Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
IL FIGLIO DI IGNAZIO DIVENTA PRESIDENTE DI UNA CONTROLLATA DELL’ACI CHE A SUA VOLTA HA DEBITI PER OLTRE 300.000 EURO E UN BILANCIO IN PASSIVO
Per Geronimo La Russa una poltrona tira l’altra.
A fine ottobre il primogenito dell’ex ministro Ignazio La Russa è entrato nel consiglio direttivo dell’Aci di Milano ed è stato nominato presidente della controllata Acm Services.
Una mossa a sorpresa dopo che, nel luglio scorso, Geronimo non aveva potuto presentarsi alle elezioni tra i soci del club nella lista capitanata dall’ex pilota Ivan Capelli, che poi è diventato presidente.
Tutta colpa di un cavillo: aveva rinnovato la tessera in ritardo.
È comunque bastato attendere qualche mese: a ottobre La Russa è stato cooptato come nuovo consigliere fino al 2018 ed è finalmente diventato presidente.
Non direttamente dell’ente che gestisce il circuito di Monza, ma della controllata Acm Services, che gestisce un parcheggio in piazza San Babila e si occupa di servizi come i corsi di recupero dei punti della patente
La società ha chiuso il bilancio 2013 in rosso per 18 mila euro e con 323 mila euro di debiti, perchè la crisi del mercato automobilistico pesa anche sulla richiesta di assistenza per le pratiche.
Ora a risolvere i guai ci penserà Geronimo. Che conosce molto bene l’Aci meneghino, di cui era stato vicepresidente dal 2010 al 2012.
Venne costretto a dimettersi dal decreto Monti che vietava i doppi incarichi agli amministratori (preferì conservare il posto nella Premafin dei Ligresti).
Ma le poltrone tornano.
Camilla Conti
(da “L’Espresso”)
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
MENTRE SILVIO VUOL FAR PESARE I SUOI VOTI NELLA SCELTA DEL SUCCESSORE DI NAPOLITANO
Un rebus avvolto in un enigma, diceva Churchill a proposito dell’Unione Sovietica di Stalin.
E un rompicapo senza apparente soluzione sta diventando la ricerca del nuovo presidente della Repubblica. Renzi si è reso conto che non sarà una guerra lampo, ma il rischio di una lunga paralisi è troppo alto per il governo
Nell’intervista di ieri a Repubblica e poi nell’intervento televisivo a “In mezz’ora”, il presidente del Consiglio ha fatto capire di non credere più negli accordi con Berlusconi e di cercare un piano B che può coinvolgere i Cinque Stelle in crisi, o magari i fuoriusciti e i dissidenti del movimento grillino.
Ma siamo ancora ai segnali politici, messaggi suscettibili di essere contraddetti il giorno dopo. «Berlusconi non può pensare di dare ancora le carte» dice Renzi.
E sulla carta non ha torto: il famoso “patto del Nazareno” non è mai stato una diarchia, bensì un’intesa politica in cui uno era alla guida (il premier) e l’altro ricavava alcuni vantaggi espliciti e impliciti dal trovarsi ancora nel cuore dei giochi.
Cosa è cambiato? Un solo aspetto, ma decisivo: l’uscita di scena di Napolitano è arrivata prima del previsto (nonostante infiniti indizi al riguardo) e il presidente del Consiglio si trova con il cesto delle riforme ancora semi-vuoto.
A questo punto anche per un Berlusconi declinante, incapace di tenere a bada un partito sfilacciato, la tentazione è troppo grande.
Perchè dare il via al candidato di Renzi, ammesso che oggi esista, quando si può alzare il prezzo e negoziare? Del resto, se il “patto” non serve come griglia per eleggere il capo dello Stato, vuol dire che è talmente fragile da risultare inconsistente.
Non stupisce che i nodi e le contraddizioni stiano venendo al pettine.
Negli ultimi giorni Berlusconi si mostra più baldanzoso: è tornato a occuparsi di politica in pubblico e ha ripreso uno dei suoi cavalli di battaglia, gli attacchi ai magistrati. Significa che vede Renzi in difficoltà sia sulla legge elettorale sia sull’elezione del capo dello Stato e spera di ricavarne qualche utile marginale.
Ma non vuol dire che abbia rinunciato a far pesare i suoi voti nella scelta del successore di Napolitano. Al contrario.
Aver messo sul tavolo il nome di Giuliano Amato non rappresenta una scelta definitiva, ma solo un modo per cominciare a giocare.
Il problema è che Renzi non accetta, almeno per ora, di trattare da pari a pari con il centrodestra. Perchè, appunto, «Berlusconi non dà le carte ».
Detto in altri termini, il premier respinge il metodo di fondo, quello che consiste nel dare la precedenza al suo semi-alleato per individuare insieme un nome di garanzia autorevole e neutrale, accettabile da tutti.
Non siamo nel 1985, quando De Mita convinse il Pci a votare Cossiga, che in fondo era cugino di Berlinguer; e nemmeno nel 1999, quando Veltroni costruì un’ampia rete di sicurezza intorno a Ciampi.
Oggi Renzi guarda a un presidente della Repubblica che sia, in un certo senso, a-politico: ossia privo di reale autonomia e soprattutto poco propenso a sviluppare una propria iniziativa istituzionale, sia pure nell’ambito della «persuasione morale».
Il modello del presidente tedesco, la cui figura non si sovrappone mai a quella del Cancelliere, è ben vivo nella sua mente.
Ecco perchè è così difficile per lui discutere con altri le possibili candidature: al momento sarebbe un dialogo fra sordi, visto che non tutti – dentro e soprattutto fuori della maggioranza – condividono l’identikit politico-istituzionale del nuovo capo dello Stato secondo Renzi.
Senza dubbio Amato non corrisponde ai requisiti che il premier ritiene debbano essere prioritari. Ma una volta esclusa Forza Italia, è tutto da dimostrare che sia agevole raccogliere i voti necessari in Parlamento, fra un Pd diviso, i centristi e i Cinque Stelle, a favore di un «mister X» o di una «miss X».
Ci vuole più forza politica a imporre un candidato imprevisto di quanta sia necessaria per far votare un nome conosciuto e sperimentato.
Tuttavia siamo solo ai primi passi della contesa. Aspettiamoci molti colpi di scena.
Stefano Folli
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
OBIETTIVO UN PRESIDENTE A LUI NON SGRADITO E NIENTE ELEZIONI ANTICIPATE
Adesso anche il gruppo del Senato di Forza Italia, che aveva tenuto in piedi il patto del Nazareno al momento del voto sulla riforma costituzionale, ha recepito il messaggio di Berlusconi: l’Italicum deve rallentare perchè prima ci vuole un accordo sul presidente della Repubblica.
Non è in programma l’ostruzionismo o qualche palese manovra dilatoria.
«Basta il calendario», dice sornione il capogruppo di Fi Paolo Romani.
La melina, la serie di passaggi che fa perdere tempo nel calcio, è nei fatti secondo Romani. Che ha studiato bene le prossime settimane e le tappe della legge elettorale, ancora ferma in commissione.
Ad aiutare Berlusconi nella strategia che dovrebbe garantirgli un capo dello Stato non sgradito, l’impegno a evitare le elezioni in primavera e solo dopo a varare la riforma del sistema di voto, c’è persino il tradizionale concerto di Natale a Palazzo Madama.
«Per organizzarlo l’aula deve chiudere almeno due giorni», ricorda Romani.
E’ dunque una guerra di nervi quella tra Berlusconi e Renzi, per la prima volta dal 18 gennaio, giorno della sigla sull’intesa istituzionale, impegnati in uno scontro. L’impressione è che il leader di Forza Italia abbia davvero dalla sua parte il calendario. «Mi sembra che Napolitano abbia tolto tutti dall’imbarazzo – spiega l’ex Cavaliere a chi lo ha sentito ieri da Arcore –. Dopo l’incontro con Renzi ha addirittura accelerato sulla sua uscita. C’era il problema se doveva venire prima la legge elettorale o le sue dimissioni. Direi che ha deciso così: non fatevi illusioni, me ne vado prima io».
Il 20 gennaio, secondo le indiscrezioni, è il giorno in cui potrebbero riunirsi in seduta comune le Camere per iniziare le votazioni del successore.
«Non c’è neanche bisogno di fare ostruzionismo», prevede allora Romani. Al momento il testo dell’Italicum modificato ancora non è pronto. Non c’è nemmeno la calendarizzazione in aula e il 19 dicembre, dicono a Palazzo Madama, il Senato chiuderà per le ferie natalizie. E’ un venerdì.
«Giocoforza verrà prima il capo dello Stato », insiste il capogruppo di Fi. Che non esclude l’approvazione in commissione dell’Italicum modificato, ma poi i lavori dell’aula non cominceranno prima del 7 gennaio, ovvero 13 giorni prima dell’ora X
A Palazzo Chigi sono consapevoli delle difficoltà sui tempi, il calendario lo leggono anche lì.
Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, ha messo in guardia sia Matteo Renzi sia Maria Elena Boschi.
Ma il premier non rinuncia a provare una corsa contro il tempo. L’obiettivo è non solo approvare il testo in commissione ma riuscire anche a incardinarlo per l’aula alla ripresa dei lavori a gennaio.
Si può fare anche nell’ultima mezz’ora utile di dicembre, con l’ultima conferenza dei capigruppo del 2014. A quel punto ci sarebbero 10 giorni per arrivare al traguardo prima della chiamata dei grandi elettori
«Tecnicamente è difficile, ma Forza Italia fa un po’ di confusione sulle date. Le possibilità ci sono», dice Renzi ai suoi collaboratori. Evitare l’ingorgo è la sua principale preoccupazione come dimostrano le parole dell’intervista a Repubblica . Si può certamente fare un accordo complessivo con Berlusconi includendo il nuovo inquilino del Colle, ma la partita va giocata sul filo.
Non è permesso lasciar credere al leader di Arcore che è lui a dare le carte, bisogna avere un piano B complessivo guardando ai movimenti tellurici dei 5stelle e alla compattezza del Pd che da solo, dalla quarta votazione in poi potrà contare su 440 voti, a 60 di distanza dal quorum necessario per eleggere il capo dello Stato.
In questo senso anche la “campagna acquisti” dentro Sel (con dieci deputati di Gennaro Migliore passati al Pd) e dentro Scelta civica ha un peso.
La mossa decisiva tocca a Palazzo Chigi, ma sul calendario rischia di avere ragione Berlusconi.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
“L’ISOLA NON GESTISCE IL SUO PATRIMONIO E NON INVESTE”
Hanno ragione quanti brindano alla decisione dell’Unesco di riconoscere lo zibibbo come settimo patrimonio dell’umanità siciliano. Prosit!
A vedere come usiamo questi tesori, però, c’è da bere la cicuta.
Tanto che lo stesso organismo parigino manda a dire: avanti così, e qualche riconoscimento verrà revocato.
Ne abbiamo già 50, di «bollini» Unesco. Con la consacrazione ufficiale della vite ad alberello di Pantelleria, la prima «pratica agricola» ad avere il premio, saranno 51. Nessuno ne ha quanti noi. Nessuno: ne ha 38 la Francia, 39 la Germania, 43 la Spagna, 46 la Cina e lassù in vetta, noi.
Sono tantissime, le nostre ricchezze riconosciute come patrimonio universale. Il solo Mezzogiorno sale oggi a 18.
Uno in più della Persia dalla storia millenaria o della Grecia, la nazione «madre» europea. Il doppio di Israele o dell’Argentina. Solo tre in meno degli Stati Uniti.
La sola Sicilia, con 7 «sigilli», si colloca davanti ai Paesi dal grandioso passato come la Siria o il Siam
Eppure mancano i riconoscimenti a Palermo, Segesta, Selinunte, Erice o Mozia e la riserva dello Stagnone.
Per non dire di Taormina, amatissima da Maupassant («Se qualcuno dovesse passare un solo giorno in Sicilia e chiedesse: “Cosa devo vedere?” risponderei senza esitazione: “Taormina”») ma presa d’assalto con tale prepotenza dai cementieri da rischiare d’essere forse irrimediabilmente tagliata fuori.
Ed è proprio questo che fa arrabbiare: lo spreco di un patrimonio immenso, arricchito da piatti e vini di eccellenza.
Spreco turistico, innanzitutto, se è vero come dice l’Enit che l’isola nel 2012 ha avuto poco più di 6 milioni di presenze straniere contro gli 8 milioni della Campania, i 9 e mezzo dell’Emilia-Romagna, i 19 della Lombardia, i 20 del Lazio, i 22 della Toscana, i quasi 26 del Trentino Alto Adige e gli oltre 40 milioni del Veneto.
Un disastro, confermato nel 2013 dalla quota di soldi lasciati dai viaggiatori stranieri: 1.100 milioni di euro. Un trentesimo dell’incasso complessivo italiano. Un trentesimo!
Come mai? Trasporti pessimi, infrastrutture scadenti, alberghi spesso indecorosi o al contrario splendidi ma carissimi, musei e siti archeologici troppo spesso chiusi al sabato e la domenica a causa di un balordo accordo sindacale sulle festività , incapacità di far fronte al nuovo mercato turistico incentrato in larga parte sul web.
Pochi dati: stando a uno studio della Fondazione Res, la visibilità dei siti museali siciliani è per il 26% accettabile o buona, per il 16 scarsa, per il 24 minima, per oltre il 33% inesistente: «Invisibilità totale».
L’abbiamo già scritto ma val la pena di ripeterlo: perfino il portale web del turismo regionale, a dispetto di tutti i bla-bla-bla sempre più stucchevoli, è solo in italiano e in inglese. Quello delle Baleari è in sei lingue. E le isole spagnole fanno undici volte più turisti e quattordici volte più voli charter.
Detto questo (chi è causa del suo mal pianga se stesso…) lo spreco maggiore resta quello archeologico, artistico, paesaggistico.
Di ricchezze che dovremmo custodire con amore. «A me sembra che la Sicilia stia facendo di tutto per perdere i riconoscimenti Unesco da noi concessi in questi anni», ha spiegato furente a Isabella Di Bartolo de La Sicilia il maltese Raymond Bondin, presidente onorario del Comitato delle città e dei villaggi storici Unesco dopo esser stato commissario dell’organismo internazionale che sceglie i beni da tutelare della World Heritage List nonchè tra i promotori dei «sigilli» dati all’isola.
L’accusa è pesante: «Non capisco in tutta sincerità come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell’Isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto. Da tempo».
Insomma: «La Regione non riesce neanche a spendere i pochi finanziamenti che arrivano».
Un esempio? La Necropoli rupestre di Pantalica, «patrimonio dell’umanità » con Siracusa dal 2005.
Nove anni dopo, denuncia il dirigente Unesco, manca un piano di gestione «nonostante questo sia la prima condizione per il mantenimento del riconoscimento. E adesso che la Regione ha ottenuto un milione di euro per la promozione del sito non si riesce a spendere questa somma perchè manca il personale per aprire le buste degli appalti. Ma stiamo scherzando?».
In Regione, va da sè, spiegano che no, per carità , l’iter era lungo, occorrevano le necessarie verifiche, ormai ci siamo…
Fatto sta che le parole di Raymond Bondin sono scoppiate con tritolo tra quanti amano la Sicilia e arrossiscono di vergogna davanti a queste imputazioni: «Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia. Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie – sospira Bondin -.
Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all’anno zero. L’amara realtà è che la Sicilia non è capace di gestire l’immensa fortuna che ha».
Lo sconcerto, che dovrebbe portare in tempi brevi a una ispezione degli esperti per un monitoraggio dei vari siti, riguarda in primo luogo il teatro di Siracusa: «Non è possibile che un monumento di così immenso valore per la storia possa essere stato dimenticato».
Considerato come il più bello e importante di tutti i «fratelli» greci, il teatro sul colle Temenite è in questi giorni al centro di una dura polemica sul tema delle responsabilità per i ritardi di un restauro deciso dall’allora soprintendente Mariella Muti nel lontano 2006 perchè già allora erano evidenti molte «criticità ».
Da allora ad oggi, però, tutti i tentativi di avere dei finanziamenti sono andati a vuoto. Per colpa di chi? Della Regione? Delle procedure burocratiche? Delle leggi e leggine sugli appalti così farraginose da esporre ogni commessa ai ricorsi davanti al Tar? Certo è che il panorama è sconfortante.
Nel novembre del 2011 Legambiente pubblicò un dossier che denunciava con parole allarmate lo stato di quelli che dovrebbero essere i tesori dell’isola.
Si intitolava «Unesco alla siciliana» e Gianfranco Zanna scriveva: «È inutile nasconderlo, prende davvero lo sconforto davanti a tanta desolazione, degrado, disattenzione, incuria…».
Tre anni dopo, nulla o quasi nulla è stato fatto. Cin cin.
Ma speriamo che lo zibibbo venga trattato meglio…
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
LE 37 LAVORATRICI DELL’IGEA CONTINUANO LA LOTTA: LA REGIONE INVECE CHE RILANCIARE L’AZIENDA PUBBLICA PREFERIREBBE PRIVATIZZARE METTENDO A RISCHIO 240 POSTI DI LAVORO
«Siamo 37, tutte donne. Non ce ne andremo dalla miniera. Che non credano di illuderci ancora con promesse… Abbiamo un nome solo: chiamateci tutte Maria».
Chi parla dall’imboccatura della galleria di Villamarina, casco calato sulla faccia coperta da una sciarpa, un nome ce l’ha.
Si chiama Valeria: «Ma abbiamo deciso che la nostra battaglia non ha volti nè cognomi».
Lavorano all’Igea, società della Regione Sardegna, 254 dipendenti, i «sopravvissuti» dei 40 mila che un tempo lavoravano nel polo minerario del Sulcis Iglesiente. Da mesi non ricevono lo stipendio.
«E dopo l’ennesima assemblea di tutto il personale, la scorsa settimana, noi donne – così dice Valeria, 47 anni – ci siamo riunite da sole. E subito ci siamo trovate d’accordo: mai una donna prima d’ora ha occupato una miniera? Lo facciamo noi: oltre ogni colore politico e ogni tessera sindacale. Siamo 37, unite e decise, come fossimo una sola persona».
La prima galleria della miniera di Villamarina è lunga più di 800 metri, venerdì si son chiuse alle spalle il cancello. Erano 35, le altre 2 sono andate a dar man forte ai loro compagni nella vicina miniera di Campo Pisano.
Da lì arriva l’acqua per Iglesias, i minatori hanno interrotto le forniture, ripristinate dopo qualche ora dalla polizia.
«Non vogliamo creare disagi, ma quando si sta per morire si è disposti a tutto».
A Iglesias hanno capito: «Sono venuti tanti a dirci: ”Siamo con voi” e ci hanno portato cibo e dolci». Le donne hanno scritto sui caschi bianchi: «Noi non abbiamo paura» e con lo stesso motto hanno aperto una pagina su Facebook.
Accanto a Valeria c’è Maria1, 62 anni, lavora da più di 40: «Vado in pensione fra due mesi, questa è la mia ultima lotta e spero che finisca bene. Sono stata assunta dopo uno sciopero e me ne vado dopo uno sciopero. Possibile che si debba ricorrere a questo per lavorare?».
Maria3 ha quasi dieci anni di meno, ma è già nonna, due nipoti. Maria4 ha un figlio di 8 mesi. «Me lo porta mio marito, ogni 6 ore. Lo allatto ancora al seno e non potrei rimanere senza averlo fra le braccia».
Arrivano anche i figli. Parla ancora Valeria: «Ho cominciato nel 1987, avevo 20 anni. Per fortuna lavora mio marito, anche lui nel settore minerario, e a casa a fine mese arriva almeno una busta paga. Mio figlio ha 18 anni e fa il liceo scientifico. Quando viene mi bacia e mi dice: “Mamma, tieni duro, sono orgoglioso di te”».
L’Igea ha 25 milioni di debiti, da pochi giorni la Regione ha nominato un commissario, ma con la Carbosulcis – società che ha in carico altri 700 «reduci» del comparto minerario – naviga a vista.
«Facciamo accordi ma dopo pochi giorni la Regione li disattende» lamenta Mario Cro segretario territoriale della Uiltec. Ieri messa con il vescovo davanti alla galleria.
Domani altro incontro a Cagliari, in Regione uno spiraglio: «Stiamo preparando un piano per il riequilibrio finanziario».
Ma le donne in miniera insistono: «Non ci muoviamo».
Alberto Pinna
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
A NICOLI CRISTIANI (FORZA ITALIA), EX VICE PRESIDENTE DEL CONSIGLIO REGIONALE VANNO 51.191 EURO L’ANNO… A FILIPPO PENATI (PD) EX PRESIDENTE DELLA PROVINCIA, 13.651 EURO… AL LEGHISTA STEFANO GALLI 33.783 EURO
Indagati, imputati e condannati. Ci sono anche loro nella lista dei 230 ex consiglieri regionali della Lombardia che si trovano nel conto in banca un bel gruzzoletto, grazie ai vitalizi che pesano sulle casse pubbliche del Pirellone per più di 600mila euro al mese.
Dai 51.191 euro lordi all’anno di Franco Nicoli Cristiani, l’ex vice presidente del consiglio di Forza Italia che ha patteggiato due anni di reclusione nel procedimento sulle tangenti per la licenza della discarica di amianto di Cappella Cantoni, si passa ai 34.082 euro dell’ex assessore Domenico Zambetti, a processo per voto di scambio nell’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia.
Dai 13.651 euro di Filippo Penati, l’ex presidente della provincia di Milano alla sbarra per il “sistema Sesto”, ai 33.786 euro dell’ex capogruppo della Lega al Pirellone, Stefano Galli, imputato per le spese dei gruppi consiliari, tra cui quelle finite a finanziare le nozze di sua figlia, e già condannato dalla Corte dei conti per danno erariale.
Ora i nomi di chi è stato beneficiato dai versamenti nel 2013 ci sono tutti e vanno ad aggiungersi a quelli pubblicati già in passato, tra cui il presidente di Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti (57.395 euro lordi), il primo presidente della Lombardia Piero Bassetti (28.697), l’ex leader sessantottino Mario Capanna (37.919), Carlo Ripa di Meana (28.697), il presidente della Fondazione Fiera Milano Benito Benedini (27.977) e l’ex tesoriere del Carroccio Alessandro Patelli (46.641), che ai tempi di Mani Pulite, giusto per tornare a parlare di giustizia, si diede del “pirla” per avere incassato 200 milioni di lire dai proprietari di Enimont.
L’elenco completo è stato pubblicato sul sito della regione in seguito all’approvazione della legge che due mesi fa ha portato a un taglio del 10% ai vitalizi.
Taglio contro cui, questo è certo, alcuni dei privilegiati hanno già messo al lavoro i propri avvocati per mettere nero su bianco un bel po’ di ricorsi.
Continuando a scorrere l’elenco si trovano poi l’ex ras della sanità pavese Gian Carlo Abelli (43.001 euro lordi nel 2013), i ciellini Antonio Simone (59.154) e Giuglio Boscagli (33.786), rispettivamente vecchio amico e cognato di Roberto Formigoni, entrambi rimasti coinvolti in inchieste relative all’era dominata dal Celeste, Romano La Russa (22.262), il presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia (57.395), l’ex sindaco di Milano Giampiero Borghini.
E tanto per rimanere a Palazzo Marino, l’attuale assessore comunale Daniela Benelli (50.054), il consigliere Roberto Biscardini (65.979), l’uomo di Pisapia per l’Expo, Giovanni Confalonieri (20.476).
Il record? Con 75.838 euro ce l’ha Luciano Valaguzza, anche lui Comunione e liberazione.
Luigi Franco
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
“RISALE A CIRCA 18 ANNI FA: MI CERCAVANO DA DESTRA A SINISTRA PERCHE’ AVEVO UNA RUBRICA SULLE CONTRADDIZIONI DEI POLITICI”
La Padania chiude i battenti e lo fa mettendo in mostra l’album dei ricordi.
La prime pagine, il nome di Bossi, le «grandi» e piccole battaglie politiche. Leo Siegel racconta sull’ultimo numero i suoi anni nel quotidiano.
Nell’articolo cita episodi, persone e firme illustri incontrate.
Scrive di Matteo Salvini, definendolo come «un ragazzo che si smazzava la pagina delle lettere» dotato di «talento comunicativo».
Fin qui nulla di sorprendente: Salvini è oggi il numero uno della Lega.
Scrive, però, anche di Marco Travaglio, giornalista, condirettore de Il Fatto Quotidiano, e questo è decisamente più sorprendente.
«Presto si arruolò – racconta Siegel – anche un certo Calandrino, pseudonimo che nascondeva il nome di Marco Travaglio, successivamente colto da amnesia».
Travaglio, dunque, è stato fra i collaboratori della Padania?
La versione del condirettore de «Il Fatto Quotidiano» è molto diversa. «Questi sono matti!» è il suo primo commento.
Innanzitutto ricorda bene, al contrario dell’accusa di soffrire di «amnesia». C’è stato davvero un rapporto tra lui e la Padania ma forse è l’unica informazione dell’articolo che non smentisce.
Si è trattato di «due-tre blob», spiega, vale a dire una raccolta di dichiarazioni di politici che mettevano in luce le loro contraddizioni.
Era stato Gianluca Marchi, il direttore, a chiamarlo.
«Era un amico, gli ho fatto un favore, firmando Calandrino. Ma non ho mai messo piede alla Padania, non ho mai ricevuto soldi ed avrò scritto al massimo due-tre volte, su Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi. Ecco tutto».
Non una vera collaborazione, insomma, più che altro un regalo ad un amico.
E un regalo che, oltretutto Travaglio racconta di aver fatto in quel periodo anche ad altri, di orientamento politico molto diverso, il Manifesto e Enzo Biagi che le uso per la sua trasmissione televisiva, «Il Fatto».
«Siamo intorno al 1997-98- ricorda Travaglio – avevo lavorato alla Voce di Indro Montanelli. Avevo una rubrica sulle contraddizioni dei politici e mettevo in evidenza il contrasto tra quello che dichiaravano il giorno prima e quello che dichiaravano il giorno seguente. In molti volevano attingere al mio archivio».
Flavia Amabile
(da “La Stampa”)
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Dicembre 1st, 2014 Riccardo Fucile
LA FOTO CHE COMMUOVE GLI AMERICANI, PROPRIO NEL GIORNO IN CUI DARREN WILSON, IL POLIZIOTTO CHE HA UCCISO MICHAEL BROWN, DA’ LE DIMISSIONI
La foto della speranza fa il giro del mondo, in Rete diventa subito virale: è un agente di polizia che abbraccia un ragazzo di colore.
Lui anziano, grande e grosso, l’altro piccolino, in lacrime, quasi sopraffatto nel calore dell’abbraccio.
La scena commovente è stata immortalata a Portland in Oregon. È accaduto durante una delle tante manifestazioni di protesta che si sono svolte in centinaia di città americane, contro il verdetto del Grand Jury che ha assolto l’agente Darren Wilson dopo l’uccisione del diciottenne nero Michael Brown a Ferguson nel Missouri.
A Portland un dodicenne afroamericano, Devonte Hart, sfila in piazza con il cartello “abbracci liberi”.
Un sergente di polizia gli si avvicina e lo abbraccia, il ragazzo scoppia in lacrime.
È l’immagine che un pezzo d’America vorrebbe avere di se stessa. Ma in realtà , a una settimana dal verdetto del Grand Jury, le polemiche non si placano.
Non basta a rasserenare gli animi a Ferguson l’annuncio delle dimissioni di Darren Wilson. Un gesto scontato, ampiamente previsto, che il poliziotto bianco spiega così: «Non volevo mettere in difficoltà i miei colleghi. Alcuni di loro sono stati bersagliati di minacce».
Dimesso, non licenziato, più innocente che mai: non è così che la popolazione nera di Ferguson vede il poliziotto. Tanto più che in questa settimana i media e le associazioni per i diritti umani hanno avuto il tempo di analizzare la voluminosa documentazione del Grand Jury.
Il verdetto degli esperti legali, così come quello di testate come il New York Times e il Washington Post , è molto severo: il Grand Jury ha dato un credito spropositato alla versione del poliziotto sulla legittima difesa; molte testimonianze dicono il contrario è cioè che Brown non era minaccioso, stava fuggendo quando è stato crivellato di colpi.
A conferma che le tensioni non si sono davvero placate, arriva la notizia che alcuni negozianti di Ferguson hanno assoldato dei vigilantes armati, che fanno la ronda o stanno appostati sui tetti come dei cecchini pronti a sparare.
Una misura di autodifesa dopo saccheggi e vandalismi che segnarono le proteste della scorsa settimana. Certo non distende l’atmosfera, il fatto che un’associazione di queste vigilantes chiamata Oath Keepers (i guardiani del giuramento) è considerata una milizia di estrema destra.
La partita legale a Ferguson non si è chiusa con il Grand Jury.
I familiari di Michael Brown stanno esaminando la possibilità di una causa civile, per danni.
Le cause civili seguono regole e procedure diverse, talvolta danno esiti opposti rispetto ai procedimenti penali. Poi c’è l’inchiesta federale promossa dall’Amministrazione Obama.
La porta avanti il Dipartimento di Giustizia guidato da Eric Holder, un afroamericano formatosi politicamente nella stagione delle grandi battaglie per i diritti civili.
L’inchiesta federale deve appurare se l’intero corpo di polizia del Missouri abbia compiuto abusi contro i diritti civili.
E Holder ha iniziato da Atlanta, nel profondo Sud, una tournèe per ascoltare le comunità afroamericane che si sentono discriminate dalle forze dell’ordine.
Federico Rampini
(da “La Repubblica”)
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