Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
CRIMI ESPELLE 21 DEPUTATI CHE REPLICANO: “LUI E’ IL NULLA”… DI BATTISTA ALLA CARICA MENTRE I PROBIVIRI CHIEDONO UN TIME-OUT
Vito Crimi espelle ventuno deputati che non hanno votato la fiducia al governo Draghi. “Sono stato espulso dal Caporale politico”, tuona insolitamente sprezzante il mite Andrea Vallascas. “Crimi si guardi allo specchio”, l’invito del senatore Mattia Crucioli. “Ci aveva ampiamente minacciato”, l’accusa di Alvise Maniero. “Il nulla non può espellermi”, il giudizio secco di Emanuela Corda.
Fonti del Movimento 5 stelle fanno trapelare parole di fuoco contro Alessandro Di Battista: “Farà come Renzi con Italia Viva quando ha fatto la scissione dal Pd”. Il deputato romano risponde a brutto muso: “Ho solo idee diverse dalle vostre. Rispettatele senza comportarvi da infantili avvelenatori dei pozzi. Sotto il post dell’espulsione pubblicato dal capo reggente una gragnuola di critiche: “Così è dittatura”.
Nicola Morra ha chiesto un faccia a faccia con Beppe Grillo, Elio Lannutti coltiva l’idea di un ricorso. Raffaella Andreola, uno dei tre componenti del collegio dei probiviri che dovranno ratificare le espulsioni dal Movimento di deputati e senatori, tira il freno a mano: sospendiamo tutto “in attesa che vengano ricostituiti tutti gli organi del M5s”, riferimento al Direttorio a cinque di prossima nomina, un’uscita che sottilmente implica una delegittimazione per le scelte del reggente.
Il Movimento 5 stelle è un Vietnam, e il caos è bel lungi dal placarsi. I capigruppo di Camera e Senato hanno spedito oggi le lettere di espulsione dal gruppo parlamentare: “Dal resoconto risulta che hai votato in difformità . Pertanto, su indicazione del capo politico, dispongo la tua immediata espulsione. Un cordiale saluto”. Di cordiale in queste ore c’è solo il freddo saluto al termine di un’asettica missiva.
Ma le parole di Andreola significano speranza per chi, come Barbara Lezzi e lo stesso Morra, combatteranno fino all’ultimo secondo utile per contestare la decisione e rimanere dentro il Movimento.
“Serve l’unanimità tra i probiviri – spiega uno degli interessati – e questa posizione ci da ancora tempo, lotteremo fino all’ultimo”. Una dinamica già nota, che negli anni per gli espulsi ha sempre previsto quattro passaggi: espulsione, contestazione, ricorso, conferma dell’espulsione.
Difficile che questa volta fili tutto liscio. Perchè l’espulsione di quel pezzo di 5 stelle rimasto coerente con le idee di qualche anno fa è una ferita nella carne viva dell’intero Movimento.
E la probivira dissidente, presidentessa del consiglio comunale di Villorba, ha aperto una speranza per chi non ha intenzione di mollare, al punto che anche Morra, dopo Lezzi, ha annunciato la propria candidatura al prossimo Direttorio.
Voci tra i dissidenti accreditano anche di un Davide Casaleggio molto contrariato dalla decisione: il figlio del fondatore viene dato addirittura in avvicinamento agli espulsi, ai quali potrebbe fornire un supporto in termini di strutture e organizzazione.
I ribelli intanto hanno iniziato a organizzarsi, anche se in ordine sparso, molti ancora immersi in una fase di ammortizzamento psicologico piuttosto che di elaborazione politica. Ma la frattura è difficile da rimarginare. Alcuni hanno già detto arrivederci e grazie e sono usciti dalle chat comuni.
Lannutti ha rassicurato molti colleghi, spiegando di aver preso già contatti con l’Italia dei valori, che al Senato potrebbe mettere a disposizione il simbolo necessario per la costituzione di un nuovo gruppo. Perchè l’obiettivo è quello: costruire delle formazioni parlamentari che possano diventare una spina nel fianco al M5s proprio sui temi fondativi della galassia grillina.
Mentre Antonio Di Pietro spiega di non voler rilasciare dichiarazioni nel merito, la conferma arriva da Ignazio Messina, segretario di quel che rimane di Idv, che racconta di essere stato contattato dagli scissionisti: “Se c’è un progetto politico nuovo partendo da idee e valori condivisi, da parte nostra c’è una collaborazione piena”.
Tutto risolto? Niente affatto. Perchè l’interpretazione prevalente del regolamento di Palazzo Madama prevedrebbe che ad aderire al gruppo sia almeno uno degli eletti con quel simbolo. Che alle ultime elezioni faceva parte del cartello elettorale Civica popolare, il cui unico eletto è stato Pier Ferdinando Casini. Difficile immaginarlo accanto agli espulsi a contestare Mario Draghi sul crinale del populismo e dell’euroscetticismo.
Mentre per i colleghi della Camera l’operazione dovrebbe essere assai più agevole, al Senato la situazione si complica: “Ma ci proveremo fino all’ultimo – dice deciso uno degli espulsi – perchè perchè dobbiamo dare una prospettiva politica alle nostre idee”.
Il primo risultato concreto dell’epurazione a Palazzo Madama è un ribaltamento degli equilibri, pareggiando la maggioranza che sostiene Draghi fino a qualche giorno fa a trazione giallorossa, considerati i 115 esponenti di Lega e Forza Italia e gli altrettanti di Pd, Leu e M5s. Un contraccolpo potrà esserci nel numero e nel peso dei sottosegretari, proprio in ragione del minor peso numerico della pattuglia pentastellata.
Sicuramente ci sarà nelle Commissioni. I 5 stelle perdono due presidenze, quelle dell’Antimafia di Morra e l’Agricoltura al Senato, presieduta dalla silurata Vilma Moronese, e i numeri dei componenti dovranno essere rivisti alla luce della riduzione delle pattuglie di Camera e Senato.
È iniziato il lavorio dei pontieri: “Tanti colleghi che hanno votato in dissenso sono parte fondamentale del Movimento”, dice Paola Taverna. “È impensabile immaginare il Movimento senza i tanti amici e compagni con cui in questi anni, dentro e fuori dal Palazzo, abbiamo combattuto le nostre battaglie”, aggiunge Nunzia Catalfo.
All’orizzonte non sono previste assemblee congiunte, “perchè ci sbraneremmo”, dice un deputato. Ma alla domanda posta a chi siede nella stanza dei bottoni sulla quante possibilità ci siano che la frattura si ricomponga, la risposta è gelida: “Credo nessuna”.
(da “Huffingtonpost”)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
GLI ORFANI DI RENZI VOGLIONO RIPRENDERSI IL PARTITO
Non addentratevi nell’astrusa vicenda dell’intergruppo del Senato, e nei suoi strascichi venefici, prendendola alla lettera: non ci capireste nulla — giustamente — perchè è raccontata in una variante politicista dell’ostrogoto.
Incomprensibile alle persone normali. Immaginate però che quella querelle sia diventata il casus belli di una nuova guerra punica che sta divampando dentro il Pd. Una guerra civile per assumere il controllo del principale partito della sinistra italiana, per destituire il suo gruppo dirigente, per cambiare drasticamente la sua linea.
Quella guerra si è virtualmente aperta con l’accoltellamento di Giuseppe Conte, e si chiuderà soltanto — questa è la notizia di oggi — con un congresso, che metta fine ai complotti di Palazzo dando la parola agli iscritti.
Ad annunciarlo è un dirigente come Goffredo Bettini. Ovviamente per questi motivi l’esito di questa sfida non riguarda solo il Pd, ma tutto il sistema politico.
Riassunta in termini comprensibili, la scaramuccia sull’intergruppo sembra uno scherzo buffo: un esponente della destra interna (il capogruppo Andrea Marcucci) sigla un patto di consultazione parlamentare con M5s e Leu, senza condividere questa scelta, nè con il segretario del partito, nè con Bettini, il dirigente più influente dopo il segretario.
Quindi, appena si diffonde la notizia — questo è il bello — gli uomini della stessa destra interna di cui fa parte Marcucci (e financo lo stesso Marcucci, con qualche acrobazia lessicale) partono all’attacco del segretario, e del suo dirigente più influente, rimproverandogli, per giunta come se fosse stato un gravissimo errore, la sottoscrizione di quel patto.
Stiamo parlando di uomini come il ministro Lorenzo Guerini (che già si distinse con una intervista in cui si smarcava da Conte durante la crisi). Di potenziali candidati alla leadership che scalpitano (come Giorgio Gori o Stefano Bonaccini). Di dirigenti inquieti che vengono dalla sinistra come Matteo Orfini. Di ex renziani in servizio permanente nel PD come Luca Lotti.
Ovvero di quel corpaccione di notabili che ha prodotto il miracolo delle designazioni ministeriali: tre capi corrente (maschi) che si sono fatti nominare da Draghi (e nessuna donna) mentre persino il segretario rinunciava ad indicare qualcuno della sua corrente.
Ovviamente il caso dell’intergruppo, in sè, sembra una questione da manicomio: 1) non c’era nulla di male nel costituire quel collegamento con M5s e Leu, sia chiaro, visto che l’alleanza giallorossa è la linea della segreteria del Pd.
2) Nicola Zingaretti è diventato leader con due milioni di voti degli iscritti delle primarie, mentre i signori delle correnti del Pd — per ora — non hanno altra legittimazione che la loro rendita di posizione, e le corpose affiliazioni nei gruppi parlamentari guadagnate in una platea di “nominati” da Matteo Renzi nel lontano 2018 (le liste dei candidati — non va mai dimenticato — furono compilate, in una sola notte, saltando, per la prima volta, qualsiasi criterio di rappresentanza democratica interna).
3) il colmo dei colmi, per giunta, è fare qualcosa, poi accreditarne la paternità ad altri, e quindi attaccarli per averlo fatto. Ma bisogna andare al cuore del problema: con manovre di piccolo cabotaggio, proclami e veleni, il tentativo è quello di “scalare” il Pd, e di cambiarne la rotta.
La nascita del governo di Mario Draghi (e l’inserimento della destra di Matteo Salvini nel governo che ha prodotto) hanno accelerato questo tentativo, che covava sotto la cenere da mesi, potendo una questione identitaria.
Anzi: hanno fatto pensare a chi lo aveva messo in campo (fallendo) di poter avere a disposizione una prova di appello. In primo luogo perchè le ultime elezioni regionali in cui si è votato — non andrebbe mai dimenticato neanche questo — i voti di Italia Viva (e dei partiti “alla destra” del Pd) si potevano raccogliere con un cucchiaino da caffè, e contare con un microscopio elettronico.
Non si capisce questa storia se non si parte dal celebre proclama di Matteo Renzi (“Faremo al Pd quello che Macron ha fatto ai socialisti francesi”). E dalla strategia seguita, di conseguenza, da Italia Viva nelle amministrative (correre fuori dalle coalizioni nelle regioni in bilico per far perdere il centrosinistra), naufragata, proprio in quella tornata elettorale in un risultato miserrimo (a casa sua, in Toscana, Renzi non riusciva nemmeno a raggiungere il 5%, e in virtù di quel dato è stato chiaro a chiunque che così non avrebbe superato nessuno sbarramento elettorale).
Su tutti i risultati di quel voto svetta — per dare con un esempio una idea dei rapporti di forza — la performance del povero Ivan Scalfarotto, buttato nella mischia in Puglia con il corredo di un manifesto elettorale dadaista, l’investitura a leader carismatico in grado di “far perdere Michele Emiliano”, e poi approdato (grazie al sostegno di ben tre partiti, renziani, boniniani e calendiani) ad un lillipuziano 1,1%.
Viene in mente una celebre battuta di Giancarlo Pajetta ai tempi del cartello di Democrazia Proletaria, nel 1972: “Vi siete messi insieme in tre per comporre un prefisso telefonico”.
Ma se e quando si misurano i consensi reali (e ogni volta che lo si è potuto fare è stato così), questa è la consistenza che ha mostrato di chi combatte contro la linea “giallorossa” del Pd, contro la sua idea di costruire una nuova alternativa partendo dall’alleanza con il M5s, e non dall’aspirazione a mettere insieme un indigesto pasticcio centrista (in cui si vorrebbero inglobare anche schegge di Forza Italia).
Ecco dove nascono l’assedio al governo Conte, la scientifica campagna di discredito condotta verso tutti i suoi ministri e le sue scelte, che ora invece, nei casi in cui vengono proseguite dal governo Draghi sono salutate come intuizioni geniali, come capita ad esempio accade per l’idea della scuola a luglio, la campagna vaccinale, o il blocco dei licenziamenti (che fino a ieri era descritto come un provvedimento “venezuelano” e che oggi — pensate — “convince anche Giorgetti”).
Il punto è il tentativo di ribaltare con una manovra di Palazzo quello che non è riuscito sul piano dei consensi. O l’effetto invisibile ma potente del Covid sulla politica: il virus — non ci pensiamo mai — ha cancellato il dibattito pubblico, le assemblee, i luoghi di discussione, esaltando il peso del teatrino virtuale dei media. Nei giorni della direzione del Pd, nell’unico modo (virtuale) in cui si potevano manifestare, centinaia di iscritti commentavano la relazione del segretario in diretta scrivendo: “Difendete il governo”, “difendere Conte”, “mandate a quel paese Renzi”.
Scrive non a caso Goffredo Bettini (e con parole di fuoco) sulla fine del governo Conte: “Al di là dei numeri che improvvisamente sono mancati, quel progetto non era affidabile per diversi soggetti in campo. Per il ‘salotto buono’ della borghesia italiana, che si è comprata giornali e ha preso d’ assalto Confindustria”.
Aggiunge, riferendosi allo scenario intenzionale: “Se mi si chiedesse qual è in questo quadro il ruolo del Pd (che per svolgerlo bene deve migliorare), direi: riformare il capitalismo con la buona politica. C’ è una forza immensa del mercato e del turbocapitalismo che si è messa in moto con la globalizzazione. Il problema non è astrattamente fuoriuscirne o tantomeno abbatterla. Il problema — osserva Bettini in un intervento su Il Foglio di oggi — è come renderla più umana, più giusta”.
E quindi aggiunge, tornando al tema dell’identità della sinistra: “La destrutturazione del sistema politico, al contrario, potrà essere solo utile a quella pigrizia di certe classi dirigenti italiane che sono state mere spettatrici di ogni salto in avanti del nostro paese: il Risorgimento. La Liberazione dal nazifascismo. La fondazione della Repubblica. Assenti, perchè prive, al contrario della Francia, dell’Inghilterra e della Germania, di una propria storia combattuta e vinta sul campo. Ho visto che queste scelte del Pd — aggiunge sarcasticamente Bettini — stanno facendo gioire Renzi. Dice che si apre per lui una prateria al centro. Sono contento dell’assunzione di questa missione da parte sua”.
Qui — come vedete — si va molto oltre il caso l’intergruppo, di un semplice patto di consultazione parlamentare, di una alleanza di circostanza. Ed è per questo che la scaramuccia di Marcucci va letta insieme a tanti altri segnali: la disperazione di Renzi, che polarizza l’attenzione dei media per due mesi (ma non guadagna un voto). Le barricate contro Conte e l’ipotesi della sua candidatura in un collegio della Toscana (erette, per giunta, da una segretaria regionale — guardacaso — anche lei ex renziana). E il tentativo di prendere a pretesto un governo tecnico, per azzerare ogni alleanza e ogni distinzione politica.
È vero il contrario: durante il periodo del governo Draghi — come spiega ancora Bettini — la politica riapre i suoi cantieri in attesa della sfida finale. Il centrodestra, come spesso è accaduto nella sua storia, diversifica la sua offerta, con la polarizzazione tra Fratelli d’Italia (all’opposizione) e Forza Italia-Lega (al governo). È una battaglia di sopravvivenza darwiniana per la leadership. Ma c’è da scommettere che quando sarà finita, il vincitore (chiunque sia) si prenderà in mano, come è sempre accaduto, tutta la coalizione.
“Il Pd può scegliere solo fra due strade: l’insalatone neo-centrista (che non piace agli iscritti che hanno scelto Zingaretti e che elettoralmente nascerebbe già morta) e una colazione progressista da incardinare intorno all’alleanza giallorossa. Secondo voi il popolo della sinistra, quando sarà chiamato a votare, avrà il minimo dubbio tra la prima e la seconda ipotesi? Io credo che se (anzi, quando) si farà un congresso i nostalgici renziani, e i gruppi di pressione mediatica che sognano la Restaurazione e il congresso di Vienna, il ritorno a Versailles della corte Leopoldina e dei loro alleati capicorrente, resteranno delusi. Tutti coloro che si commuovono all’idea del principe saudita che ritorna nella stanza dei bottoni come se la disfatta del 2018 non fosse mai accaduta, dovranno rassegnarsi all’idea di essere — tra i loro elettori -impopolari ed elitari.”
(da TPI)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
MA RESTA L’INCOGNITA RAGGI CHE NON VUOLE FARE UN PASSO INDIETRO
Il nome è di quelli pesanti e l’incarico di quelli che scottano: Roberto Gualtieri candidato Pd a sindaco di Roma. Per ora è una proposta, una fascinazione, per alcuni una provocazione, ma certo il nome dell’ex ministro del Tesoro del Governo Conte 2 è destinato a sparigliare non poco le carte nell’area giallorossa, dove da mesi ormai si discute su un nome unico che dovrebbe essere sostenuto da tutta la coalizione, dal Movimento 5 Stelle a Leu, passando ovviamente per il Partito Democratico.
Lui, dal canto suo, ci sta pensando molto seriamente, come riporta l’Adnkronos:
“L’ex ministro dell’economia Roberto Gualtieri starebbe valutando la proposta del Pd di candidarsi a sindaco di Roma e si sarebbe preso ”qualche giorno”, a quanto apprende l’Adnkronos da fonti del Pd romano, per decidere se accettare la sfida per il Campidoglio.”
“Nel Pd, comunque” si legge sempre nel lancio d’agenzia — sembra esserci ottimismo sulla possibilità che Gualtieri possa sciogliere positivamente la riserva. Lo schema, in ogni caso, sarebbe quello all’interno del tavolo del centrosinistra con l’ormai tradizionale appuntamento delle primarie, sempre che ci siano, si sottolinea, altri sfidanti a contendersi la candidatura a sindaco della capitale.”
Un balletto che tocca da vicino anche le imminenti comunali di Napoli, dove si fa sempre più insistente il nome dell’attuale Presidente della Camera Roberto Fico (M5S) come possibile candidato del centrosinistra, in una sorta di accordo alla pari tra i due principali azionisti della coalizione.
Restano, però, ancora da sciogliere due nodi, legati ai due nomi che, più di tutti, in questi mesi hanno tenuto banco nel dibattito sulla scelta del sindaco in questa parte dello scacchiere: la sindaca uscente Virginia Raggi e il leader di Azione ed europarlamentare Carlo Calenda.
Se la prima si dichiara pronta a resistere e lancia ai suoi messaggi chiari, chiedendo di stringersi intorno al proprio nome, il secondo sembra destinato a rimanere ormai definitivamente fuori dai giochi.
D’altra parte una parte consistente della base Pd non ha mai digerito lo strappo e l’uscita dal partito dell’ex ministro allo Sviluppo economico, che difficilmente, per la sua storia e le sue idee, potrebbe mettere d’accordo una coalizione così ampia e variegata come quella in campo.
(da agenzie)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
“IN PARLAMENTO PER AGGGREGARE LE FORZE LIBERAL-DEMOCRATICHE”, MA NON LO CONSIDERA NESSUNO
Se a sinistra il Pd insieme con i 5Stelle e Leu crea un intergruppo parlamentare (che tanto sta facendo discutere quei Dem preoccupati da un matrimonio stabile con i grillini), il leader di Italia Viva lancia la sua sfida.
Immagina di trasformare Italia Viva – il partito creato dopo la scissione dal Pd di cui è stato segretario – in una forza politica centrista e europeista, sull’esempio del presidente francese Macron,
Ovviamente non tutto subito. Però l’accelerazione è nei fatti, dal momento che il governo di unità nazionale di Draghi cambia le carte in tavola della politica italiana. Italia Viva con Azione di Carlo Calenda, +Europa di Emma Bonino, parte di Forza Italia e alcuni democratici moderati potrebbero creare un sodalizio politico duraturo? La versione italiana di Renew Europa, il gruppo macroniano a Strasburgo, si può fare: suggerisce Sandro Gozi, amico di Macron e di Renzi, eurodeputato.
La proposta arriva ieri, nel giorno della fiducia di Montecitorio al governo Draghi. Nella e-news settimanale, ecco le parole dell’ex premier: “L’avvento di Draghi è una svolta per il governo, ma produrrà una grande rivoluzione anche nella politica italiana. E noi saremo protagonisti del tentativo di europeizzare i partiti di casa nostra. Avanti tutta che il meglio deve ancora venire”.
Scrive inoltre Renzi: “Se la destra si europeizza è un bene e la grande famiglia dei Popolari non potrà che contenere questo gruppo. Se la sinistra si coalizza intorno a Leu, 5 Stelle e il Pd immagino che i Socialisti europei potranno accogliere la neonata formazione. Noi di Italia Viva dovremo essere i promotori – non da soli – di quella che in Italia sarà la casa del buon senso, dei riformisti, di un mondo liberal-democratico che in Francia ha Emmanuel Macron, in Danimarca Margrethe Vestager, in Belgio Charles Michel, in Lussemburgo Xavier Bettel e tanti altri riferimenti nel mondo”.
Gozi racconta come Renew Europe abbia aggregato nell’europarlamento socialisti, ecologisti, liberal democratici e conservatori pro Europa.
“Intanto nel Parlamento italiano si potrebbe fare un coordinamento, perchè nell’Italia di Draghi da un lato c’è una sinistra a cinque stelle, dall’altro una destra estrema: è tempo di liberare il centro e aggregare forze che hanno una visione liberal democratica”.
Le reazioni dei possibili partner di Renzi per ora sono gelide. Calenda rinvia al mittente. Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, ha suoi riti e liturgie e una classe dirigente del tutto refrattaria a cedere quote di sovranità .
La prossima Leopolda a Firenze, l’11 di novembre, sarà dedicata proprio a Renew Europe.
Italia Viva, il partito di Renzi, è al bivio della sua sopravvivenza, perchè nei sondaggi è quotato tra il 2 e il 3 per cento.
(da agenzie)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
GIOVANNI RUSSO: “SE TRE ANNI FA MI AVESSERO DETTO CHE SAREI FINITO A VOTARE UN GOVERNO COME QUESTO MI SAREI MESSO A RIDERE”
Tra la fronda e i governi sti volano gli stracci: “E’ la resa della politica e del M5S, per questo ho votato ‘no’ al governo Draghi. Il mio ‘no’ non è contro di lui in particolare, ma contro un governo tecnico, tenuto conto della crisi pandemica che stiamo attraversando. Per me questo non è il governo dei migliori. Anzi”.
Così Giovanni Russo, tra i 16 deputati M5S che alla Camera non ha votato la fiducia al nuovo esecutivo, spiega le ragioni della sua decisione. “Se il 3 marzo del 2018, ovvero il giorno prima delle elezioni che sancirono il mio ingresso in Parlamento, mi avessero detto – sottolinea – che si sarebbe andati a votare la fiducia a un governo con l’attuale composizione, mi sarei messo a ridere immaginando che non sarebbe mai stato possibile. E invece purtroppo è accaduto…”.
Contro le accuse di trasformismo (prima il sì al governo con la Lega, poi il sì all’esecutivo con le forze di centrosinistra) “dico solo che ho votato la fiducia perchè c’era Conte, garanzia del Movimento Cinquestelle, persona di grande spessore, che si è trovato a gestire una crisi pandemica assolutamente inaspettata. Ma soprattutto espressione di una guida politica. Ora – precisa Russo – le forze rappresentative dei partiti che sono nell’attuale governo non sono quelle che andranno a dare l’indirizzo politico al premier Draghi, saranno invece quelle che prenderanno gli schiaffi in faccia rispetto alle scelte di un dominus assoluto”.
“Un gioco al massacro e il M5S per non infilarsi nel tritacarne si sarebbe dovuto collocare all’opposizione. Qualcuno per assicurarsi la permanenza al governo ha sacrificato il Movimento e io non ci sto. Con un governo tecnico, di fatto c’è una resa della politica”, scandisce Russo.
Intanto, Crimi ha annunciato l’espulsione dei deputati che ieri non hanno votato la fiducia a Montecitorio. “Per ora non ho ricevuto nessuna comunicazione. Se farò ricorso? Scioglierò la riserva quando è il momento”. Russo, che è anche membro dello Commissione parlamentare Difesa, dove ha svolto per oltre un anno il ruolo di capogruppo, aggiunge: “vorrei comunque confermare la mia fiducia e stima al ministro Guerini. Anche i sottosegretari alla Difesa Tofalo e Calvisi hanno svolto un ottimo lavoro e mi auguro possano trovare una nuova collocazione”.
(da agenzie)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
IL DOSSIER NELLE MANI DI DRAGHI… AL COLLE L’IDEA NON DISPIACE
Parliamo delle più importanti città italiane a cominciare dalla capitale Roma. Poi Milano, Napoli, Torino, Bologna. Sarà inevitabile per il governo prendere posizione al più presto.
Il tema è se procedere con elezioni a maggio, cioè a scadenza naturale, oppure se rinviare tutto a dopo l’estate, settembre o forse ottobre.
Il Quirinale, in particolare, vedrebbe di buon occhio questa seconda opzione, spiega chi ha avuto modo di sondare gli umori del Colle in tal senso: “Sarebbe impensabile aprire i comizi elettorali in piena pandemia con il rischio di creare seri problemi alla lotta al Covid e alle vaccinazioni che già vanno a rilento”, è il refrain.
Anche il governo, stando alle prime indiscrezioni propenderebbe per la “linea Colle”, ma ancora non ci sono decisioni ufficiali in tal senso. I partiti intanto premono affinchè una decisione venga presa il prima possibile: fa molta differenza sapere se hanno ancora qualche mese di tempo per chiudere le candidature oppure no.
Candidature che in molte città , a cominciare dalla capitale, sono in alto mare: a Roma per esempio i Dem vorrebbero candidare l’ex ministro dell’economia Gualtieri, che da par suo avrebbe già dato un ok di massima (ed è molto gradito a Caltagirone, l’influente editore del Messaggero), ma la Raggi non ne vuole sapere di farsi da parte: da tempo ha già messo a punto persino le linee strategiche della campagna elettorale.
Anche nel centro-destra è tutto in alto mare: la sfida è tra Abodi e Bertolaso ma le ultime divisioni dovute alla nascita del governo Draghi non aiutano la ricerca di un accordo. Per questo avere più tempo e votare dopo l’estate potrebbe fare la differenza per molti.
(da agenzie)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
TRA DITTATURE SOVRANISTE E DEMOCRAZIE ILLIBERALI
Non è stata ancora ufficialmente tracciata, ma esiste una mappa nel territorio compreso tra Varsavia e Mosca, dove stampa vuol dire solo propaganda e la libertà di parola equivale alla prigione.
Tra Budapest, Varsavia, Praga — e all’elenco si aggiunge in fila anche Lubiana — fiorisce, come in una capsula di petri, il soggetto ibrido delle democrazie illiberali dell’est, con un perimetro che va allargandosi, senza argine che possa contenerlo all’orizzonte.
Se nella Bielorussia di Lukashenko, dove sono state appena condannate a due anni di galera due giornaliste ventenni della tv Belsat, “vediamo un approccio dittatoriale tradizionale, quello classico dei regimi, verso reporter arrestati arbitrariamente, nella zona centro-orientale gli attacchi ai media sono più sofisticati, mirati a distorcere il mercato editoriale e dividere la comunità di giornalisti”.
Con immediatezza, dagli uffici dell’organizzazione European Centre for Press and Media Freedom risponde il responsabile Laurens Hueting: “l’Europa ha fallito nell’intervenire nei momenti più cruciali per mancanza di riconoscimento del problema, composto, nell’area centro-orientale, da un complesso sistema di leggi ed abusi legislativi, sfruttamento degli aiuti di Stato, distorsione del mercato pubblicitario, il tutto inserito in un’atmosfera in cui il giornalismo indipendente è soggetto a molestie digitali quanto reali”.
Alcuni Paesi in cui la stampa libera è minacciata sono membri d’Europa e Nato, ma fino a ieri orbitavano nella sfera del Cremlino sovietico: “più che un paradosso, una vergogna che la lezione sull’assenza di libertà non sia stata appresa, un peccato che non abbiano capito quanto sia importante il giornalismo indipendente e l’hanno represso invece di rafforzarlo”.
Tra tutte è l’Ungheria il più antico e primario esempio di democrazia illiberale: a Budapest “un sistema mediatico allineato al potere è stato costruito mentre contemporaneamente quello indipendente veniva eliminato, o comprato o messo al bando, o comunque buttato fuori dal mercato”.
A Varsavia le pagine di giornali e siti sono rimaste oscurate, nere come il lutto e come il futuro che attende i media nazionali, dopo la decisione del governo di tassare del 5% le pubblicità , che andranno a finanziare contenuti nazionalistici e allineati alla narrazione del Pis, partito al potere Diritto e Giustizia.
Per distogliere l’attenzione dall’inettitudine e dalla corruzione ormai endogena del suo sistema, letteralmente e metaforicamente, a Budapest, regna il silenzio: sono stati chiusi o comprati, uno dopo l’altro, i giornali non vicini alle politiche del governo, e non trasmette più dallo scorso 14 febbraio nemmeno Klubradio, l’ultimo radio libera di criticare il governo sovranista di Orban.
Come a domino, una dopo l’altra, le Capitali dell’est sono cadute tutte tra le mani di leader repressivi: “un Paese che è divenuto esempio da manuale delle democrazie illiberali, il primo Stato che ha smantellando i media in maniera sistematica e minatoria è l’Ungheria”, testa d’ariete del gruppo di Visegrad, unitosi all’Unione nel 2004. Le piccole Budapest che si replicano da Lubiana a Praga “guardano tutte al modello Orban o quello del Pis polacco: usano quelle tattiche adattandole ai territori in cui operano”. È quella che Laurens chiama “morte per un migliaio di tagli”.
Sempre schierate e pronte nelle dichiarazioni, ma inermi nelle azioni incisive che tardano a intraprendere, le istituzioni europee assistono mute mentre cresce e si allarga la piccola Unione di illiberali all’interno dell’Unione più estesa. Zitta come i giornalisti nelle piccole patrie europee dell’est, sta anche la “vecchia” Europa, però avvolta da un silenzio diverso, quello asfittico degli stanchi, dei rassegnati, che la storia chiamerà complici.
Se Bruxelles non si muove, l’ultima generazione centro-orientale invece continua a farlo, e per le strade dove si affacciano le finestre delle autorità , marcia per sfidarle, spesso a temperature che scendono sotto lo zero del meteo e dei diritti umani.
Accade in Bielorussia come in Polonia, dove trascinati dalle ragazze e dal movimento Straik Kobiet, “sciopero delle donne”, anche gli uomini sono finiti in piazza nonostante manganelli, arresti e idranti per avere diritto di scelta, di parola e opposizione, civile e politica.
Non si prescinde dalla forza delle immagini, quando diventano icone: l’ultima di Bratislava porta il volto dell’impavido e giovanissimo reporter anti-corruzione Jan Kuciak, assassinato nel 2018 insieme alla sua fidanzata Martina. L’anniversario della sua morte verrà celebrato domenica prossima come esempio di lotta estrema per ottenere giustizia. L’omicidio più vergognoso della storia della Slovacchia indipendente ha portato alla caduta del governo vicino alla criminalità organizzata e alle più partecipate manifestazioni dalle marce contro Mosca del 1989, perchè, infine, la storia centro-orientale, sta dimostrando che è vero anche quello che scrisse Holdering: “dove c’è pericolo, cresce anche ciò che lo salva”.
(da Open)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
QUANDO I LEONI DA TASTIERA DIVENTANO CONIGLI
Arrivano le prime reazioni dopo la notizia dell’apertura di un’indagine da parte della Polizia postale nei confronti degli hater che ieri hanno insultato e augurato la morte a Liliana Segre, subito dopo il suo vaccino e l’appello pubblico a vaccinarsi. E, come ampiamente prevedibile, sono goffi tentativi di scuse, tanto tardive quanto evidentemente insincere, che arrivano non a caso poche ore dopo la notizia dell’inchiesta.
E’ il caso, ad esempio, di A.T., l’autore di uno dei commenti più infami — ma non il peggiore in assoluto — che recitava così: “VAI A LAVORARE LADRAAAAAA”. A distanza di 24 ore, A.T. — queste le sue iniziali — evidentemente spaventato dalla bagarre mediatica che si è scatenata, in un commento dal tenore molto diversa prova a giustificare così le sue parole
“Ho sbagliato! — esordisce — nella vita si commettono errori alcune volte anche infantili presi magari da una rabbia del momento! Ieri ho sbagliato a scrivere quel commento! Chiedo scusa di cuore credetemi! Sono una brava persona che lavora tutto il giorno e porta rispetto a ogni singola persona! Ho sbagliato e mi vergogno di quello che ho scritto! Ho dei valori che i miei genitori mi hanno insegnato e ne sono fiero! Ma ieri ho sbagliato! E’ un periodo non felice il mio e ho agito d’istinto senza ragionare! Chiedo veramente scusa di cuore.. scusa a tutti!”
Un “errore infantile”, ecco come lo definisce. Secondo A.T. dare della ladra e invitare ad andare a lavorare una donna di 90 anni sopravvissuta alla Shoah è un “errore infantile”. Insomma, quando il cerchio si stringe e cominciano a intuire che le cose si mettono male, i leoni da tastiera diventano puntualmente agnellini o, secondo alcuni, più simili a coniglietti… da tastiera.
(da agenzie)
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Febbraio 19th, 2021 Riccardo Fucile
LA PROCURA DI MILANO APRE UN FASCICOLO, LA POLIZIA POSTALE GIA’ AL LAVORO
È tutto un rumore di conigli che scappano nella tana. Nella giornata di ieri, abbiamo assistito all’ennesima pagina vergognosa della storia dei social network. Liliana Segre ha deciso di rendere pubblica l’immagine della sua vaccinazione anti coronavirus.
Una scelta che è stata esemplare e che, senz’altro, ha rappresentato uno dei migliori casi di sensibilizzazione rispetto a un’azione di responsabilità come la vaccinazione, in un momento in cui il mondo intero sta fronteggiando la più grave pandemia del secolo. Eppure, sono stati tanti gli utenti di Facebook che hanno deciso di vomitare insulti a mo’ di commento agli articoli di giornale o alle fotografie pubblicate sul social. Gli haters Liliana Segre sono sempre stati una comunità molto vasta, ma ieri hanno decisamente dato il peggio di sè.
Ora, la procura di Milano ha deciso di prendere provvedimenti contro un comportamento che, il più delle volte, resta impunito. È stato aperto, infatti, un fascicolo contro ignoti con l’accusa di minacce aggravate nei confronti della senatrice a vita: lo scopo di questa indagine è quello di individuare gli haters di Liliana Segre, in modo tale da prendere provvedimenti nei loro confronti.
La procura di Milano, che evidentemente ha assistito all’ennesimo caso di attacco indiscriminato e ingiustificato alla senatrice a vita (recentemente presa di mira anche in occasione del suo voto di fiducia al governo Conte 2, rivelatosi poi inutile vista la successiva caduta dell’esecutivo), ha deciso di non far passare inosservata una prassi che, sui social network, è purtroppo sempre più usuale.
Nel corso della giornata di ieri, Liliana Segre era stata raggiunta da insulti, minacce e auguri di morte. Qualcuno l’ha presa di mira semplicemente per il fatto di aver scoperto una spalla, qualcun altro le ha rivolto parole antisemite, altri ancora hanno avuto da ridire sul suo ruolo pubblico di senatrice a vita. Per tutti i casi più gravi, ora, la procura di Milano si è messa al lavoro. L’auspicio è che si possa creare un precedente di rilievo per fare in modo che, d’ora in poi, gli haters in rete ci pensino su due volte prima di vomitare odio.
(da agenzie)
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