“SONO ARRIVATO IN ITALIA AGGRAPPANDOMI A UN CAMION. QUI SONO DIVENTATO INGEGNERE CON IL MASSIMO DEI VOTI, ORA VOGLIO RESTITUIRE QUELLO CHE HO RICEVUTO”
NEL 2007, A 14 ANNI, SBARCA A BARI E RAGGIUNGE LA CAMPANIA… “L’ITALIA MI HA DATO TUTTO: GLI AMICI, UNA FORMAZIONE E UNA PROSPETTIVA”
A piedi, a cavallo, su un gommone, aggrappato sotto un camion.
Quando è arrivato la prima volta in Italia, nel 2007, a 14 anni, Rahmat aveva appena compiuto il suo personalissimo viaggio attraverso Afghanistan, Iran, Turchia e Grecia. Sbarcato a Bari, ha raggiunto con mezzi di fortuna la Campania, dove è diventato ospite di un centro di accoglienza a Piedimonte Matese, provincia di Caserta.
“Quella è stata la mia lunga rotta verso la salvezza”, ricorda. Grazie ai suoi “angeli senza ali”, che lo hanno accolto, supportato e aiutato nello studio, Rahmat Rezai nel 2021 si è laureato in Ingegneria Meccanica all’Università Federico II di Napoli. Col massimo dei voti. “L’Italia ha avverato il mio sogno. Ora è il momento di ripagarla”.
“La mia vita è stata come tutti gli altri cittadini afghani, se non peggio”, ricorda Rahmat. Di etnia Hazara, minoranza rispetto ai Pashtun, con la famiglia fugge verso l’Iran a 6 anni. Perde i contatti definitivamente con i suoi genitori dopo un posto di blocco dei Talebani. Arriverà nel Paese con suo zio, finirà per lavorare per produrre borse e zaini.
“In Iran ogni giorno la situazione peggiorava: non avevamo il diritto nemmeno di studiare”, ricorda. Rahmat ha resistito per qualche anno. Poi, racconta, è arrivato il momento in cui non aveva più nulla da perdere. E ha fatto una promessa: “Se arriverò in un posto migliore, mi impegnerò con tutte le mie forze”.
A 13 anni, dopo aver messo da parte un po’ di soldi, parte con tre amici verso l’Europa. “Per noi era la terra del futuro”. L’obiettivo era raggiungere la Finlandia, anche se “non sapevamo nemmeno dove fosse”. Si sono fermati in Italia, perché l’importante era “stare lontani dal nostro Paese d’origine. E dalla guerra”.
La seconda vita di Rahmat comincia così nel centro di accoglienza ‘Emiliano De Marco’ di Piedimonte Matese, comune che fa da collegamento fra la pianura casertana e il massiccio del Matese. “Siamo stati trattati benissimo, le operatrici non ci facevano mancare nulla. Appena ho cominciato ad andare a scuola ho capito che ci sarebbe stato un futuro per me”.
Rahmat è ripartito dalla seconda media, completando il liceo scientifico e riuscendo ad ottenere il diploma. Quando, oramai maggiorenne, deve insieme ai suoi amici lasciare la struttura, i gestori decidono di mettere loro a disposizione un piccolo appartamento dove autogestirsi.
Tutti cominciano a lavorare. Rahmat no. Si iscrive all’Università Federico II di Napoli, studia, passa le giornate sui libri “dalle sette del mattino a notte fonda”. Fino a ottenere la laurea, triennale prima e magistrale poi, in Ingegneria meccanica, con il massimo dei voti.
Il primo pensiero dopo la proclamazione? A dir la verità quella sensazione di libertà per aver finito tutti gli esami: “Laurearsi in Ingegneria meccanica non è facile – ripete –. Non pensavo di riuscire ad arrivare a questo punto. Non avevo la mia famiglia, non avevo supporto economico. Sento di aver superato in un certo senso i limiti”.
Una gioia da condividere con gli amici, i professori, ma soprattutto i gestori della casa di accoglienza, i componenti della famiglia Civitillo: Andrea, Eolo, Genny, Vittorio.
“Non ho mai visto persone così generose nella mia vita. Ci hanno fatto crescere: ognuno di noi ha avuto un futuro grazie a loro. Sono stati padri, amici, sempre al nostro fianco. Sono, come mi piace chiamarli, angeli senza ali”.
Quando gli chiedi quali sono state le difficoltà più grandi, Rahmat sorride: “Le persone qui ti vogliono bene senza pensare che sei straniero, senza chiedere da dove vieni. Studiare la lingua, soprattutto la grammatica è stato davvero complicato”, risponde,
Come si immagina il futuro, ora che a 28 anni ha tutta la vita davanti a sé? “Spero di lavorare in un’azienda che produce batterie al litio dove ho già fatto il tirocinio”.
Con la sua storia vorrebbe dire ai giovani italiani di approfittare delle strutture e dei mezzi che hanno a disposizione: “Ci sono molte persone in altre parti del mondo che hanno tanta voglia di crescere, andare avanti, diventare qualcuno, ma che purtroppo non hanno mezzi economici perché i loro Paesi non sono abbastanza sviluppati da accogliere le loro possibilità”.
Per Rahmat la crisi causata dalla pandemia colpirà soprattutto i giovani. “Vorrei dire loro di non mollare, di crescere, di studiare come ho fatto io”, sorride. Oggi, alla fine del suo viaggio, sente l’Italia come il suo Paese: “È la mia terra – continua –. L’Italia mi ha dato tutto: gli amici, una formazione, una prospettiva. Ora – conclude – è il momento di restituire tutto quello che ho ricevuto”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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