Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
MOLTI PASSEGGERI HANNO VISTO CANCELLARE IL PROPRIO VOLO MENTRE ALTRI SONO STATI DIROTTATI NEGLI ALTRI SCALI SICILIANI… LE INFORMAZIONI LATITANO E I POVERI VACANZIERI SONO COSTRETTI AD ATTENDERE SOTTO UN TENDONE PRIMA DI POTER FARE IL CHECK IN
«EasyJet per Zurigoooo! Chi va a Zurigo con easyJeeet?». Il ragazzo urla a decine di passeggeri sotto al tendone allestito dalla Protezione civile all’ingresso del Terminal C dell’aeroporto di Catania. Non tutti lo sentono — il megafono comparso nei giorni scorsi, oggi non si vede — perché la coda è lunga, mentre un altro gruppetto è stipato in un tendone più in là, dove gira solo un po’ di aria condizionata. « What?», «Cosa?», si chiede Laila Castaneda, di Redwood City, California, lì con il figlio piccolo e il marito Vineet, in Sicilia dopo due settimane tra Atene e le isole greche. «Non capisco cosa dobbiamo fare».
Non è l’unica. Sono giorni d’emergenza in questo scalo — tra i più importanti d’Italia — che dal 16 luglio funziona a metà per l’incendio divampato negli «Arrivi» del Terminal A
L’area interessata dalle indagini è di appena 80 metri quadrati, ma i danni delle fiamme — tra fumo e polveri — sono stati significativi. Gli incendi sono stati due. Il primo, la sera del 16 luglio, all’interno di un gabbiotto affidato a una società di noleggio auto. Il secondo, il giorno dopo, a una centralina Telecom.
Nico Torrisi, amministratore delegato di Sac (società di gestione degli impianti di Catania e Comiso), vigila sulle operazioni. «Secondo voi a me fa piacere vedere le persone stipate fuori, sotto alle tende? Per niente», commenta. «Ma purtroppo è scoppiato un incendio, mi faccio qualche domanda sulla gestione delle fiamme nelle sue prime fasi, ma lascio lavorare la magistratura».
«Tutta la comunità aeroportuale qui si sta dando da fare — continua —: consegnando acqua gratis, mettendo a disposizione decine di persone per fornire le informazioni, pagando di tasca propria i 71 autobus al giorno che coprono le tratte con Comiso, Trapani e Palermo, prendendoci anche gli insulti dei passeggeri».
I disagi Nonostante gli sforzi, però, il caos è ovunque. E proprio nei giorni delle vacanze. Uno dei problemi maggiori è dovuto alla scarsa informazione dei vettori.
In aeroporto si entra solo due ore prima del volo per caricare le valige e un’ora prima per imbarcarsi. Tutti gli altri devono starsene fuori, dove ci sono pochi bagni chimici. Posti all’ombra, poi, neanche a parlarne. E il pomeriggio trovare un riparo dal sole è più complicato perché i raggi battono proprio sulla facciata.
Nuovo «terminal» Da domani, salvo imprevisti, la situazione dovrebbe leggermente migliorare perché Sac, assieme all’Aeronautica Militare, ha allestito il «terminal provvisorio», un altro maxitendone di circa 500 mq dove si faranno il check-in, i controlli di sicurezza e l’imbarco: questo dovrebbe portare i movimenti orari dagli attuali 10 a 14 (tra arrivi e partenze), meno dei 21 del solito. Oggi Sac dovrebbe riavere anche il Terminal A e attendere i via libera al ripristino. Ma una visita tra i cantieri mostra che il ritorno alla normalità richiederà tempo. « Mancu u’ Burundi », esclama un’anziana, non molto politically correct, che si rinfresca con la carta d’imbarco. «Nemmeno in Burundi» .
(da il Corriere della Sera)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
SUL LAGO DI GARDA SI MISURA LA TEMPRA “DELLA GIOVENTU’ NAZIONALE” DI FDI… MA A DIFENDERE IN PRIMA LINEA L’UCRAINA C’E ANDATO QUALCUNO DI QUESTI PRESUNTI GUERRIERI?
Dicono di ispirarsi all’educazione dei giovani Spartani e infatti li
hanno chiamati agoghé, dal sistema di educazione e di allenamento a cui, nell’antica Grecia, nel celebre capoluogo della Laconia, era sottoposto ogni cittadino appena compiuto il settimo anno di età.
Disciplina, obbedienza, lealtà di gruppo, esercizi e prove di forza. A Sparta l’obiettivo dell’agoghè era tirare su maschi fisicamente e moralmente robusti, pronti per entrare nell’esercito, e fa niente se inizialmente quel termine (in greco antico: ἀγωγή) si usava più che altro per indicare l’allevamento del bestiame (per dire: i formatori erano chiamati “mandriani di ragazzi”). I campi estivi dei giovani militanti di Gioventù Nazionale-Azione Studentesca dovrebbero essere, nelle intenzioni dei promotori, una nuova agoghé. Eppure, per alcuni aspetti, sembrano ricordare campi estivi di epoche più recenti rispetto a Sparta: quelli della gioventù fascista.
L’ultima agoghè – sesta edizione, titolo: “il coraggio di una scelta” – si è svolta il 21, 22 e 23 luglio sul lago di Garda. In quella che è considerata a tutti gli effetti la sessione estiva della palestra della futura classe dirigente di FdI, centinaia di giovani militanti si sono ritrovati per una tre giorni all’insegna del “valore del Coraggio” e di “una scelta al servizio dell’Idea”.
Scritte rigorosamente in maiuscolo, come prevede il codice stilistico-narrativo anche dei movimenti di estrema destra. Non è difficile disambiguare. I racconti dei baby-patrioti, dentro e fuori i social, rendono bene l’idea e disvelano la matrice. “Qui ci si allena duro, mica come quegli smidollati di sinistra che si fanno le canne e suonano i tamburi africani”. Luca, 17 anni, di Treviso. Istituto tecnico ma non importa perché il futuro è già in casa, nell’azienda di famiglia. “I valori? Me li ha insegnati mio padre: Dio, patria e famiglia…”. Luca aveva iniziato con la boxe, poi ha mollato e però, coi bicipiti che si ritrova, nelle gare di tiro alla fune – un vecchio classico, appunto, dell’antica Grecia – sul Garda la sua forza fisica è risultata decisiva.
Il 21 luglio, giornata di apertura, era tra le prime file di ragazzi sotto il tendone: tutti in maglietta verde, i tricolori alle pareti, le bandiere di Azione studentesca, fuori, uno striscione con scritto “la nostra Patria: una Nazione sovrana e libera”.
A tirare le conclusione di settantadue ore di “incontri di formazione, allenamento, stand e spirito comunitario” saranno il deputato FdI Fabio Roscani, presidente di Gioventù Nazionale, e Riccardo Ponzio, presidente di Azione Studentesca. Ma è il prima che è utile per capire. Il kulturkampf meloniano inizia con la benedizione di un manipolo di esponenti nazionali e locali di FdI: c’è anche il deputato Ciro Maschio, presidente della commissione Giustizia della Camera, assurto alle cronache per 104 multe accumulate in 19 mesi quando era presidente del consiglio comunale di Verona e saldate al Comune solo dopo le proteste di alcuni colleghi.
Se è vero, come è vero, che il motto del campo militante è “il coraggio di una scelta in un mondo che si è arreso”, è evidente che a indottrinare la “Comunità in cammino” – come si definiscono i fratellini d’Italia – sono state invitate prime file del partito con profili fortemente identitari. Il 22 luglio in programma ecco Paola Frassinetti, sottosegretaria al ministro dell’Istruzione, storica rappresentante della destra milanese. Il 25 aprile 2017, al Campo 10 del cimitero Maggiore di Milano, insieme ad altri camerati violò il divieto di questore e prefetto di omaggiare i caduti della Rsi, e già che era lì, insieme ad altri neofascisti, non badò troppo all’etichetta e si scontro verbalmente con gli antifascisti dell’Anpi (“ma vai affanc…”). Altro big: Federico Mollicone, negazionista della matrice nera della strage di Bologna. Recentemente ha presentato un’interpellanza al ministro dell’Interno Piantedosi e alla premier Meloni per ricicciare la fantomatica e inesistente pista palestinese. Sia Frassinetti che Mollicone sono stati ospiti nel panel “Il coraggio di costruire la scuola del domani”: con loro, anche l’assessora regionale veneta all’Istruzione, Elena Donazzan, collezionista di gaffe che cantò Faccetta nera in radio, più volte protagonista di uscite revisioniste e picconatrice del 25 aprile (“l’antifascismo ha prodotto il terrorismo rosso”).
Chi partecipa al campo si schiera davanti al capo che regge in mano la bandiera di Azione studentesca; dopo il rompete le righe si parla di cancel culture, di “mens sana in corpore sano”, di “coraggio in terra ostile” (l’ormai classico e paradossale atteggiamento underdog della destra di potere), di “coraggio contro il pensiero unico”.
Relatore è l’editore Marco Scatarzi, di Passaggio al Bosco. Casa editrice di riferimento dei giovani camerati che pubblica testi apologetici del fascismo, inneggianti al nazionalismo e alla difesa della razza bianca. Scatarzi è anche animatore del centro sociale di estrema destra fiorentino Casaggì: la sede, per anni, è stata in condivisione con Azione studentesca e FdI.
Sul Garda i ragazzi il 23 luglio si congedano salutandosi con le strette gladiatorie. Per raccontare l’ultima agoghè, sui social, scelgono le parole del saggista e editore francese Francois Bousquet (stretto collaboratore di Alain de Benoist). Sono una citazione del libro “Coraggio! Manuale di guerriglia culturale” (ovviamente pubblicato da Passaggio al Bosco). “C’è una leva, dentro di noi, che potrebbe sollevare il mondo: è il coraggio, è la puleggia che ci mette in moto, l’arco che ci spinge, gli stivali delle sette leghe che ci fanno camminare a passi da gigante”. Benito Mussolini, che una giovane Meloni definì il miglior politico degli ultimi 50 anni, del coraggio disse “bisogna porsi delle mete per avere il coraggio di raggiungerle”.
Capi e capetti avvisano che il campo è finito, ma “l’appuntamento è già fissato – da settembre – in tutte le scuole d’Italia, nella consapevolezza di avere tracciato una rotta identitaria con riferimenti profondi e parole d’ordine chiare”. Nuovi spartani crescono. Anzi no, non è Sparta.
(da La Repubblica)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
GUERRA AGLI ULTIMI: I COMUNI NON SONO IN GRADO DI CERTIFICARE CHI PUO’ AVERE LA PROROGA, I DATI ARRIVANO CON UN RITARDO DI DUE MESI
Decine di migliaia di famiglie, pur mantenendo il diritto al Reddito di cittadinanza, rischiano di restare mesi senza sussidi. I Comuni lamentano ritardi, le Regioni mostrano che ancora non esiste nulla per far partire, tra solo un mese, il Supporto per la formazione e il lavoro, sostegno da 350 euro destinato alle persone alle quali è stato tolto il Rdc. Insomma, ora che è il momento di passare all’atto pratico, stanno venendo a galla tutte le falle dell’operazione con cui il governo Meloni ha portato avanti un cavallo di battaglia elettorale, la cancellazione della misura anti-povertà.
La scorsa settimana sono partiti circa 160mila sms ad altrettante famiglie alle quali è stato detto che il Reddito di cittadinanza è sospeso “in attesa di eventuale presa in carico dai servizi sociali”. Una comunicazione talmente confusionaria che ha scatenato un assalto agli uffici comunali, con problemi di ordine pubblico per cui sono state allertate le prefetture. In realtà, questa zattera – la proroga del Reddito fino al 31 dicembre – sarà concessa solo a una parte di queste famiglie: al momento quelle “salvate” sono 88mila, infatti la platea iniziale dei nuclei che andavano a scadenza era di circa 250mila.
Ora però non è chiaro quante potranno essere ripescate tra le 160mila che hanno ricevuto il messaggio e le altre 80mila che lo riceveranno da qui a dicembre. Risultato: molte di loro, malgrado versino in condizioni molto disagiate e tali da consentire il mantenimento dell’aiuto statale, rimarranno scoperte per mesi.
Il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, ha segnalato un problema nella piattaforma con cui comunicano Comuni, Inps e ministero del Lavoro: contiene i dati dei beneficiari del sussidio, ma le informazioni arrivano solo dopo due mesi. Resta tra l’altro il problema di fondo, quello per cui gli uffici comunali dei servizi sociali sono sguarniti, alcune Regioni hanno speso solo il 5% dei fondi ottenuti negli ultimi anni per potenziarli, quindi il processo viene rallentato già dal punto di partenza.
Questo per quanto riguarda chi ha diritto alla proroga del Rdc in senso stretto, mentre gli altri dovranno aspettare che venga attivato il Supporto per la Formazione e il Lavoro, un assegno mensile da 350 euro per la frequenza di corsi di formazione per massimo 12 mesi. E anche qui è il caos. Le richieste dovranno essere presentate su una piattaforma chiamata Siisl, che oggi non esiste ma dovrà essere pronta per il 1° settembre. Ieri le Regioni hanno incontrato la ministra del Lavoro, Marina Calderone, e hanno lamentato di non essere ancora stati “informati sulle caratteristiche e la funzionalità” della piattaforma Siisl, chiedendo una modalità transitoria.
Anche quando questa sarà operativa, non è chiaro comunque come funzionerà il sussidio. A una lettura testuale della norma si potrà ottenere solo durante la frequentazione effettiva dei corsi, ma anche qui sorgono vari problemi. Intanto il governo non ha previsto alcun potenziamento della formazione, quindi gli unici corsi disponibili saranno quelli già previsti oggi dall’offerta formativa delle Regioni. Questi non durano mai 12 mesi e soprattutto difficilmente potranno allinearsi. Esempio: un beneficiario può fare domanda del supporto a settembre, ma il corso a cui è interessato potrebbe partire mesi dopo. Quando potrà iniziare a ricevere i 350 euro? Basterà aver dato la disponibilità? Bisognerà almeno aver prenotato un corso o firmato il patto di servizio? Nodi che andrebbero sciolti subito.
Non è finita qui. Come segnalato ieri da Repubblica, è venuta fuori un’altra questione: i nuclei che perdono il Reddito di cittadinanza saranno costretti anche a rifare la domanda per l’assegno unico per i figli. Questo perché questa misura copre i figli fino a 21 anni, mentre il Reddito di cittadinanza può essere mantenuto solo da chi ha figli minori: dato che finora è stato erogato automaticamente, venendo meno l’accredito del sussidio, bisognerà fare una richiesta per mantenere almeno l’assegno unico.
Ieri intanto il comitato “Ci vuole un Reddito” – la campagna promossa da Nonna Roma e altre centinaia di realtà sociali italiane, partita la scorsa primavera in protesta contro l’abolizione del Rdc – ha manifestato sotto la sede dell’Inps di Roma, in attesa di tenere la prossima assemblea il 23 settembre.
(da agenzie)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
“SIAMO TORNATI INDIETRO DI UN SECOLO”… SALVINI NON HA NULLA DA DIRE?
La Basilicata è rimasta senza treni. Per tutto il mese di agosto
chiunque vorrà spostarsi dentro la regione dovrà accontentarsi degli autobus sostitutivi. Una soluzione che comporta tempi di percorrenza più lunghi, tornanti in montagna e condizioni di viaggio non certo ottimali. Due linee, quelle che collegano Potenza a Foggia e a Napoli, sono bloccate per lavori di ammodernamento. Mentre la terza linea, che si collega a Taranto, è ostruita da una frana. «Fra una settimana toccheremo il punto più buio da oltre cento anni: per un mese chiusura di tutte e tre le linee», denuncia a Repubblica Luigi Di Tella, sindacalista della Cgil. Alle linee ostruite o sotto ristrutturazioni se ne aggiungono altre i cui lavori sono appena iniziati, grazie ai fondi del Pnrr, ma che non si concluderanno prima del 2026. Nel frattempo, sembra avverarsi la descrizione di Carlo Levi, che in Cristo si è fermato a Eboli raccontava di una terra dove la modernità ancora non era riuscita ad arrivare.
Ad oggi la Basilicata ha pochi abitanti in meno di Genova, circa 562 mila, spalmati però su una superficie quaranta volte superiore. Una svolta per l’economia regionale potrebbe arrivare dal turismo, ma pianificare per il mese di agosto i lavori alla rete ferroviaria non rappresenta di certo un aiuto. «Altrove i lavori di ammodernamento vengono realizzati con la rete in esercizio. Qui invece si provvede proprio nel pieno del boom turistico», attacca Di Tella. Eppure, il presidente della Basilicata Vito Bardi non ci sta. «Capisco il disagio ma la Basilicata ha un gap infrastrutturale notevole, frutto di un ritardo secolare e di tanti errori e mancanze del passato, con una linea ferroviaria lenta e per molti tratti a binario unico», spiega il governatore forzista. Il ripristino della linea dovrebbe avvenire a settembre. Nel frattempo, lucani e turisti dovranno accontentarsi dei mezzi alternativi.
(da agenzie)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
ALCUNI PURE A PIENO VOTI… I GENITORI DEGLI ACCUSATI DALLA PROCURA DEI MINORI LI DIFENDONO PURE
«Lei come l’Ebola, lei che è da evitare come una malattia, deve togliersi di mezzo. Si dovrebbe suicidare», «Se muori non se ne accorge nessuno», «Se non hai amici, fatti una domanda», «Per quanto sei grossa non passi dalla porta».
Hanno insultato per un intero anno scolastico la loro compagna di classe su una chat di gruppo su WhatsApp chiamandola “Anti-Ebola”. E dopo un’indagine per istigazione al suicidio e stalking, tutti i giovani – 15 alunni di una classe di terza media di Latina – sono stati promossi, alcuni anche a pieni voti, malgrado il 6 in condotta.
I giovani si sono giustificati dicendo che per loro era solo «un gioco», portando la giovane a isolarsi sempre più e ad arrivare sempre con maggiore frequenza in ritardo alle lezioni.
Nella chat la giovane veniva derisa per l’aspetto fisico e il portamento: «Imitate la sua postura e prendetela in giro». Malgrado i fatti siano stati accertati, le famiglie degli alunni che hanno bullizzato la compagna non hanno accettato la proposta di attivare un percorso di «giustizia riparativa» per far comprendere ai figli la gravità delle loro azioni.
Una richiesta avanzata dalla madre della vittima dei bulli che, avendo tutti un’età inferiore ai 14 anni, non sono imputabili in un vero e proprio processo. Il caso rischia dunque di essere archiviato, come richiesto dalla Procura dei Minori di Roma, ma si attende la decisione del Gip.
La «delusione» per il comportamento dei genitori dei bulli della Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza
La Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lazio, Monica Sansoni ha dichiarato: «Più volte ho espresso la delusione derivante dal comportamento proprio di certi genitori che più di altri avrebbero dovuto seguire comportamenti e atteggiamenti educativi e rieducativi”
Insomma, oltre al danno alla giovane, anche la beffa di vedere tutta la questione “risolta” con un 6 in condotta.
(da agenzie)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
CADE OGGI LA DATA CALCOLTATA DAGLI ESPERTI… “NON POSSIAMO VIVERE AL DI SOPRA DELLE POSSIBILITA’ FISICHE DEL NOSTRO PIANETA”
Da oggi fino alla fine del 2023 l’umanità vivrà in debito ecologico
con il pianeta. Oggi, 2 agosto, è l’Earth Overshoot Day, il giorno che indica l’esaurimento delle risorse rinnovabili che la Terra è in grado di offrire nell’arco di un anno solare. Negli ultimi decenni questa data è arrivata con sempre più anticipo, segno del ritmo incontrollato con cui l’essere umano ha sfruttato le risorse del pianeta senza preoccuparsi delle conseguenze. Nel 1971, il primo anno a essere calcolato, l’Overshoot day cadeva il 25 dicembre. Nel 1980, il 16 novembre. Nel 2000, il 25 settembre. E così via. La data muta di anno in anno a seconda della velocità con cui le risorse del nostro pianeta vengono sfruttate. A occuparsi dei calcoli è il Global Footprint Network, un’associazione internazionale che studia la contabilità ambientale e l’impronta ecologica della società. «Vivere costantemente al di sopra delle possibilità fisiche del nostro pianeta è una possibilità limitata nel tempo, rischiamo un disastro ecologico: i beni e i servizi che sono alla base delle nostre società ed economie sono tutti prodotti da ecosistemi funzionanti e sani», commenta Eva Alessi, responsabile Sostenibilità del WWF Italia.
Paesi a confronto e scenari futuri
L’impronta ecologica varia – e di molto – da Paese a Paese. A guadagnarsi la maglia nera è il Qatar, che quest’anno ha visto cadere il proprio Overshoot Day il 10 febbraio. Va leggermente meglio agli Stati Uniti, che hanno finito le proprie risorse naturali il 13 marzo, mentre per la Cina la data si sposta al 2 giugno. In Italia il giorno del Sovrasfruttamento della Terra è caduto il 15 maggio. Per dirla in altri termini, se tutto il mondo adottasse lo stile di vita e i livelli di consumo degli italiani avremmo bisogno dell’equivalente di 2,7 pianeti. Secondo le analisi del Global Footprint Network, sono due i settori che impattano di più nel caso italiano: i consumi alimentari (responsabili di un quarto dell’impronta totale) e i trasporti, che incidono per il 18%. Nel 2022, l’Overshoot Day mondiale è caduto il 28 luglio. Questo significa che dallo scorso anno abbiamo guadagnato cinque giorni in più sul calendario. Nell’ultimo lustro la tendenza sembra essersi assestata, anche se risulta difficile stabilire con certezza le cause. Nonostante questo, le proiezioni sul lungo periodo sono tutt’altro che incoraggianti. Se i livelli di consumo e di sfruttamento delle risorse naturali continueranno a seguire il trend attuale, entro il 2030 si stima che potremmo arrivare a consumare l’equivalente di due pianeti ogni anno.
(da agenzie)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
L’EX PRESIDENTE DELL’INPS: “I CORSI DI FORMAZIONE NON ESISTONO ANCORA, IL RDC COMBATTEVA IL LAVORO NERO”
L’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico va all’attacco del governo Meloni per il Reddito di cittadinanza. Nell’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano Tridico parla di otto mesi persi e seicentomila persone in miseria dopo l’intervento sul sussidio.
E dice che i ritardi sulla piattaforma di formazione sono surreali: «Oggi siamo alle riunioni con le Regioni. Otto mesi per farle oggi?», si chiede. Mentre il Supporto Formazione Lavoro «è legato a una piattaforma che non c’è ancora, per farla servono due decreti ministeriali che richiedono tempo. Non è questione di forma ma di sostanza, manca tutto quel che c’è intorno: i progetti, i soggetti aderenti, i meccanismi di presa in carico. Tutte cose in cui l’Italia non brilla da vent’anni. E il governo lo scopre solo ora lasciando sul lastrico centinaia di migliaia di persone ad agosto, quando la Pa va a rilento».
La formazione che non c’è
Nel colloquio con Carlo Di Foggia Tridico dice che «sono 350 euro mensili per corsi di massimo 12 mesi. In sostanza, sono una tantum e così pochi che non permettono al soggetto di sopravvivere. E quindi frequentare quei corsi, ammesso ci siano, diventa impossibile».
E aggiorna i numeri degli interessati: «Il primo stop riguarda 160 mila nuclei, circa 250 mila persone, che solo in parte potranno essere prese in carico dai servizi sociali. Poi si andrà avanti a oltranza: da qui a gennaio saranno 600 mila nuclei, 80mila al mese, oltre un milione di persone. Tutta gente che dovrebbe andare su questa piattaforma, iscriversi a un corso, attivarsi e a cui, se va bene, si danno 350 euro mensili, una soglia inventata dal nulla senza nessun legame con la povertà e che non c’entra niente con il criterio del reddito minimo vitale previsto dalla proposta della Commissione europea a cui ha votato a favore pure il governo».
La mancata crescita del Pil
Secondo Tridico in Italia la crescita sta rallentando. Il rimbalzo post-Covid si sta esaurendo. Mentre la nuova spinta che dovrebbe arrivare dal Pnrr non si vede. «In questo scenario si aggiunge un’inflazione elevata che provoca un calo dei salari reali senza pari nei Paesi Ocse.
Il governo ha tagliato gli aiuti e per i più poveri ha previsto una carta alimentare una tantum da 382 euro con assurdi vincoli sulla tipologia di acquisti e paletti talmente severi che tagliano fuori 1’80% dei potenziali nuclei beneficiari (1,3 milioni su sette). E parliamo dell’unico strumento di contrasto vero all’inflazione messo in campo per gli indigenti», aggiunge. La decisione apre a scenari pericolosi: «I dati Inps mostrano che il Rdc ha aumentato del 20% il reddito del 20% più povero degli italiani, una fascia che ha una propensione marginale al consumo del 100%. Insomma spende tutto quel che ha e peraltro le regole del Reddito lo imponevano vietando risparmi oltre i sei mesi. Otto miliardi versati nel circuito economico, in buona parte finiti in consumi, che è poi la componente del Pil che sta mancando. Ora se ne sottraggono almeno tre».
La concorrenza del Rdc alle imprese
Tridico infine risponde al presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che ha affermato che il Rdc fa concorrenza alle imprese: «Fa concorrenza solo al lavoro povero e a quello nero, che infatti è calato nei cinque anni di vita della misura di quasi 500 mila unità. Il Rdc ha evidenziato il vero problema italiano taciuto per decenni: i bassi salari e lo sfruttamento del lavoro. Per questo va mantenuto e affiancato al salario minimo: rende chiaro il trade off tra lavorare e non lavorare. Se prendo 1.200 euro netti mensili non sono invogliato a prendere un sussidio da 500 euro, se invece questa è la cifra che prendo lavorando è normale che faccia concorrenza».
(da agenzie)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
ANNI DI INDAGINI E PROCESSI, LE CONDANNE AGLI ESPONENTI DEI NAR
Sabato 2 agosto 1980 esplode una bomba nella stazione
ferroviaria di Bologna. Nell’attentato muoiono 85 persone. Duecento i feriti. La strage di Bologna è uno dei più gravi atti di terrorismo degli anni di piombo. Ma anche l’inizio di 40 anni di inchieste, depistaggi e misteri. Alla fine di giugno Paolo Bellini, condannato all’ergastolo in primo grado come uno degli autori materiali, è finito in galera. Le sentenze di questi anni hanno delineato una chiara verità giudiziaria con responsabilità ben precise. Ma c’è chi ai giudici non crede. E delinea invece una “pista internazionale” o “palestinese” dietro l’attentato. Intanto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è chiarissimo: «La matrice della strage è chiarissima. Le sentenze hanno individuato complicità, anche se restano zone d’ombra. Nessuna verità dal passato può farci paura».
Il primo processo, l’appello, la Cassazione
Il Fatto Quotidiano oggi riepiloga indagini, processi e sentenze. Il primo processo, che si svolge dal 1987 al 1995, condanna in primo grado all’ergastolo Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco. Per banda armata sono condannati anche Gilberto Cavallini, Egidio Giuliani, Roberto Rinani e Paolo Signorelli. In appello cade l’accusa di strage e vengono confermate solo le condanne per banda armata. La Cassazione cancella quel verdetto nel febbraio del 1992. Perché la sentenza è «illogica» e priva di fondamento. Tanto che «in alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi inverosimili che nemmeno la difesa aveva sostenuto». Il secondo appello termina nel 1994. Stavolta la condanna all’ergastolo per strage arriva per Mambro, Fioravanti e Picciafuoco mentre Fachini viene assolto. Confermate anche le condanne per banda armata anche a Cavallini e Giuliani. Nel 1995 la Cassazione conferma le condanne per tutti tranne che per Picciafuoco.
Il secondo, il terzo, il quarto processo
Il secondo processo si svolge tra 1997 e 2007. Luigi Ciavardini riceve una condanna a 30 anni di reclusione dopo due appelli: era minorenne all’epoca dei fatti. Nel 2017 Gilberto Cavallini riceve in primo grado una condanna all’ergastolo. Il quarto vede imputato Paolo Bellini. Che è condannato come esecutore ma nel giudizio emergono i suoi legami con Cosa Nostra e la sua attività di informatore dei carabinieri. Bellini non è un ex Nar (i Nuclei Armati Rivoluzionari di Fioravanti). Ma è esponente di Avanguardia Nazionale, il gruppo di Stefano Delle Chiaie. Il procedimento indica anche in Licio Gelli il mandante della strage. Mentre Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati presso il Viminale, insieme al senatore Msi Mario Tedeschi si sarebbero occupati della gestione mediatica della strage.
La pista palestinese
La pista palestinese invece compare sin dall’inizio come indagine alternativa. Secondo questa tesi la bomba l’avrebbe messa il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina come ritorsione per l’arresto di Abu Saleh, fermato a Bologna nel 1979. A parlarne oggi tra gli altri è l’onorevole Federico Mollicone di Fratelli d’Italia. La cosiddetta pista internazionale era stata comunque oggetto di un processo, ma per depistaggio. All’epoca Gelli, insieme agli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte e al consulente Francesco Pazienza ricevettero una condanna a dieci anni per aver agito «al fine di assicurare l’impunità agli autori della strage». Secondo questa tesi Saleh era stato fermato perché ritenuto responsabile del trasporto di missili Strela sequestrati a Ortona. Mollicone ha chiesto di rendere accessibili i documenti che riguardano Saleh.
La bocciatura
Ma quei documenti non esistono secondo Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage. Ma soprattutto a bocciare la “pista palestinese” è il sostituto procuratore bolognese Nicola Proto. Che nella sua requisitoria al processo d’appello nei confronti di Cavallini spiega che una trattativa con i palestinesi ci fu. Ma anche che il buon esito della trattativa tolse al Fplp ogni interesse nei confronti degli atti di ritorsione. Non solo: l’interlocuzione proseguì anche dopo il 2 agosto. Cosa che «non sarebbe stata logica, così come non sarebbe stato logico indennizzare il Fplp per il valore dei lanciamissili sequestrati, se nel frattempo i palestinesi avessero commesso una strage».
(da Open)
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Agosto 2nd, 2023 Riccardo Fucile
NORDIO: “MATRICE NEOFASCISTA”… PIANTEDOSI: “RESPONSABILITA’ SONO CHIARE NELLE SENTENZE”… MELONI “TERRORISMO, SI ARRIVI ALLA VERITA'”
Giorgia Meloni non ce la fa. Nel giorno dell’anniversario della strage alla stazione di Bologna la premier parla di tutto: di “terrorismo”, di “violenza”, di ferocia, ma la matrice – il neofascismo – di quell’attentato che costò la vita a 85 persone non la nomina mai.
Stesso copione seguito dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Una ‘dimenticanza’ per niente casuale, che fa il paio con la volontà di FdI di istituire una commissione d’inchiesta sulle stragi. Un’operazione che secondo l’opposizione – politica ma anche civile – avrebbe l’obiettivo di mettere in discussione la verità processuale sulla strage per scagionare gli esecutori: i neofascisti, appunto.
«Giungere alla verità sulle stragi che hanno segnato l’Italia nel Dopoguerra passa anche dal mettere a disposizione della ricerca storica il più ampio patrimonio documentale e informativo. Questo governo, fin dal suo insediamento, ha accelerato e velocizzato il versamento degli atti declassificati all’Archivio centrale dello Stato e li ha resi più facilmente consultabili, completando quella desecretazione che era stata avviata dai governi precedenti», a dichiararlo è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ricordando la strage di Bologna.
«Il 2 agosto 1980 il terrorismo ha sferrato all’Italia e al suo popolo uno dei suoi colpi più feroci. Sono trascorsi 43 anni ma, nel cuore e nella coscienza della Nazione, risuona ancora con tutta la sua forza la violenza di quella terribile esplosione, che disintegrò la stazione di Bologna e uccise 85 persone e ne ferì oltre duecento. Nel giorno dell’anniversario rivolgo ai famigliari il mio primo pensiero. A loro va vicinanza, affetto, ma anche il più sentito ringraziamento per la tenacia e la determinazione che hanno messo al servizio della ricerca della verità, anche attraverso le associazioni che li rappresentano, in costante contatto con la Presidenza del Consiglio».
Le dichiarazioni di Meloni e quelle dei ministri Nordio e Piantedosi (più nette sulla matrice)
Nelle sue dichiarazioni Meloni evita di usare alcuni termini usati invece dal ministro della giustizia Carlo Nordio. «La strage alla stazione di Bologna è una ferita aperta per tutto il Paese e solo una verità senza zone d’ombra può portare ad un’autentica giustizia», ha dichiarato. «In sede giudiziaria è stata accertata la matrice neofascista della strage e ulteriori passi sono stati compiuti per ottemperare – come ebbe a ricordare il capo dello Stato – alla inderogabile ricerca di quella verità completa che la Repubblica riconosce come proprio dovere».
Non solo, il ministro degli Interni in queste ore Matteo Piantedosi ha rilasciato un’intervista al Quotidiano Nazionale. Nella quale dice chiaramente «i processi giudiziari sono giunti fino alle condanne degli esecutori, delineando la matrice dell’attentato. Le sentenze hanno anche individuato complicità, ma restano ancora zone d’ombra. I risultati non esauriscono ma incoraggiano tutte le istituzioni ad andare avanti».
(da agenzie)
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