Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
NELLA MEMORIA IL ROGO DI PRIMAVALLE, IL BARBARO OMICIDIO DEI SUOI DUE FRATELLI… E UN ASSASSINO PROTETTO DALLA POLITICA
“Sono deluso e arrabbiato. A 44 anni dalla strage che ha provocato la morte dei miei fratelli (nel rogo di Primavalle morirono i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, figli dell’allora segretario della locale sezione dell’ Msi, ndr), ci sono ancora procedimenti aperti. Non c’è una sentenza definitiva che individui i mandanti. Non c’è mai stata la giusta condanna degli assassini di Virgilio e Stefano. E sono offeso dalla politica che ha assunto e pagato Achille Lollo”.
Lo dice Giampaolo Mattei al settimanale OGGI dopo la scoperta che Lollo (“Fu lui a versare benzina sotto la nostra porta”) firma articoli per un sito registrato a nome di Alessandro Bianchi, stretto collaboratore di Alessandro Di Battista.
“Alessandro Di Battista mi ha telefonato — sostiene -, scusandosi. Mi ha detto che Bianchi ‘è un ragazzo’. Che non sapeva del passato di Achille Lollo. Che lui non sapeva del sito di Bianchi”.
Conclude Mattei: “Le telefonate di scuse non mi servono… Achille Lollo è un uomo libero, può fare il giornalista, l’opinionista… D’altronde tutti gli assassini degli Anni di Piombo oggi sono professori e intellettuali. Sono stati accolti da varie associazioni e lavorano e vivono bene nonostante gli ergastoli mai scontati. Non sono loro a infastidirmi ma i politici che hanno permesso questo, che hanno dimenticato le vittime premiando i carnefici. Oggi — conclude — c’è il ‘non so’ del Movimento 5 stelle, ieri c’era l’associazione Soccorso Militante Rosso di Dario Fo e Franca Rame”.
Ma chi è Achille Lollo? La sua storia si intreccia con il rogo di Primavalle, che si consumò il 16 aprile 1973. Quel giorno in via Bernardo da Bibbiena andò a fuoco l’appartamento di Mario Mattei, spazzino e segretario della sezione MSI di zona.
Due dei figli, Virgilio di 22 anni, militante missino, e il fratellino Stefano di 10 anni morirono carbonizzati, non riuscendo a gettarsi dalla finestra.
Il dramma avvenne davanti ad una folla che si era accumulata nei pressi dell’abitazione, e assistette alla progressiva morte di Virgilio, rimasto appoggiato al davanzale, e di Stefano, scivolato all’indietro dopo che il fratello maggiore che lo teneva con sè perse le forze.
Gli attentatori lasciarono sul selciato una rivendicazione della loro azione: “Brigata Tanas — guerra di classe — Morte ai fascisti — la sede del MSI — Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria”.
PotOp depistò le indagini per salvare i suoi tre militanti Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo dopo averne ottenuto la confessione.
Molti intellettuali si schierarono a favore dei tre e di una teoria del complotto approntata ad arte per accusare altri e favorire gli indagati. Franca Rame inserì il nominativo di Lollo in Soccorso Rosso Militante, assicurandogli denaro e amici a cui scrivere.
Il primo processo si concluse con un’assoluzione per insufficienza di prove. Il secondo con la condanna per incendio doloso ed omicidio colposo, essendo maturata nella corte la convinzione che i tre non volessero uccidere i Mattei ma che la situazione gli era sfuggita di mano quella notte.
In Cassazione le accuse vennero confermate. La pena si estinse per prescrizione, trattandosi di delitti colposi.
E a quel punto Lollo ammise in un’intervista al Corriere della Sera nel febbraio 2005 che le cose erano andate come la giustizia aveva già appurato.
Lollo aggiunse che a partecipare all’attentato furono in sei, i tre condannati più altri tre di cui fece i nomi.
Inoltre ammise di aver ricevuto aiuti dall’organizzazione per fuggire. Ma le successive inchieste nei confronti dei presunti mandanti con l’accusa di strage furono chiusi.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
VIAGGIO TRA I DIPENDENTI ALITALIA CHE PENSANO A RICICLARSI: “FACCIO LE PULIZIE, QUI NON C’E’ SPERANZA, LE FARO’ ALTROVE”
Mentre ancora non si spegne la speranza di un salvataggio in extremis dell’Alitalia da parte del
governo, con la nazionalizzazione, tra i dipendenti a Fiumicino spunta la tentazione di «riciclarsi», di rimettersi in gioco sul mercato. Anche in settori diversi da quello del trasporto aereo.
Marco, 47 anni, assistente di volo, due figli di 8 e 14 anni, una moglie che svolge la sua stessa professione, non ha dubbi: «Può sembrare strano, ma preferisco andare a fare il magazziniere in un supermercato a 1200 euro al mese rispetto ai 2800 che guadagno oggi come assistente di volo, piuttosto che accettare un piano di tagli che mi umilia e mi avvelena la vita».
È già successo a un suo collega, il quale dopo la crisi del 2008 non è stato reintegrato dalla cassa integrazione.
«È stato costretto a vendere la casa e ha trovato posto in un supermarket, io sono pronto a fare altrettanto perchè non mi posso certo permettere di rimanere a spasso con due bambini da mantenere e la moglie che si trova nelle mie stesse condizioni. Ma mi creda non siamo pentiti di aver votato “No” al referendum perchè ormai non ne potevamo più. Da quasi dieci anni è uno stillicidio di crisi, inciuci e tagli che non hanno portato niente di buono. Credo sia arrivato il momento di guardare la vita con maggiore realismo: il management che si è succeduto negli anni ha fallito, i nostri diritti sono stati calpestati e non era più tollerabile che ci piegassimo a scelte industriali inconcludenti. Basta essere presi in giro».
Insiste molto sull’importanza di «essere rispettati» anche Andrea, 51 anni, pilota da 24, padre di due figli di 17 e 21 anni.
«Dal 2008 sono stato demansionato due volte, ho anche accettato sedi periferiche, a Milano e Palermo. E che cosa ho concluso? Ho speso più soldi di quelli che ho guadagnato pur di essere in qualche modo vicino alla mia famiglia. Tutti ci considerano una classe di privilegiati, pensano che facciamo la bella vita sempre in viaggio, ma non immaginano i sacrifici che dobbiamo sostenere per conciliare lavoro e famiglia».
Andrea rivela anche disagi e difficoltà di carattere psicologico: «Per riprendermi dal demansionamento professionale sono persino finito in psicoterapia. Sinceramente ho meno paura del commissariamento che del programma industriale dell’azienda: meglio un futuro incerto ma chiaro, piuttosto che un papocchio com’era l’accordo appena bocciato dal referendum. Nel lavoro, come nella vita, si deve scendere a compromessi, ma c’è un limite a tutto: sotto un certo livello non si può scendere. E in Italia lo abbiamo già fatto troppe volte. Noi piloti avremo probabilmente più opportunità degli altri dipendenti a ricollocarci presso altre compagnie, ma penso ancora all’Alitalia come a una grande famiglia e confido nella possibilità di buone opportunità anche per gli altri lavoratori».
L’ansia sul futuro non riguarda solo i dipendenti Alitalia ma anche quelli dell’indotto, le stime raccontano di un rapporto uno a quattro: a fronte dei 12.500 lavoratori della compagnia aerea ce ne sono altri 40 mila collaterali.
Come Angelica, 53 anni, da 20 addetta alle pulizie uffici Alitalia per conto di un’impresa esterna.
«Noi non abbiamo votato, ma se avessimo potuto avrei scelto il “No”. Tanto questa dirigenza, come le precedenti, non ha dimostrato di essere in grado di risolvere i problemi. Io dopo il 2008 sono stata in cassa integrazione due anni e mezzo e mio figlio, che ha 33 anni e fa le pulizie a bordo degli aerei Alitalia, è appena finito in solidarietà . Sono tempi duri e non si profila niente di buono. Se non ho paura di perdere il posto? Certo che ce l’ho, ma è talmente oscillante che tanto vale ricominciare da capo. Sa qual è il vero problema degli amministratori di Alitalia? Guardano solo al proprio tornaconto senza cambiare nulla: la musica è sempre la stessa, cambiano solo i cantanti».
(da “La Stampa”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO: “A KHAN SHEIHOUN LO STESSO GAS USATO PER LA STRAGE DI GOUTHA NEL 2013, ORDINE ARRIVATO DA ASSAD”
L’Intelligence francese è giunta alla conclusione che le forze di Bashar al-Assad hanno condotto l’attacco con gas Sarin il 4 aprile a Khan Sheihoun.
Nell’attacco morirono 85 persone, quasi metà bambini. Parigi è convinta che l’ordine sia arrivato da Assad stesso o dal suo stretto entourage.
L’attacco aveva provocato la reazione americana, con il bombardamento della base da cui erano partiti i cacciabombardieri, Al-Shayrat. I missili Tomahawk avevano distrutto una ventina di jet del regime.
Analisi dei campioni di terreno e di sangue
Il documento di sei pagine redatto dai servizi francesi, con l’aiuto di quelli Paesi alleati, spiega che la convinzione è stata raggiunta attraverso l’analisi di varie prove sul campo e soprattutto su campioni di terreno prelevato vicino ai crateri provocati dall’impatto dei missili che trasportavano le sostanze chimiche e dall’esame medico dei prelievi di sangue delle vittime.
La sostanza rivelatrice
I chimici hanno trovato tracce di hexamine, uno dei componenti del Sarin, prodotto dall’industria chimica siriana e già rinvenuto nei campioni prelevati dopo la strage nel Ghouta del 2013, quando morirono oltre mille persone.
Dopo il massacro un accordo internazionale convinse il regime a distruggere tutti gli stock di armi chimiche, comprese 1300 tonnellate di Sarin.
Secondo l’Intelligence occidentale, però, 3 tonnellate sarebbero rimaste nelle mani delle forze armate siriane.
Ordine dall’alto
Secondo Parigi solo Assad, o il suo stretto entourage, ha l’autorità per ordinare un attacco con armi chimiche. La responsabilità finale ricadrebbe quindi sul presidente siriano.
(da “La Stampa”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
“TI HANNO STUPRATA? E PERCHE’ NON HAI SOLO CAMBIATO QUARTIERE INVECE CHE FUGGIRE?”… UNA VERA E PROPRIA INQUISIZIONE, DOMANDE DA TELEQUIZ, ERRORI… MINNITI VUOLE ELIMINARE IL RICORSO AL GIUDICE PERCHE’ NEL 75% DEI RICORSI EMERGE IL DIRITTO DEL PROFUGO ALL’ASILO
«Sei stata violentata? Perchè hai cambiato paese e non quartiere?». M. è una donna eritrea. Sta
raccontando la sua storia alla commissione territoriale, una di quelle che decidono quali migranti possono restare in Italia e quali no.
Ha studiato ad Addis Abeba, dove voleva fare il meccanico. «In quel paese si può fare un lavoro da uomo», spiega. Nel 2010 sposa un etiope col matrimonio tradizionale. Ma tradizionale è pure la famiglia di lui, che la rifiuta. Per gli etiopi è e sarà sempre una spia eritrea. Non può proseguire gli studi nè lavorare e così decide di partire e raggiungere la sorella in Sudan. Da sola.
Ed è proprio a Khartum che il cognato la violenta: «Se avessi parlato mi avrebbe ucciso», dice. Ha paura di rivolgersi alla polizia e scappa in Libia.
Qui iniziano i dubbi del suo intervistatore. Perchè ha lasciato il Sudan? Khartum è molto grande. Poteva semplicemente cambiare quartiere. Perchè ha deciso di cambiare nazione?
Le linee guida Unhcr consigliano un tono rassicurante e domande pertinenti.
Invece l’audizione per M. diventa un interrogatorio. «Non riesco a capire, perchè ha lasciato suo marito dopo pochi mesi di matrimonio? Perchè non si è sposata ufficialmente prendendo la cittadinanza etiope? Perchè non conosce i motivi dell’arresto di sua madre? In Etiopia la consideravano una spia? E quindi che problema c’era?».
La stupreranno anche il padrone di casa dove lavora come domestica e i trafficanti.
Il tono dell’intervista però non cambia: «Perchè non è rimasta in Libia?». M. arriva finalmente ad Agrigento nel 2013. Un anno dopo la commissione non la riconosce come rifugiata. Consiglia solo di «fare visite mediche». Ci vorranno due anni perchè il tribunale ribalti la decisione.
Si tratta di un caso isolato? Non proprio.
Siamo entrati nel mondo chiuso – e finora inesplorato – delle commissioni che decidono sulle domande di asilo. Abbiamo letto centinaia di pagine di documenti ufficiali.
È venuta fuori una lotteria: domande da telequiz, errori di copia-incolla, una vera e propria inquisizione.
Le donne nigeriane sono spesso vittime di tratta. Le aspettano interrogazioni del tipo: «Anche oggi sono morte cento persone nel Canale di Sicilia, l’altra opzione era fare la prostituta in Libia. Capisce che non ha molto senso che sia venuta in Italia solo perchè glielo ha consigliato un uomo che conosceva da due mesi?».
Quelle del Corno d’Africa scappano da dittatori e guerre endemiche. Subiscono numerose violenze di ogni tipo prima di arrivare in Europa.
Una donna ha visto una collega uccisa dai terroristi nello spiazzo di un supermarket. In commissione le chiedono: perchè è venuta in Italia? «Non esistono posti sicuri in Somalia?».
I profughi dell’Africa occidentale si lasciano alle spalle epidemie e conflitti inter-etnici. Per loro la diffidenza è fortissima.
C’è chi si sente dire: «Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola». Oppure: se tua moglie vive ancora lì, allora il tuo paese è sicuro.
F. ha visto il fratello morire sotto i colpi dei ribelli in Mali. Fuggito dal colpo di Stato, ha superato nell’ordine i militari a caccia di disertori, il deserto algerino, il mare che lo separava dall’Europa. È un sopravvissuto.
Ma non aveva previsto l’ultimo ostacolo, i quiz della commissione. «Come si chiama lo stadio di Goa?», «Non lo so». «E il ponte sul fiume», «Non lo so». «E il fiume?», «Niger».
Il commissario si fida sempre meno. «Quali sono i nomi dei paesi che ha incontrato per andare in Algeria?», «Non so, erano località piccolissime».
Arriva il diniego, soltanto «i positivi segnali di integrazione» lo salvano dall’espulsione e gli consegnano un permesso temporaneo.
L’errore copia-incolla
Gambia, agosto 2013. Un uomo denuncia alla polizia che il fratellastro ha violentato la sorella. In quel paese non è facile denunciare un militare. E infatti non gli credono. Gli amici del fratello lo minacciano di morte. Senza parenti e protezione, scappa in Senegal, Mauritania, Mali e Algeria. Infine riesce a imbarcarsi dalla Libia all’Italia.
La sua odissea non è finita. Per un «clamoroso errore di copia – incolla nella stesura della motivazione», la commissione territoriale gli nega l’asilo.
Infatti nel testo si parla di un cittadino del Bangladesh. Hanno incollato la motivazione di un altro.
Il giudice, dopo dieci mesi, concede lo status di rifugiato e riconosce: «La grave situazione in cui versa il Gambia». Nel complesso, tre anni bruciati a scappare e aspettare.
Le domande si basano spesso sulla credibilità del soggetto intervistato.
La Convenzione di Ginevra parla invece dell’oggetto, cioè il fondato timore di subire una persecuzione in patria.
Da poco si sta imponendo un nuovo criterio, quello dei «positivi segnali di integrazione». Un concetto non definito dal diritto e spesso arbitrario.
Prendiamo il caso di G., che si salva dall’espulsione per un paio di parole in italiano. In un’ora spiega che il padre faceva politica in Costa d’Avorio, nel paese devastato dalla guerra; che è stato ucciso dai sostenitori dell’ex presidente; che tornare lì significa rischiare la vita perchè ci sono aree in conflitto di cui non si parla.
La commissione non gli crede. Citando qualche sito web, dice che la guerra è finita. Il destino sembra segnato.
Tra lui e l’espulsione c’è solo un’ultima domanda. Frequenta corsi? Questa volta non risponde nel dialetto bambara, ma in italiano. È la sua salvezza. Tutto il resto viene rigettato, ma i «positivi segnali d’integrazione» gli valgono un permesso umanitario.
L’integrazione è un criterio soggettivo, ma piace sempre più sia ai tribunali che alle commissioni.
J., per esempio, pur scappando dalla guerra ucraina vive in una bella casa («un appartamento idoneo») e la madre ormai parla italiano. Ha anche fatto politica nel suo paese rischiando la pelle, ma questo non è preso in considerazione.
Alcune risposte sono decisive. Per esempio, quelle alla domanda-chiave: «Cosa teme tornando al suo paese?». Un nigeriano risponde: «Non so cosa potrebbe accadermi» e si auto-condanna all’espulsione.
Poi ci sono decisioni che sembrano già prese. Lo schema è questo: se la tua storia è credibile, allora il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è pericoloso, allora la tua storia è contraddittoria.
Ci sono commissioni che hanno considerato paesi sicuri anche la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi e la Costa d’Avorio in guerra civile.
C’è poi chi ama le domande di controllo. Sono quelle che servono a capire se l’intervistato sta mentendo.
Ma possono diventare un tribunale delle scelte personali: «Perchè è andato a vivere da solo?». Oppure: «Se suo padre era benestante, perchè non l’ha fatta studiare?» E ancora: «Hai avuto altre donne prima di tua moglie?».
Infine ci sono le sottigliezze giuridiche. N. è al centro di una faida in Pakistan. In questo caso le linee guida delle Nazioni Unite dicono che si tratta di un rifugiato. Tuttavia, nota la commissione, non si può parlare esattamente di faida perchè non è un’intera famiglia a volerlo morto ma un singolo membro.
Dinieghi
Nel 2016 le commissioni hanno respinto il 60 per cento dei migranti arrivati in Italia. Per il senso comune è la prova che si tratta di finti profughi. Ma è davvero così?
Secondo il prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale asilo, nel 2014 il 65 per cento dei rifiutati ha presentato ricorso.
E nel 75 per cento dei casi ha vinto. In tre casi su quattro, la magistratura ha ribaltato le decisioni delle commissioni.
Di queste strutture ce ne sono venti in tutta Italia. Ognuna è composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, uno di polizia, un delegato degli enti locali e uno dell’Unhcr. Poi c’è l’interprete, decisivo se il colloquio si svolge in un dialetto africano che nessuno comprende.
L’intervista spesso è condotta da un solo membro, ma nel verbale non è indicato di chi si tratta. Nel 2016, circa 150 persone hanno giudicato 123.600 richiedenti.
C’è chi fa questo lavoro con preparazione e dedizione, ma le decisioni delle commissioni ribaltate dai tribunali hanno creato un contenzioso enorme.
Al Tribunale di Catania, ad esempio, un giudice è stato incaricato di un preciso compito: smaltire 3.200 fascicoli di ricorsi pendenti. Alcuni risalgono al 2012. Se rispettasse la media record di quattro al giorno, finirebbe tra due anni.
Il decreto Minniti – Orlando, recentemente approvato dal Parlamento , affronta il problema dei tribunali intasati cancellando il ricorso in appello.
Si potrà ricorrere solo in Cassazione entro 30 giorni. «Sono norme manifesto di nessuna utilità pratica che creano solo marginalizzazione sociale e costi per un sistema giudiziario già precario», protesta Lorenzo Trucco, presidente dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Si crea così un «diritto processuale civile speciale» basato sulla nazionalità .
Alcune norme sembrano inoltre complicate da applicare.
Per esempio, la videoregistrazione: due-tre ore di audizione da inviare ai giudici in caso di ricorso. Oppure i responsabili dei centri di accoglienza che diventano “pubblici ufficiali” e dovranno gestire le notifiche giudiziarie ai richiedenti asilo. Un’altra novità che ha già suscitato le proteste degli operatori.
(da “L’Espresso“)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DI REPORTER SANS FRONTIERES NEL RAPPORTO ANNUALE: “CON I SUOI ATTACCHI CONTINUI AI GIORNALISTI HA AVUTO UN RUOLO IMPORTANTE NEL LIMITARE LA LIBERTA’ DI STAMPA”… ITALIA RECUPERA 25 POSIZIONI E SALE AL 52° POSTO
Reporter sans frontieres ha pubblicato la classifica 2017 sulla libertà di stampa nel mondo per l’anno 2016.
La prima sorpresa è che il nostro Paese ha guadagnato venticinque posizioni: dal 77° posto dello scorso anno siamo risaliti fino alla cinquantaduesima posizione.
Quindi tutti i geni che nel corso del 2016 hanno rinfacciato a giornali e giornalisti di essere al servizio del regime spiegando (e sbagliando) che è per colpa degli articoli contro una certa parte politica che siamo “al 77° posto della libertà di stampa” ora si trovano in una posizione complicata.
Vale la pena di ricordare ai lettori che il rapporto annuale di Rsf non misura la qualità dell’informazione ma fotografa invece il livello di libertà dei giornalisti di poter fare il proprio lavoro in maniera indipendente senza subire intimidazioni e minacce e la qualità delle leggi a tutela della libertà di stampa.
Inoltre bisogna considerare anche la modalità con cui con cui vengono assegnati i punteggi: i criteri di valutazione sono squisitamente soggettivi perchè RSF si affida al giudizio di alcuni selezionati contatti locali che hanno il compito di giudicare il grado di libertà nei seguenti ambiti: pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza, infrastrutture e abusi.
Questo significa che a parità di punteggio su un dato argomento lo stesso voto non abbia lo stesso valore in Argentina e in Romania.
Dal punto di vista assoluto un 3 dato in Argentina equivale ad un 3 dato in Italia, ma al punto di vista oggettivo dal momento che chi giudica potrebbe non usare lo stesso metro di giudizio ed essere influenzato da fattori locali differenti i due voti non hanno lo stesso valore.
C’è inoltre da considerare che a giudicare il livello della libertà sono i giornalisti stessi (non è noto quali siano), quindi quando ci si lamenta della poca libertà di stampa o del fatto che siamo “in fondo alla classifica” bisognerebbe chiedere conto a chi collabora con RFS di rendere noti i suoi ragionamenti.
Oltre ai fattori qualitativi ci sono anche quelli quantitativi, che sono decisamente più interessanti, si tratta dei casi di omicidio, arresto e intimidazioni ai danni dei giornalisti, ivi comprese le aggressioni e le querele per diffamazione.
Quest’anno il nostro Paese ha totalizzato 26,26 punti (una differenza 2,67 punti rispetto allo scorso anno quando l’Italia aveva totalizzato uno score pari a 28,93) che ci posizionano nei primi posti della “fascia arancione” ovvero in quella che Reporter sans frontieres definisce “problematica”.
Per chi ama le classifiche siamo sotto Argentina e Papua Nuova Guinea e sopra Haiti e Polonia, ma come abbiamo detto poco sopra questi confronti non hanno valore assoluto. Lo si comprende se si prende la classifica 2015 che ci vedeva al 73° posto con un global score pari a 27,94 (più alto è il punteggio peggiore è la situazione).
Perchè siamo così in basso rispetto ai nostri vicini europei?
Perchè — come denuncia Rsf — in Italia ci sono “ancora” sei giornalisti sotto scorta della polizia, ventiquattr’ore su ventiquattro, “perche’ minacciati di morte, dalla mafia o da gruppi fondamentalisti”.
Per Reporter sans frontieres “il livello di violenza contro i giornalisti (intimidazioni verbali e fisiche, provocazioni e minacce) è allarmante, soprattutto nel momento in cui politici come Beppe Grillo, del Movimento Cinque Stelle non esitano a fare pubblicamente i nomi dei giornalisti che a loro non piacciono”.
Grillo è in buona compagnia assieme all’amico Nigel Farage (il Regno Unito è sceso di due posizioni) e a Donald Trump (gli USA passano dal 41° al 43° posto), due leader politici occidentali che come i portavoce del 5 Stelle non esitano a gettare discredito sui media per accreditarsi dinnanzi ai propri elettori come “anti-sistema”. Per Rfs Grillo è un politico che preferisce dedicarsi alla sua attività di blogger che rispondere alle noiose e fastidiose domande dei giornalisti che spesso e volentieri fanno parte della tanto odiata “casta”.
La metodologia di Grillo comprende anche le famose liste di proscrizione dei giornalisti considerati nemici e la proposta di dare vita ad una “giuria popolare per le balle dei media“:
Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa.
Stranamente però a Grillo, che continua a fraintendere il senso della classifica della libertà di stampa, non danno fastidio le interviste apparecchiate senza contraddittorio o il fatto che i gestori della comunicazione dei parlamentari pentastellati concordino con i giornalisti le domande che possono essere poste ai portavoce. E come non ricordare l’eroico consigliere regionale M5S Davide Barillari che qualche mese fa minacciava di farla pagare ai giornalisti.
Il motivo per cui eravamo al 77° posto della classifica della libertà di stampa non è il modo con cui i giornalisti fanno il loro mestiere ma il fatto che ci siano alcuni soggetti, tra i quali anche il partito politico di Beppe Grillo, che vorrebbero impedire ai giornalisti di farlo.
Ora tutti quelli che per un anno intero hanno commentato gli articoli di giornale “sgraditi” dicendo che era quello il motivo per cui eravamo così in basso nella classifica e spiegandoci che nei loro confronti era in atto una vera e propria “persecuzione giornalistica” dovrebbero quantomeno chiedere scusa.
Perchè la “persecuzione” era semmai quella che loro facevano nei confronti dei giornali sgraditi.
Nonostante i loro piagnistei sulla qualità del giornalismo in Italia il nostro Paese ha risalito la classifica.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
IL CINQUESTELLE GALLO CHIEDE AL MINISTERO DI FAR USARE UN MANUALE DI FORMULE PER NON ESSERE COSTRETTI A STUDIARLE… A QUANDO IL 6 POLITICO?
La proposta è nata come petizione su Change.org: lasciare utilizzare un formulario scientifico nella
prova di maturità . A lanciarla uno studente pistoiese Francesco Erpichini, aiutato dal suo prof di matematica Paolo Palumbo dell’Enrico Fermi di San Marcello. Ma adesso è arrivata persino in Parlamento.
Racconta oggi il Corriere della Sera:
La petizione ha avuto poco meno di mille firme, che era l’obiettivo fissato dallo studente e dal suo prof. Ma la questione è approdata comunque in commissione cultura alla Camera portata dal deputato M5S Luigi Gallo, che ne ha fatto oggetto di una interrogazione alla ministra.
La tesi dei Cinque Stelle riprende quella della petizione: negli altri licei si usano vocabolari e manuali tecnici, allo scientifico solo la calcolatrice scientifica mentre sono vietati altri strumenti che si possano collegare in rete.
Ma la risposta del sottosegretario Vito De Filippo alla possibilità di alleggerire un po’ il peso della maturità scientifica è no. Niente bigino.
«Le conoscenze memorizzate diventano vive — scrive De Filippo — e, quindi, si trasformano in competenze solo attraverso l’attivazione del senso, della logica e del ragionamento, che sono il cuore dell’apprendimento.
Selezionare «cosa» ricordare è ciò che tutte le persone competenti fanno nel loro campo di interesse tramite una «mappa concettuale» e la costruzione di una gerarchia di contenuti; si tratta di un’operazione sofisticata e di grande valore culturale ed educativo, che necessita come nessun’altra del supporto e della guida del docente».
Chissà perchè, la questione posta dai 5 Stelle ha suscitato ironie come quella di Massimo Gramellini, sempre sul Corriere:
Quel briciolo di memoria che mi rimane basta a ricordarmi che la guerra al nozionismo e la sfiducia nelle autorità («Uno vale uno») non le ha inventate Grillo, ma il Sessantotto, che tra i suoi numerosi meriti ebbe però il demerito gigantesco di umiliare il talento e lo sforzo in nome di una falsissima idea di uguaglianza. Se la memoria non mi inganna, il prossimo passaggio sarà il 6 politico. Potrebbero chiamarlo voto di cittadinanza.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
SOLO ALTRI SEI MESI DI VITA… SCONTRO CON RENZI CHE NON VUOL SENTIRE PARLARE DI FALLIMENTO
Trecento milioni di euro per sei mesi di commissariamento, non di più. E’ quanto è disposto a spendere il governo per Alitalia, dopo il no dei lavoratori al piano di salvataggio preparato da azienda, esecutivo e sindacati.
Oltre alla spesa per gli ammortizzatori sociali, s’intende, da quantificare a seconda di come andrà .
Lo shock al governo è ancora forte e i 300 milioni — contenuti in ‘manovrina’ inizialmente come garanzia dei soci se il piano di salvataggio fosse stato approvato al referendum aziendale — non si sa ancora esattamente come spenderli, adesso che il piano è stato bocciato.
Ma all’indomani del voto il destino di Alitalia sembra segnato.
Almeno secondo il ministro Carlo Calenda. Non la pensa come lui Matteo Renzi.
Ma andiamo con ordine.
Dice Calenda al Tg3: per Alitalia ci sarà un “breve periodo di transizione straordinaria e poi o vendita parziale o totale degli asset oppure fallimento”.
Qualche minuto dopo parla il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato. Fallimento? Manco per sogno, è il suo ragionamento.
“Non lasceremo sole le famiglie – dice Rosato – l’impegno del Pd è stare accanto a una grande azienda italiana, va cercata fino in fondo una soluzione. Tante migliaia di lavoratori e un grande indotto non possono essere dispersi: l’Italia che vive di turismo e cultura non può restare senza una compagnia al servizio del sistema Paese. I problemi vengono dal passato, quando la destra non ha accompagnato Alitalia sul mercato nell’accordo con Air France”.
E’ chiaro che il caso Alitalia diventerà campo privilegiato di sfida tra Renzi e Calenda, a confermare i rapporti tesi ormai da tempo tra i due.
Di certo sarà cavallo di battaglia dell’ex premier dopo le primarie del Pd che domenica prossima – stando ai sondaggi – dovrebbero confermarlo alla segreteria del partito.
Ciò che è meno chiaro è come il governo collocherà i 300 milioni di euro per Alitalia, in quali forme.
I 300 milioni sono quelli previsti dalla cosiddetta ‘manovrina’, chiesta dall’Ue quale correzione dei conti pubblici italiani per 3,4 miliardi di euro. Solo che nella manovrina sarebbero serviti come garanzia per i soci, nel caso di approvazione del piano di salvataggio da parte dei dipendenti Alitalia. Ecco il testo:
“Aumento di capitale fino a 300 milioni per Invitalia — il Mef potrà sottoscrivere l’aumento che dovrebbe consentire alla controllata del Tesoro di fornire garanzia pubblica ad Alitalia”.
Adesso che il piano è stato bocciato, dal Tesoro aspettano le indicazioni dei ministri Calenda e Graziano Delrio: il caso Alitalia è principalmente nelle loro mani, con la mediazione di Gentiloni.
Ma per tutta la giornata i renziani hanno atteso le mosse di Calenda, prima di esprimersi. Il ministro prevede un prestito ponte per gestire la fase di emergenza, il “breve periodo di amministrazione straordinaria”.
Ora si tratta di capire come modificare la ‘manovrina’ per usare i 300 milioni in una cornice che nel frattempo è cambiata. Discussione che si annuncia non semplice, viste le tensioni tra Renzi e Calenda: il caso Alitalia dovrà passare in Parlamento, nella discussione sulla manovrina chiesta dall’Ue prevista per maggio.
E poi c’è da vedere se sarà il caso di riaprire una trattativa con la Commissione europea sull’uso di soldi pubblici per Alitalia, già avvenuto in passato. Da Bruxelles lasciano trapelare che Roma potrebbe farlo, essendo passati dieci anni dall’ultimo intervento statale sulla compagnia di bandiera. Ma al governo non si tranquillizzano: il caso Alitalia li ha buttati nel panico.
Perchè tutte le opzioni sul tavolo hanno delle controindicazioni. Anche l’uso dei 300 milioni per far volare gli aerei e non lasciare a piedi chi ha già comprato biglietti Alitalia, magari per le vacanze estive, potrebbe prestare il fianco alle polemiche politiche.
E’ per questo che dal governo ci tengono a sottolineare che l’intervento servirebbe solo a salvaguardare i diritti dei cittadini, non quelli di chi ha rifiutato l’accordo.
E poi 300 milioni potrebbero non bastare, visto che secondo i primi calcoli servono 230 milioni di euro al mese per far volare gli aerei, tra carburante, stipendi, diritti vari e manutenzione.
E ancora c’è il tema degli ammortizzatori sociali: Calenda fa una stima di un miliardo di euro. I 12 mila dipendenti di Alitalia sono una sorta di bomba sociale pronta a esplodere, in caso di fallimento.
Insomma, comunque vada, il governo dovrà mettere mano al portafoglio. Vito Riggio dell’Enac mette in chiaro che potrà rilasciare il certificato di operatore aereo ad Alitalia a patto che venga commissariata “entro 2-3 giorni” e a condizione che ci siano le risorse. Certificato da rinnovare “di mese in mese”, dice.
La strada sembra segnata: commissariamento e fallimento, se non ci sono investitori disposti a rilevare la compagnia.
“Esclusa la nazionalizzazione”, precisa il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, a Sky. Dita incrociate: Alitalia potrebbe finire come Swissair, dicono dal governo facendo riferimento alla compagna svizzera, fallita e poi rinata. Ma il futuro è tutto da scrivere.
In ogni caso, insiste Calenda, “mettere altri miliardi di euro pubblici e mantenere l’azienda in perdita non è il caso: i cittadini non chiedono questo”.
Andrea Boitani, professore alla Cattolica e componente della struttura di missione del ministero delle Infrastrutture, prepara il terreno a quello che sarà . “E’ legittimo aspettarsi il fallimento” di Alitalia, dice all’Adnkronos, perchè “un’azienda privata che non riesce a trovare le risorse per andare avanti deve andare in fallimento”.
Oggi Alitalia “è una compagnia irrilevante rispetto al mercato aereo”, continua Boitani, e anche l’eventuale acquisizione da parte di un’altra compagnia, “sempre possibile”, comporterebbe comunque “un completo smantellamento, sia dal punto di vista dell’occupazione che dei contratti di lavoro”.
L’incontro con Cgil, Cisl e Uil fissato per domani a Palazzo Chigi è stato rinviato a dopo l’assemblea dei soci di Alitalia, convocata per il 27 aprile dal cda della compagnia, ma potrebbe slittare al 2 maggio. Susanna Camusso chiede l’intervento della cassa depositi e prestiti, richiesta che cade nel vuoto.
Alitalia è ormai terreno scivoloso per il governo, un piano inclinato che potrebbe anticipare la fine anticipata della legislatura, ipotesi che Renzi non ha mai veramente messo da parte.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
CHE PAGLIACCIATA: “MI SENTO CITTADINA EUROPEA, NON VOGLIO USCIRE DALL’EURO, CHIEDO SOLO DI RINEGOZIARE LE CONDIZIONI CON LA UE”… DOPO CHE DUE TERZI DEI FRANCESI SI SONO DICHIARATI CONTRO L’USCITA DALLA UE, LA CAPOCOMICA CAMBIA IDEA, AVVISATE I CAZZARI NOSTRANI
«Mi sento francese ma anche europea»: non appena arrivata al ballottaggio nelle elezioni
presidenziali francesi Marine Le Pen cambia posizione su euro ed Europa.
Un po’ come sono destinati a fare tutti quelli che vogliono concorrere alle elezioni per vincerle e non per partecipare, la candidata del Front National apre la sua campagna per l’occupazione del centro politico moderando la sua posizione.
Un passo obbligatorio dopo i 25 premi Nobel che l’hanno sconfessata sulla moneta unica e sull’Europa.
E così nell’intervista a TF1 riportata da Bloomberg Marine ha detto persino che comprende le preoccupazioni di molti francesi sul fatto che i loro risparmi potrebbero perdere valore in caso di ritorno al franco. Anche se la sua piattaforma di proposte prevedeva l’uscita dall’euro, nei discorsi e nelle interviste Marine ha ammorbidito le sue posizioni, anche perchè i sondaggi hanno mostrato che i due terzi dei francesi non ha nessuna intenzione di tornare alla valuta nazionale; e nella performance televisiva ha anche accuratamente evitato gli attacchi all’Unione Europea che erano stati il leitmotiv della campagna
«Io non sono nemica dell’Europa», ha detto la Le Pen, «Mi sento in primo luogo francese ma anche europea», ha continuato.
Poi è tornata ad affermare che l’euro è stato un peso per l’economia francese che ha portato a un’esplosione dei prezzi, ma ha accuratamente evitato di rispondere alle domande sulla Frexit, sostenendo semplicemente che voleva negoziare con l’Unione Europea la possibilità di recuperare un maggiore controllo sulla sua economia e poi validare i risultati con un referendum.
«Voglio convincere l’Unione europea a negoziare», ha detto.
«Qualunque cosa accada, i francesi avranno l’ultima parola».
Eppure i sondaggi che non hanno sbagliato nulla al primo turno e adesso incoronano Macron al ballottaggio dicono che il programma europeo è la palla al piede di Marine. “La parte economica del suo programma spaventa conservatori e pensionati che invece apprezzano le sue parole su identità e immigrazione”, ha detto a Bloomberg Nicolas Lebourg, ricercatore di scienze politiche presso l’Università di Montpellier.
D’altro canto la candidata del Front National alle presidenziali francesi per sostenere la sua tesi ha citato più volte gli autorevoli pareri di alcuni premi Nobel per l’economia; l’argomento è semplice “se lo dicono anche i premi Nobel” che si può uscire dall’euro o che stare nell’euro non conviene allora non dobbiamo perdere altro tempo e abbandonare la moneta unica.
Alla vigilia del voto però venticinque (25) premi Nobel hanno scritto a Marine Le Pen per condannare «questa strumentalizzazione del pensiero economico nel quadro della campagna elettorale francese».
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 26th, 2017 Riccardo Fucile
STOP AI FONDI PER IL MURO CON IL MESSICO… E UN ALTRO GIUDICE BLOCCA IL DECRETO CONTRO LE CITTA’ PRO-MIGRANTI
Un giudice federale di San Francisco ha bloccato il decreto con il quale Donald Trump avrebbe voluto togliere fondi alle grandi città che accolgono e proteggono gli immigrati.
Per il presidente Usa si tratta di un nuovo stop giudiziario sul tema dell’immigrazione, dopo il freno al “Muslim ban”, la norma che impediva l’ingresso nel Paese alle persone provenienti da sei paesi a maggioranza musulmana.
In questo caso, il provvedimento del giudice riguarda l’iniziativa sulle cosiddette ‘città santuario’, le grandi metropoli come New York e Los Angeles alle quali l’amministrazione Trump ha minacciato tagli finanziari se non collaborano con le autorità federali circa la stretta sull’immigrazione illegale.
A presentare ricorso contro il decreto sono state due contee californiane, San Francisco e e Santa Clara, che avrebbero rischiato di perdere miliardi di dollari.
Tali contee “hanno un forte interesse nell’evitare l’incostituzionale applicazione a livello federale e la significativa incertezza di bilancio che è emersa dal minaccioso linguaggio dell’ordine”, ha sottolineato il giudice William H. Orrick nel motivare la sua decisione.
La ‘guerra’ alle città santuario dichiarata da Trump era stata ribadita nelle scorse settimane dal responsabile della Giustizia, Jeff Session, con un duro monito rivolto alle municipalità : o collaborano con gli agenti federali e seguono le indicazioni dell’amministrazione, o perderanno i fondi federali.
Da parte dell’amministrazione era arrivata anche la minaccia di recuperare le somme già versate.
Ora la decisione del giudice fa infuriare la presidenza, che annuncia già un controricorso in Appello.
Fin dalla campagna elettorale Trump aveva messo nel mirino Stati e comunità locali che riconoscono la residenza agli immigrati irregolari, evitando loro il rimpatrio forzato nel Paese d’origine. Con la residenza viene riconosciuto anche l’accesso ai servizi sanitari, sociali e all’istruzione per i minori.
E poche ore dopo a Trump arriva un altro stop che brucia.
Non sono entrati nel budget statale i fondi per la costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico che tanto piace alla Casa Bianca.
Anche se il presidente Usa aveva garantito che la costruzione sarebbe stata tutta a carico dei messicani, si parla della richiesta ufficiale al Congresso da parte del ministero competente di circa un miliardo di dollari, per le prime 62 miglia di muraglia, poco più di 100 chilometri.
Un pezzettino iniziale: 62 miglia (esattamente 100 chilometri), sono la tratta per la quale il ministero competente (Department of Homeland Security) richiederà un miliardo di dollari.
Al momento , “i finanziamenti non saranno inseriti nella manovra di aggiustamento di bilancio che deve essere approvata entro la mezzanotte di venerdì”, ha confermato a Fox News la consulente del presidente Usa, Kellyanne Conway, ma il muro rimane una “priorità molto importante”.
Il progetto si sarebbe bloccato perchè i parlamentari democratici si sono rifiutati di accettare uno scambio in stile “io ti finanzio l’Obamacare tu dai il via libera ai finanziamenti per il muro”.
Secondo il direttore del bilancio della Casa Bianca Mick Mulvaney, intervistato dalla Cnn, la Casa Bianca aveva offerto di includere le sovvenzioni della riforma sanitaria dell’ex presidente se i democratici avessero accettato di finanziare il progetto al confine con il Messico.
“Abbiamo detto ‘ti compriamo un dollaro per ogni dollaro messo sui mattoni del muro, ma hanno detto di no”, così Mulvaney.
(da “La Repubblica”)
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