Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
DRAGHI STANZIA 5 MILIONI PER LE PRIME NECESSITA’
«Qui è un disastro. C’è un grosso problema idrogeologico. Noi faremo tutto il possibile. Forza, lo Stato è con voi». Con queste parole il presidente del consiglio Mario Draghi si è rivolto ai cittadini di Pianello di Ostra, uno dei luoghi più colpiti dall’alluvione che nelle ultime ore ha sconvolto le Marche, causando almeno dieci morti e quattro dispersi. In visita nel paese in provincia di Ancona, il premier, ancora prima di partecipare alle riunioni operative, ha voluto mostrare vicinanza alle popolazioni colpite dal maltempo.
«Vi abbracciamo tutti, vi siamo vicini e contate su di noi», ha detto. Poche ore fa il presidente ha anche annunciato lo stanziamento di cinque milioni di euro «per le prime necessità».
Mentre i Vigili del fuoco e la Protezione civile continuano a cercare i dispersi e a soccorrere i cittadini, montano invece le critiche al presidente della Regione Francesco Acquaroli.
«Dove eravate ieri sera?», ha chiesto una donna di Pianello di Ostra al presidente in visita nella frazione colpita dall’alluvione. Insieme a lei molti i residenti che hanno lamentato una forte carenza di aiuti e soccorsi.
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
I GIOVANI UNDER 29 CHE PERCEPISCONO IL REDDITO SONO IN REALTA’ APPENA 49.346, PARI ALL’1,47% DEL TOTALE… NON SOLO: UNO SU DUE LAVORA MA CON SALARI DA FAME E QUINDI HA DIRITTO A UNA INTEGRAZIONE… IN EUROPA SOLO LA ROMANIA E’ MESSA PEGGIO
Se il famoso marziano di Ennio Flaiano scendesse in questi giorni a Roma e, nel tentativo di farsi un’idea del Paese che sta visitando, decidesse di accendere la televisione italiana e guardare un talk-show si farebbe un’idea precisa: l’Italia è una nazione popolata da giovani umani “fannulloni” che stanno tutto il giorno “sul divano”, che “non rischiano e non faticano”, e ai quali viene data una “paghetta” proprio per non fare niente.
Sì, perché uno dei massimi imputati di questa campagna elettorale è proprio lui, il reddito di cittadinanza: che “non funziona”, “diseduca i giovani al lavoro” e, anzi, “li incentiva a non lavorare” o, alla meglio, a “lavorare in nero”.
Ergo, quasi tutti i partiti, salvo il Movimento 5 Stelle che lo ha voluto e pochi altri, desiderano cancellarlo o, alla meglio, cambiarlo radicalmente. Ma sono davvero così tanti i giovani che lo percepiscono?
Facciamoci aiutare dall’ultimo report dell’Inps. I percettori complessivi (di almeno una mensilità) di Rdc tra gennaio e luglio 2022 sono 3.350.771 (persone uscite dalla povertà…).
E di questi quasi 3 milioni e mezzo di persone quanti sono i giovani che lo percepiscono?
Se escludiamo quelli che lo prendono in forma “indiretta”, ossia che vivono in famiglia e rappresentano uno degli elementi del calcolo Isee (l’indicatore preso a riferimento per chi chiede una qualsiasi forma di agevolazione sociale allo Stato), i giovani tra i 18 e i 29 anni beneficiari del sussidio sono 49.346, di cui 22.482 nella fascia di età 18-24 anni e 26.846 in quella 25-29 anni.
Dunque riepilogando i “famosi” giovani che starebbero sul divano a ricevere il sussidio in modo “autonomo”, senza gravare sulla famiglia, sono l’1.47% del totale.
Avete capito bene: su 100 persone che percepiscono il Rdc solo 1 è un giovane autonomo sotto i 29 anni.
Capite che la retorica del “ragazzo fannullone sul divano” cade immediatamente.
Ma c’è di più: prendendo la nota Anpal di aprile 2022 leggiamo che “tra i giovanissimi occupati e beneficiari del reddito la quota di chi lavora con contratto a tempo indeterminato o apprendistato è pari al 50,6%”.
Cosa ci dice la nota dell’Agenzia per le politiche attive del lavoro? Che tra i beneficiari del Rdc 1 ragazzo su 2 lavora già, e (evidentemente) stiamo parlando di lavori con forme contrattuali “da fame” che, non garantendo una retribuzione dignitosa, devono integrarla con il sussidio. In un Paese dove 360 mila giovani (fascia 20-29 anni) guadagnano meno di 876 euro al mese (in Europa solo la Romania è messa peggio), dove 4,3 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi all’ora e dove quasi 1 lavoratore su 3 guadagna meno di mille euro la mese, forse servirebbe più cautela quando si parla di questo.
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
L’INDUSTRIA BELLICA RUSSA È A PEZZI, PRIVA DI PEZZI DI RICAMBIO E TECNOLOGICAMENTE OBSOLETA … ANCHE I PAESI LIMITROFI ALLA RUSSIA INIZIANO A DUBITARE DELLA GUERRA, COME GLI APPARATI DEL CREMLINO (ESERCITO, POLIZIA, SERVIZI)… SE CONTINUA COSÌ, LO ZAR RISCHIA DI NON MANGIARE IL PANETTONE
Com’è andato il vertice tra Xi Jinping e Vladimir Putin a Samarcanda? Se si guarda alla forma, bene: i due autocrati hanno dispensato grandi sorrisi, ribadendo la loro “alleanza” per creare un fronte globale anti-occidentale. Ma sulla sostanza, invece, è stato un disastro.
“Mad Vlad” sperava che il dittatore comunista finalmente cedesse alle sue pressanti richieste, e invece “niet”! Come scrive Paolo Brera su “Repubblica”, il resoconto finale di Pechino è “il più freddo di sempre”.Il messaggio di Xi a Putin, in buona sostanza, è stato: Caro Vlad, le nostre armi le vedi con il binocolo. Si tratta di un problema non da poco per il capo del Cremlino, alle prese con la disfatta della sua armata “lessa” in Ucraina.
L’industria bellica russa è un rottame: negli anni la corruzione degli oligarchi ha drenato ogni risorsa, mancano i pezzi di ricambio e non ha la tecnologia per competere minimamente con i potentissimi mezzi americani. Il risultato si è visto durante la controffensiva ucraina: i soldati di Kiev, armati fino ai denti da Washington, hanno facilmente sbaragliato quelli di Mosca, costretti a scappare a gambe levate.
Putin, insomma, è in enorme difficoltà, e il compagno Xi, nonostante a parole si schieri al suo fianco, non ha intenzione di fornire aiuti militari. E la Russia si deve accontentare di ricorrere alle vecchie ferraglie di Corea del Nord e Iran.
Non solo: il summit di Samarcanda è stata l’occasione, per il presidente russo, per prendere consapevolezza che anche il consenso dei paesi limitrofi sta scemando. Perfino nella Bielorussia governata dal fedele vassallo Lukashenko, l’appoggio alla cosiddetta “operazione militare speciale” inizia a essere messo in discussione.
I paesi ex Urss stanno capendo che le sanzioni mordono ogni giorno sempre di più, e il loro tenore di vita, già non eccelso, si sta ulteriormente abbassando.
La situazione per lo Zar del Cremlino è sempre più difficile: come Dago-rivelato, solo gli apparati (esercito, polizia, servizi) possono destituire Putin. Finora lo hanno sempre appoggiato, ma adesso iniziano a dubitare della sua guida. Le persone più vicine a “Mad Vlad”, le poche rimaste, si stanno facendo sempre più domande sull’opportunità di continuare a prendere schiaffi in Ucraina e finire in miseria in casa.
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
NEL LIBRO DI TOMMASO LABATE MISTERI E RETROSCENA DEI SETTE MESI DI (STUDIATO) LOGORAMENTO CHE HANNO SEGNATO LA STRADA DEL GOVERNO DRAGHI
Quello che è successo, almeno a spanne, lo sappiamo ormai più o meno tutti. Il governo Draghi è caduto, siamo nel pieno della prima campagna elettorale estiva della storia repubblicana, epilogo non del tutto imprevedibile di un pentolone dove bollivano furbizie, ambizioni, sgambetti, voglia di menare le mani, tentativi di alleanze e divorzi brutali, che si sono moltiplicati al seguito della pirotecnica partita per scegliere l’inquilino del Quirinale, conclusa con la riconferma di Sergio Mattarella.
Ma come e perché tutto questo sia avvenuto si perde e si confonde, soprattutto a pochi passi dal voto, nell’abilità della politica nel non lasciare tracce, o per lo meno nel cancellarle. Il ruolo di Arianna in questo dedalo di retroscena se lo prende Tommaso Labate, giornalista avvezzo a non farsi imbrogliare, che sbarca in libreria con Ultima fermata, per l’editrice Solferino.
La tesi suggestiva che anima il racconto dei sette mesi che vanno dalla conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio fino alle dimissioni di Mario Draghi è che non è stata una concatenazione rapida di sfortunati eventi a portare alla caduta del governo più apprezzato dagli italiani, per lo meno dell’intera legislatura.
Ma uno studiato logoramento, iniziato proprio con la battaglia per il Quirinale. Perché la scelta finale, largamente condivisa, ha sì segnato un’intesa importante, ma non ha lenito le ferite di quei giorni, che non si sono mai rimarginate.
E in effetti non è facile credere che l’intero castello di solida credibilità, interna e internazionale, sia crollato per quello che ha detto a «Un giorno da pecora» di Rai Radio 1, alla fine di giugno, il sociologo Domenico De Masi.
Aveva raccontato di un suo colloquio con Beppe Grillo, nel quale il garante dei Cinque Stelle parlava delle sue telefonate con il premier, che si lamentava di Giuseppe Conte e chiedeva che fosse sollevato dal suo ruolo di timoniere del Movimento.
Smentite, tensioni, ruvide telefonate pacificatrici, che probabilmente avrebbero alla fine sortito l’effetto di stemperare gli animi e di archiviare l’incidente, se non ci fosse stato un pregresso di asprezze legato ai giorni del Colle.
Né è facile digerire che l’intera esperienza dell’unità nazionale, con il Pnrr davanti e con il Covid non ancora alle spalle, possa essere stata spazzata via per l’incapacità di trovare un accordo sulla costruzione del termovalorizzatore destinato a smaltire i rifiuti di Roma.
E resta un mistero senza risposta la riunione raccontata da Labate, convocata da Berlusconi ad Arcore ben prima della crisi. Voleva preparare al volo otto spot di due minuti l’uno dal sapore elettorale e destinati al web. Per lanciare la proposta di pensioni minime a mille euro e promettere di piantare un milione di alberi.
Eccola allora la storia della guerra sotterranea e senza quartiere, ricca di retroscena, dettagli e curiosità, che si è consumata durante la corsa al Colle. Ha fatto fibrillare i Cinque Stelle ben prima della scissione ad opera del ministro degli Esteri. Luigi Di Maio si batteva per Mario Draghi e Conte non ne voleva sapere. Conte di accordava con Matteo Salvini per lanciare Elisabetta Belloni e Di Maio, insieme a Matteo Renzi, era il primo che si metteva di traverso. Enrico Letta cercava di convincere il leader grillino su una strada comune e lui faceva emergere non solo la sua contrarietà a una promozione del premier, ma tradiva anche una certa irritazione per quella che interpretava come una linea egemonica del Pd nei suoi confronti.
Fino a un aperitivo a tre in casa di Roberto Speranza, dove alla fine Conte diceva a chiare lettere a Letta: «Noi Draghi non lo votiamo».
Una progressiva e reciproca presa di distanza, nel merito ma soprattutto nei toni, che ha gettato il seme della caduta del governo, e amplificata poco dopo dall’invasione dell’Ucraina, con Letta e Conte su fronti talmente divergenti da rendere non più proponibile l’idea del campo largo.
La partita del Quirinale ha logorato pesantemente anche i rapporti nel centrodestra, con i franchi tiratori che impallinano Elisabetta Casellati, con Salvini che rifiuta l’intesa su Pier Ferdinando Casini, con lo stesso leader della Lega che converge su Mattarella rompendo con Giorgia Meloni .
«Il centrodestra non esiste più», dirà la presidente di Fratelli d’Italia. Ma se l’ultimo atto della crisi di governo ha l’effetto di accrescere le differenze nell’area progressista, è invece cemento per rinsaldare l’alleanza avversaria. La scelta di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini di sfiduciare di fatto Draghi e di dare a Giorgia Meloni le tanto desiderate elezioni anticipate sana miracolosamente tutte le ferite, almeno fino al voto.
Tommaso Labate è uno di quei giornalisti (tanti) che non lasciano mai a piedi il Corriere. Se una notizia arriva tardi, se è difficile da verificare, non si tira mai indietro, anche se sta su un treno o magari in un giorno di vacanza. Ultima fermata segue quello stile, con la ricerca puntigliosa e non faziosa di come sono andate veramente le cose, con un occhio attento ai particolari, con una scrittura di facile lettura anche nella complessità degli argomenti e nella concatenazione frenetica dei fatti.
Il libro è anche un documento, che cuce una storia ancora calda e sensibile della nostra vicenda politica, e aiuta a capire non solo quello che è successo, ma anche quello che deve ancora succedere.
(da Il Corriere della Sera)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
GLI ESPERTI: “IL CLIMA E’ CAMBIATO, MA DOPO I MORTI DEL 2014 NON E’ STATO FATTO NULLA”
Le alluvioni che la scorsa notte hanno colpito le Marche sono solo l’ultima conferma di ciò che gli esperti di tutto il mondo dicono da tempo: il clima è cambiato.
In Italia, dal 2010 ad oggi, si sono verificati 1.318 eventi estremi, tra cui: 516 allagamenti da piogge intense, 367 danni da trombe d’aria, 123 esondazioni fluviali e 55 frane causate da piogge intense.
In altre parole, parlare di maltempo non basta. «Quello che è accaduto nelle Marche va contestualizzato con i cambiamenti climatici, che stanno modificando il regime delle precipitazioni», spiega Piero Farabollini, presidente dell’Ordine dei geologi delle Marche, intervistato da Gea.
Perché questi eventi sono sempre più frequenti
In genere, la precipitazione media annua nelle Marche è di 800 millimetri sulla costa e 1.200 millimetri nelle zone interne. Con i temporali della scorsa notte, sono caduti 420 millimetri di pioggia in poche ore. Ma in che modo influiscono i cambiamenti climatici? «Le temperature sempre più elevate fanno accumulare molta energia nei sistemi atmosferici, che si riversa al suolo attraverso fenomeni meteorologici sempre più intensi e frequenti, aumentandone a dismisura la pericolosità», chiarisce Alessandro Miani, presidente del Sima (Società Italiana di Medicina Ambientale). «A causa nostra, in futuro nubifragi, alluvioni, trombe d’aria e cicloni saranno più numerosi e distruttivi».
Il clima, insomma, diventerà sempre più imprevedibile. E per rendersene conto, basta riavvolgere il nastro di qualche mese. «Sono passate poche settimane da quando parlavamo di grave siccità e ora siamo già alle prese con le esondazioni», ricorda Farabollini. «Se qualcuno non lo avesse ancora capito, il clima è cambiato e nel futuro non c’è da aspettarsi che la situazione migliori».
L’importanza della prevenzione e il precedente del 2014
Se è vero che eventi come quello della scorsa notte saranno sempre più frequenti, è altrettanto vero che le soluzioni ci sono.
Le strade maestre indicate dagli esperti sono due: da un lato ridurre le emissioni, dall’altro adottare piani di adattamento e prevenzione.
«Come Sima condividiamo la linea dell’Oms, secondo cui qualsiasi azione per ridurre le emissioni climalteranti è da considerarsi anche un positivo intervento di sanità pubblica», commenta Miani. «Chiederemo al prossimo governo di rimettere al centro del nuovo programma il rispetto degli Accordi di Parigi. Occorre poi approvare quanto prima il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), fermo al 2018 e rimasto in un cassetto del Ministero».
Nel caso delle alluvioni nelle Marche, poi, ci sono soluzioni ancora più specifiche, come spiega il presidente dell’Ordine regionale dei geologi. «A Senigallia, il fiume Misa ha esondato anche nel 2014. Non si può parlare di sfortuna», commenta Farabollini. In quel caso furono tre le vittime.
Da allora, però, poco è stato fatto per prevenire eventi come quello dello scorsa notte. «Le Marche devono aumentare il livello di resilienza a questi eventi – avverte il geologo – Tenere puliti i letti dei fiumi, non costruire nelle zone alluvionali e alzare gli argini è l’abc della prevenzione». Anche queste misure, però, da sole non bastano. Secondo Farabollini, è necessario anche «ripianificare le aree urbanizzate, ripensare a come realizziamo i canali di scarico, le sezioni fluviali, i ponti e altro ancora. Se il clima è cambiato, anche il nostro approccio deve cambiare».
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
IL FIUME MISIA E’ ESONDATO IN VARI PUNTI DELLA CITTA’
“Ieri non siamo stati allertati, non ne sapevamo nulla. Intorno alle 20.00 abbiamo avuto notizia che nei paesi vicini c’era una bomba d’acqua. Abbiamo allora subito chiesto ai cittadini di salire ai primi piani e di non girare per la città. Intorno alle 23.30 i fiumi si sono molto ingrossati e a quel punto siamo andati molto in pressione, quindi il fiume Misia è esondato in diversi punti della città”.
Sono le parole del sindaco di Senigallia, Massimo Olivetti, intervenuto a “24 Mattino”, su Radio24, in merito all’alluvione che stanotte ha colpito alcune zone delle Marche.
Il sindaco aggiunge: “C’è stata purtroppo una vittima, trovata stamattina all’interno della sua auto. La pulizia degli alvei dei fiumi? Se fosse stato un discorso di pioggia sul nostro territorio, io sarei stato il primo a parlare della pulizia dell’alveo perché ho sempre ribadito che va tenuto bene, nonostante la competenza non sia dei Comuni ma della Regione. Purtroppo in questo caso, anche se avessimo avuto un alveo pulito, la situazione si sarebbe verificata ugualmente – conclude – perché la quantità d’acqua che è arrivata e la rapidità erano eccezionali. Noi abbiamo un fiume torrentizio, il Misia, che è un fiume grande ma spesso secco. Quando ci sono abbondanti piogge, porta l’acqua con una grossa velocità. Questo è un punto debole della nostra città, per cui speriamo che ci siano interventi strutturali. Ma l’aspetto della straordinarietà è abbastanza importante in questo caso”.
(da agenzie)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
LA MELONI PARE SIA RIMASTA DISPIACIUTA DI ESSERSI RITROVATA LA FOTO DI PETRECCA, DIRETTORE DI RAINEWS, ABBRACCIATO A SALVINI DOPO UN COMIZIO A COSENZA (ERA IN QUOTA FRATELLI)
Arrivano le linguine all’astice. Vassoio di grande impatto cromatico tenuto a mezz’aria tipo feretro da Angelito e Dolores, la coppia di domestici filippini. Scatta un applauso. Il padrone di casa stappa una magnum di Louis Roederer.
Adesso, immaginate: un finestrone spalancato sui tetti del ghetto ebraico, il riverbero delle luci giallastre di Portico d’Ottavia, cena seduta con sedici persone, tra cui un paio di architetti, un manager, un prete di quelli con l’abito nero di sartoria, un direttore della Rai, un vice-direttore della Rai, un inviato speciale della Rai.
Linguine squisite.
«Stavamo dicendo…» (il prete riattizza le chiacchiere).
«Dicevo — risponde pronto il direttore — che se un po’ conosco Giorgia…». S’infila subito anche il vice-direttore: «Guardate: a me Giorgia sta molto simpatica, è una tipologia umana che mi ispira… poi, se dobbiamo proprio raccontarcela bene, è una donna che ce l’ha fatta da sola…».
E insomma è tutta una Giorgia di qua, Giorgia di là, andiamo avanti a parlare di elezioni e di quanto potrebbe accadere nel Paese e quindi pure a viale Mazzini e a Saxa Rubra, e loro — tipi che prima avevano confidenza stretta con nomi come Paolo (Gentiloni), Matteo (Renzi) e Dario (Franceschini) — adesso per nome chiamano la Meloni, e la chiamano per nome lasciando intendere stima certa, forse amicizia, sospetta complicità. Il prete sorseggia champagne, poi soffia nell’orecchio: «Sbaglio, o le pecorelle della Rai, anche stavolta, hanno già scelto il nuovo pastore?».
Non sbaglia, don.
È così che va. I segnali sembrano precisi. E, del resto, hanno una prateria.
L’altro giorno, su Libero, un articolo firmato da Francesco Storace è stato letto riga per riga, copiato, conservato su mille cellulari (Storace è un mitico personaggio della destra italiana: deputato, senatore, ministro, governatore del Lazio, profondo conoscitore delle dinamiche Rai e per questo soprannominato, quando fu il temuto presidente della Commissione di vigilanza, Epurator; adesso si è rimesso a fare il giornalista e non scrive mai niente per caso).
Informa: in Rai, a destra, c’è praticamente il deserto. Aggiunge: «Basti pensare che nelle posizioni apicali — sono 25 — solo cinque non sono di marca Pd». Segue elenco: Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2; Paolo Petrecca, direttore di RaiNews; Alessandro Casarin direttore della Tgr; Marcello Ciannamea, direttore dei Palinsesti; Antonio Preziosi, direttore Rai Parlamento. Altre posizioni: Angelo Mellone, vice-direttore di Rai DayTime; Nicola Rao, vice al Tg1; Paolo Corsini, vice all’approfondimento.
Intanto, qui a cena, siamo al secondo: rombo con patate (un filo salate). Diamo per scontato che per gli otto elencati da Storace siano pronti salti importanti. Sangiuliano è rimasto in azienda, e non sarà senatore di Fratelli d’Italia, perché devono avergli promesso o il Tg1, o persino qualcosa di più.
Uno dei commensali, vecchio amico dell’amministratore Carlo Fuortes, conoscendone il carattere, pensa non sia il tipo da accettare troppi compromessi. Così finiamo a parlare di Giampaolo Rossi: lui sì che può chiamarla Giorgia. Consigliere personale, marinettiano, vero esperto di tv, uno che vuole bene alla Rai, potrebbe diventarne o amministratore o presidente (Marinella Soldi sa già tutto). Pettegolezzo: gira voce che la Meloni sia rimasta dispiaciuta di essersi ritrovata sul sito Dagospia la foto di Petrecca abbracciato a Salvini dopo un comizio a Cosenza (era considerato in quota Fratelli).
Cena divertente. Uno ricorda di quando Piero Vigorelli festeggiò la prima vittoria di Berlusconi camminando nei corridoi della Rai avvolto in una bandiera di FI. Allora racconto quello che mi ha detto Bianca Berlinguer: e cioè che, dopo ogni ribaltone, «la Rai resta comunque, pur con qualche conflitto, un’azienda dove resistono spazi di autonomia. A patto, ovviamente, di volerne usufruire».
Il punto è questo. Michele Anzaldi, da dieci anni segretario in Vigilanza, prima rutelliano, poi renziano, severo e implacabile, spiega sempre che in Rai, in realtà, esistono solo «tipi da Margherita e tipi da Udc. Che, in due minuti, con un saltino, diventano o di sinistra, o di destra».
Ridono tutti. La padrona di casa ha fatto arrivare le sfogliatelle da Napoli. I tre della Rai smettono di parlare della Meloni, e concordano sul fatto che i più bravi giornalisti dell’azienda siano Antonio Di Bella e Mario Orfeo. Il manager aggiunge Andrea Vianello. Giro di Calvados (Christian Drouin, roba seria). Quello della Rai più giovane mi si siede accanto, voce di velluto: «Amico mio, senti… ma avresti per caso il cellulare di Giorgia?».
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
L’ALLARME DI WASHINGTON: DIRSI A FAVORE DELL’UCRAINA MA CREARE DIVISIONI NELLA UE RISCHIA DI DIVENTARE UNA CONTRADDIZIONE
“Brothers vs Brussels”, ossia Fratelli d’Italia contro l’Unione Europea. Così si intitola la newsletter di GZero “Signal”, fatta circolare ieri dal gruppo di consulenza guidato da Ian Bremmer. Una conferma che il rapporto di Giorgia Meloni con la Ue è uno dei nodi a cui si presta più attenzione negli Usa.
Washington ha notato e apprezzato le posizioni atlantiste della probabile futura premier italiana, e la determinazione espressa nel continuare il sostegno per l’Ucraina in termini di sanzioni alla Russia e di forniture militari a Kiev.
Si chiede se poi sarà in grado di mantenere le promesse, nel caso in cui i voti dei parlamentari dei filo putiniani Salvini e Berlusconi fossero determinanti per tenere in piedi il suo eventuale governo, ma questo è un dubbio che potrà essere sciolto solo dopo aver conosciuto le dimensioni dei risultati elettorali del 25 settembre e il peso effettivo di Lega e Fi.
Il rapporto con la Ue invece è un problema programmatico di lungo termine, non solo perché il presidente Biden ha sempre creduto nel processo di unificazione per garantire pace e prosperità al continente, ma soprattutto perché la compattezza degli alleati europei e la collaborazione di Bruxelles è tra i pilastri nella sfida contro le autocrazie russa e cinese. In questo senso, dirsi a favore dell’Ucraina ma creare divisioni nella Ue rischia di diventare una contraddizione.
“Sedicente anti-globalista, Meloni ha per la maggior parte abbracciato la reputazione di estrema destra all’interno di un elettorato italiano che apprezza i candidati anti-establishment. Ma in un’epoca in cui il termine “estrema destra” è diventato un richiamo, cosa rappresenta veramente lei e cosa significherà per la politica e l’economia italiana?”.
La nota ricorda che Fdi “ha radici nei partiti neofascisti italiani degli anni ’40”, ma poi va oltre, avvertendo che “se la sua coalizione ottenesse la super maggioranza dei due terzi, potrebbe cambiare la Costituzione senza un referendum”.
Sottolinea che il rifiuto di entrare nel governo Draghi le ha consentito di attirare il voto di protesta, e ha definito l’immigrazione una forma di “ethnic substitution”, simile alla teoria del “great replacement” dei sostenitori di Trump, secondo cui sarebbe in atto un complotto planetario per sostituire i bianchi con altre etnie. Poi apprezza Orbàn, mentre attacca le elites globaliste e la lobby Lgbt.
“Meloni – prosegue la nota – non è il tipico nazionalista di estrema destra. Non sorprende che non sia una grande fan della Ue, avendo detto di recente: ‘Se vinco, per l’Europa la pacchia è finita’”. Il problema è la pacchia di chi, perché è vero che l’Italia ha dato a Bruxelles più di quanto abbia ricevuto, ma oggi sarebbe difficile rinunciare ai 200 miliardi del piano per la ripresa dopo il Covid. “Inoltre, i Fratelli si sono allineati al Parlamento europeo col partito polacco Diritto e Giustizia, da tempo in rotta di collisione con l’Ue”.
La newsletter riconosce che “Meloni non è una sostenitrice della politica demolitrice. A differenza dei suoi partner della coalizione, è fermamente pro-Nato e sostiene le sanzioni alla Russia. Sembra aver temperato la sua posizione dura nei confronti di Bruxelles nelle ultime settimane, sottolineando che non vuole litigare e darà la priorità all’economia italiana, gravata da un debito massiccio e dalla crisi energetica. Politica esperta, sa che solidi legami con la Ue sono fondamentali per mantenere a galla il paese”.
La nota si conclude con un avvertimento: “Meloni probabilmente entrerà in carica con un solido mandato di governo, ma la strada da percorrere sarà tutt’altro che agevole”.
(da La Repubblica)
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Settembre 16th, 2022 Riccardo Fucile
“L’EUROPA E’ PREOCCUPATA”
“Giorgia Meloni può guidare l’Italia e l’Europa è preoccupata”. È il titolo di un articolo del New York Times dedicato alla leader di Fratelli d’Italia nel quale si sottolinea come Meloni sia “la favorita a diventare il prossimo primo ministro”.
Il giornale americano spiega che l’Europa è preoccupata che la leader di Fdi, una volta al potere, “si levi l’abito da agnellino filo-europeo e sveli le sue zanne nazionaliste – tornando al protezionismo, cedendo ai suoi partner della coalizione che adorano Putin, annullando i diritti dei gay ed erodendo le regole liberali dell’Ue”.
“La leader di estrema destra di un partito che ha radici post-fasciste è nota per la sua retorica in crescendo, il timbro tonante e i discorsi feroci contro le lobby dei gay, i burocrati europei e i migranti illegali”, scrive il prestigioso quotidiano americano in una corrispondenza da Cagliari, dove la Meloni ha tenuto un comizio qualche tempo fa.
E sottolinea come Meloni sia già riuscita in una impresa finora inimmaginabile: diventare la prima politica con un lignaggio post-fascista a guidare l’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale. “Meloni – che entrerebbe nella storia come prima donna a guidare l’Italia – si muove in bilico su un filo: da una parte deve convincere i ‘patrioti’ di estrema destra che non è cambiata, dall’altra deve convincere gli scettici internazionali che non è una estremista, che il passato è passato e che gli elettori italiani per lo più moderati si fidano di lei, quindi dovrebbero farlo anche loro” aggiunge il giornale.
Il quotidiano americano spiega che nonostante le parole di Meloni che ha tentato di rassicurare affermando “che la sua popolarità alle stelle non significa che il Paese si sia spostato agli estremi, ma che semplicemente si sia sentito più a suo agio con lei e sia fiducioso nella sua capacità di realizzare i fatti”, i mercati globali e l’establishment europeo rimangono diffidenti”. Perché, appunto, temono che una volta al potere le sue simpatie per l’Europa svaniscano.
Il giornale ricorda anche che alla sua conferenza politica annuale nel 2018, Meloni ospitò l’ex consigliere di Donald Trump Steve Bannon e dichiarò di “guardare con interesse al fenomeno” del tycoon e a quello “di Putin in Russia”.
Ora però Meloni sembra cambiata, sottolinea il giornale. “Alla vigilia delle elezioni in Italia, la leader di Fdi ha cambiato rotta. Dopo anni di adulazioni verso Marine Le Pen, improvvisamente ne ha preso le distanze (‘Non ho rapporti con leì, ha detto.) Lo stesso con Orban (‘Non ero d’accordo con alcune posizioni che aveva sulla guerra in Ucrainà). Ora chiama Putin un aggressore anti-occidentale e ha detto che continuerà a inviare armi offensive in Ucraina”. Meloni dunque, ribadisce il giornale, non è nuova a cambi di linea politica e di pensiero. Ecco perché le istituzioni europee hanno molta paura.
(da agenzie)
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