Febbraio 26th, 2012 Riccardo Fucile
ESPOSTI IN PROCURA, INTERROGAZIONI PARLAMENTARI: SI MOBILITA IL FRONTE ANIMALISTA CONTRO LE CRUDELTA’ CUI SARANNO SOTTOPOSTE 900 SCIMMIE IMPORTATE DALLA CINA E DESTINATE ALLA VIVISEZIONE… E’ ASSEDIO CONTRO LA MULTINAZIONALE HARLAN
Finisce sul tavolo del governo il caso delle 900 scimmie, destinate alla sperimentazione e alla vivisezione, importate dalla multinazionale Harlan nello stabilimento di Correzzana, in Brianza.
Il ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha disposto «verifiche immediate» sul carico di macachi- uno dei più grossi mai arrivati in Italia.
Gli accertamenti riguarderanno «il rispetto delle procedure previste dalla normativa sull`ingresso» nel nostro Paese «di «primati utilizzati per la sperimentazione scientifica», «in relazione sia alle condizioni di viaggio sia al trattamento degli animali».
Balduzzi ha dichiarato che la vicenda delle scimmie-rivelata ieri da Repubblica – sarà monitorata costantemente dai tecnici del ministero della Salute: dovranno verificare eventuali irregolarità e violazioni nelle modalità con cui i macachi, dalla Cina, sono stati importati da Harlan, via Roma-Fiumicino, in uno dei due allevamenti-laboratorio italiani (l`altro è a San Pietro al Natisone, provincia di Udine).
Da notare: l`ingresso del mega-carico di primati in Italia è stato autorizzato dallo stesso ministero, competente in materia.
È dunque al ministro Balduzzi che, con due interrogazioni parlamentari, Fabio Granata, vice coordinatore nazionale di Fli, e Michela Vittoria Brambilla, ex ministro del Turismo, chiedono di fare chiarezza.
Granata invoca «una moratoria per queste scimmie e per tutti gli animali condannati alla stessa crudele sorte. Dopo l`ennesimo episodio di barbarie- sottolinea l`esponente finiano – è il momento che in Italia si apra una seria riflessione sull`opportunità di mettere fine alla pratica della vivisezione».
Granata ha annunciato che chiederà a Balduzzi «la posizione del governo in materia e di non cedere alle pressioni delle lobby industriali».
L`ex ministro Brambilla, nel merito del caso Harlan, vuole sapere «attraverso quale iter è stata autorizzata l`importazione di un numero così elevato di macachi destinati ai laboratori, chi è il funzionario del ministero che ha firmato l`atto, quali controlli sono stati effettuati sul trasporto dalla Cina e con quale frequenza vengono eseguite verifiche igienico sanitarie nello stabilimento Harlan».
Per sollecitare un intervento nella struttura, e un eventuale sequestro dei macachi, Brambilla ha presentato anche un esposto alla Procura e ai Nas.
Il mondo degli animalisti, intanto, è in rivolta contro Harlan.
I primi a manifestare davanti al capannone di Correzzana sono stati i militanti di “Cento per cento animalisti”, che continueranno la protesta.
La vicenda sta compattando il fronte delle associazioni che si battono contro le pratiche della vivisezione e della sperimentazione scientifica: un settore nel quale Harlan – che alleva e vende animali da laboratorio – è tra i leader mondiali.
«È una vergogna, nei prossimi giorni organizzeremo nuove iniziative contro questa multinazionale», dice Susanna Chiesa, presidente di “Freccia 45”. Manifestazioni di protesta – anche davanti ai ministeri della Salute e dell`Ambiente- sono state annunciate da Fare Ambiente.
Gli animalisti chiedono di«fermare il massacro» degli animali-cavie.
«La grandezza e il progresso morale di una nazione si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali», diceva Gandhi.
“Cento per cento animalisti” lo ha scritto su uno striscione che verrà esposto mercoledì allo stadio di Marassi in occasione della partita Italia-Usa.
Paolo Berizzi
(da “La Repubblica”)
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Febbraio 26th, 2012 Riccardo Fucile
IL MAGGIOR QUOTIDIANO LIGURE RIPRENDE LA PROVOCAZIONE “FUTURISTA”
“La Lega sciolga la riserva e annunci il suo asso nella manica: il tesoriere della Lega è l’uomo adatto per far quadrare i conti del Comune, l’unico candidato capace di ridare lustro agli studi universitari e impulso a nuove iscrizioni all’ateneo…” è l’ironica proposta che Liguria Futurista lancia per il candidato sindaco di Genova. “Musso e Doria comincino a tremare”.
(da “Il Secolo XIX” di domenica 26-02-2012)
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Febbraio 26th, 2012 Riccardo Fucile
IL 13,5% DELLE AZIENDE TRASLOCA OLTRE CONFINE… CORRUZIONE, TASSAZIONE, BANCHE, BUROCRAZIA E INFRASTUTTURE INADEGUATE LE CAUSE PRINCIPALI DELL’ABBANDONO
Sergio Marchionne ventila l’ipotesi di chiudere due stabilimenti Fiat in Italia che, evidentemente, sarebbero sostituiti da produzioni all’estero.
Non importa come e dove: non necessariamente negli Stati Uniti, ma magari in Serbia o in Cina.
Pochi gli ricordano che negli ultimi dieci anni i posti di lavoro persi in Italia dal gruppo Fiat a causa del fenomeno delle delocalizzazioni sono stati ben 20 mi-
la.
Cinquemila quelli dei call center altrettanti nella telefonia.
Delocalizzazioni come quella della Omsa fanno perdere all’Italia 400 posti di lavoro, mentre la Dainese di Molveno, la casa delle tute sportive e motociclistiche che rifornisce anche Valentino Rossi, sposta tutto in Tunisia, dove impiega già 500 persone, salvando solo 80 lavoratori su 250.
E poi, ancora, il caso di Bialetti, Omsa, Rossignol, Geox e la complessa situazione del nord-est dove il fenomeno della delocalizzazione nei settori del tessile e abbigliamento e calzaturiero è stata devastante con le perdite, solo nel distretto tessile veneto (Verona, Vicenza, Padova e Treviso) di decine di migliaia di posti con un impatto sui piccoli laboratori artigiani che facevano da sub-fornitori alle imprese medio-grandi.
Prendendo come base della propria ricerca le imprese italiane dell’industria e dei servizi italiani con più di 50 addetti, l’Istat ha rilevato che nel periodo 2001-2006, circa 3.000 imprese, pari al 13,4 per cento delle grandi e medie imprese industriali e dei servizi, hanno avviato processi di questo tipo. L’internazionalizzazione ha interessato maggiormente le imprese industriali (17,9 per cento) rispetto a quelle operanti nel settore dei servizi (6,8).
Ad attirare di più le imprese italiane nel periodo 2001-06 è stata l’Europa, verso la quale si è indirizzato il 55 per cento delle imprese internazionalizzate. Nel resto del mondo si distinguono Cina (16,8) e Usa e Canada (complessivamente 9,7), seguiti da Africa centro-meridionale (5) e India (3,7). Le previsioni per il periodo 2007-09 segnalano invece una forte crescita degli investimenti in India, Africa e nei paesi europei extra Ue.
Secondo i dati dell’European Restructuring Monitorprogetto che monitora i processi di ristrutturazione aziendale nei 27 paese Ue più la Norvegia, la percentuale di incidenza dei paesi asiatici è al 25 per cento.
La motivazione fondamentale di questa scelta è scontata, la riduzione del costo del lavoro e degli altri costi di impresa.
Nelle brochure di consulenti aziendali come la Pricewaterhouse si può leggere che le opportunità della delocalizzazione sono date dalla crescita dei paesi emergenti, dal formarsi di una nuova classe media, dallo sviluppo delle infrastrutture e dall’emergere di sempre nuovi paesi (non solo est europeo ma anche Asia, Cina, Vietnam e Thailandia).
Riguardo all’impatto sui posti di lavoro, secondo i dati dell’Erm, il 6,4 per cento dei posti di lavoro persi in seguito a ristrutturazioni aziendali è “imputabile a iniziative di delocalizzazione”.
Numero che, per il 2009-10 significa circa 34 mila posti persi.
All’Italia va un po’ meglio di altri paesi europei che soffrono perdite maggiori: il 6,6 per la Francia, il 6,9 per la Germania e, addirittura, l’8,9 per cento per la Gran Bretagna.
I comparti maggiormente colpiti sono quello tessile, l’abbigliamento e calzaturiero, la meccanica e le apparecchiature, industriali e per ufficio, la meccanica elettrica e il settore automobilistico (la Fiat in Serbia insegna).
Un ultimo sguardo sul fenomeno lo offrono i dati dell’Istituto per il commercio estero secondo i quali il numero di investitori italiani (gruppi industriali o imprese autonome) attivi sui mercati internazionali ammonta a quasi 5.800 unità , per un totale di 17.200 imprese estere partecipate a vario titolo con un numero di dipendenti totali all’estero pari a 1.120.550 unità per un fatturato realizzato dalle affiliate estere nel 2005 di quasi 322 miliardi di euro.
Per contro, le imprese italiane partecipate da società estere sono circa 7.000, con l’intervento di quasi 4.000 imprese investitrici, un totale di dipendenti in Italia di quasi 860.000 unità .
Un saldo negativo di 260.000 posti di lavoro.
Salvatore Cannavò
(da “Il Fatto Quotidiano)
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Febbraio 26th, 2012 Riccardo Fucile
LA GRAFFIANTE SATIRA DI MASSIMO FINI SUL MALCOSTUME ITALICO: “UNO DI QUESTI GIORNI AMMAZZO QUALCUNO”
Da qualche anno vado a nuotare in un centro sportivo di antica tradizione meneghina.
Le attrezzature sono ottime: piscina olimpica, campi da tennis, palestra.
L’abbonamento è piuttosto salato, per gente benestante (in giro si vedono solo Il Giornale’ e Libero).
Nei primi tempi, per tre volte a fila, mi hanno fregato i quattrini che avevo lasciato nei vestiti. Allocco io, ma non pensavo che in un posto del genere ci fosse gente che va a frugare nelle tasche altrui. (Invece avrei dovuto essere ammaestrato. Una macchina me l’hanno rubata nel lussuoso parcheggio sotterraneo di Canale 5, sotto il Palazzo dei Cigni, a Milano Due. Se non è stato Berlusconi, sarà stato Dell’Utri).
Icona dell’educazione
Capita l’antifona, adesso di soldi in piscina non ne porto più.
In compenso mi hanno scassinato varie volte l’armadietto. Portano via le modeste cose che ci sono: l’accappatoio, un paio di costumi, le ciabatte.
Citofonano: “Ho un pacco per la signora P.” dice una voce italiana. “Guardi che ha sbagliato. Al 16 trova la sign…”.
Non mi fanno nemmeno finire la frase e buttano giù il microfono senza dire nè ‘scusi’ nè ‘grazie’.
Accade quasi quotidianamente per un caso di semiomonimia.
Capita spesso che per la strada mi chiedano un’informazione. Sulle prime mi stupivo che si rivolgessero a un vecchio talpone come me.
Poi ho capito.
Intorno c’è solo gente attaccata al cellulare o con l’ I-Pad sulla pancia come un marsupio.
Se è un giapponese si inchina tre volte. Se è un ‘chicanos’ mi sorride. Alle volte facciamo quattro chiacchere.
Un italiano gira il culo senza dire ‘ba’.
Qualche tempo fa, districatomi dai funerali di Bocca, cercavo un posteggio taxi.
Vedo sul marciapiede una vigilessa, bassa, tarchiata.
“Mi scusi, sa dov’è un posteggio taxi?”. “No”. E “E piazza Baracca?”. “Che ne sacciu”.
Un tempo a Milano c’era ‘il ghisa’, un personaggio mitico.
Disarmato, stava a metà fra il vigile di quartiere e il ‘bobby’ londinese.
Alto, di bell’aspetto, milanese era un punto di riferimento per i meneghini che si rivolgevano a lui per qualsiasi problema: “Guarda, c’è lì il ghisa”, “chiedilo al ghisa”, “ chiamiamo il ghisa”. Adesso ci sono questi qua che non conoscono nemmeno la topografia della città .
Mi telefona il direttore di un importante quotidiano. Vuole vedermi. “Va bene”. “Chiamami tu lunedì mattina. Lunedì, diligente, telefono. “Sono in riunione, ti richiamo fra cinque minuti”. Mai più sentito.
La direttrice di un mensile ‘online’ vuole un’intervista. Arriva a casa mia in pompa magna, con un’operatrice, una regista, una redattrice.
La cosa si prolunga. Suonano alla porta.
“Visto che ero qui” dice la tipa “ho fatto venire un’altra persona che devo intervistare”.
Per la verità io avrei da lavorare, ma lascio fare (“Par delicatesse j’ai perdu ma vie” scrive Rimbaud).
Quando finisce la prego di dirmi dove e quando uscirà l’intervista. “Certo”. Sparita.
Viene da me Oleg, moldavo, un muratore che si presta anche per lavoretti da factotum. Viene due sere di seguito perchè la prima, per un lavoro a modo, gli mancavano certe viti.
Gli chiedo: “Quanto le devo?”. “Niente”. “Come niente?”. “Erano cose minime. Sono un muratore, mi chiami se ha bisogno”.
Per gli stessi lavoretti chiamo, a volte, il mio elettricista.
Per la sola uscita sono 30 euro e fa sempre in modo di lasciare qualcosa di incompiuto per poter ritornare.
Adesso anche da noi gli impiegati agli sportelli pubblici hanno, come in Svizzera, la targhetta sul petto con nome e cognome.
Solo che in Svizzera al terzo rilievo li cacciano a pedate nel culo.
Da noi rimangono indolenti e sgarbati, tanto chi li punisce?
Io penso che la prima riforma da fare in Italia sia quella della buona educazione.
È questo stillicidio di sgarberie, di furberie, di squallidi latrocini che inquina la nostra vita e, alla fine, esaspera.
Uno di questi giorni ammazzo qualcuno.
Massimo Fini blog
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Febbraio 26th, 2012 Riccardo Fucile
LE LINEE GUIDA PER IL SOCIAL NETWORK, IN RETE I DOCUMENTI DEI MODERATORI, SCOPPIA LA POLEMICA…NO A NUDO E FOTOMONTAGGI E IN TURCHIA NON SI PARLA DEI CURDI
Non si può allattare, non si può andare in bagno, forse non si possono nemmeno mostrare i piedi nudi, non si può parlare di Kurdistan se si risiede in Turchia.
Si tratta delle regole base che si devono seguire per vivere nel mondo virtuale di Facebook.
Solo che non vengono sempre esplicitate agli utenti, che diventano a volte violatori inconsapevoli dei diktat della casa di Cambridge.
Il controllo dei contenuti pubblicati dagli utenti di tutto il mondo (850 milioni, secondo gli ultimi dati) si svolge su più livelli.
Il primo, il più basso – capita, se si violano le regole, di trovarsi l’account bloccato per 24 o 48 ore, di non poter più mandare inviti agli amici, ecc. – è affidato ad aziende esterne.
Una di queste è oDesk. La scorsa settimana un ex impiegato della compagnia, Amine Derkaoui, ha diffuso tramite il sito Gawker.com le linee guida dell’azienda di Cambridge (documento che poi è stato modificato e ripubblicato).
Il marocchino, 21 anni, intendeva protestare per il trattamento umiliante subito dai lavoratori, pagati 1 dollaro l’ora.
Da Facebook ammettono senza problemi il ricorso a compagnie esterne per il controllo, e assicurano che per «processare in modo rapido ed efficiente milioni di segnalazioni che riceviamo ogni giorno», le società selezionate «sono soggette a rigorosi controlli di qualità e abbiamo implementato diversi livelli di tutela per proteggere i dati degli utenti che usano il nostro servizio. Inoltre nessun altra informazione viene condivisa con terzi oltre ai contenuti in questione e alla fonte della segnalazione. Abbiamo sempre gestito internamente le segnalazioni più critiche e tutte le decisioni prese dalle terze parti sono soggette a verifiche approfondite».
Così è emerso il meccanismo in base al quale alcune foto scompaiono dopo poco dalle bacheche degli utenti, o come gli account vengono di volta in volta bloccati o sospesi.
Gli standard comunitari che gli utenti di Facebook accettano al momento dell’iscrizione recitano «Ci impegniamo a coltivare un ambiente in cui ognuno possa parlare apertamente di problemi comuni e condividere il proprio punto di vista nel pieno rispetto dei diritti degli altri», e avvisano che: potrebbero essere rimossi i contenuti che indicano un appoggio ad organizzazioni violente; che le autorità competenti saranno informate in caso di minacce di suicidio; che bullismo e molestie saranno presi in assoluta considerazione; che «la discriminazione di individui in base a razza, etnia, nazione di origine, religione, sesso, orientamento sessuale o malattia rappresenta una grave violazione»; che le immagini di violenza sadica non sono tollerate; che protegge la privacy; che non consente «l’organizzazione di atti di vandalismo, furti o frodi».
Fino a qui tutto bene, ma all’atto pratico, che cosa è consentito pubblicare e condividere, e cosa no?
E qual è il limite tra la «pulizia» e la censura stretta?
Il documento fornito da Derkaoui presenta l’esatto limite: la pattuglia di moderatori riceve una segnalazione e sceglie se accoglierla, cancellando il contenuto, respingerla, mantenendolo, o inoltrarla a livelli più alti di quella che sembra una struttura piramidale per un ulteriore vaglio.
Vengono censurate fotografie con un abbigliamento che evidenzia troppo la zona genitale (per maschi e femmine), quelle di donne che allattano bambini senza coprirsi il seno (è dei giorni scorsi la cancellazione di una foto di una donna di colore che allattava un bambino bianco, o albino), giocattoli sessuali (ma solo se usati nel loro contesto), oggetti di feticismo sessuale (senza specificare quali siano, se indumenti, parti del corpo o altro), immagini di persone ubriache o addormentate con il volto disegnato da qualche buontempone, o persone che vanno in bagno.
O quelle comparative tra due individui, o tra una persona e un animale che magari le somiglia.
Ma anche frasi ed espressioni, e qui si tocca la libertà di espressione, che possano incitare alla violenza (l’esempio? «I love hearing skulls crack», «Mi piace sentire un cranio che si frattura»), a prescindere dal loro contesto, o che «mostrino supporto per organizzazioni o persone note prevalentemente per la loro violenza», a giudizio del moderatore che riceve la segnalazione.
Censurate anche le esplicite attività sessuali, anche se «velate», mentre vengono consentiti i baci anche tra individui dello stesso sesso.
Vengono inoltrate ai piani superiori frasi e immagini che negano l’Olocausto, se pubblicate in Germania, ma anche gli attacchi ad Ataturk (il padre dei Turchi), le mappe del Kurdistan, le bandiere turche bruciate e i contenuti che appoggiano il Pkk, il partito curdo combattente se effettuate in Turchia, o da utenti turchi.
E questa indicazione è già una palese scelta politica.
Rincarata dal commento che recita: «Ignorare se chiaramente contro il Pkk».
In molti paesi europei la negazione dell’Olocausto è un reato, e in Turchia lo è il supporto al movimento curdo.
Ma non lo è nel resto del mondo, e viene da chiedersi cosa potrebbe accadere se un utente straniero commettesse queste violazioni sulla bacheca di un utente turco o tedesco.
Sembra una palese violazione della libertà di opinione, tanto più che, se nelle linee guida generali si parla di contenuti violenti o espliciti, non si parla mai di contenuti politici da evitare.
Eppure, per queste violazioni non esplicitate è previsto il blocco dell’accesso al servizio per l’utente che le commette.
Facebook però risponde che questi blocchi non scattano, o non dovrebbero scattare, per utenti di paesi dove il commento non costituisce reato: «Non è che tutti gli utenti non possano negare l’Olocauto. La negazione dell’Olocausto è vietata per legge in Germania, quindi i contenuti vengono bloccati in Germania. Facebook è compliant (si adatta, ndr) con le leggi locali».
Si suppone, quindi, che a breve verrà pubblicato anche un aggiornamento delle linee guida che vieti di negare il genocidio che i turchi hanno commesso ai danni degli armeni: in Francia, infatti, sta per diventare reato.
Sì alle foto della marijuana, no alle altre droghe se non nel contesto di studi medici o scientifici.
Ovviamente se non si fa riferimento a un’offerta di vendita delle sostanze, però. Sì ai video di risse scolastiche, a meno che non siano pubblicati per bullismo.
I video sulle torture agli animali sono ammessi ma solo se sono apertamente schierati contro la violenza.
A sorprendere di più, però, sono i contenuti che devono essere consentiti: «E’ ok mostrare i fluidi corporei (con l’eccezione dello sperma) a meno che nel processo non sia coinvolto un essere umano».
Traduzione spicciola: sangue, ferite, o altro sono «ok» a meno che non si veda l’atto di violenza che l’ha causata.
«Ferite profonde sono ok, il sanguinamento eccessivo è ok, teste rotte e arti recisi sono ok finchè non si vedono le interiora».
E qui scatta la nota che sottolinea come non siano ammesse eccezioni per i link alle notizie o a contenuti che richiedono il controllo da parte dei genitori.
Maria Strada
(da “Il Corriere della Sera”)
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