiti in arrivo da Bruxelles.
Draghi sicuramente sa cosa deve fare con quei soldi e proprio per questo la luna di miele del governo di coalizione nazionale sarà breve, anzi brevissima.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
DESTRUTTURARE I POLI PER DIVENIRE AGO DELLA BILANCIA: ALLEARSI CON SALVINI O CON IL PD, A SECONDA DELLA CONVENIENZA
È partita la fase due dell’”operazione Draghi”: destrutturare i poli per poi diventare l’ago della bilancia della politica italiana: “Da un lato ha sdoganato Matteo Salvini agli occhi dei poteri forti internazionali grazie a Mario Draghi, rendendo così possibile un’alleanza futura con il centrodestra (tanto che chi conosce bene i due Mattei giura che possano esserci stati proprio i suggerimenti del toscano dietro la ‘mossa del cavallo’ del capitano leghista), dall’altro lato con un nuovo segretario a capo del Pd (e gli ex renziani rimasti al Nazareno si stanno già muovendo in tal senso) potrà tornare a flirtare con i dem in un’ottica di alleanza di centrosinistra non più sbilanciata verso i 5 Stelle”.
Insomma, sdoganato Salvini e “ripreso” il PD, il toscano di volta in volta potrà decidere se essere il ‘centro’ del centrosinistra o del centrodestra.
Ecco perchè dalle parti di Italia Viva giurano che dopo aver fatto partire l’operazione Draghi ora Renzi farà partire l’”operazione grande centro” sfruttando proprio gli assist forniti dall’ex presidente BCE.
Il quale nella formazione del governo, guarda caso, ha premiato le ali moderate di Lega e Forza Italia, gettando nello scompiglio i sovranisti e creando così il terreno ideale per consentire a Matteo Renzi di far nascere un nuovo centro moderato con l’obiettivo di costruire un rassemblemant e raccogliere l’ambita eredità berlusconiana.
A quel punto, arrivare e forse superare la fatidica soglia del 10% che gli consentirebbe di diventare l’ago della bilancia tra i due poli non sarebbe più un problema.
E se poi l’operazione non dovesse andare in porto o rivelarsi più difficile del previsto, il toscano come sempre ha già pronta l’alternativa: rientrare con le sue truppe nella casa madre Piddina. D’altra parte, con un nuovo segretario al Nazareno non dovrebbe essere più un problema.
(da TPI)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
SI TEME CHE ALTRI 20-30 LASCINO IL M5S… MALUMORI ANCHE IN LEGA, FORZA ITALIA E PD
Isolati, scartati, messi all’angolo. Sono gli sconfitti del governo Draghi. Tutti (o quasi) i partiti sono rimasti delusi della squadra dell’ex presidente della Bce.
Dove la rabbia esplode con maggior forza in chat, post e dichiarazioni pubbliche è sicuramente il Movimento 5 Stelle, già spaccato dopo il voto su Rousseau (60 a 40).
Ieri ha lasciato un altro, il cinquantesimo parlamentare dall’inizio della legislatura: il deputato pugliese Giuseppe D’Ambrosio che su Facebook parla di “una lunga storia d’amore che si interrompe con grande sofferenza” mentre il M5S “è entrato in un vicolo cieco”.
E nel giro di poche ore potrebbero seguirlo altri parlamentari: si parla di venti/trenta tra Camera e Senato. Non voteranno la fiducia i senatori Emanuele Dessì, Nicola Morra (“Il governo ricorda Jurassic Park”) e il deputato Andrea Colletti. Giuseppe Brescia, vicino a Roberto Fico, invece darà un “appoggio condizionato” perchè “la squadra non convince”.
Ieri si sono riuniti i senatori con Vito Crimi che ha provato a placare gli animi. Non a sufficienza, visto che alla prossima assemblea congiunta è stata richiesta la presenza di Grillo per riuscire a mediare.
Il capogruppo a Palazzo Madama Ettore Licheri ha ammesso che il momento è “difficilissimo”: “C’è delusione, frustrazione ed incertezza ma ci vuole calma”. Nelle chat, i parlamentari insorgono: secondo l’Adnkronos la deputata Margherita Del Sesto parla di “restaurazione”, Valentina Corneli di un “governicchio di mezze cartucce” mentre per Luigi Iovino i 5 Stelle sono stati trattati come deficienti con “questi ministeri”.
Nella base i toni sono ancora più alti: la petizione su change.org per ripetere il voto su Rousseau visto che il M5S non avrà il ministero alla Transizione Ecologica è arrivata a 3.300 firme.
Il dissenso viene anche dai territori del Sud: per il M5S siciliano la regione è stata “dimenticata” e chiede ai suoi eletti di astenersi. Molti iscritti grillini hanno sfruttato il post di ieri di Beppe Grillo (“Ora si deve scegliere, o di là o di qua”) per attaccarlo: “Complimenti, nessun ministero importante” attacca Rosario, “vergognoso che non ci sia un 5S alla Transizione” gli fa eco Luca. E così via.
Per non parlare dei grandi esclusi del M5S. Alfonso Bonafede si è chiuso in un religioso silenzio mentre Lucia Azzolina, in un post su Facebook, avverte: “Avrò tempo e modo per raccontare a fondo l’esperienza di questi mesi”.
Anche Matteo Salvini è irritato per i tre leghisti di governo che fanno riferimento a Giorgetti e Zaia e per la riconferma di Lamorgese e Speranza (“Così Draghi al Quirinale non ci va” ha confidato ai suoi fedelissimi), ma deluso è anche Silvio Berlusconi che avrebbe voluto al governo uno tra Antonio Tajani e Anna Maria Bernini, pretoriani del gruppo del Senato vicino ai leghisti, mentre Mara Carfagna era considerata esterna a FI. La chat dei senatori azzurri esplode: “Abbiamo tenuto il gruppo compatto e questa è la ricompensa?”. Nel Pd è polemica sulle donne che non ci sono (“La misura è colma” attacca la presidente Cuppi) mentre si racconta di una furiosa Teresa Bellanova, sacrificata sull’altare del renzismo.
(da “il Fatto Quotiodiano”)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
FRATOIANNI VOTERA’ NO COME DECISO DALL’87% DELL’ASSEMBLEA, MA DE PETRIS E PALAZZOTTO VOTERANNO SI’ (PIU’ LIBERI DI FARE COME GLI PARE CHE UGUALI)
L’Assemblea nazionale di Sinistra italiana ha approvato a maggioranza la relazione del suo segretario, il deputato Nicola Fratoianni, per votare contro la fiducia al governo Draghi”Abbiamo atteso, senza pregiudizi, di vedere la squadra di governo. Ma siamo molto delusi. Questo non è il governo dei migliori, è un governo che rischia di portare indietro le lancette dell’orologio del Paese – ha detto a conclusione dei lavori dell’Assemblea nazionale di SI Fratoianni – Oggi più che mai dobbiamo proteggere chi è più debole dentro questa crisi. Per farlo continueremo a farlo in Parlamento e fuori, rilanciando l’alleanza fra il Pd, il M5s, e le forze della sinistra e dell’ambientalismo – ha aggiunto – Non condividiamo la scelta di sostenere questo governo, ma continueremo a lavorare per una coalizione che dia un’alternativa al Paese”.
Nella sua relazione, Fratoianni aveva inoltre sottolineato: “Non è questo il governo dei migliori. Non è quello giusto per il futuro del Paese. La genesi di questo governo, con la manovra di Renzi per fermare le politiche redistributive, purtroppo pesa anche sulla sua composizione”.
E ancora. “Avevamo tracciato un percorso di sperimentazione politica con Giuseppe Conte: un dialogo tra sud e nord, un confronto non facile tra forze produttive e mondo del lavoro, un incontro tra chi ha bisogno di protezione e chi può offrirla durante questa crisi durissima, cioè le istituzioni e la politica intesa come servizio – aveva spiegato ancora – Hanno voluto fermare questa sperimentazione per riavvolgere il nastro, riproporre alcuni dogmi, alcuni tecnici tra quelli più lontani dalla transizione ecologica di cui abbiamo bisogno, accompagnati dai campioni della diseguaglianza e della discriminazione”.
“Ci aspettavamo di meglio di un ”governo dei migliori” con così tanta destra, con la sinistra stretta ai margini seppur rappresentata da persone che stimiamo. Per questo ho proposto a sinistra Italiana di non accordare la fiducia a questo governo”, ha detto Fratoianni.
“Una scelta nel merito, non pregiudiziale, che guarda al dopo Draghi. Il fronte progressista deve imparare in Italia a dialogare tra diversi, dandosi l’opportunità di ricostruire un progetto politico che riprenda il cammino interrotto”, aveva concluso.
Quello di Fratoianni, deputato alla Camera, sarà l’unico no di Sinistra Italiana a Draghi in Parlamento, visto che gli altri due esponenti di Si hanno fatto sapere che voteranno in dissenso, dando via libera al governo Draghi, con il loro sì alla fiducia.
Per quanto riguarda la Camera dei deputati, il no di Fratoianni, rappresenterà , inoltre, l’unico voto contrario a Draghi, tra i 12 membri del gruppo di Liberi e Uguali.
I due parlamentari di Sinistra italiana, De Petris e Palazzotto, hanno motivato così la decisione di votare la fiducia al governo Draghi andando contro la decisione dell’Assemblea nazionale di SI: “Quella che sostiene questo governo non è e non potrà mai essere una maggioranza politica. Dunque è all’interno di questa anomalia, nel tentativo di rinsaldare un fronte progressista e non scegliendo la via dell’autosufficienza, che bisogna lottare per affermare un proprio punto di vista”.
(da agenzie)
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Febbraio 14th, 2021 Riccardo Fucile
I RADICALI DI JUNTS PER CATALUNYA TERZO PARTITO… CROLLA CIUDADANOS
Alla chiusura dei seggi, i primi exit poll – diffusi dalla rete pubblica Tv3 – sul risultato delle elezioni regionali catalane attribuiscono la vittoria agli indipendentisti di Esquerra Republicana, il partito di Oriol Junqueras e dell’attuale presidente della Generalitat Pere Aragonès: 36-38 seggi per loro (su un totale di 135 del Parlamento catalano), ma il secondo posto per numero di voti.
Il partito più votato sarebbe il Psc, i socialisti guidati da Salvador Illa, l’ex ministro della Sanità del governo Sà¡nchez, che otterrebbero 34-36 seggi.
Per i socialisti significa raddoppiare il numero di deputati regionali rispetto a tre anni fa, quando ne ebbero 17.
Al terzo posto l’altra grande forza indipendentista, Junts per Catalunya, il partito dell’ex presidente Carles Puigdemont, che con la candidata Laura Borrà s, conquisterebbero fra i 30 e i 33 seggi.
A destra, il partito più votato sarebbe quello degli estremisti di Vox, finora assenti in Catalogna, che con 6-7 seggi, scavalcherebbero il Pp che si ferma a 4-5.
Tracollo per l’altra formazione di centrodestra, Ciudadanos, vincitrice delle precedenti elezioni con 36 seggi: perde circa l’ottanta per cento dei voti e si ferma a 6-7 seggi.
Molto bassa l’affluenza alle urne: Alle 18, due ore prima della chiusura dei seggi, avevano votato il 45,7 per cento degli elettori, 22,5 punti in meno rispetto alle regionali del 2017. Un calo che può essere però in parte spiegato dall’alto numero di catalani che hanno votato per posta: oltre 250mila, il 300 per cento in più in rapporto alle ultime elezioni.
(da agenzie)
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