Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
MONTA LA FRONDA DI CHI VUOLE DIRE SI’ ALLE RIFORME PER ARGINARE LA FUGA
Scena numero uno. 
Maurizio Gasparri, attorno a Mezzogiorno, prende la parola in Aula, livido nel volto: “Ad Amoruso (il senatore passato da Forza Italia al gruppo di Verdini, ndr) del patto del Nazareno non gliene è mai fregato niente: gli interessavano le consulenze per i familiari, probabilmente. Un comportamento miserevole”.
Poi esce. È un fiume in piena: “Mi sono pure trattenuto. Lo so io, lo so io perchè se ne è andato. Potrei leggere gli sms che mi mandava da dentro a una chiesa”.
Scena numero due.
Tre ore dopo. Paolo Romani, il capogruppo di Forza Italia, da sempre un trattativista, si apparta a lungo con Anna Finocchiaro, in un corridoio del Senato.
Poi telefona ad Arcore per chiedere un supplemento di riflessione sulla linea del “no” alle riforme. Il dramma è questo: logica vorrebbe ascoltare, prima di dar fuoco alle polveri, la relazione che terrà la Boschi in Aula al Senato domani mattina e poi decidere, perchè se la Boschi dovesse aprire – questo il ragionamento – non avrebbe senso rimanere soli, isolati e irrilevanti; ma i gruppi non tengono, anzi si stanno liquefacendo.
Ecco perchè, alla fine, viene annullata la riunione del gruppo dei senatori prevista per domani (giovedì) pomeriggio, dove avrebbe dovuto partecipare Berlusconi. Disarmante la spiegazione che filtra: “Berlusconi non sa che dire”.
È la nemesi della compravendita per colui che ha subito un processo con la condanna in primo grado sulla compravendita che portò alla fine del governo Prodi: “Verdini – raccontano – li sta sfilando uno a uno. Amoruso, Auricchio, manca poco per Zuffada, pochissimo per Cardiello. Li conosce, sa i punti deboli, sa che si sentono trascurati, ci parla, li coinvolge, mentre a Forza Italia non si fanno più nemmeno le riunioni”.
E ora il gruppo rischia davvero di andare sotto “quota 40” senatori. La nemesi, appunto. Quando l’ex premier ha letto il comunicato in cui il suo capogruppo si appellava a Mattarella e Grasso denunciando l’acquisto di senatori non si è stupito più di tanto: “E’ gente che va con chi offre di più”.
Ma è il corno politico del ragionamento ad essere ancora più doloroso perchè – sussurrano i suoi – “non è vero che Verdini è ininfluente e non è vero che è stato l’utile idiota di Renzi”.
E non è un caso che Lorenzo Guerini dichiari: “Bene voti oltre il perimetro della maggioranza”. Denis, infatti, è stato il perno dell’intera operazione, perchè ha consentito a Renzi di piegare la sinistra accettando un compromesso.
Verdini è, insomma, la certezza di Renzi per piegare gli altri. E le urla alla luna sulla compravendita sono suonate alle orecchie dell’ex premier, semplicemente come una “manifestazione di debolezza”.
Insomma, Forza Italia non c’è più.
Il prossimo dato in uscita verso il gruppo Ala di Verdini è Franco Cardiello. Con lui Denis è a quota 14, mentre pure alla Camera è pronto il gruppo e arrivano le prime sette adesioni: Saverio Romano, Pino Galati, Mottola, Parisi, Faenzi, D’Alessandro, Abrignani.
“Chi è il prossimo?” è la domanda che rimbalza dai capannelli di un partito fuori controllo. Francesco Aracri, una macina di preferenze, è uno dei pochi che non parla di compravendita. E lima un comunicato stampa per annunciare l’iniziativa “grossa” che farà domani a Roma, quando attorno a un tavolo metterà Salvini, i big di Forza Italia, Fitto e l’ex ministro di An Andrea Ronchi “a parlare del futuro del centrodestra”.
È in questo quadro (disastroso) che Romani parla di “confronto sulle riforme”.
Il sogno sarebbe avere un appiglio per convergere, in modo da mascherare l’irrilevanza convergendo sulle riforme.
Per ora Berlusconi, assicurano, “sta riflettendo” anche se considera il no una scelta ormai obbligata. Nella nemesi di un partito che non c’è più accade pure che, qualunque cosa decida, non cambia nulla.
(da “Huffingtonpost“)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
DE MAGISTRIS LE AUTORIZZA, IL PRESIDENTE DI SCAMPIA CONTRARIO
Scampia e le sue vele navigano in direzione opposta al sindaco: Gomorra non la vogliono.
A Napoli, i suoi quartieri e i paesi della provincia si dividono.
Ospitare o meno le riprese della seconda serie di Gomorra, la fiction cult ispirata al libro di Saviano? E’ una questione di immagine, inanzitutto.
C’è chi le telecamere le gradisce, le tollera, le utilizza anche per promuovere il proprio paese e chi invece di sentirsi associata alla camorra descritta in tv “non se ne parla prorprio”.
Domani inizieranno a Scampia alcune riprese della serie in onda ad aprile: il sindaco De Magistris le ha autorizzate ma il presidente della municipalità annuncia barricate culturali contro la troupe.
Nel napoletano, da giorni va avanti la diatriba se ospitare o meno il cast della fiction.
Dopo Portici Mugnano ha detto sì, Giugliano, Acerra e Afragola un netto no.
La produzione lavora in silenzio e in fretta, ma il clima è cambiato. I sindaci sono contrari e in ansia per quelle scene di sangue e pallottole nel loro quartiere, in una terra già così martoriata “non sono un esempio”.
Lo dice anche il questore, Guido Marino. “Certi programmi tv sono offensivi e per niente rappresentativi della realtà che vogliono rappresentare: arrivare alla conclusione che lo Stato è assente, è banale. E lo trovo offensivo”.
Parole che l’autore del romanzo bestseller in tutto il mondo non condivide: “Che la politica limiti la libertà di espressione artistica la dice lunga sulle sue derive autoritarie e, soprattutto, sulla convinzione fallace che sia sufficiente bloccarne il racconto perchè la camorra smetta di esistere” spiega Saviano.
Un assist che il sindaco De Magistris coglie al volo ribadendo di odiare la censura. “Non dirò mai di no alle riprese di un film o di una fiction. Napoli non è più la Gomorra descritta anni fa da Roberto Saviano” e occorre “un’operazione verità per descrivere i mille colori della città “.
“Gomorra possono girarla a Napoli – assicura – se qualcuno mi chiede se quella è Napoli io rispondo di no, senza fare operazioni negazioniste perchè ci sono bande di camorristi che controllano il territorio, ma dire che oggi Napoli è Gomorra è un’operazione di falsità . Ci sono ancora il nero e il grigio – afferma – ma anche tanta luminosità “.
Ma Scampia, zona simbolo delle infiltrazioni camorristiche descritte da Saviano, si ribella. “Sì al cinema, no al marketing vergognoso di Gomorra che diffonde solo violenza ed illegalità inquinando il futuro senza curare i mali ed oscurando le positività ” attacca Angelo Pisani, presidente della VIII Municipalità .
E annuncia battaglia: “Domani alle ore 16 sarò sul luogo delle riprese di Gomorra 2 a Scampia, in via Gobbetti, dove il cantiere abbandonato della metropolitana rappresenta proprio il disinteresse e uno dei fallimenti delle istituzioni per la gente del territorio abbandonata a se stessa e vittima più della malapolitica che della camorra. Io sarò presente – conclude – per fare barricate culturali e chiedere rispetto. Ci sarò con la fascia tricolore che rappresenta questo quartiere e questa parte buona della città . Ho qualcosa da dire e da chiedere alla produzione, lo farò direttamente e anche attraverso gli organi di informazione perchè ci siano degli esempi positivi e non solo emulazione di male e violenza”.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
APPROVATA LA LEGGE DELEGA PER LA REVISIONE DEL CODICE PENALE
Arriva il primo via libera per la legge Bavaglio dell’era di Matteo Renzi. 
La Camera dei deputati ha approvato infatti il ddl che modifica il codice penale e il codice di procedura penale e che contiene al suo interno anche la legge delega al governo sul tema delle intercettazioni telefoniche.
A Montecitorio i voti favorevoli al ddl penale sono stati 314, 129 i contrari mentre 51 parlamentari si sono astenuti. A votare contro il ddl il Movimento 5 Stelle, la Lega e Sel, mentre ad astenersi sono stati i deputati di Forza Italia.
Condito da aspre polemiche il momento riservato alle dichiarazioni di voto.
Nel corso del loro intervento, infatti, i deputati del Movimento 5 stelle si sono imbavagliati e hanno esposto cartelli con scritto “no legge bavaglio“.
“In un momento di crisi dell’occupazione e di corruzione Renzi si diverte a mettere mano alle intercettazioni. Il governo chiede e ottiene una delega in bianco in materia penale: chiediamo a giornalisti e magistrati di denunciare uno dei provvedimenti più pericolosi di questi ultimi anni”, ha detto il relatore di minoranza ed esponente M5s, Vittorio Ferraresi.“Quest’aula sceglie di non decidere, di non discutere quasi, ma decide di delegare al governo su importanti materie come le intercettazioni e l’ordinamento penitenziario”, ha attaccato invece il deputato di Sel Daniele Farina.
Il ddl penale prevede anche alcuni aumenti di pena per i reati di furto in casa e rapina. “E’ un riempi carcere, dopo i svuota carceri approvati, che rischia di riportarci alle condizioni per cui siamo stati condannati in sede europea”, ha detto Farina che poi ha messo nel mirino la legge delega sulle intercettazioni. “Deresponsabilizza il Parlamento a vantaggio, pare, di un comitato di saggi ministeriale”.
La decisione di chiedere una legge delega sul tema della disciplina delle intercettazioni telefoniche è stata attaccata anche da Forza Italia: il partito di Silvio Berlusconi, però, attacca la riforma per motivi completamente opposti a quelli del Movimento 5 Stelle.
“Un provvedimento che presenta molte ombre e poche luci. Ancora una volta abbiamo una delega in bianco. Un testo a favore di magistratura che aumenta il proprio peso e tende ad essere più ingerente. Un disegno di legge che contiene diversi colpi al diritto di difesa e che non ha nessun effetto preventivo e dissuasivo alla commissione dei reati”, è un passaggio dell’intervento del deputato azzurro Gianfranco Chiarelli, che ha annunciato l’astensione del suo partito.
Il governo ha invece affidato la sua replica al deputato dem David Ermini, responsabile giustizia del Nazareno.
“Il Pd non metterà mai un bavaglio alla stampa ma i diritti delle persone vanno tutelati. Lasciamo ai grillini il diritto di guardare dal buco della serratura: qualche volta sembrano Fantozzi che sbircia la signorina Silvani. Captare parole fuori contesto con un telefonino ricorda il ventennio, le vite degli altri, il regime del terrore. Per noi ci vuole libertà di stampa e libertà di vivere. E se i grillini vogliono mettere tutto in piazza, allora dicessero quanto spendono per la loro manifestazione di Imola o mettessero tutte loro le riunioni in streaming, invece di toglierle di corsa quando qualcuno le pubblica. Per loro ascoltare sì, ma solo gli altri”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
SARANNO I PARTITI A SCEGLIERE I PROSSIMI INQUILINI DI PALAZZO MADAMA… IL GIURISTA PELLEGRINO: “TESTO CONTRADDITTORIO, CAPOLAVORO DI DILETTANTISMO”
Si scrive riforma, si legge pasticcio. E quella mediazione che è l’ossessione del Pd potrebbe anche peggiorarlo. Ufficialmente e renzianamente, la riforma del Senato è la via per arrivare a una democrazia efficiente, nella quale “il procedimento legislativo sarà più snello ed efficace” (Maria Elena Boschi dixit).
Fuor di propaganda, è un ginepraio contraddittorio, da cui potrebbe scaturire una seconda Camera che conterà poco o nulla. Soprattutto, composta di nominati.
“Questa riforma è un capolavoro di dilettantismo”, scandisce l’amministrativista Gianluigi Pellegrino.
Ma quale elettività : articoli che sbattono
Il cuore della riforma è l’articolo 2 del disegno di legge costituzionale, e in particolare il secondo comma, approvato in doppia lettura conforme (senza modifiche) nelle due Camere: “I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”.
Renzi ha blindato il comma in base al regolamento di Palazzo Madama, secondo cui non si possono cambiare le norme già approvate in entrambi i rami del Parlamento.
La possibile mediazione tra il premier e la minoranza del Pd, che invoca un Senato elettivo, sarebbe un nuovo comma 5.
Ossia una norma in base a cui i cittadini sceglieranno i consiglieri regionali da inviare a Palazzo Madama tramite un listino.
I Consigli di ogni singola Regione dovrebbero poi ratificare le nomine.
Ma Pellegrino stronca questa soluzione: “Il comma 2 prevede che i Consigli regionali eleggano i senatori con metodo proporzionale, ossia dando maggiore spazio ai gruppi politici più folti in Regione. Bene, secondo il nuovo comma 5, i cittadini dovrebbero votare i senatori con un listino. Ma come faranno a sapere quale sarà la composizione dei futuri gruppi in Consiglio, che dipende dall’esito del voto? È evidente che sulla volontà popolare prevarrà il criterio proporzionale, e quindi molti voti di preferenza saranno inutili”.
Come se ne esce?
“Renzi non vuole toccare il comma 2, per non far ripartire da capo l’iter del testo. Ma se si punta a un sistema coerente la norma va modificata. Se il testo verrà approvato così, i senatori saranno dei nominati. E il comma 5 sarà superfluo”.
Una transizione troppo scivolosa
Le contraddizioni proseguono: “Se si vuole davvero dare la parola ai cittadini va cambiato anche l’articolo 38 del ddl, già approvato in doppia lettura conforme, che è una norma transitoria (ossia colma il vuoto nel passaggio da una normativa all’altra, ndr). e che stabilisce la composizione del primo, nuovo Senato. Prevede che, finchè non verranno eletti i nuovi Consigli regionali, ogni consigliere potrà scegliere i senatori ‘votando per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e sindaci dei rispettivi territori’. Ma come combacia questa norma con la volontà popolare? Tanto più che c’è un rischio: perchè entrino in vigore le nuove norme sull’elezione del Senato, bisognerà attendere una legge di attuazione. Poniamo che non si accordino sul testo: rischiamo di ritrovarci per anni con Palazzo Madama eletto solo dai consiglieri regionali”.
Luca De Carolis
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
DAL BICAMERALISMO PERFETTO AL BICAMERALISMO CAZZARO
Evviva evviva, c’è l’accordo sul Senato. Merito del lodo Tonini, anzi del lodo Violante, pardòn del lodo
Boschi, o meglio del lodo Finocchiaro, senza dimenticare il lodo Zanda, no! È il lodo Tatarella, che però è morto così diventa lodo Renzi, che invece è vivo.
Siccome purtroppo nessuno di questi lodi è mai stato scritto nero su bianco, ma solo annunciato e tramandato di bocca in bocca secondo la tradizione orale (lodo Omero), non si capisce cos’abbiano da esultare gli strateghi renziani e i calabraghe della sinistra Pd, visto che nessun contraente conosce i termini del patto.
Poi, se resta tempo, ci sarebbero gli elettori che vorrebbero sapere cosa ne sarà di loro il giorno delle elezioni.
Per tentare una risposta,non resta che interpellare gli aruspici. I quali, con l’ausilio delle viscere di civetta (gufino, please) mescolate a zampe di gallina, previa disamina dei fondi di caffè e delle maree nelle notti di plenilunio, sono giunti alle seguenti conclusioni.
Per mettere d’accordo le minoranze che vogliono il Senato eletto dal popolo e il trio Renzi-Boschi-Verdini che lo vuole nominato dai consigli regionali, cioè dalle segreterie dei partiti, i senatori saranno “designati” dagli elettorie“ratificati”dalle Regioni secondo le loro leggi elettorali (che sono 21: una per regione, più le province autonome di Trento e Bolzano).
Il modello è la legge “Tatarellum” per le elezioni regionali, che non esiste più: funzionò una sola volta, alle Regionali del 1995.
Stabiliva l’elezione diretta dei presidenti, che però non era prevista dalla Costituzione, che però non s’era fatto in tempo a modificare; dunque la prima volta si procedette alla designazione dei governatori, poi ratificati dai consigli regionali.
Oggi ne resta intatta la parte peggiore: i governatori si portano in Consiglio un pugno di fedelissimi che mai e poi mai verrebbero votati dai cittadini, infatti non sono eletti, ma stanno in un listino a parte ed entrano in Consiglio se il candidato governatore vince, se no ciccia.
È la norma che ha promosso a consigliera regionale della Lombardia la nota igienista dentale Nicole Minetti nel listino di Formigoni, che ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma B. no.
Ecco: trapiantando quella porcheria nel comma 5 dell’articolo 2 del d-dl Boschi (l’unico votato in modo difforme da Senato e Camera dunque, per il governo, il solo ancora modificabile), l’elettore si ritroverà in mano, alle elezioni regionali, una scheda, anzi un lenzuolo, con tre liste per partito.
1) La lista dei favoriti e delle favorite dell’aspirante governatore. 2) La lista dei candidati consiglieri regionali. 3) La lista degli aspiranti-consiglieri-regionali-che-faranno-anche-i-senatori.
L’elettore voterà tre volte: 1) il candidato governatore che, in caso di vittoria, si porterà appresso tutto il listino; 2) i candidati consiglieri regionali (con le preferenze, il cui numero varia da regione a regione); 3) i candidati-consiglieri-regionali-che-faranno-anche-i-senatori (come al punto 2).
Si dirà : ma così i senatori li eleggiamo noi, vittoria! Eh no, troppo comodo, ‘cca nisciuno è fesso.
Prima del comma 5 (modificabile, per Renzi) dell’articolo 2, c’è il comma 2 (intoccabile per Renzi, perchè già votato dalle due Camere con “doppia conforme”), che dice tutt’altra cosa: “I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno,tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”.
Il “metodo proporzionale” vuol dire che i consiglieri-senatori devono rispettare i rapporti di forza fra i partiti rappresentati in Consiglio.
Ma chi vota gli aspiranti consiglieri-senatori del suo partito mica può sapere quanti ne usciranno in consiglio regionale, dunque non accadrà mai che in Consiglio regionale i consiglieri-senatori rispettino la proporzione del totale dei consiglieri dei singoli partiti. In ossequio al principio di proporzionalità (comma 2), il Consiglio dovrà eliminare qualche consigliere-senatore designato dagli elettori, a sua discrezione: tu vai in Senato perchè sei biondo, tu non ci vai perchè sei antipatico, cose così. Bella “designazione”, bella “ratifica”.
E tanti saluti alla designazione popolare (comma 5). Se invece un Consiglio vorrà rispettare il principio di designazione popolare (comma 5), dovrà violare quello di proporzionalità (comma 2).
E così i padri ricostituenti — per salvare la faccia a Renzi che non vuol darla vinta a Grasso e alla minoranza sull’emendabilità del comma 2 — già prevedono che la nuova Costituzione dovrà essere obbligatoriamente violata. Dunque è incostituzionale.
C’è poi un altro problemino da niente: siccome sette consigli regionali sono stati appena eletti e scadono fra cinque anni, mentre gli altri molto prima, che si fa?
Si azzera tutto e li si vota tutti insieme, anche quelli appena eletti?
O si parte con la nuova regola per quelli che muoiono prima e intanto gli altri si nominano i consiglieri-senatori come pare a loro, senza “designazione” dei cittadini? O tutti i Consigli nominano chi vogliono all’insaputa degli elettori designatori?
Ci pensa la “norma transitoria”, già votata con doppia conforme: il primo Senato lo nominano i Consigli regionali, senza interpellare gli elettori.
Quindi: o il primo Senato sarà incostituzionale, perchè viola il comma 5, oppure salta il totem della doppia conforme sulla norma transitoria (e allora non si vede perchè non riscrivere daccapo, e bene, tutta la riforma).
Il bicameralismo perfetto non andava bene: meglio il bicameralismo cazzaro.
Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA RINUNCIA AL FRONTE COMUNE CON SLOVACCHIA E REPUBBLICA CECA
A sorpresa, l’Ungheria decide di aderire al piano europeo per la redistribuzione dei profughi.
Il premier ungherese, Viktor Orban, ha detto che Budapest non sosterrà l’iniziativa annunciata da Praga e Bratislava di chiedere al vertice dei 28 di oggi di “rivedere” la decisione sulla distribuzione di quote di migranti da ricollocare.
Secondo fonti diplomatiche Ue, l’Ungheria si atterrà a quanto previsto dal consiglio Interni e si farà carico dei profughi assegnati.
“Non eravamo d’accordo. Non pensiamo che sia la soluzione, ma ora chiudiamo questo capitolo e andiamo avanti”, dicono le fonti.
La proposta dell’Ungheria è molto concreta. Come anticipa la Bbc, il governo di Budapest pensa all’istituzione di un fondo speciale destinato al miglioramento dei campi profughi in Libano, Giordania e Turchia dove si trovano almeno tre milioni di siriani in fuga dalla guerra.
Il fondo dovrebbe essere costituito dall’1% dei fondi che ciascun paese europeo riceve dall’Unione, e dall’1% del denaro che ogni stato versa alle casse di Bruxelles. L’Ungheria ha calcolato che la sua parte è di 1 miliardo di euro.
Con questo denaro, argomenterà Orban, si dovranno anche rafforzare le frontiere europee per impedire l’arrivo di nuovi migranti.
Ma il premier ungherese stasera al vertice dei leader dei 28 cercherà un chiarimento con i partner europei dopo le condanne ricevute per la gestione dei migranti.
“Ci sarà una discussione molto franca, perchè questa non è la via europea”. Orban ha detto che “è la prima volta che gli Stati membri vengono biasimati perchè hanno una posizione diversa”. Essere etichettati come “cattivi europei” solo perchè abbiamo un’opinione diversa è stata “un’esperienza scioccante”.
Intanto Orban incassa un importante alleato: Manfred Weber, leader della Csu bavarese e presidente del Partito popolare europeo, dichiara che l’Ungheria sta semplicemente “rispettando le regole di Dublino e Schengen” e che da quando il governo di Budapest è intervenuto in questo senso il flusso dei richiedenti asilo verso la Germania è notevolmente diminuito.
“Nonostante questo, quando ci parliamo gli ricordo che deve trattare i migranti con umanità “, ha poi aggiunto.
Weber, in una intervista pubblicata mercoledì, ha ricordato come nessun paese europeo per il momento sia riuscito a trovare una soluzione praticabile e che l’alto numero di profughi non è sostenibile.
(da “Huffingtnpost”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
AVREBBE USATO LA CARTA DI CREDITO DEL CAMPIDOGLIO PER PAGARE CENE IN UN LUSSUOSO ALBERGO VISTA COLOSSEO
Una possibile richiesta di chiarimenti nei confronti di Marino. È quanto vorrebbe fare, come riporta
Il Fatto Quotidiano, il Movimento Cinque Stelle nei confronti del primo cittadino di Roma.
I pentastellati sarebbero pronti a depositarla perchè vogliono sapere tutto riguardo le spese personali che il sindaco ha sostenuto utilizzando le casse del Comune, in particolare riguardo dei pagamenti che secondo indiscrezioni avrebbe effettuato in un hotel con annesso ristorante di lusso vista Colosseo.
Si legge su Il Fatto Quotidiano:
Quello che lo attende è una vera e propria radiografia del “suo” deposito in banca, una richiesta di verifica su tutte le movimentazioni che il primo cittadino ha effettuato sul conto corrente intestato al Comune.
Quello su cui l’opposizione vuole vedere chiaro è l’uso delle risorse che il sindaco ha a disposizione per lo svolgimento del suo incarico. Il primo cittadino, infatti, ha accesso diretto ad una serie di fondi, di cui può usufruire per tutte quelle spese che non vengono coperte dalla macchina amministrativa.
Da una banale cena di lavoro alla necessità di pagare uno spostamento imprevisto, da un taxi fino a un aereo da prendere al volo.
Spiega infatti ancora il quotidiano:
[…] Per far fronte ad incombenze dell’ultimo minuto, il sindaco ha nel portafogli una carta di credito direttamente collegata alla tesoreria del Campidoglio, seppur con un plafond stabilito. Marino, così come i suoi predecessori, ne ha diretto utilizzo, sia in Italia che all’estero. Nulla di illecito, sia chiaro. Spetta però al sindaco farne buon uso. È proprio su questo che i Cinque Stelle vogliono vedere chiaro, allarmarti da indiscrezioni. Una, soprattutto, farebbe riferimento a una lussuosa location nel centro di Roma, un hotel con annesso ristorante con vista Colosseo che tornerebbe di frequente nelle uscite del primo cittadino. E in quell’albergo, sarebbero stati spesi sino a 1500 euro al mese.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
UN FIUME DI DENARO, TRA PROVENTI DELLE ISCRIZIONI E FINANZIAMENTI PUBBLICI
Per Susanna Camusso è quasi un’ossessione. Da quando si è insediata al vertice della Cgil (il 3 novembre 2010) si è arrampicata 67 volte su palchi di ogni ordine e grado per invocare trasparenza.
La leader del più grande sindacato italiano se ne è poi però puntualmente dimenticata man mano si avvicinava la fine dell’anno e il momento per la Cgil di fare due conti sui contributi degli iscritti rastrellati nei dodici mesi.
Sì, perchè il sindacato di corso d’Italia, che non è tenuto a farlo per legge, si guarda bene dal pubblicare un bilancio consolidato: come del resto i cugini di Cisl e Uil, si limita a mettere insieme in poche paginette i numeri che riguardano la sola attività del quartier generale romano.
Spiccioli, rispetto al vero giro di soldi delle confederazioni, che negli anni si sono trasformate in apparati capaci di lucrare pure su cassintegrati e lavoratori socialmente utili (nell’ultimo anno l’Inps ha versato a Cgil, Cisl e Uil 59,4 milioni di trattenute su ammortizzatori sociali)
«I sindacati hanno un sacco di soldi», si è lamentato nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che non li ama davvero.
Diversi recenti episodi di cronaca confermano che di denari nei corridoi delle sedi sindacali ne girano parecchi. E che il loro uso è molto spesso un po’ troppo disinvolto.
Ai primi di novembre 2014 ha mollato di colpo il suo incarico il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: nel palazzo circolava un dossier dove si documentava l’impennata del suo stipendio dai 79 mila euro precedenti la nomina ai 336 mila del 2011.
E quest’estate una mail di un dirigente della Cisl ha alzato il velo sulla retribuzione d’oro di alcuni suoi colleghi capaci di mettere il cappello su più incarichi: il presidente del patronato Inas-Cisl, Antonino Sorgi, per esempio, nel 2014 ha portato a casa 77.969 euro di pensione, più 100.123 per l’Inas e altri 77.957 per l’Inas immobiliare.
I soldi dunque li hanno. Ma sapere quanti è quasi impossibile.
I veri bilanci dei sindacati sono uno dei segreti meglio custoditi del Paese.
Loro si rifiutano di fornire dati esaustivi. E chi conosce le cifre preferisce non esporsi. Così, almeno su alcuni capitoli, bisogna andare per approssimazione. Vediamo.
IL TESORETTO DEI TESSERATI
Lo zoccolo duro delle finanze sindacali è la tessera, che ogni iscritto paga con una piccola quota dello stipendio di base (o della pensione).
Nei bilanci delle tre confederazioni sono indicati complessivamente 68 milioni 622 mila 445 euro e 89 centesimi. Ma è una presa in giro bella e buona.
Si tratta infatti solo delle quote trattenute dalle holding.
Per avvicinarsi alla cifra vera bisogna seguire un altro percorso. Cgil, Cisl e Uil dichiarano di rappresentare tutte insieme 11 milioni 784 mila e 662 teste (che scendono in picchiata quando è il momento di versare i contributi alla Confèdèration Europèenne des Syndicats, dove si paga un tanto per iscritto).
I sindacati chiedono per l’iscrizione lo 0,80 per cento della retribuzione annua ai lavoratori attivi e la metà ai pensionati.
Conoscendo la ripartizione degli iscritti tra le due categorie, gli stipendi medi dei dipendenti italiani (25.858 euro lordi, secondo l’Istat) e le pensioni medie (16.314 euro lordi, per l’Istat), è dunque possibile fare il conto.
La Cgil dovrebbe incassare 741 milioni di euro e rotti (loro ammettono poco più della metà : 425 milioni).
Alla Cisl si arriverebbe a 608 milioni (in via Po parlano di 80 milioni circa).
E la Uil intascherebbe 315 milioni (in via Lucullo ridimensionano a un centinaio di milioni).
Solo le tessere garantirebbero dunque quasi 1,7 miliardi.
Ora: è possibile che i calcoli de “l’Espresso” siano approssimati per eccesso, se si considerano il mix degli iscritti (full-time, part-time, stagionali); la durata del versamento, non sempre ininterrotto; l’incidenza di eventuali periodi di cassa integrazione.
Ma una cosa è certa: il tesoretto delle tessere non vale solo i circa 600 milioni e spicci che dicono Cgil, Cisl e Uil.
Secondo quanto “l’Espresso” è in grado di rivelare, infatti, nell’ultimo anno solo l’Inps ha trattenuto dalle pensioni erogate, e girato a Cgil, Cisl e Uil, 260 milioni per il pagamento della tessera sindacale.
Una cifra alla quale va sommata la quota-parte di competenza delle confederazioni sui 266 milioni che l’Inps incassa da artigiani e commercianti e poi trasferisce alle organizzazioni dei lavoratori per la tassa di iscrizione.
Già con queste voci si arriva vicino alla somma totale ammessa da Cgil, Cisl e Uil. I conti dunque non tornano.
Fin qua abbiamo comunque parlato di soldi di privati e quindi di affari dei sindacati e di chi decide di finanziarli (anche se Cgil, Cisl e Uil non sempre giocano pulito: una serie di meccanismi impone a chi straccia la tessera di continuare a versare a lungo il suo obolo).
Poi c’è, però, tutto il capitolo dei quattrini pubblici, dove la trasparenza non dovrebbe essere un optional.
In prima fila si trovano i Caf, i centri di assistenza fiscale che aiutano i cittadini per la dichiarazione dei redditi (e intanto fanno proselitismo): in teoria sono cosa a parte rispetto ai sindacati, ma il legame è strettissimo.
La legge di Stabilità 2011 ha tagliato i loro compensi. Così piangono miseria, tanto più oggi con l’arrivo della dichiarazione precompilata, che toglierà loro clienti.
Ma che presidino un business ricchissimo lo dimostra un fatto: per scardinare il loro monopolio è dovuta intervenire, il 30 marzo del 2006, la Corte di Giustizia Europea, che ha imposto al governo italiano di consentire la presentazione dei modelli 730 anche a commercialisti, esperti contabili e consulenti del lavoro.
All’Agenzia delle Entrate dicono che su 19 milioni, 41 mila e 546 dichiarazioni 2014 quelle passate dai Caf sono più di 17,6 milioni (il 92,6 per cento).
Siccome i centri di assistenza incassano dallo Stato 14 euro per ogni dichiarazione (e 26 per i 730 presentati in forma congiunta dai coniugi) e il 45 per cento del settore è appannaggio dei sindacati è facile calcolare il loro giro d’affari: se anche le dichiarazioni che compilano e presentano fossero tutte singole (e così non è) si arriverebbe a più di 111 milioni.
In questo caso, i dati ufficiali del ministero dell’Economia non si discostano troppo dalle stime: dicono che nel 2014 il Caf della Cgil ha incassato 42,3 milioni di euro (oltre ai contributi volontari della clientela), quello della Cisl 38,6 milioni e quello della Uil 15,5 milioni.
Ai quali vanno sommati i 20,5 milioni che l’Inps ha versato nell’ultimo anno ai Caf confederali per i modelli 730 dei pensionati.
E gli ulteriori 33,9 milioni sborsati sempre dall’istituto presieduto dal professor Tito Boeri a favore dei Caf confederali per la gestione di servizi in convenzione (dalle pratiche relative agli assegni di invalidità civile a quelle dell’Isee, l’indicatore per l’accesso alle diverse prestazioni assistenziali).
SOLO DALL’INPS 423 MILIONI
Poi ci sono i patronati, che forniscono gratuitamente servizi di assistenza a lavoratori e pensionati per prestazioni di sicurezza sociale e vengono poi rimborsati dagli istituti di previdenza.
Secondo la “Nota sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato”, messa a punto da Giuliano Amato su incarico dell’allora premier Mario Monti, solo nel 2012 l’Inps ha versato loro 423,2 milioni di euro (quattrini esentasse, per giunta, in base a una logica imperscrutabile).
Secondo quanto risulta a “l’Espresso”, a fare la parte del leone sono stati Inca-Cgil (85,3 milioni di euro), Inas-Cisl (65,5 milioni) e Ital-Uil (31,2 milioni).
«Sembra evidente che il funzionamento dei patronati non comporti un finanziamento pubblico, sia pur indiretto, delle associazioni o organizzazioni promotrici (i sindacati, ndr)», ha scritto Amato nella sua relazione.
Poi però lo stesso Dottor Sottile si è sentito in dovere di aggiungere una postilla: «C’è per la verità un’unica disposizione (non legislativa, ma statutaria) che può essere letta in questa chiave e cioè quella secondo cui, nel caso di scioglimento dell’ente (il patronato, ndr), è prevista la devoluzione dell’intero patrimonio di quest’ultimo in favore dell’organizzazione promotrice. Al di la di ciò…».
Ma come sarebbe a dire “al di la di ciò”?
Stefano Livadiotti
(da “L’Espresso”)
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Settembre 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA BRUTTA FIGURA DELLA LEGA IN REGIONE LOMBARDIA: COSTRETTA A MODIFICARE GLI EMENDAMENTI TANTO SBANDIERATI CHE VOLEVANO REGOLARE L’ACCESSO ALLA FORMAZIONE
In Lombardia, la Lega costretta al dietrofront sui corsi obbligatori per stranieri in cerca di lavoro che
non dimostrano di conoscere l’italiano e sul tetto degli alunni stranieri nelle classi.
I due emendamenti presentato dal Carroccio alla nuova legge lombarda sulla scuola sono stati profondamenti modificati.
Quello sui corsi d’italiano su proposta dell’assessore regionale alla Scuola e Formazione Valentina Aprea di Forza Italia prevede che il test d’italiano avrà solo valore valutativo e non selettivo.
Nel testo della legge la parola corso è stata cancellata e sostituita dalla frase “la Regione assicurerà interventi per facilitarne l’apprendimento”, per gli stranieri che non superassero il test d’italiano e volessero iscriversi ai corsi di formazione per trovare un lavoro.
L’emendamento che chiedeva, invece, alla giunta regionale di sollecitare il governo ad aumentare i controlli sul rispetto del tetto degli alunni stranieri nella classi è stato trasformato in un ordine del giorno che si limita a impegnare la giunta a “dare corso d’intesa con il governo e con gli enti locali a politiche di integrazione che permettano di dare puntuale attuazione alla normativa nazionale che prevede che la ripartizione degli alunni venga effettuata evitando la costituzione di classi in cui risulti predominante la presenza di alunni stranieri”.
Con le modifiche introdotte anche su richiesta dell’opposizione di centrosinistra alla fine il primo emendamento è stato votato all’unanimità dal Consiglio regionale della Lombardia. Mentre l’ordine del giorno con il solo no del Movimento Cinque stelle.
Una vera dèbacle per la Lega che voleva fare della scuola una seconda crociata contro gli stranieri dopo le novità introdotte la scorsa settimana dalla nuova legge sul turismo.
Che, seppur modificata dopo un fiume di polemiche, non prevede più multe o sospensioni della licenza per gli albergatori che ospitano migranti, ma solo penalizzazioni.
“Quello della Lega è più di un passo indietro, è un boomerang – ha commentato con soddisfazione il Pd Enrico Brambilla – Anzichè una barriera all’ingresso abbiamo messo un aiuto concreto per chi ha desiderio di lavorare e integrarsi”.
Dello stesso avviso il grillino Gianmarco Corbetta: “Un emendamento discriminatorio della Lega si è trasformato dopo la riscrittura imposta dall’assessorato in una misura che aiuta l’integrazione con un amento degli investimenti per la Regione”.
(da “La Repubblica”)
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