Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
TRA PILONI CADUTI E VECCHIE FRANE, SI RITORNA ALLA STRADA DEI BORBONI
Una frana vecchia di dieci anni, nessuna azione di messa in sicurezza e un pilone dell’autostrada che alla fine cede: così la Sicilia si è spezzata in due.
Un disastro che comincia nel 2005, quando dal monte Sciara, sulle Madonie, la terra inizia a franare: nessuno fa nulla per dieci lunghi anni e ora il crollo è arrivato ad inghiottire un pilone del viadotto Himera sull’autostrada 19, la più importante della Regione, quella che collega Palermo a Catania.
L’isola è spaccata, è tornata indietro agli anni 50 e la frana travolge anche il presidente di Anas Pietro Ciucci, che si è dimesso dopo aver rassicurato il governatore Rosario Crocetta (a sua volta in polemica con Palazzo Chigi) sui tempi di demolizione del viadotto crollato.
Secondo i tecnici la ricostruzione del ponte potrebbe durare anni, mentre la Procura di Termini Imerese ha aperto un’inchiesta ipotizzando il disastro colposo.
La viabilità borbonica, sconsigliata quando è buio
Nel frattempo Palermo e Catania non sono mai state così lontane: fino a pochi giorni fa erano collegate da 200 chilometri di autostrada, che si percorrevano agilmente in due ore.
Oggi, invece, è tutto molto più complesso. Colpa della cosiddetta viabilità alternativa, che in Sicilia è costituita soprattutto da strade di epoca borbonica.
L’idea di prendere un treno dal capoluogo fino alla città etnea è da archiviare: secondo il sito di Trenitalia ci vogliono 6 ore al modico costo di 31 euro.
Colpa delle vecchie littorine diesel mai mandate in pensione e di una rete ferroviaria ferma agli anni 30.
“Si è preferito investire nel trasporto su gomma”, si giustifica qualunque politico isolano negli ultimi 60 anni. Quegli investimenti sono serviti a poco.
Dopo il crollo, per arrivare da Palermo a Catania ci sono due modi: il primo è quello consigliato per i mezzi pesanti, e cioè imboccare l’autostrada per Messina (l’unica a pagamento sull’isola) e da lì arrivare a Catania.
Il percorso alternativo per i veicoli leggeri invece prevede di uscire a Scillato, a pochi metri dal viadotto crollato, e da lì imboccare la strada statale 643, che passa dal Comune di Polizzi Generosa, per poi rientrare sull’autostrada per Catania.
Sembra semplice: una piccola deviazione di una trentina di chilometri.
Due minuti dopo, però, un cartellone avverte: anche la strada statale 643 è chiusa a causa di una frana.
Possibile? È questo il cosiddetto percorso alternativo?
“Era franata fino a ieri, adesso la stanno riaprendo ma hanno dimenticato di rimuovere il cartello”, spiega un automobilista fermo sul ciglio della statale.
Più di 40 chilometri di tornanti franati, curve cieche alte centinaia di metri, una carreggiata troppo stretta per ospitare due sensi di marcia: eccola qui la nuova
“arteria” che collega le due principali città dell’isola.
La 643 è una delle antiche Regie Trazzere: battute dai contadini, tracciate sotto i Borbone, ereditate dai Savoia e sopravvissute fino alla Repubblica, che le ha trasformate in strade statali, asfaltandole a cadenza decennale.
Bastano pochi metri per il cartellone che segnalava la frana: ampie porzioni della strada alternativa per Catania sono praticamente sterrate, la segnaletica orizzontale non esiste e si viaggia nel fango, proprio come 150 anni fa.
Il limite di velocità è trai 30 e i 50 chilometri orari, ma è un lusso raggiungerli: le curve che danno sullo strapiombo sono sprovviste di guardrail, attimi di panico quando s’incrocia un veicolo in senso opposto.
Ai lati della carreggiata s’incrociano pascoli non recintati, pecore e mucche potrebbero invadere da un momento all’altro la strada: un’altra variabile sul vecchio tema del traffico sulla Palermo-Catania.
La statale è priva di illuminazione: non è il caso percorrerla di notte.
Alla fine dopo più di mezz’ora di tornanti, ecco a mille metri d’altezza Polizzi Generosa: meno di quattromila anime che non hanno mai visto tutto questo traffico. “Da due giorni c’è un sacco di movimento”, spiega soddisfatta la signora che gestisce il bar sulla strada.
Polizzi nasce intorno al VI secolo avanti Cristo, insediamento al confine tra i domini punici e quelli dell’antica Siracusa: dopo più di duemila anni è tornata ad essere città di frontiera nella Sicilia spezzata a metà .
“Dicono che per sistemare il viadotto ci vorranno dai due ai dieci anni: se chiamiamo i giapponesi ci stanno due mesi”, suggeriscono gli anziani fuori dal bar, appoggiatia una banchina sotto il cartellone verde: direzione Catania.
Un’ora e mezza tra le montagne
La città etnea, però, è lontana: bisogna scendere a valle e arrivare alla statale 120. Un’ora e mezza tra le montagne ed ecco l’autostrada: all’orizzonte c’è l’Etna, mentre Catania dista ancora160 chilometri.
Alla fine per coprire la distanza che separa le due principali città dell’isola ci vorranno più di quattro ore.
È bastato che crollasse il pilone di un viadotto e la Sicilia è finita tagliata in due, isolata da se stessa: e pensare che da vent’anni c’è chi promette addirittura un ponte sullo Stretto.
Giuseppe Pipitone
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
IL BONUS DA 1,5 MILIARDI E’ SOLO UNA “STRUMENTALIZZAZIONE ELETTORALISTICA” PER DISTOGLIERE DAI VERI PROBLEMI
Il tesoretto? Soldi che “proprio non ci sono”, “roba di carta, numeri astratti e potenziali”. 
Niente altro che “un’arma di distrazione di massa” per “distogliere l’attenzione della pubblica opinione dai nodi veri dell’economia e dell’azione di governo”.
Il Sole 24 Ore torna all’attacco del governo Renzi.
E colpisce dove fa più male: sul “bonus Def“ di cui si favoleggia da venerdì scorso, quando il premier ha incentrato gran parte della conferenza stampa seguita al Consiglio dei ministri sugli 1,6 miliardi spuntati come per magia dalle pieghe del Documento di economia e finanza.
Un asso nella manica che il segretario del Pd ha estratto non a caso a poche settimane dalle elezioni regionali, salvo spiegare subito dopo che l’esecutivo deve ancora decidere “se e come usarlo”.
Inevitabile l’immediato scatenarsi di proposte, richieste, appelli e auspici sulla destinazione migliore del gruzzolo.
Peccato che, stando all’editoriale che campeggia in prima pagina sul quotidiano di Confindustria, il supposto gruzzolo non esiste.
Si tratta di “un deficit”, “numeri astratti e potenziali”, appunto.
Definizione molto simile a quella data domenica, sul Corriere della Sera, da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: “Spesa in deficit”, hanno sentenziato i due economisti sotto il titolo “Lo slancio perduto del premier”.
Mossa da prestigiatore per distrarre dai “nodi veri”: l’occupazione e i tagli di spesa tutti da realizzare
Deficit che Renzi, continua il vicedirettore del Sole Fabrizio Forquet, ha trasformato in “bonus” e tirato fuori dal cilindro come un prestigiatore con “evidente strumentalizzazione elettoralistica” ma soprattutto per distrarre gli italiani “dai nodi veri“.
Tipo i dati ufficiali sull’occupazione diffusi dall’Inps — tredici contratti di lavoro in più attivati nei primi due mesi dei 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014 — ma soprattutto la differenza tra quei numeri e quelli maldestramente diffusi a fine marzo dal ministro Giuliano Poletti, smentito a stretto giro dallo stesso Sole.
O i “tagli di spesa dolorosi che dovranno trovar posto nella prossima legge di Stabilità ” per “evitare il disastroso aumento della pressione fiscale legato all’incremento dell’Iva“.
Il riferimento è alle famigerate clausole di salvaguardia, che il governo, in un focus inserito in extremis nel Def, dà già per cancellate.
Trucchetto che permette di affermare che il peso delle tasse sul Pil quest’anno calerà sotto il 43%.
Un “maquillage per persuadere anche il più duro dei gufi”, scriveva domenica sempre Il Sole.
Peccato che lunedì sera, a Presadiretta, lo stesso consigliere di Palazzo Chigi per la spending review Roberto Perotti abbia ammesso che i 10 miliardi di sforbiciate che il governo prevede per il 2016 “non sappiamo se riusciremo a farli”.
Altro che bonus, il bilancio pubblico è sotto stress e il debito al nuovo massimo storico –
L’editoriale di Forquet prosegue poi ricordando la “figuraccia” di sabato, quando è emerso che l’esecutivo, che “per quest’anno non è ancora riuscito a trovare la copertura alla decontribuzione per chi assume stabilmente” con il contratto a tutele crescenti del Jobs Act, ha pensato bene di rimediare “ricorrendo al paradossale aumento generalizzato dei contributi”.
Salvo fare marcia indietro dopo un’altra durissima presa di posizione del giornale confindustriale, che aveva parlato di decisione “oltre la decenza“.
E’ il segno “di quanto sia difficile ritagliare risorse disponibili in un bilancio già sotto stress“, scrive Forquet.
“Un bilancio che per quest’anno vede affidati 5,2 miliardi di tagli alla difficile trattativa con gli enti locali e le Regioni, che conta su 3,3 miliardi di lotta all’evasione tutti da realizzare, che confida in un via libera tutt’altro che scontato della Ue su 1,7 miliardi frutto di split payment/reverse charge e, non ultimo, deve ancora trovare circa un miliardo di euro per la bocciatura della Robin tax da parte della Corte costituzionale”.
Un bilancio su cui, ha appena comunicato Bankitalia, pesa una zavorra di debito pubblico da 2.169,2 miliardi di euro, il nuovo record storico (il precedente picco, 2.167,7 miliardi, era stato toccato nel luglio 2014).
Meno male che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha assicurato che nel 2018 “l’incubo” sarà dimenticato.
Il tesoretto è solo nuovo deficit
In questo quadro, il cosiddetto tesoretto è nulla più che lo 0,1% di differenziale tra l’obiettivo programmatico di un rapporto deficit/Pil a 2,6% e il tendenziale, che è al 2,5%. “Numeri astratti e potenziali”, appunto.
Una “franchigia” che “si determina sulla base di un aumento del Pil che il governo stima superiore a quello che era stato precedentemente previsto e di tassi di interesse in declino.
Una previsione, dunque, non un dato di fatto (…). Ed è bene ricordare che nell’ultimo decennio tutte le stime sul Pil effettuate dai governi nel Def/Dpef — sempre prudenziali per carità — sono state inesorabilmente riviste al ribasso al momento del consuntivo di fine anno“.
Tirando le somme, dunque, il tesoretto a cui la maggior parte dei quotidiani in questi giorni dedicano le prime pagine è semplicemente il deficit aggiuntivo che Palazzo Chigi potrebbe concedersi se tutte le sue previsioni si realizzassero.
Supponendo che si verifichi lo scenario più favorevole, non sarebbe allora opportuno utilizzare gli 1,6 miliardi per iniziare a disinnescare davvero, in attesa dei risultati della spending, le clausole di salvaguardia?
O, come auspica Forquet, “per mettere in atto il programma impostato dal governo, a cominciare dall’attuazione delle deleghe sul lavoro e sul fisco“, dalla cui realizzazione dipende per di più il via libera di Bruxelles alla possibilità di sfruttare la “clausola di flessibilità ” prevista dalla comunicazione dello scorso gennaio.
E l’ex capoeconomista del Tesoro critica il Def: “Progresso limitato sui tagli strutturali” –
A mettere a nudo la contraddizione ci ha pensato per altro, prima ancora del quotidiano di Confindustria, l’ex capoeconomista del Tesoro Lorenzo Codogno, che ha dato le dimissioni da via XX Settembre lo scorso autunno (stando alle indiscrezioni per contrasti con Palazzo Chigi): l’ex dirigente, in una nota intitolata ‘Le riforme di Renzi si stanno esaurendo’, ha scritto che il Def non sfrutta il miglior quadro economico e la minore spesa per interessi per raggiungere migliori risultati di finanza pubblica ma piuttosto per allentare la stretta sulla spesa.
“Il progresso limitato sui tagli strutturali alla spesa riduce il margine per riduzioni delle tasse o onerose iniziative di riforma aggiuntive”, sottolinea Codogno.
“L’Italia sta pericolosamente camminando su un filo. Evitare di entrare in una spirale negativa sul debito dipende dalla possibilità di migliorare in fretta il potenziale di crescita del Paese e sull’accelerazione del processo di riforme. Ma mancano alcune iniziative determinanti”.
Cioè, appunto, tagli di spesa strutturali e corposi.
Chissà come l’ha presa Padoan, in questi giorni impegnato a garantire che “la crescita sarà via via più sostenuta” e ad esercitarsi sul possibile utilizzo del tesoretto. “Probabile” la destinazione alle fasce più povere, ha detto domenica al Tg1.
Ma “ovviamente le misure concrete saranno valutate più avanti”. Il che ha dato la stura a ipotesi di ogni tipo.
Lunedì Repubblica strillava in prima pagina: “Il bonus sarà per 7 milioni di italiani” (trattasi di una simulazione della Uil), mentre martedì Il Messaggero, sotto il titolo “Ecco a chi andrà il tesoretto”, informa che ci saranno “un assegno per i redditi bassi e risorse per scuole e strade”.
Alla fiera del tesoretto tutto è possibile.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
RAMPELLI (FDI): “QUATTRO GIORNI FA LA POLI BORTONE ERA ENTUSIASTA DI SCHITTULLI, CHISSA’ COSA LE AVRA’ FATTO CAMBIARE IDEA…”
Il giorno dopo il pronunciamento dell’ufficio di presidenza di Fratelli d’Italia che di fatto boccia la candidatura “non unitaria” della Poli Bortone, volavo gli stracci, come nel peggiore avanspettacolo.
Tutto ha inizio da un”indiscrezione, un virgolettato riportato da La Stampa.
Secondo il quotidiano torinese, Silvio avrebbe definito “pulce” la Meloni.
“Non mi faccio mettere il coltello alla gola da Fitto, e figuriamoci dalla pulce Meloni…” questa la frase esatta ascoltata e riportata, segno evidente che ormai i nervi sono scoperti.
Battuta arrogante e infelice alla quale questa mattina, a stretto giro, ha replicato con stile la numero uno di Fratelli d’Italia, che ha scelto i toni dello sfottò: “I giornali dicono che Berlusconi mi avrebbe definita ‘pulce’. Essere paragonata a Leo Messi da un grande uomo di calcio è una soddisfazione”.
Uno a zero.
Nel frattempo durante la tappa elettorale foggiana, al candidato del centrodestra Schittulli vien chiesto dai giornalisti presenti un commento alle parole di Vitali, commissario berlusconiano, che non perde occasione per attaccarlo definendolo a turno «inesperto», «candidato di Fitto», “responsabile della spaccatura del centrodestra») ” e Schittuli rispoonde: «Vitali? Mi spiace, io sono oncologo, non psichiatra».
Due a zero per Fitto, non c’è partita.
Ci sono poi le dichiarazioni di Fabio Rampelli di FdI che precisa: “Noi non siamo mai stati coinvolti dagli alleati sulla candidatura della Poli Bortone. Se lei riesce a tenere unito il centrodestra va benissimo. Se invece non è unito è evidente che si tratta di una strumentalizzazione per creare danno a tutto il centrodestra, oltre che a Fratelli d’Italia.”
E poi si toglie un sassolino dalla scarpa: “Ricordo che Schittulli è stato sponsorizzato soprattutto da Adriana Poli Bortone. Quattro giorni fa c’era anche lei sul trattore con Schittulli, a Bari, insieme a Giorgia Meloni e a me. È stata lei a sollecitare Matteoli affinchè ufficializzasse quanto prima la candidatura di Schittulli. Quanto alla Lega, Salvini ha smentito le posizioni ufficiali della Lega pugliese, che si era detta contraria alla Poli Bortone, qualcuno lo avrà preso per un orecchio per fargli cambiare idea”.
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
OGGI IN CITTà€ CON UNA PIOGGIA DI MILIONI: SERVONO A SBLOCCARE I CANTIERI E RILANCIARE LA SUA CANDIDATA…E NELLA NOTTE VENGONO CANCELLATE SCRITTE CHE LO CONTESTANO
“Quando c’era il fango di Renzi manco l’ombra. Adesso che ci sono le elezioni va sul Bisagno”. 
Le parole di Anna Pietri e di tanti altri abitanti della Val Bisagno: oggi la visita di Renzi a Genova non sarà una passeggiata.
Non basterà quella manina anonima, stile Ventennio, che ha cancellato dai muri le scritte di contestazione al premier.
I sondaggi delle regionali non sono rassicuranti se Renzi ha deciso di venire due volte in una settimana per sostenere Raffaella Paita.
Che dai manifesti sorride sempre, ma non ha conquistato i liguri.
In Liguria il Pd è arrivato alla scissione dell’atomo. Così oggi Renzi piomberà in città con una pioggia di milioni: 379 per il Bisagno e poi, pare, 15 per gli Erzelli; progetto privato per una cittadella della tecnologia che sta rischiando di trasformarsi in operazione immobiliare. Targata Pd.
Risultato: un guaio che poteva portare a fondo la banca Carige. Così ecco il salvataggio con soldi pubblici.
Paita non la vede così: “Macchè visita elettorale. Renzi aveva promesso che sarebbe venuto a Genova solo con risultati concreti. Oggi li vedremo”.
Ma saranno sufficienti soldi e promesse per ricompattare il Pd? Basta visitare la storica sezione di Rivarolo, nel Ponente operaio di Genova — quella al centro dello scandalo brogli per le primarie — per capire che sarà dura.
“Tra i giovani prevalgono i sostenitori di Pastorino”, racconta Walter Rapetti, promessa del Pd locale. Qui i sostenitori della Paita sono minoranza. Poi ci sono i civatiani, divisi a loro volta in due: chi sostiene apertamente Pastorino e chi preferisce un appoggio ufficioso. I cofferatiani sembrano orientati per il voto disgiunto: presidente Pastorino, ma per il consiglio un candidato Pd.
Anche la posizione dei pezzi grossi democratici è tutt’altro che chiara.
Ufficialmente sostengono tiepidamente Paita, ma nel segreto dell’urna, chissà …
Alessandro Terrile, segretario genovese, è uno dei pochi a parlare chiaro: “Sosterrò Paita, ma vedo limiti e problemi. Dovremo scegliere candidati al consiglio che abbiano una visione anche didiversa dal Presidente”.
Una sorta di opposizione interna.
“Il punto”, sintetizza Christian Abbondanza della Casa della Legalità , “è che Paita rappresenta la continuità con il sistema di potere che dura da 25 anni e che ha portato la Liguria al record di disoccupazione (14%) nel Nord Italia. Per non parlare della cementificazione, delle inchieste, delle infiltrazioni mafiose, dello stillicidio di industrie che chiudono”.
Paita nei sondaggi è più debole del suo partito, ma è il cavallo su cui punta la Liguria del potere.
Si parla dei Malacalza (che hanno subito ricevuto la benedizione di Paita all’ingresso nella banca Carige), degli eterni protagonisti della scena economica locale come il terminalista Aldo Spinelli.
E di Carlo Castellano, imprenditore Pd degli Erzelli.
La calata su Genova dei vertici del Pd ieri è stata completata dal vice-segretario Lorenzo Guerini, chiamato a sbrogliare il nodo Ncd.
Difficile per ora che si formalizzi l’alleanza con Area Popolare. Intanto figure come Pierluigi Vinai — ex Forza Italia gradito al cardinale Angelo Bagnasco — stanno con Paita. C’è poi il centrodestra, che i maligni definiscono “un’altra corrente Pd”.
Nei sondaggi è incollato a Paita, ma ha candidato un marziano come Giovanni Toti che pare scelto per perdere e di ligure ha solo la residenza.
Non basta: nelle ultime ore è apparsa un’altra lista di centrodestra, guidata da Enrico Musso, ex senatore Pdl (dissidente) già candidato due volte in comune e una alle europee. Potrebbe togliere a Toti punti decisivi.
E gli altri? Il M5S candida Alice Salvatore. Giovane, entusiasta, dottoranda all’università : “Era mio dovere provare. Prima di lasciare Genova come tanti miei coetanei”, racconta.
I critici temono la sua inesperienza, ricordano che si era già candidata alle europee.
Ma il punto è un altro: tanti nel M5S volevano una coalizione con la sinistra.
“Mi sembra di avere in mano il biglietto vincente della lotteria per salvare la Liguria e di buttarlo nel cesso”, aveva detto Paolo Putti, capogruppo in Comune. Stando ai sondaggi avrebbero vinto. Ma Grillo ha detto no.
Ora la bandiera della sinistra è in mano a Pastorino, sindaco di un piccolo comune e deputato. “Sono l’unico rappresentante del centrosinistra, la Paita sta dall’altra parte”, sorride, ma non scherza.
I sondaggi lo danno leggermente indietro, ma se gli elettori del Pd puntassero sul voto disgiunto potrebbe essere la sorpresa.
Qualcuno sussurra che, in caso di sconfitta, potrebbe appoggiare Paita. Lui giura: “No”. Basta? No, c’è un altro schieramento a sinistra della sinistra.
Resta il sistema elettorale ligure, che pare ideato dall’inventore del Sudoku.
Se il vincitore non prende il 37% è costretto a un’alleanza. Ma un’affluenza bassa favorirebbe Paita.
L’arrivo di Renzi carico di milioni salverà la nave o sarà un boomerang in una Genova che fischiò anche il “suo” Grillo?
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
L’ITALIA CHE SI SBRICIOLA
Stavolta la colpa è – lo dice il sindaco di Ostuni, lo ribadisce il ministero dell’Istruzione, lo temono i vigili del fuoco di Brindisi che hanno controllato anche le altre classi – delle due ditte che hanno fatto lavori degni di far crollare cinque metri quadrati di intonaco sulle teste di bambini di sette anni.
Responsabilità delle due ditte e, s’accalora il sottosegretario Davide Faraone travolto dal fuoco delle accuse come responsabile politico della missione di governo sull’edilizia scolastica, di chi non ha fatto i controlli su quei lavori.
Questa volta l’edificio era stato sverniciato, reso energeticamente efficiente. Risistemato apparentemente, come quello che si aprì a Messina nel novembre 2008.
Le altre tragedie sfiorate che hanno seguito la tragedia compiuta di Rivoli – un ragazzo morto, diciassette feriti, uno paralizzato – si sono consumate invece dentro scuole vecchie.
Perlopiù degli anni Settanta e Ottanta che, lo si certifica tutti i giorni, sono state tirate su con mattoni malcotti, foratini malforati, eternit a infrastrutturarle: «Materiali scadenti», li definisce Pierluigi Saggese della struttura di missione in carica.
Trentasei incidenti solo nell’anno solare 2014, molti accaduti la domenica o durante la pausa mensa.
Ventisei a rischio vita nelle ultime quattro stagioni. Le aule italiane continuano a crollare, vengono giù soprattutto i soffitti instabili inseriti come sono su solai fradici e ammalorati. Ci sono 40 milioni del ministero solo per questa voce: “Soffitti e solai”. Sono pochi, come il resto.
Il sottosegretario Faraone nell’ultimo briefing al ministero ha parlato di 3,9 miliardi nella disponibilità del piano scuole “belle- sicure-nuove”, ma dopo faticose ricostruzioni – tra governo, unità di missione e Miur ognuno ha un suo sito con un suo punto di vista sulle cifre – si comprende che nei primi dieci mesi del 2014 di miliardi se ne è speso uno: 1.044 milioni, per la precisione. Uno su quattro, fin qui
L’accelerazione dell’ultimo governo non è travolgente se è vero che il governo Berlusconi – fonte Maria Stella Gelmini – tra il 2008 e il 2009 finanziò risistemazioni scolastiche per 1,620 miliardi e Maria Chiara Carrozza sotto Letta (che durò trecento giorni in tutto) sbloccò 450 milioni.
All’inizio del suo governo Matteo Renzi parlava di 10 miliardi da trovare in tre anni, ma l’Europa dei burocrati lo gelò – come ha rivelato il sottosegretario Roberto Reggi, poi sostituito – sulla possibilità di recuperarli in deroga al Patto di stabilità . Ancora nel 2009 la Protezione civile diceva che per rifare gli edifici scolastici d’Italia servivano tredici miliardi
La distanza tra le necessità , le promesse e le spese sul campo la si può leggere nel mattinale da questura del 2015.
Racconta degli ultimi sette crolli.
Otto gennaio, sei bambini feriti in una scuola materna di Sesto San Giovanni, nel Milanese: cadono intonaco e pignatte, l’istituto viene evacuato.
Diciassette gennaio: un controsoffitto crolla al liceo scientifico Guglielmo Marconi di Sassari in seguito alle infiltrazioni dell’acqua.
Diciotto febbraio: in una classe di un istituto alberghiero di Pescara si stacca l’intonaco dalla parete e ferisce, lievemente, due studenti alla testa.
Lo stesso giorno il bis a Villa Santa Maria in Chieti: nell’istituto Benedetto Croce, elementari e medie, esplode il vano caldaia dell’edificio per una perdita di gas, muri interni ed esterni sventrati.
Il 3 marzo la tragedia sfiorata è a Bagheria, otto chilometri da Palermo: scuola Cirincione, un bimbo ferito.
E l’uno aprile, infine, gli ultimi due eventi: si stacca una finestra a Campi Bisenzio, Firenze, e vien giù l’intonaco a Lucca. Dell’Alberghiero di Pescara, per dire, l’insegnante di educazione fisica ora dice: «Qui rischiamo ogni giorno l’incolumità , ci sono mille studenti e mille non ci dovrebbero stare».
Tra una settimana, questo è un risultato dopo diciott’anni di rilevazioni e dodici milioni spesi, il ministero dell’Istruzione presenterà l’anagrafe scolastica, istituto fino a ieri mitologico, come i dati sugli insegnanti precari.
L’aggiornamento necessario ci dirà , però, che a censire e mappare per bene la situazione si complica.
Non sono più un terzo gli istituti bisognosi di cure, ma oltre il 50 per cento: 21.230. Una scuola su due, in Italia, o è specialmente brutta o è davvero insicura.
«Abbiamo preso in mano cantieri partiti nel 2006», si giustificano alla missione, «rifar partire la macchina è stata dura».
L’ultimo monitoraggio del ministero dell’Istruzione – anche questo parziale, realizzato due anni fa – aveva fatto emergere che 15 scuole su cento erano accatastate come negozi, ex seminari, appartamenti ed edifici industriali.
Oltre metà dei plessi scolastici – 23 mila, quindi – ricadevano (e ricadono) in zone ad altissimo o ad alto rischio di terremoto.
Solo uno su sette è stato progettato rispettando norme antisismiche.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica“)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
NEL DOCUMENTO ECONOMICO IL GOVERNO SCRIVE CHE LE “SPESE PER L’ISTRUZIONE ” CALERANNO DA QUI AL 2020… E I SOLDI PER L’EDILIZIA RESTANO QUELLI DI LETTA
Non c’è solo il crollo di Ostuni ad agitare il fronte della scuola, ma pure i soldi. L’istruzione doveva
essere una priorità , ma dai numeri del Def non si direbbe, anzi: il futuro è tutt’altro che roseo, almeno sul fronte delle risorse. Partiamo da qui.
Ieri la Rete della conoscenza ha attaccato il governo: “Matteo Renzi ha sempre detto di considerarla una priorità , e ora smentisce se stesso”.
La conferma è in una tabella del Documento di economia e finanza appena licenziato: vi si legge che nei prossimi 15 anni la spesa per l’istruzione — già ridotta al lumicino — è prevista in discesa in rapporto al Pil.
Secondo il Tesoro, resterà sostanzialmente stabile nel 2016, per poi scendere gradualmente.
Nel dettaglio: quest’anno dovrebbe attestarsi attorno al 3,7per cento del Pil per scendere al 3,5 nel 2020 e poi ancora giù fino al 3,3 per cento del 2030.
Dopo il 2035, quando i bambini di oggi avranno bambini, ricomincerà leggermente a salire (3,5 per cento nel 2060).
Secondo il governo, però, il calo vero e proprio si verificherà fino al 2020, perchè da lì in poi “sarà essenzialmente trainato da quello degli studenti indotto dalle dinamiche demografiche”.
Molto semplice: il paese invecchia, quindi ci saranno meno iscritti e meno risorse. Magra consolazione, tanto più che non è previsto nessun incremento.
Peggio ancora va nei prossimi anni nonostante un Pil stimato in crescita.
E qui è il paradosso.
Se questo sale — potrebbe giustificarsi il governo — è normale che in percentuale la spesa per l’istruzione diminuisca.
Vediamo come. In numeri assoluti, nei prossimi cinque anni, si passa da 60,6 a 64,4 miliardi. Sembra un aumento, ma non lo è.
Nello stesso periodo, infatti, il Tesoro stima un’inflazione che procede al ritmo dell’1,7-1,8% l’anno.
Tradotto: i fondi a disposizione di scuole e università non solo non cresceranno, come promesso, ma caleranno in termini reali.
Quei 3,8 miliardi in più in un quinquennio, infatti, non coprono nemmeno l’aumento dei prezzi. Visto il punto di partenza non è un bel segnale.
Secondo l’Istat, l’Italia è già il Paese che spende meno di tutti in Europa per l’istruzione in rapporto al Pil: nel 2012 era al 4,6 per cento , mentre la Spagna, per dire, spendeva il 5,5 per cento e Francia, Inghilterra, Svezia e Olanda erano sopra il 6 (la Danimarca è al 7,6).
Secondo l’Ocse, il think thank dei paesi ricchi, l’Italia è bel al di sotto della media: è l’unico Paese che registra una diminuzione della spesa tra il 2000 e il 2011 (-3 per cento, la media Ocse registra +38).
Ed è la seconda ad aver tagliato di più dal 2008, primo anno della crisi economica (-11 per cento, dietro la sola Ungheria).
Da allora alla scuola sono stati tolti oltre 8 miliardi.
Il triste primato riguarda anche l’Università , come ha spiegato la Commissione Ue: “Dal 2009 le risorse sono calate del 20%, ma per migliorare i risultati servono finanziamenti adeguati”, cioè più corposi. Il crollo del soffitto della scuola Pessina di Ostuni ha poi riacceso la polemica sui fondi destinati all’edilizia. Non è un mistero che Matteo Renzi abbia puntato sul capitolo buona parte delle sue carte.
Ieri, da Palazzo Chigi, è arrivato il consueto diluvio di risorse promesse e stanziate: “Abbiamo messo 3,9 miliardi”, comprensivi delle operazioni “scuole belle” (450 milioni per le piccole manutenzioni), “scuole sicure” (400 milioni per la messa in sicurezza) e “scuole nuove”(244 milioni).
Le risorse sono state incrementate, ma solo una parte è arrivata, cioè quella stanziata dal governo Letta con il “decreto del Fare” del giugno 2013 (794 milioni).
Per il resto — compresi gli 800 milioni del “decreto Mutui” — bisognerà attendere i prossimi mesi, se non proprio il 2016.
Ieri, poi, Sel ha denunciato la scomparsa dal Def di 489 milioni destinati alle scuole dal ministero delle Infrastrutture.
Soldi apparsi nelle bozze e poi scomparsi dal testo definitivo. “Sono stati semplicemente messi a bilzancio, nessun taglio”, spiega al Fatto Laura Galimberti, responsabile dell’unità tecnica di Palazzo Chigi.
Carlo Di Foggia
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 14th, 2015 Riccardo Fucile
IL FILM DELICATO E AUTENTICO DI NANNI MORETTI
Se è vero —e lo è — che i grandi film sono quelli in cui si ride e si piange molto, Mia madre di Nanni Moretti è un grande film.
Perchè fa ridere con le lacrime agli occhi e fa piangere col sorriso sulle labbra.
Ci voleva del coraggio a cimentarsi in una storia così vera e così drammatica come quella della regista che perde a poco a poco la mamma mentre gira una pellicola sulle proteste operaie in una fabbrica, visto soprattutto quel che si vede di solito nei cinema made in Italy.
Ma soprattutto ci voleva del talento, vero e maturo, per riuscirci come ci è riuscito Moretti in quello che forse è il suo film, se non più bello, senz’altro più completo e compiuto.
Anni fa, in una lunga e famosa polemica, Dino Risi gli aveva suggerito beffardo: “Quando vedo un lavoro di Nanni, mi viene sempre voglia di dirgli: spòstati e fammi vedere il film”.
Stavolta Nanni si è scansato, eccome se si è scansato.
Ancor più che in Habemus Papam, dove il papa era lui ma aveva il volto e il corpo di Michel Piccoli, e Nanni interpretava lo psicologo.
Qui la perdita della madre durante la lavorazione proprio di quel film è capitata a lui, che però ha ceduto se stesso a una splendida Margherita Buy.
Così, per la prima volta, Moretti non fa Moretti. E la Buy non fa la Buy.
Fanno l’uno il personaggio dell’altro.
Lei protagonista, nei panni della regista un po’ stronza, astrusa e capricciosa.
Lui deuteragonista, il fratello borghese nevrotico, depresso e buono.
Così, oltre a sorprendere tutti, infilano le loro rispettive, migliori interpretazioni. Aiutati dalla scrittura di Valia Santella e Francesco Piccolo e dall’immensa attrice Giulia Lazzarini, la madre malata, sempre in perfetto equilibrio e senza mai scadere nella retorica del patetico; e da un pirotecnico John Turturro, a cui è affidata la parte comica dell’attore americano smargiasso e smemorato, che parla come Stanlio e Ollio e blocca tutti i ciak perchè si scorda il copione oppure gli prudono i baffi posticci.
E soprattutto non capisce quando la regista Buy (alias Moretti) ripete in continuazione sul set “voglio vedere l’attore accanto al personaggio”, terrorizzando gli attori con una frase-supercazzola che alla fine anche lei (alias lui) confessa di non aver mai capito che diavolo significhi. Però suona bene.
Lei che appare così decisa, solida e sicura di sè, mentre in realtà nasconde turbamenti, incertezze, inadeguatezze, visioni e incubi inquietanti.
Alla fine la vita prende il sopravvento a tal punto, che Turturro si ribella e si mette a urlare: “Basta cinema, fatemi uscire dalla finzione, ridatemi la realtà !”.
O qualcosa del genere.
“Di solito faccio passare parecchio tempo tra un film e l’altro. Ho bisogno di lasciarmi alle spalle l’investimento psicologico, emotivo del film appena fatto. Ci metto sempre un bel po’ di tempo per ricaricarmi. Stavolta invece, appena uscito Habemus Papam, ho cominciato subito a pensare a Mia madre . Ho iniziato a scrivere quando nella mia vita erano appena successe le cose che poi ho raccontato nel film. Dopo la prima stesura della sceneggiatura, sono andato a rileggermi i miei diari scritti durante la malattia di mia madre perchè immaginavo che quei dialoghi, quelle battute, avrebbero potuto aggiungere peso e verità alle scene tra Margherita e la madre. Ecco, rileggere quei quaderni è stato doloroso”.
Il dolore, la malattia, la morte, per chi se ne va e per chi resta, ma anche l’allegria quotidiana che strappa sane risate, sono raccontati con una delicatezza e un’autenticità e una laicità che possono arrivare soltanto dalla vita vera.
La vita di una famiglia borghese con la mamma prof di latino che ha fatto dell’insegnamento non un mestiere, ma una missione, e infatti gli ex alunni continuano ad andarla a trovare per prendere un caffè e parlare di politica, e infatti lei anche con la maschera di ossigeno continua a dare ripetizioni alla nipote, e infatti lei si accorge degli amori e dei disamori della ragazza molto più dei genitori distratti. Tutto questo fa di Mia madre un film talmente semplice, disarmante e soprattutto serio (specialmente quando fa ridere) da non sembrare neppure italiano.
Italiano nel senso dell’Italia di oggi, e del cinema di oggi.
Un film straniero in patria, ma piuttosto raro anche per un film straniero.
Un film “politico”, come l’ha definito Moretti proprio per quello che, al primo impatto, sembrerebbe il meno politico.
Invece ha ragione: è il suo film più politico, anche se non parla della “politica” politicante, cioè di quella robaccia che siamo abituati a chiamare politica e invece è tutto fuorchè politica.
Politica è occuparsi della vita, della morte, della malattia, della sofferenza, degli ospedali, delle fabbriche, delle cariche della polizia, dei ragazzi a scuola e delle donne (che sono le protagoniste assolute del film).
E portar da mangiare la pasta corta nella scatola di plastica alla madre malata in corsia, perchè la pasta lunga della clinica diventa una colla.
Politica è mostrare la regista alle prese con le solite domande stanche dei giornalisti impegnati che partono da “questo momento così delicato per la società ” e dalla “coscienza del Paese reale”, e costretta prima a rispondere in automatico con le eterne frasi fatte, prima di accorgersi che “ripeto le stesse cose da anni perchè tutti pensano che io, in quanto regista, sappia interpretare la realtà , ma io non capisco più niente”. Nessuno, neppure noi, aveva capito perchè Moretti, dopo la stagione dei Girotondi, si fosse assentato dalla politica attiva.
Questo film è la sua risposta a tutti: per lui, oggi, la politica attiva è questa.
Purtroppo, solo per lui.
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Aprile 13th, 2015 Riccardo Fucile
DUE ANNI E OTTO MESI ALLA PIREDDA, DUE ANNI E QUATTRO MESI A QUAINI… E SIAMO SOLO ALL’INIZIO
Mano pesante del Tribunale di Genova nei primi due processi per le “spese pazze” dei gruppi
consiliari nella Regione Liguria.
Subito dopo le condanne nei confronti di Maruska Piredda e Stefano Quaini ci si è chiesto quanto e come la sentenza potrà incidere sulle sorti degli altri consiglieri ed ex consiglieri indagati e soprattutto sulle elezioni del prossimo maggio, nelle quali saranno candidati sicuramente alcuni consiglieri uscenti sotto inchiesta.
Già da adesso si può tentare qualche risposta a queste domande, con la premessa – d’obbligo – che stiamo parlando di una sentenza ancora non definitiva in quanto appellabile e che la responsabilità penale è individuale, vale a dire che ciascuno degli imputati ha una storia processuale, magari simile, ma non coincidente con le altre.
Che cosa fa tremare gli altri indagati?
La severità dei giudici
La condanna a carico di Piredda e Quaini è stata superiore alle richieste del pm. Escluse la truffa e il falso, è stato invece riconosciuto – e pesantemente – il peculato; vale a dire: quei soldi erano di tutti e dovevano essere spesi unicamente per fini connessi con l’attività dei gruppi consiliari della Regione, mentre gli imputati li hanno utilizzati per acquisti del tutto personali.
In questo senso gli scontrini con mutande e giocattoli non sono stati ritenuti frutto del caso, di distrazione, o (sono giustificazioni ascoltate nel corso dell’inchiesta) “perchè il capogruppo (o il tesoriere) mi diceva di portare scontrini” o ancora “così mi aveva detto di fare il capogruppo precedente”.
Il giudizio abbreviato
Piredda e Quaini hanno ottenuto uno sconto di pena del 30 per cento, previsto dai processi con rito abbreviato.
A questo punto più di loro rischiano gli altri imputati rinviati a giudizio nello stesso ramo dell’inchiesta di quello che era l’Idv: Nicolò Scialfa, ex vicepresidente del consiglio regionale ligure, Marylin Fusco, ex consigliere regionale, l’ex deputato Giovanni Paladini e l’ex tesoriere del gruppo Giorgio De Lucchi. Nel processo ordinario rischiano condanne anche superiori.
Il ruolo dei capigruppo
Maruska Piredda ha subito una condanna più pesante di qualche mese rispetto a quella di Quaini. Una delle ipotesi, in attesa del motivazioni della sentenza, è che la maggiore severità sia dovuta al suo ruolo di capogruppo dell’Idv, sia pure per pochi mesi.
Di conseguenza, se torniamo al discorso di “chi trema adesso”, la posizione dei capigruppo indagati potrebbe essere più scomoda rispetto a quella di altri colleghi.
La “qualità ” e la “quantità ” delle spese pazze.
Stabilito anche in base alla sentenza di oggi che le spese non istituzionali sono peculato, va detto che la posizione complessiva dell’Idv era sembrata dall’inizio la più scomoda tra quelle di tutti i gruppi consiliari, sia per la quantità sia per la qualità delle spese.
Gli altri gruppi hanno in prevalenza ricevute di ristoranti e alberghi o scontrini di prodotti che sembrerebbero più facili da ricondurre tra le spese istituzionali.
Molto importante sarà capire come i giudici considerano i regali per festività o ricorrenze: sono spese istituzionali o peculato?
L’anomalia Pd.
Il Pd, come gruppo di maggioranza, è quello che ha in valori assoluti (ma non relativi) la quota più alta di scontrini sotto inchiesta. Scontrini, tuttavia, finiti spesso in un calderone all’interno del quale riesce difficile accertare le singole responsabilità .
I candidati alle regionali.
Come si può vedere dalla lista degli indagati, una buona parte dovrebbe essere candidata alle prossime regionali.
E’ il caso, solo per citare due esempi, dei consiglieri uscenti Nino Miceli (Pd) ed Edoardo Rixi (Lega Nord) che dovrebbero avere un ruolo di primissimo piano qualora la coalizione di cui fanno parte risultasse vincente.
Gli esponenti del Pd sono Michele Boffa, Antonino Miceli, Renzo Guccinelli, Massimo Donzella (ex Udc), Mario Amelotti, tesoriere del gruppo.
Gli indagati tra Forza Italia sono Marco Melgrati, Marco Scajola, Luigi Morgillo (ora in Liguria Libera), Matteo Rosso (ha lasciato il partito per sostenere Edoardo Rixi, ex candidato alla presidenza della Regione per la Lega).
I rappresentanti di Ncd indagati sono: Gino Garibaldi, Franco Rocca, Alessio Saso. Per la Lega: Francesco Bruzzone, Edoardo Rixi, Maurizio Torterolo.
Gli esponenti dell’Udc indagati sono Rosario Monteleone e Marco Limoncini.
Poi ci sono i due consiglieri Ezio Chiesa e Armando Ezio Capurro, che sostenevano la lista del presidente Burlando, ora in Liguria Cambia.
Gli altri indagati sono Aldo Siri della Lista per Biasotti, gli ex Sel Matteo Rossi e Alessandro Benzi (quest’ultimo oggi nel Gruppo misto), l’ex Idv ed ex Sel, poi dimessosi, Stefano Quaini, le ex Forza Italia Raffaella Della Bianca (oggi Gruppo Misto) e Roberta Gasco, la ex Idv Marilyn Fusco, e Giacomo Conti della Federazione della sinistra.
Nicola Stella
(da “il Secolo XIX“)
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Aprile 13th, 2015 Riccardo Fucile
TOTI STIZZITO: “FDI SIA COERENTE, C’E’ CHI SI DIVERTE A DIVIDERE L’ATOMO”
Al termine dell’ufficio di presidenza di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni in una nota spariglia le carte non solo in Puglia, ma anche in Liguria.
Se fino a ieri era scontato l’appoggio a Giovanni Toti, candidato da Forza Italia, Lega e Fdi, oggi le cose paiono diverse.
La principale ragione del mutamento, sia in Puglia che in Liguria, sta nella rivolta della base locale che non vuole sentir parlare nè della Poli Bortone, nè di Toti, rivendicando l’esigenza di volti nuovi, non appiattiti sui diktat di Berlusconi e Salvini.
E la notizia della telefonata imperiosa di Silvio in cui “ordina” alla Meloni di mollare Schittulli in Puglia, non ha certo contribuito a rasserenare gli animi all’interno di Fdi, così come le insistenze della Poli Bortone che ha accettato una candidatura senza chiedere prima il consenso del suo partito.
Il rischio per la Meloni è di perdere la faccia con la sua base elettorale e a questo punto La Russa ha consigliato una virata.
Nel comunicato si legge che “in Liguria siamo disponibili a convergere su candidature diverse da quella di Giovanni Toti, ci sono esponenti di centrodestra come Enrico Musso sulla quale saremmo disposti a convergere”.
A cui segue la precisazione di La Russa: “Fdi non chiude al sostegno di Toti ma vorremmo discuterne e Toti ha la controindicazione di essere visto come candidato paracadutato”.
In pratica è l’apertura di un nuovo fronte o per motivi tattici (far digerire a Berlusconi l’appoggio a Schittulli in Puglia con la minaccia di creare problemi su Toti) o sostanziali (rimettere in discussione anche la stessa alleanza in Liguria).
Sullo sfondo anche la necessità di smarcarsi un minimo da Salvini per evitare la critica di esserne la ruota di scorta.
Un cambio di strategia che in Liguria, in caso di appoggio a Musso, farebbe precipitare la candidatura di Toti al 20% e quella di Forza Italia al 10%, praticamente ininfluente e potrebbe allontanare Fdi dall’imbarazzante 2,6% attualmente attribuitogli dai sondaggi.
Non a caso la reazione di Toti è stizzita: “Fdi sia coerente, c’è chi lavora per rimettere insieme la coalizione e c’è chi si diverte a dividere atomo..”.
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