Settembre 8th, 2015 Riccardo Fucile
IL RACCONTO DI UNA SIGNORA ROMANA: “NIENTE PUBBLICITA’, VOGLIO SOLO CHE TUTTI CAPISCANO CHE ESSERE SOLIDALI E’ UNA GRANDE ESPERIENZA”
Loro ci hanno pensato prima. Prima del Papa e dei politici.
In silenzio, senza enfasi hanno aperto le porte delle loro case, le stanze dei figli ormai cresciuti, per ospitare rifugiati e migranti.
Sono uomini e donne che per mesi hanno organizzato l’assistenza rifocillando oltre 70mila persone in fuga dalla Siria nel mezzanino della stazione centrale a Milano, sono i romani che hanno accolto negli anni i ragazzini afghani che vivevano alla stazione Ostiense, condiviso pranzi e cene con famiglie eritree o iracheni arrivate nella capitale dopo viaggi attraverso l’inferno.
Ora queste signore coraggiose, pudiche ma concrete, forzano la loro natura e parlano: “Perchè la storia si ripete, perchè la nostra esperienza magari può convincere altre famiglie ad accogliere chi oggi fugge dalla guerra e dalla fame”.
Così dice Misa Chiavari, fisica in pensione, madre di quattro figli ormai adulti, da anni impegnata – tra le mille altre cose – a fare lezione di italiano per i migranti al centro capitolino dei gesuiti Astalli.
Le storie dei ragazzini fuggiti da Afghanistan e Iraq. La sua casa è piena di fotografie. “La mia famiglia allargata”, sorride, raccontando le storie dietro ogni volto.
Storie di ragazzini partiti dall’Afghanistan, dall’Iraq con pochi soldi in tasca e molta paura, finiti nelle celle di paesi che parlavano lingue sconosciute, sfruttati in Libia, Iran o in Grecia “dove gli facevano bere latte nelle concerie di pelle per sopportare le sostanze velenose che per giorni arrivavano anche a paralizzarli”.
Storie di violenza subita e tenacia, vicende uguali a quelle dei rifugiati che oggi arrivano in Italia in cerca di un futuro che passa attraverso le stazioni.
Oggi Budapest, ieri Ostiense. “Perchè tutti quelli che partono dall’Afghanistan avevano, ma ancora oggi hanno, un biglietto con questa stazione Ostiense come unico indirizzo a Roma”.
Lì dormivano Ali e Ismet – cartoni per materasso e giornali quando andava bene per coperta – quando i centri per rifugiati non avevano posto o il loro tempo era scaduto. “Li ho incontrati alla scuola per italiani dove venivano i rifugiati, e quando è arrivato l’inverno con altri insegnanti siamo andati alla stazione e ce li siamo portati a casa. Nessuna paura, nessun problema, mai avuto guai. Anzi erano loro impauriti da me. Ci hanno messo tanto a fidarsi, a raccontarmi le loro storie, la loro vita di prima. Come Ali, talmente abituato alle mine che uccidevano ogni giorno che il gioco pomeridiano degli adolescenti a kandahar era riportare i pezzi delle vittime saltate per aria. Pensava fosse normale, che tutto il mondo fosse cosi, fino a quando i mujaedin hanno decimato la sua famiglia e lui quindicenne è scappato, rifugiandosi prima in Pakistan, poi in Iran, infine arrivando in Europa”.
Fermati alle frontiere e messi in carcere. Storie che si incrociano con quelle di oggi, ripetendosi all’infinito.
Perchè passare i confini è sempre stata una lotta per chi scappava da guerre e fame. “Ali mi ha raccontato che per ben 15 volte ha cercato di passare la frontiera ed entrare in Grecia e per 15 volte lo hanno arrestato, chiuso in celle con altri 50, senz’acqua per giorni. Alla fine è riuscito ad arrivare al Pireo. E, dopo essere stato sorpreso tre volte dentro un camion alla frontiera e rispedito indietro, è finalmente sceso in Italia”.
Adesso hanno un lavoro e una famiglia.
Adesso Ali e Ismet hanno famiglia, hanno un lavoro, una vita regolare, chi ha aperto una pizzeria che da lavoro anche ai connazionali, chi ha fatto l’apprendista falegname per imparare un mestiere.
Ma i legami non si sono persi con chi gli ha dato una mano, aperto una porta quando erano soli.
“Passano, portano i figli, mi chiamano mamma. Ho avuto molto più di quello che ho dato in questi rapporti. Ho imparato. Per questo se ricapita non mi tiro indietro”.
Caterina Pasolini
(da “La Repubblica“)
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Settembre 8th, 2015 Riccardo Fucile
“SPERO CHE NON SIANO MORTI INVANO, FACCIANO FINIRE I MASSACRI”
«Ho perso tutto e non ho più niente da chiedere alla vita. Ma i miei figli Alan e Galip non sono morti invano. Non è stato un sacrificio inutile perchè in cuor mio sento che il mondo si sta svegliando e si sta rendendo conto del dramma della Siria e del bisogno di pace». Abdullah Kurdi oggi è un uomo che si tiene in piedi aggrappandosi a questo solo pensiero.
Sa quanto potente è la foto del suo figlioletto Alan, morto nella sabbia e nell’acqua di Bodrum dopo il rovesciamento del gommone su cui stavano tentando di raggiungere l’isola greca di Kos.
«Tutti devono guardarla, perchè credo che attraverso questa immagine i miei figli possano in qualche modo aiutare i bambini siriani. Se Dio ha voluto che morissero, è per compiere questa missione».
Abdullah parla al telefono dalla sua Kobane, dove è andato a seppellire Alan, tre anni, Galip, cinque anni, e sua moglie Rehan.
Qual è la lezione che il mondo deve imparare?
«Che la guerra in Siria va fermata al più presto, perchè i siriani non scapperebbero dal loro paese, se non fossero costretti. Vivevamo da re nella nostra Siria. La responsabilità di quello che sta succedendo qui è di tutti quelli che sostengono la guerra. Mi auguro che qualcosa adesso cambi, soprattutto nei paesi arabi dove non ho visto alcuna indignazione per quanto mi è successo».
Lei incolpa qualcuno per la morte dei suoi cari?
«Sì, le autorità del Canada perchè hanno rifiutato la mia richiesta d’asilo nonostante ci fossero 5 famiglie disposte a sostenerci economicamente. Volevo trasferirmi insieme alla mia famiglia e a quella di mio fratello, che ora è in Germania. Non avremmo nemmeno pesato sulle casse del governo canadese. Non ci hanno dato l’autorizzazione e non so perchè».
Da quel rifiuto è nata l’idea di venire in Europa?
«Sì. Ho lavorato a Istanbul, mentre i miei figli li avevo lasciati a Kobane. Lavoravo in un’industria tessile e guadagnavo 800 lire turche. Poi però quando sono cominciati i combattimenti con l’Isis a Kobane, li ho portati in Turchia. Ed è cominciata la mia tragedia. Non mi bastavano i soldi: come facevo a mantenerli quando tra bollette e affitto pagavo 500 lire? Mi sono messo a lavorare come muratore, la sera tornavo a casa e Alan e Galip mi massaggiavano le gambe e la schiena doloranti. Erano loro però ad avere bisogno di cure mediche ».
Quali cure?
«Soffrivano di una malattia congenita alla pelle, avevano bisogno di una pomata speciale da spalmare tre volte al giorno altrimenti si grattavano e la pelle gli diventava scura. Ma in Turchia a causa della lingua non riuscivo a compilare le pratiche per accedere all’assistenza sanitaria. Quindi ho pensato di andare in Germania, dove ci sono i mediatori culturali. Chissà adesso chi gliela spalma quella pomata, forse gli angeli…».
Come vi hanno trattato le autorità turche?
«Non voglio parlar male della Turchia. La presenza di profughi è altissima e non è possibile garantire condizioni buone per tutti. Ma da quanto mi hanno raccontato, in Turchia ci accolgono meglio che in Libano e in Giordania. Ecco perchè volevo andare in Europa, in Germania ma anche in Svezia o in Inghilterra: volevo che i miei figli fossero trattati come persone».
Cosa si ricorda del naufragio del gommone?
«Avevo pagato agli scafisti 4mila euro. A bordo eravamo in 12, il mare era mosso e dopo pochi minuti il gommone si è rovesciato. Nell’acqua ho trovato le braccia dei miei bambini e le ho afferrate, ma mi sono accorto che erano già morti e li ho lasciati andare per provare a salvare mia moglie. Inutilmente. Ora ci sono tante persone accanto a me, ma quando sarò solo temo di crollare».
Cosa farà adesso che è tornato a Kobane?
«Non c’è luce, non c’è acqua, non ci sono le condizioni per restare. Pensavo di rimanere vicino alle tombe dei miei cari, ma qui la vita non è vita».
Proverà a tornare in Europa?
«Non ho ancora deciso. Però se parto, forse impazzisco. Ogni mattina vado sulle loro tombe, innaffio i fiori, ci parlo come se fossero vivi. Parlare con loro mi aiuta un po’».
Fabio Tonacci
(da “la Repubblica”)
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Settembre 8th, 2015 Riccardo Fucile
UNA FAIDA GENERAZIONALE
Se vuoi terrorizzare un territorio senza iniziare una lunga guerra tra famiglie criminali, devi fare molte stese. “Fare le stese” significa correre sui motorini e sparare a tutto e tutti. Tutti si buttano a terra, stesi, perchè terrorizzati, pietrificati.
Poi se qualcuno lo stendi davvero, se lo ammazzi, è danno collaterale. Possibilmente da evitare perchè le stese riuscite meglio non dovrebbero provocare danni collaterali. Ma se accade, accade.
Ecco cosa sta succedendo a Napoli. Sparare su finestre, cancelli, vetri delle auto, con pistole semiautomatiche ma anche fucili d’assalto, l’Ak47, intramontabile e sempre amato dai clan napoletani.
Le stese sono un modo per seminare terrore con un metodo da guerriglia psicologica, mettere paura e far abbassare la testa. Usano questa espressione, “fare la stesa” come stendere o far stendere una persona.
“Stesa” come estendere il proprio dominio o come stendere un lenzuolo, una cappa, su un quartiere, vicolo per vicolo.
Senza stese un gruppo dovrebbe intraprendere una faida in modo classico e faida significa investimenti, alti, in manovalanza: pali, pedinatori, sicari. Così viene gestito il centro storico di Napoli dai gruppi criminali: con il terrore.
Che nessuno alzi la testa all’arrivo dei nuovi, che siate affiliati o piccoli pregiudicati per reati minori che con l’associazionismo criminale non hanno nulla a che fare.
Eppure dopo la morte di Gennaro Cesarano, che sia lui o meno l’obiettivo del commando di fuoco, l’unico discorso che ha trovato spazio è stato se a morire sia stato un colpevole o un innocente. Attributi che in quel territorio hanno perso senso, se mai ne hanno avuto uno.
Come può un ragazzo di 17 anni se ritenuto colpevole generare quel senso di distanza e repellenza che si ha come quando si accumulano i cadaveri criminali di una nuova guerra di camorra.
Se a quell’età muori in strada ucciso perchè bersaglio di una paranza di fuoco vuol dire che il fallimento è andato ben oltre i proclami e le possibilità di riscatto di un territorio.
È inutile presentare Napoli come un progetto lungimirante, è senza risorse e finanche senza idee: la speranza alimentata dal governo della città e dal governo di Roma in questo caso si chiama inganno.
In un contesto del genere non resta che parlare di colpevolezza e innocenza, perchè colpevole il morto, assolti noi che ne leggiamo, ne parliamo, ne scriviamo.
Colpevole il morto vale la regola più abusata e falsa del “si uccidono tra loro”.
Sul morto per caso, sul morto innocente ancora esistono residuali moti di empatia ci si sente costretti a prendere parte, a decidere.
Ecco perchè ogni volta è la stessa attesa: ma stava in mezzo o non c’entrava? La mia risposta ora è: 17. 17 anni! E invece è per ogni colpevole che cade e si affilia si perde ogni possibilità di percorso altro e se il presunto colpevole è un diciassettenne, allora forse ci si soffermerà qualche attimo in più a considerare ciò che sta accadendo: il mezzogiorno italiano è nel pantano e solo una rivoluzione meridionale può sperare di modificare le cose.
Uso l’espressione rivouzione meridionale di Guido Dorso le cui pagine oggi sono persino più attuali di quando le scrisse su invito di Piero Gobetti nel 1925: “No, il Mezzogiorno non ha bisogno di carità , ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà . Se il mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l’esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile…”.
Ma quale libertà oggi viene data?
Luigi Galletta, 21 anni, meccanico di Forcella, questa estate è stato ucciso per essersi rifiutato di truccare dei motorini sapendo che avrebbero fatto parte delle paranze che giravano per uccidere.
Non voleva stare in mezzo ai guai, un’etica scelta per istinto; la mattina lo hanno massacrato di botte e il pomeriggio lo hanno ucciso.
Anche in quel caso tutti i discorsi furono sul suo essere innocente o colpevole: davvero si era rifiutato o lavorava invece per i nemici di chi l’ha ucciso?
Nel dubbio se piangere un morto o sputarci sopra ci si è dimenticati della sua storia. Innocente o colpevole? Sputtani Napoli o ne canti lodi?
Si esaurisce il discorso su Napoli e su intere aree in cui ormai c’è guerra.
Mi ha colpito il commento di Francesco Ebbasta, regista e anima dei Jackal, ragazzi che hanno fatto di Napoli, con la loro capacità di fare video online, un nuovo polo creativo.
Loro che non si sono mai occupati di questi temi, hanno scritto che “bisogna accettare la realtà dei fatti per quella che è: siamo dei poveretti”. Poveretti perchè a Napoli si preferisce ignorare la realtà , perchè due ragazzi armati che ne mettono in fuga duecento in piazza Bellini, la piazza più frequentata della città , sono il peggior ufficio stampa possibile.
Il sindaco De Magistris invoca il governo che promette di inviare rinforzi armati, senza capire che militarizzare significa creare ulteriori tensioni.
Alfano manderà 50 poliziotti. Ma davvero credete sia sufficiente?
Ora l’unico lavoro di polizia che davvero avrebbe un senso sarebbe quello di intelligence per provare a capire che direzione sta prendendo questa guerra e poi mandare 50 progetti sociali veri, 50 idee nuove per sollevare da pressione fiscale e burocrazia le aziende del sud.
Con 50 poliziotti sapete cosa succederà ? Che Napoli si riempirà di posti di blocco che verranno accusati di fermare chi non porta il casco mentre gli affiliati – si dirà – hanno sentinelle e sanno dove non passare e anzi riceveranno ancora una più allargata simpatia della gente.
Mentre va in scena l’ennesima pantomima tra politica cittadina e nazionale, ciò che resta è un dato di fatto sconcertante: questa nuova ondata di violenza ci dice che le organizzazioni criminali rimangono tra i pochi ambiti di crescita economica che la città offre.
Ora la faida è tra le nuove generazioni: l’alleanza tra clan di Forcella e dei Quartieri Spagnoli è voluta da una parte della Sanità e osteggiata da un’altra e il campo si apre a tutti quei ragazzi che si sono addestrati sparando sui tetti contro le antenne paraboliche, quei minorenni che da un’inchiesta della Dda di Napoli vengono definiti “la paranza dei bambini”.
Le loro famiglie spesso non sono neanche di camorra, non appartengono al Sistema, sono lavoratori talvolta con precedenti penali senza l’aggravante dell’associazionismo mafioso.
A questo proposito è interessante, per descrivere il contesto, ascoltare cosa dicono i familiari del ragazzo ucciso: aveva un precedente ma qui tutti chi per un motivo, chi per un altro, hanno avuto a che fare con la giustizia.
Come se alla Sanità sia più normale che altrove commettere reati.
E se non fossero gli abitanti stessi a dirlo potremmo essere accusati di voler diffamare il quartiere, eppure risulta evidente che dove non ci sono prospettive non c’è scelta. Del resto, la giovanissima età della nuova paranza ci dice chiaramente che c’è voglia e quindi necessità di fondare da zero una nuova generazione mafiosa.
Una generazione che è figlia del suo tempo, che porta barbe lunghe da hipster e che comunica su Facebook, che si fa assolvere su Facebook da una platea di “amici” che è lontana dallo stigmatizzare finanche gli omicidi.
Sulla bacheca di Gianluca Ianuale, uno degli assassini dell’uomo ucraino, Anatolij Karol, ucciso a Castello di Cisterna per aver tentato di sventare una rapina in un supermercato, ci sono frasi di vicinanza, di comprensione, talvolta ramanzine come si farebbero a un amico che si è ubriacato la sera prima.
Ma nessuno che abbia preso le distanze. Ebbene lui ha ammazzato una persona e gli si dà solidarietà .
La vicinanza che si dà a una persona che ha compiuto un crimine efferato come un omicidio arriva da un territorio che mette in conto che possa accadere.
Ecco perchè quel territorio ha gli strumenti per riuscire a metabolizzare un omicidio e riesce a trovare le parole “giuste”, parole di circostanza.
I più qualunquisti definiscono “sputtanapoli” chiunque osi raccontare ciò che accade in città , mentre loro, comodamente seduti nelle varie esaltazioni identitarie, lo sport, il mare, la pizza, la simpatia – galli sulla monnezza mi verrebbe da dire utilizzando un’espressione napoletana – ignorano ciò che accade a due passi.
Tutto questo succede mentre le organizzazioni puntano ormai sui giovani.
Le famiglie del passato hanno optato per una strategia doppia, da un lato il pentimento dall’altro lasciar dominare le nuove leve.
Quando prenderanno il potere si siederanno sulle spalle di questi nuovi principi. I nuovi combattenti di camorra ricevono dalle vecchie famiglie armi e una volta mostrato di saper sparare e di saper gestire avranno l’incoronazione ad essere i vicari dei soliti re.
I clan storici investono fuori e risolvono i guai giudiziari collaborando con la giustizia e spesso in cambio riescono a salvaguardare il proprio patrimonio come è accaduto alla villa di Pasquale Galasso definito il castello della camorra a Miasino, vicino a Novara, confiscato ma ancora gestito dai parenti del boss.
Eppure è tutto ancora all’inizio; la morte di Ciro Esposito, figlio di Pierino il boss della Sanità , non è stata ancora vendicata, quindi la risposta della Sanità deve ancora venire (avevano provato ma la paranza partita per vendicarsi è stata arrestata).
Napoli somiglia sempre di più a quella che era la città degli anni ’80 e questi ragazzini ne mostrano il fallimento. Di questo sud non si parlerà ancora per molto: non porta voti, non genera consenso internazionale.
Ma qui lo Stato, che dovrebbe amministrare, dare giustizia, organizzare l’educazione non è la politica o le forze dell’ordine.
Lo Stato in questi posti è la Fondazione di Comunità San Gennaro voluta da don Antonio Loffredo il cui obiettivo è creare un’opportunità di lavoro attraverso la promozione della cultura, in alternativa alla strada.
Lo stato è la Rete voluta da Alex Zanotelli, lo Stato è l’Orchestra Santainsamble dei bambini del Rione Sanità voluta dall’associazione l’Altra Napoli di Ernesto Albanese (suo padre fu ucciso mentre lo stavano derubando della pensione).
Lo Stato è la Fondazione Pavesi che organizza corsi gratuiti di teatro per bambini.
Lo Stato è il Nuovo Teatro Sanità di Mario Gelardi che offre uno spazio dove poter tentare di trascendere la propria quotidianità .
Non pensare solo a soldi, sopravvivenza, e buffonerie. Ma provare a imparare, divertirsi, misurarsi.
Tutto questo sta facendo lo Stato senza armi e senza codice penale contro la paranza dei bambini, il peggior prodotto di una terra dimenticata contesa tra disperati e indifferenti.
E le lacrime di dolore che tracimano da queste storie nascono dalla difficoltà di resistere e non dalla celebrazione del lamento.
È questa la differenza tra il pianto e il piagnisteo che in molti dovrebbero imparare a capire per capire questo sud.
Roberto Saviano
(da “La Repubblica”)
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Settembre 8th, 2015 Riccardo Fucile
CENTRO STORICO, ZONA EST E OVEST: LA POSTA IN GIOCO E I CLAN CHE SI SCONTRANO SENZA ESCLUSIONE DI COLPI
La guerra nel cuore di Napoli. Almeno tre faide attraversano la città : in pieno centro, come nella periferia occidentale e in quella orientale del capoluogo.
A Forcella, le “paranze dei bimbi” che si contendono il quartiere stanno scrivendo nuovi capitoli di un romanzo di sangue che ha forse aggiunto un’ultima pagina in piazza Sanità , domenica mattina all’alba, con l’omicidio dei diciassettenne Gennaro Cesarano, ucciso davanti alla chiesa di San Vincenzo.
Ma sale pericolosamente la tensione tra Rione Traiano e Soccavo dove in via Epomeo è stata rinvenuta addirittura una bomba a mano, che è stata fatta brillare dai carabinieri.
E si spara anche a est, dove sabato sera, all’uscita di un negozio di via Camillo De Meis, è stato ucciso il trentenne Antonio Simonetti.
Segnali preoccupanti, che hanno spinto il ministro dell’Interno Angelino Alfano ad inviare in fretta e furia altri 50 uomini di polizia e carabinieri per controllare il territorio, prendendo così atto che, in questo momento, esiste un’emergenza che va ben al di là della semplice “percezione” di cui spesso si fanno scudo gli addetti ai lavori.
Anche la Procura è al lavoro con grande impegno. Ieri, al quinto piano del grattacielo del Centro direzionale, poliziotti e carabinieri hanno incontrato il procuratore aggiunto Filippo Beatrice, che coordina il pool anticamorra.
Magistrati e investigatori hanno tracciato un punto della situazione alla luce degli ultimi eventi sui quali mantiene alta l’attenzione anche il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo, che meno di un mese fa aveva lanciato l’allarme sull’impennata del crimine organizzato davanti alla commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi. Nei prossimi giorni i commissari di Palazzo San Macuto saranno a Napoli per una missione.
Intanto nelle strade si continua a morire. A Forcella è guerra senza quartiere tra il gruppo Sibillo-Giuliano-Brunetti-Amirante, contrapposto agli eredi della storica famiglia Mazzarella e indebolito prima dall’inchiesta coordinata dai pm Henry John Woodcock e Francesco De Falco, poi dall’omicidio del diciannovenne Emanuele Sibillo, che era riuscito a sfuggire alla cattura.
È ancora latitante invece il fratello di Sibillo, Pasquale detto “Lino”, sulle cui tracce c’è la squadra mobile diretta da Fausto Lamparelli.
Lo scontro ha già provocato una vittima innocente, il meccanico Luigi Galletta, di 21 anni, incensurato e risultato estraneo alle dinamiche malavitose.
Gli inquirenti non escludono che le fibrillazioni in atto a Forcella possano essersi estese anche nella zona della Sanità , dove sono presenti i gruppi Sequino e Lo Russo. Nel quartiere di Totò stati consumati due omicidi in pochi giorni, quello del 67 enne Pasquale Ceraso e quello di Gennaro Cesarano, di 17 anni, che secondo familiari e amici è stato colpito per errore durante la sparatoria.
Su questi due omicidi indaga il pm Enrica Parascandolo, è ancora presto per capire se stia per scoppiare una faida autonoma, rispetto a quella di Forcella, o se si tratti di episodi riconducibili a matrici diverse.
C’è certamente la droga al centro della violenta contrapposizione in atto nell’area del Rione Traiano, dove secondo quanto emerso dalle più recenti indagini dei carabinieri del Nucleo operativo diretto dal maggiore Di Costanzo si contrappongono le nuove leve del gruppo Puccinelli e i Vigilia di Soccavo.
Spaventano, in particolare, gli eventi che si sono susseguiti negli ultimi giorni: sabato scorso sono stati esplosi in strada, in via Tertulliano, 60 proiettili colpi di mitra e pistole, altri 21 bossoli sono stati ritrovati ieri in via Catone e infine labomba a mano, che è stata fatta brillare dai carabinieri.
E si fa allarmante il quadro nella zona orientale, dove i contrasti mai sopiti tra i gruppi D’Amico e De Micco potrebbero essere alla base dell’ultimo agguato.
Tre faide, forse quattro, che fanno battere di paura il cuore di Napoli.
Dario Del Porto
(da “La Repubblica”)
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Settembre 8th, 2015 Riccardo Fucile
DALL’EX CONSIGLIERA NON RICONFERMATA ALL’EX SINDACO CHE GESTI’ LA PARTECIPATA FALLITA
In materia di nomine e rottamazione della malapolitica, c’è qualcosa che non combacia tra i buoni propositi del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e i fatti concreti.
Ecco i dati. E le date.
Il 2 marzo De Luca, fresco vincitore delle primarie Pd in Campania, si presenta come il “nuovo”: “La Regione non sarà un mercato, non ci sarà distribuzione di incarichi; nessun mercato politico”.
La musica cambia qualche mese dopo quando De Luca il 31 maggio vince pure le elezioni “vere” e diventa governatore. La promessa di non promuovere trombati viene infatti mantenuta durante la formazione della giunta. Ma viene violata invece quando si passa alle nomine del sottobosco.
C’è da rifare il vertice di Soresa, la partecipata della sanità campana.
De Luca propone come presidente Giovanni Porcelli e come consigliera Giulia Abbate.
Il primo — Porcelli — è un candidato non eletto di Campania Libera per De Luca, la lista messa su dall’ex senatore dell’Udeur Tommaso Barbato, ex braccio destro di Clemente Mastella e decisivo per la caduta del governo Prodi nel 2008, nel voto decisivo per la fiducia a Palazzo Madama: in quell’occasione, racconta la sua storia personale, sputò al collega di partito Nuccio Cusumano, colpevole di non aver seguito le indicazioni di Mastella.
Porcelli in questa lista è risultato secondo dei non eletti, raccogliendo 5300 preferenze. Ex sindaco di Mugnano, 43 anni, ha anche ricoperto diversi incarichi politici, tra cui quello di presidente della Munianum spa, la società che gestiva il mercato ittico di Mugnano. La società è poi fallita sotto il peso di un paio di milioni di debiti.
La seconda — Abbate — è una consigliera regionale uscente e non rieletta del Pd.
Nel 2013 era entrata in consiglio come prima dei non eletti, dopo che Umberto Del Basso De Caro fu nominato sottosegretario nel governo Letta.
Nonostante fosse capolista in un collegio di Benevento e nonostante abbia raccolto oltre 6mila preferenze, la Abbate (che di lavoro fa l’avvocato) non è stata eletta. Polemiche ad alzo zero in Forza Italia e nel centrodestra: da quale pulpito, loro nel 2010 fecero esattamente lo stesso quando Caldoro nominò a capo di Soresa il consigliere non rieletto Francesco D’Ercole.
Ma il vero capolavoro di De Luca arriva con la nomina per Bruno Cesario, l’ex Responsabile che, insieme a Domenico Scilipoti e Massimo Calearo nel dicembre 2010, uscì dal centrosinistra per regalare un altro anno di vita al crepuscolare governo Berlusconi (e ne ottenne in extremis uno strapuntino da sottosegretario).
Ex Ppi, Margherita, Pd, primo dei non eletti in Forza Italia in un collegio lontano dalla Campania, il trasformista Cesario è tornato al suo primo amore per Ciriaco De Mita e poche ore prima della chiusura delle liste ha accettato l’invito del leader di Nusco a candidarsi nell’Udc alleata in extremis con il Pd e De Luca.
Non ce l’ha fatta, ma De Luca lo ha recuperato con un incarico di dirigente regionale di staff.
Cesario avrà il compito di guidare la sede della Regione Campania a Roma, dove curerà i rapporti con il Parlamento, il Cipe e il sistema delle conferenze.
Più o meno negli stessi giorni, De Luca ha nominato una consigliera regionale uscente e non rieletta del Pd, Angela Cortese, consulente politico per il settore scuola. La delega che Cortese assunse in due vecchie giunte provinciali napoletane. A Palazzo Santa Lucia il De Luca-dottor Jekyll, rottamatore renziano, ha lasciato il posto al De Luca-mister Hyde, cinico riciclatore.
Persino degli amici dell’ex nemico De Mita.
Vincenzo Iurillo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 8th, 2015 Riccardo Fucile
LA PREFETTURA VALUTA LO SCIOGLIMENTO PER MAFIA
L’ex senatore di Forza Italia Lorenzo Piccioni è finito agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sulla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea, in provincia di Messina.
Tra gli arrestati anche il sindaco del paese siciliano, Salvatore Bucolo.
L’inchiesta della Guardia di Finanza coordinata dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto riguarda i reati ipotizzati sono corruzione e peculato.
Altri due provvedimenti di custodia cautelare sono destinati a amministratori della Tirrenoambiente, società che gestisce l’impianto.
Piccioni, originario di Soresina (in provincia di Cremona) ma residente a Vercelli, è stato parlamentare per 4 legislature (oltre che sindaco di San Giacomo Vercellese): è un imprenditore e nella sua lunga carriera si è occupato di movimento terra, ma anche di smaltimento di rifiuti e altri servizi ambientali.
Proprio un mese e mezzo fa aveva concluso il suo lavoro la commissione prefettizia che doveva accertare eventuali condizionamenti mafiosi nei confronti dell’amministrazione comunale. Secondo le indiscrezioni raccolte dai giornali locali la commissione è orientata a proporre lo scioglimento del Comune.
Non è peraltro la prima inchiesta che si concentra su presunti illeciti in relazione alla discarica di Mazzarrà .
Nella primavera scorsa finirono in carcere in 22. Tra loro c’era anche il fratello del sindaco, Angelo Bucolo, considerato dagli inquirenti il grimaldello decisivo per la mafia di Barcellona per incassare il pizzo dai titolari dell’impianto.
Bucono, secondo gli investigatori, era uno dei “componenti storici del gruppo mafioso dei Mazzaroti”, famiglia legata alla cosca barcellonese.
(da agenzie)
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