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CHI LAVORA NON TORNA IN CARCERE

I DETENUTI CON UNA OCCUPAZIONE QUASI SEMPRE NON RIPETONO IL REATO

I rifiuti erano l’oro della camorra, adesso sono il tesoro dei detenuti del carcere napoletano di Secondigliano.
Ogni mattina trenta reclusi selezionano le bottiglie di plastica, di vetro e le lattine di alluminio raccolte all’interno del penitenziario e in alcuni quartieri della città .
Nelle stesse ore anche dietro i cancelli di Rebibbia avviene l’identica scena. Frammenti di vita quotidiana tra condannati, alcuni con sulle spalle la sentenza “fine pena mai”, che così ottengono dignità  e un’occasione di riscossa.
Lavorare dovrebbe essere un loro diritto, non l’eccezione: la strada maestra di quella rieducazione che per la Costituzione resta lo scopo della prigione.
Una missione ignorata: a sei mesi dal suo discorso al Parlamento, Giorgio Napolitano è tornato a chiedere misure urgenti per migliorare le condizioni dei reclusi. E la sentenza della Corte Europea che ha condannato il nostro sistema carcerario impone di dare risposte entro poche settimane. Offrire un impiego ai detenuti in un paese alle prese con una disoccupazione spietata può apparire come un’utopia, in realtà  si tratta di una prospettiva sempre più apprezzata.
Anche perchè è l’unica che porta quasi sempre a un reale reinserimento quando si esce dalle mura dei penitenziari.
Più lavoro meno reati
Otto volte su dieci chi ha lavorato durante la detenzione non commette più crimini dopo la scarcerazione. Un risultato doppiamente positivo: quelli che non hanno questa opportunità , nell’80 per cento dei casi ricominciano a vivere di reati. Insomma, è la soluzione ideale. Ma per pochi. «Solo il 5 per cento lavora», spiega a “l’Espresso” Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, «purtroppo il livello è ancora molto basso ma puntiamo a raddoppiarlo per il prossimo anno. Contiamo di creare duemila nuovi posti aumentando le assunzioni da parte delle cooperative sociali e delle aziende private e grazie alle convenzioni con gli enti locali per i lavori di pubblica utilità . Infine, potremo garantirne altri con gli impieghi per la manutenzione all’interno degli istituti di pena». Le statistiche sono spietate. Nelle carceri vivono 61.449 persone, ma soltanto 14 mila hanno una qualche occupazione. Di questi, solo un quinto ha un vero contratto con aziende o cooperative: più di novemila si occupano delle attività  interne ossia fanno i portantini, i magazzinieri, i cuochi. Dieci anni fa la situazione era di gran lunga peggiore: i reclusi con un impiego retribuito erano 644. A farli quadruplicare è stata una legge speciale, “la Smuraglia”, che concede sgravi fiscali e contributivi agli imprenditori che li ingaggiano.
Nel 2013 è stata un’opportunità  colta da 150 tra aziende e coop, che hanno assunto 1280 detenuti.
Si sono creati posti in tutti i settori: dall’agricoltura al tessile, dalla ristorazione all’informatica. Una ditta metalmeccanica di Bologna ha selezionato nell’istituto cittadino ben 16 part time.
Eppur si muove
Il fondo per incentivare i contratti negli ultimi due anni ha avuto a disposizione 20 milioni, calati a cinque nel 2014. Briciole, rispetto alla massa di persone costrette all’inattività  nelle celle, che restano comunque una risorsa importante in una stagione di tagli feroci. Altre iniziative sono in cantiere.
Rita Ghedini del Pd ha appena presentato un disegno di legge che aumenta i vantaggi per chi assume i detenuti, con una previsione di spesa di quattro milioni annui. È già  operativo invece il protocollo firmato tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Legacoopsociali e Confcooperative. «L’accordo ha permesso di avviare nuove esperienze», spiega Giuseppe Guarini portavoce dell’Alleanza Cooperative Sociali e presidente di Federsolidarietà (Confcooperative).
«E di dettare delle linee guida per diffondere le buone pratiche di alcuni istituti», continua. Guarini è al vertice di una rete di 150 cooperative, presenti nella metà  delle carceri del Paese, che hanno dato occupazione a 1.500 detenuti.
Del network fa parte “Libera Mensa”, che ne impiega più di trenta: sotto la guida di cuochi professionisti, preparano piatti con prodotti del territorio e organizzano catering in matrimoni, congressi, riunioni di affari e cene private.
Tutto rigorosamente “fatto in casa”, nel carcere della Vallette di Torino. Dà  lavoro anche agli stranieri reclusi, molti dei quali però non hanno il permesso di soggiorno. «Ed è un problema», denuncia Piero Parente responsabile della cooperativa, «perchè due nostri ottimi collaboratori, uno marocchino e uno albanese, esaurita la pena hanno dovuto lasciare il Paese».
Dal Piemonte alla Sicilia, passando per Umbria e Lazio proliferano esperienze di questo genere con nomi ispirati ironicamente al desiderio di fuga: una libertà  però ottenuta con il sudore della fronte e non con rocambolesche evasioni.
A Ragusa la neonata “Sprigioniamo sapori” occupa tre detenuti. Producono dolci di mandorla e torroni tipici dell’isola che vendono in tutta Italia, e a breve partirà  anche nel femminile di Catania. A Terni impastano pane e biscotti con il “Forno solidale”.
A Perugia la cooperativa Gulliver coltiva frutta e verdura nel “Podere capanne”.
E poi c’è la produzione di caffè a Pozzuoli, quella della birra artigianale a Saluzzo, le biciclette “Apiedelibero” montate a Firenze Sollicciano. «È ancora uno sviluppo disomogeneo, in alcune carceri è complicato portare a termine i progetti, altri invece sono ben disposti. Per colmare questo gap è necessario avere delle regole comuni da seguire», osserva il presidente di Federsolidarietà .
Ma bastano le “imprese sociali”? C’è chi le ritiene la migliore soluzione. Altri invece credono che per raggiungere numeri significativi serve l’appoggio dei colossi dell’economia nazionale, che con il loro turnover possono garantire la continuità  delle mansioni anche dopo la fine della pena.
Obiettivo Società  per azioni
«Al momento mancano contatti con grandi aziende, più volte abbiamo tentato di portare dentro il carcere le catene di montaggio», racconta Tamburino, «ma dall’altra parte non c’è mai stata una risposta positiva. In prospettiva posso dire che i nostri sforzi andranno in questa direzione. Per ora in Italia nessuno vuole delocalizzare in carcere. A differenza di quanto avviene in Germania dove a Stoccarda la Mercedes impiega detenuti all’interno degli istituti».
Un tentativo è stato portato avanti con Fiat per la produzione di tergicristalli, ma il progetto si è arenato perchè andrebbe modificata la normativa. Eni invece vuole investire nella formazione dei reclusi per poi assumerli una volta scontata la sentenza. Lo ha fatto con Giuseppe, ex trafficante internazionale di droga, e ha intenzione di proseguire nel progetto. «Dovremmo diffondere queste esperienze anche al dì fuori delle imprese sociali», osserva Giuseppe D’Agostino funzionario del Garante dei detenuti del Lazio. «Solo così sarà  possibile crescere. Non sono molte le grandi aziende che conoscono i benefici della Smuraglia. La soluzione è informare di più e meglio rispetto all’utilizzo di questi fondi».
Pronto? Qui Rebibbia
E quelle poche che hanno scelto di investire, con la crisi e le ristrutturazioni hanno tagliato. Come Telecom. Da dicembre, dopo 7 anni, ha chiuso il call center a Rebibbia lasciando in cella ventiquattro operatori che prima rispondevano alle chiamate del 1254.
Ma il merito è stato premiato: visto l’ottimo lavoro svolto, sei della squadra sono stati ricollocati e ora si occupano delle prenotazioni dell’ospedale Bambin Gesù. «Hanno risultati migliori, sono motivati dalla voglia di dimostrare a familiari e società  che possono recuperare», sottolinea D’Agostino.
Nella casa circondariale di Civitavecchia c’è un altro esempio virtuoso. Da pochi mesi è attiva una falegnameria. Cinque fabbri assunti dal consorzio Solco – lo stesso dei call center di Rebibbia – si preparano a realizzare porte, laminati, mobili, per committenti esterni.
Puntano in alto, e stanno tentando di proporre a Ikea una collaborazione. «La legge Smuraglia è per noi vitale, ci permette di abbattere della metà  il costo del lavoro e di avviare così progetti altrimenti impensabili», racconta Mario Monge, presidente di Solco che riunisce 37 imprese sociali. Tra queste c’è la New Horizons, nata alla fine degli anni 80 come officina meccanica dall’esperienza maturata all’Asinara da un detenuto. Oggi è specializzata nella raccolta dei vestiti usati. Da sei anni si è trasferita nel quartier generale del cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti confiscato dallo Stato. Quello che era il luogo per antonomasia del romanzo criminale è diventato uno spazio dove ex detenuti e disabili costruiscono il loro futuro. Confrontarsi con la pubblica amministrazione spesso però significa essere pagati dopo un anno o in tempi ancora più lunghi.
Lo sa bene la coop 29 giugno, che dall’alto dell’ultimo fatturato di 60 milioni, vanta crediti per 20: una condanna a morte per le imprese sociali.
Anche la cooperativa Terre di Mezzo opera con per gli enti locali: impiega otto carcerati nella falegnameria delle Vallette e dà  una seconda chance ai reclusi dell’istituto minorile di Cagliari. Tra i loro dipendenti c’è un ex trafficante di droga arrestato come socio del calciatore Michele Padovano, considerato un fenomeno nel suo nuovo mestiere di ebanista.
Il lavoro porta risparmio
C’è uno squadrone di 750 detenuti che fa risparmiare allo Stato oltre mezzo miliardodi euro. Si occupa della piccola manutenzione degli istituti e rispetto a operai esterni, che costano al mese 1500 euro al mese, la loro busta paga è la metà .
Questa manodopera low cost è richiesta dai Comuni, che affidano a semiliberi (vedi box qui sopra) la cura del verde, la raccolta dei rifiuti, il portierato e la manutenzione delle strade.
A Palermo la giunta ha firmato il mese scorso un accordo con il ministero per inserire i reclusi in percorsi di occupazione. E nei laboratori tessili femminili c’è grande fermento. Il successo di alcune iniziative – come Made in Jail a Rebibbia, Extraliberi alle Vallette e O’ Press a Marassi – ha spinto a creare anche un certificato etico per abiti e gadget prodotti dalle donne recluse: il marchio “Sigillo”.
Gatti Galeotti, Filodritto, Ora d’aria, Impronte di libertà : sono alcune delle coop nate tra San Vittore, Bollate, Enna, Como, Torino, Vigevano, Venezia. E stanno per partire nuove sartorie a Santa Maria Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Catania, Genova e Monza.
Un settore in espansione, sul quale il ministero punta molto per far crescere l’occupazione nelle sezioni femminili, ancora a livelli molto bassi.
Per due motivi: «I direttori delle carceri ci segnalano principalmente uomini», spiega Carlo Guaranì, vicepresidente della cooperativa 29 giugno, «e poi ci sono lavori manuali, faticosi, che sono considerati più adatti agli uomini».
Solimene è una delle fortunate. All’alba di ogni mattina lascia Rebibbia per andare in uno dei mercati rionali della periferia romana. Ripulisce la zona dagli scarti di frutta e verdura: quelli che per altri sono rifiuti, per lei sono il futuro.

Giovanni Tizian
(da “l’Espresso”)

This entry was posted on venerdì, Maggio 2nd, 2014 at 10:36 and is filed under Giustizia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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