Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
CERTIFICATI DI AGIBILITA’ DELLE SCUOLE AUMENTATI DEL 300%…L’APPALTO PER LA RICOSTRUZIONE DELLA QUESTURA PASSATO DA 3 A 18 MILIONI DI EURO: NOVE INDAGATI PER ABUSO D’UFFICIO
Il sospettto della corruzione nel post terremoto non risparmia nemmeno le scuole. Secondo un’inchiesta della Procura dell’Aquila i costi per la semplice procedura dei “certificati di agibilità ” degli istituti (effettuati su incarico dalla Protezione Civile) sono lievitati quasi del 300 per cento.
E così, una semplice prassi burocratica che doveva essere pagata con poche migliaia di euro, è costata alle casse pubbliche ben 600 mila euro.
Con l’aggiunta, ancora una volta, di «grasse risate» come – letteralmente – si legge nei verbali.
È l’estate del 2009, quella dei cantieri-miracolo del governo Berlusconi.
In tv, gli italiani seguono il conto alla rovescia per la consegna delle case e delle scuole. Ma al telefono, pensando agli affari, l’imprenditore-ingegnere Carlo Strassil (ignaro di essere indagato) ride. «So che lì all’Aquila si procede alla grande» gli dice al telefono un interlocutore.
«Un film… « risponde lui. Ma c’è di più.
Il «complice» – rivelano le indagini – è Gianni Guglielmi, ora coinvolto in due inchieste.
Guglielmi, nel 2009, era il provveditore delle opere pubbliche per Lazio, Sardegna e Abruzzo.
Ora, invece, è provveditore per la Campania e commissario straordinario per il risanamento del fiume Sarno.
Nella ricostruzione della città devastata del terremoto si è lucrato – secondo l’accusa della procura – anche sui lavori di ristrutturazione della questura.
Un appalto lievitato da 3 milioni a 18 milioni di euro.
Anche questa è una storia di lavori affidati senza gara che aumentano stavolta del 450%. Il primo preventivo della società che aveva ricevuto l’appalto con procedura d’urgenza era, appunto, di 3 milioni di euro.
Poi in corso d’opera il conteggio è cambiato.
I numeri sono lievitati clamorosamente, fino ad arrivare a una spesa di 18 milioni.
A bloccare la super-lievitazione del prezzo è intervenuta la Corte dei Conti, che ha invitato il provveditorato alle Opere Pubbliche a revocare l’affidamento diretto e a predisporre una gara.
Per i magistrati contabili quei lavori non erano «connotati da elementi emergenziali » e quel contratto appariva come «un’originale modalità di individuazione del contraente».
I giudici contabili hanno poi inviato le carte anche alla Procura e – a conclusione delle indagini – sono arrivati gli avvisi di garanzia. Nove in tutto.
L’accusa è di abuso d’ufficio.
Tra gli indagati anche in questo caso c’è l’ex provveditore alle Opere Pubbliche Giovanni Guglielmi.
Anche la ‘ndrangheta è arrivata sullo scenario della ricostruzione dell’Aquila.
E lo avrebbe fatto con l’aiuto di un imprenditore della città , Stefano Biasini, 34 anni, pochi giorni fa arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’operazione della Procura distrettuale antimafia ha portato all’arresto di altre tre persone, al sequestro delle quote di quattro società , di otto automezzi, cinque immobili, 25 conti bancari, riconducibili agli indagati e alle loro attività commerciali. Il valore complessivo è di oltre un milione di euro.
Secondo la Guardia di Finanza la cosca Caridi-Zincato-Borghetto dopo aver ottenuto piccoli appalti, puntava a 13 grandi lavori nella città terremotata.
«Gli indagati – scrive il giudice Marco Billi nell’ordinanza d’arresto – si sono prestati consapevolmente per far ottenere agli affiliati fittizie intestazioni societarie allo scopo di evitare le misure di prevenzione. Con la loro alacre collaborazione e sfruttando il loro inserimento nella vita imprenditoriale aquilana hanno svolto un ruolo essenziale di raccordo tra affiliati e il territorio rappresentando un ponte di collegamento indispensabile per far espandere la cosca in Abruzzo».
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
SONO TRE MILIONI I PENSIONATI INTERESSATI ALLA NUOVA NORMATIVA CHE RICHIEDE L’APERTURA DI UN CONTO CORRENTE, UN BANCOMAT O CARTA DI CREDITO, CON COSTI AGGIUNTIVI… CHE NECESSITA’ C’ERA DI QUESTA RIDICOLA MISURA ANTI-EVASIONE A CARICO DI CHI HA UNA PENSIONE BEN VERIFICABILE E “TRACCIATA” ADDIRITTURA DALL’INPS?
La paura? Arrivare davanti allo sportello, come ogni mese, e sentirsi dire: «Mi dispiace, ma non possiamo darle i soldi».
Una paura che sta contagiando milioni di pensionati che per comodità e facilità periodicamente riscuotono il proprio assegno in contanti alle Poste, senza nessun accredito sul conto corrente.
Da gennaio, manovra Monti alla mano, non sarà più possibile per gli importi superiori ai 980 euro.
Cifra modificata in extremis, prima era molto più bassa: 500 euro.
Da ora in poi bisognerà per forza avere un numero Iban su cui far scivolare i trattamenti di Inps, Inpdap e di qualsiasi altra cassa previdenziale.
I call center degli istituti, oltre a quello delle Poste, da giorni sono presi d’assalto.
«Cosa devo fare?», «Come posso prendere i soldi?».
Le risposte sono lacunose.
E soprattutto gli operatori non sanno dare certezze sul ritiro regolare in contanti a gennaio.
Un giallo che secondo i calcoli dello Spi-Cgil interessa circa 3 milioni di persone, anziani, già tartassati dalle ultime Finanziarie, che vivono soprattutto nei paesi di provincia e in montagna.
Persone che fanno fatica a raggiungere una banca o un ufficio postale.
Contattando il call center dell’Inps, ieri mattina, non si riuscivano ad avere risposte. «Bisogna aprire un conto corrente per l’accredito», spiegava l’operatore.
E quanto tempo ci vuole perchè la pensione arrivi in banca o alle Poste?
«Due o tre mesi». E gli assegni di gennaio e febbraio? «Non sappiamo».
Nebbia fitta. Qualche schiarita solo nel pomeriggio.
Nuova chiamata al call center dell’Inps (803.164) poco prima delle 17.
Risponde, dopo cinque minuti di attesa, l’operatrice 5317. «Scusi, la mia pensione è di 1.100 euro, la prendo allo sportello, come devo fare da gennaio? »
«Già capito, mi aspetti in linea», dicono dall’altra parte del filo.
E dopo un po’ l’addetta spiega che è appena arrivata una circolare, una lettera che l’Inps invierà a tutti i pensionati che superano i 980 euro al mese con le nuove indicazioni per riscuotere l’assegno.
«Comunque – spiega – c’è tempo fino al 29 febbraio per aprire un conto corrente. Se lo apre in banca deve comunicarci in numero di Iban on-line oppure venendo di persona, se lo apre alle Poste, invece, è tutto in automatico».
Quindi la pensione a gennaio, anche con le nuove norme, si ritira senza problemi allo sportello in contanti? «Presumo di sì», risponde l’operatrice.
Nessuna certezza.
Nella circolare arrivata dieci minuti prima non è scritto in maniera esplicita se l’assegno verrà erogato cash senza problemi, anche se i termini per aprire il conto corrente sono prorogati di due mesi.
E al call center delle Poste (803.160), dopo quasi mezz’ora di attesa, le risposte sono ancora meno rassicuranti: «Non abbiamo ricevuto nessuna indicazione in merito».
Sia le associazioni dei consumatori, in testa l’Adusbef, sia la Spi-Cgil temono che a gennaio ci saranno disguidi e problemi.
E lamentano in più un atteggiamento vessatorio nei confronti dei pensionati: è corretto tracciare i pagamenti per combattere l’evasione fiscale, ma alcune fasce si potevano tenere fuori dal provvedimento.
Anche perchè l’apertura di un conto corrente vuol dire costi in più, nonostante le rassicurazioni del governo
Monti e del ministero dell’Economia: entro tre mesi verranno definite le linee guida stipulate in collaborazione con l’Associazione bancaria italiana per una nuova formula di conto corrente base, semplice e gratuito.
Associazioni e sindacati, però, non si fidano.
E gli anziani, soprattutto quelli soli, hanno poca dimestichezza con Iban, bancomat, carte di credito, spese e tassi.
L’Adusbef ha già annunciato la volontà di ricorrere contro l’articolo 12 del decreto “Salva Italia” alla Consulta per dare la possibilità ai pensionati di continuare ad andare ogni mese alle poste a ritirare i loro assegni in contanti.
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
FATTE FUORI CARFAGNA E DE GIROLAMO DALLA SUCCESSIONE DEL COORDINATORE INQUISITO… POTREBBE DIVENTARE COMMISSARIO MAURIZIO LUPI
Nick ‘o mericano contro tutti.
Contro “i frocetti di Roma che pensano di poter determinare i destini della Campania”.
E contro le donne “forti” del Pdl in Campania, Mara Carfagna e Nunzia De Girolamo (al centro a Natale di un mistero rosa sul suo presunto matrimonio segreto con Francesco Boccia del Pd). Per la serie: muoia Cosentino con tutti i berlusconiani.
Il plurinquisito Nicola Cosentino è al tornante decisivo, forse l’ultimo, della sua parabola politica.
Tra il 10 e il 12 gennaio, la Camera si pronuncerà sul suo arresto per aver favorito i Casalesi nella costruzione di un centro commerciale nel Casertano e nel partito campano, il secondo d’Italia per voti e iscrizioni, si sta consumando una guerra ferocissima tra le varie bande del partito degli onesti.
In palio c’è la carica conservata da Cosentino dopo le dimissioni da sottosegretario all’Economia nel luglio del 2010 per l’inchiesta sulla P3.
Quella di coordinatore regionale del Pdl.
Molti signori delle tessere, per la maggior parte indagati a vario titolo, vorrebbero evitare l’onta del commissariamento imposto da Roma, dal segretario nazionale Angelino Alfano.
Questa una scena di alcuni giorni fa, raccontata da un testimone.
I protagonisti sono tre: lo stesso Cosentino; Paolo Russo, ex forzista di osservanza scajoliana; Vincenzo Nespoli, ex An vicino a Matteoli e che Palazzo Madama ha “salvato” per l’incompatibilità tra la poltrona di senatore e quella di sindaco di Afragola.
Russo e Nespoli tentano di convincere “Nicola” a fare il fatidico passo indietro: “Nicola se ti dimetti da coordinatore ti garantiamo la ricandidatura alle prossime politiche, ma se resisti a oltranza finisce come l’altra volta e ci piazzano un altro che non c’entra con noi”.
L’altra volta era alle Regionali del 2010.
Cosentino, già inseguito da un altro arresto per i rapporti con la camorra, voleva fare a tutti i costi il candidato-presidente.
Alla fine spuntò l’ex socialista Stefano Caldoro, eletto governatore.
Poi, dall’inchiesta sulla P3, venne fuori che Cosentino aveva fatto confezionare un dossier per discreditare Caldoro, il candidato voluto dai “frocetti di Roma”.
Adesso la storia si ripete.
Cosentino resiste, i ras locali litigano ed è molto probabile che Alfano spedisca un commissario. Il nome più quotato è quello di Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera e ciellino affrancatosi da Roberto Formigoni.
Un commissario lombardo per la regione-simbolo del successo di B. nel 2008, e dove fu celebrato il primo consiglio dei ministri.
C’è però anche un’altra ipotesi, molto caldeggiata da Caldoro, che ha la doppia tessera: Nuovo Psi e Pdl.
Il governatore ha cercato e ottenuto il sostegno di Mariastella Gelmini, avversaria di Lupi, per indicare il pugliese Raffaele Fitto.
Un tentativo destinato al fallimento ma che è il segnale dell’attivismo di Caldoro, che alla Regione ha riciclato un intero ceto del vecchio Psi: da Giulio Di Donato (nominato nel cda di un teatro) all’ex sindaco di Napoli Nello Polese.
Lupi o Fitto, dunque, per umiliare un’intera classe dirigente (zeppa di indagati) cresciuta nell’era della diarchia di Cosentino e Luigi Cesaro, “Giggino ‘a purpetta”, deputato e presidente della provincia di Napoli.
Le soluzioni “territoriali” che circolano in questa convulsa settimana tra Natale e Capodanno sono almeno tre.
La prima riguarda il già citato Russo, che diventerebbe coordinatore in cambio della ricandidatura di Cosentino.
Ma quest’ultimo non si fida e ha rilanciato con un suo fedelissimo: il senatore Carlo Sarro, il cui nome compare nella lista del Grande Oriente d’Italia, la maggiore obbedienza massonica del Paese.
La terza è la più osteggiata dai signori delle tessere: quella di una donna.
L’ex ministro Mara Carfagna, la candidata più votata d’Italia alle regionali del 2010, oppure la beneventana Nunzia De Girolamo.
Racconta un esponente napoletano del Pdl: “La soluzione di una donna è quella che incontra più ostilità . Da Landolfi a Cosentino, il partito in Campania è misogino e maschilista.
E Alfano non ha il coraggio per fare scelte di rottura”.
In questo clima da Vietnam permanente, la partita cruciale per la successione “forzata” a Cosentino incrocia i duelli dei congressi provinciali e cittadini.
La campagna delle tessere a dieci euro ciascuna ha prodotto 120 mila iscritti a Napoli e provincia e quasi 200 mila in tutta la regione.
Lo scontro più forte è proprio a Napoli, dove corrono due ex An: Marcello Taglialatela, della corrente di Alemanno, e Amedeo Laboccetta, indagato per il caso Bpm-Atlantis-Corallo e appoggiato da Gasparri.
Per il ruolo di coordinatore provinciale si prospetterebbe una successione dinastica: Armando Cesaro, figlio di Luigi.
Anche per questo, raccontano, “Giggino ‘a purpetta” sarebbe pronto a tradire il compare “Nick ‘o mericano”.
Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
E MINACCIA: “OLIO DI RICINO PER CHI PROTESTA”…DAL 2008 I COMITATI SI BATTONO CONTRO LA NUOVA COSTRUZIONE COMMERCIALE, ESTESA COME 100 CAMPI DI CALCIO
“Per quelli di sotto ci vorrebbe l’olio di ricino”. Il sindaco leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, alla fine è sbottata.
Ma la battuta viene dal profondo e rivela l’animo della Lega di oggi: che cerca di reinventarsi come partito di lotta vicino al popolo e al territorio, ma resta salda sulla poltrona e approva a marce forzate contestatissimi progetti.
Un partito che non ama dissensi.
Perchè i destinatari dell’olio di ricino sono migliaia di veneti che le hanno tentate tutte per bloccare il progetto di Veneto City.
Niente anti-politica, anzi, il contrario: un esempio di dissenso acceso, ma democratico e fantasioso.
Sempre nelle regole: 11 mila firme raccolte, ricorsi in ogni sede, partecipazione al consiglio comunale, manifestazioni sotto il Comune al suono delle vuvuzelas.
Parliamo di un mega centro commerciale-direzionale che occuperà 715 mila metri quadrati — l’equivalente di 105 campi di calcio — con una volumetria di 2 milioni di metri cubi.
È dal 2008 che tra Venezia e Padova i comitati si battono contro Veneto City.
Ma nelle ultime settimane la battaglia è diventata serrata, perchè il destino della campagna veneta si gioca in queste ore.
Per cambiare definitivamente il paesaggio di Dolo bastavano tre firme: quelle dei Comuni di Dolo (Lega) e Pianiga (Pdl) e quella del Governatore Luca Zaia (Lega).
I comitati non hanno una tessera politica.
In tanti contavano sul fatto che Zaia e i leghisti in campagna elettorale avevano professato attaccamento al Veneto, alle sue tradizioni, alla terra.
Ma quando si è arrivati ai fatti, ecco l’amara sorpresa.
Raccontano Adone Doni e Mattia Donadel, portavoci del Cat ( Comitati Ambiente e Territorio): “La maggioranza del Comune di Dolo ha convocato sedute straordinarie a raffica, perfino la Vigilia e il giorno di Natale, per votare prima del 31”.
E i comitati hanno “assediato” il Comune. Hanno cercato di entrare in consiglio. Ma il 20 dicembre il sindaco emette un’ordinanza: “Visto che nelle ultime sedute si è verificata una massiccia affluenza di pubblico e manifestanti presso la sala consiliare si ordina di chiudere al pubblico gli uffici comunali”.
Racconta Doni: “Sono rimasti solo 40 posti, ma quando abbiamo provato a entrare li abbiamo trovati già occupati da militanti leghisti”.
Così sono partiti esposti al Prefetto e alla Procura. Alla fine il sindaco leghista ha firmato (come quello di Pianiga). Per la gioia dei sostenitori di Veneto City.
Ma di che cosa si tratta esattamente?
Nei documenti ufficiali si parla di un polo destinato a riunire “i servizi per l’impresa, l’università e il commercio”. Tutto e niente.
Le stime parlano di 30-40 mila visitatori al giorno e 70 mila veicoli.
Il progetto prevede torri di 80 metri.
E già l’aspetto urbanistico ha attirato critiche, come quelle del prestigioso Giornale dell’Architettura: si parla di “esiti paradossali”, si ricorda “un’affermazione di Zaia alla Ponzio Pilato che «le variazioni urbanistiche passano in Regione a livello notarile se hanno l’ok dei consigli comunali e della Provincia»”, si sottolinea “la necessità di rifondare il rapporto tra uomo e natura nel Veneto”; ma il Giornale rammenta anche che “l’ultimo passo è stato demandato ai sindaci di due comuni che sommano circa 30 mila abitanti, di fronte a un intervento attorno al quale gravita tutto il Veneto. Le 11 mila firme raccolte dai comitati non hanno inciso sull’iter”. La Difesa del Popolo, giornale della diocesi di Padova, ha dedicato al progetto un’allarmata copertina: “In Riviera la città di cemento a(r)mato”, dove si ricorda che anche “le associazioni di commercianti e agricoltori sono contrarie ma tutto procede”
Per capire davvero il progetto bisogna guardare a quello che ci sta dietro.
Veneto City ha tanti santi in paradiso, raccoglie i signori dell’impresa del Nord-Est: da Stefanel (attraverso la Finpiave) a imprenditori che amavano definirsi “progressisti” come Benetton (ma ultimamente si sono lanciati in operazioni contestate come Capo Malfatano in Sardegna).
Fino alla Mantovani che ha il monopolio delle grandi opere in Veneto.
E la politica? Il centrodestra di Giancarlo Galan, che in questi ambienti ha tanti amici, ha sostenuto l’opera.
Il centrosinistra all’inizio sembrava, tanto per cambiare, confuso: “Veneto City deve essere un’opportunità , non un pericolo”, disse Antonio Gaspari, allora sindaco di Dolo (Margherita). Davide Zoggia (Pd), all’epoca presidente della Provincia di Venezia, in pubblico diceva: “Veneto City potrebbe essere costruita altrove”.
Ma in una lettera riservata definiva il progetto “di sicuro interesse per l’assetto e lo sviluppo economico di Venezia”.
Oggi il Pd, all’opposizione, si dichiara contrario.
Per valutare l’impatto di Veneto City bisogna venire qui.
Muoversi tra Fiesso d’Artico, Dolo e Mira: “Mi ci perdo anch’io che ci abito da una vita”, racconta Vittorio Pampagnin (ex sindaco di Fiesso, con un passato nel centrosinistra), mentre con l’auto vaga tra bretelle e tangenziali che hanno strozzato interi paesi.
Siamo nella Riviera del Brenta, la terra dove Tiziano attingeva i colori per i suoi quadri.
Nella campagna veneta cara ad Andrea Zanzotto.
Qui dove una volta il paesaggio era segnato dai campanili e oggi svettano ciminiere e capannoni. L’era Galan ha lasciato un’eredità pesante: dal 2001 al 2006 sono state realizzate case per 788 mila persone (la popolazione è aumentata di 248 mila abitanti).
Nel 2002 si sono costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni.
In Veneto la superficie urbanizzata è aumentata del 324% rispetto al 1950.
Ben oltre le necessità , come dimostrano migliaia di cartelli “vendesi” appesi a case nuove e mai abitate.
Adesso arriva Veneto City. L’ultima parola spetta oggi a Zaia, il governatore contadino.
Che chiarirà definitivamente da che parte sta.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
DAI MAGLIONI ALLE RENDITE: INCASSANO DALL’AUMENTO DEI PEDAGGI MA GLI INVESTIMENTI NON SI VEDONO
“Siamo votati allo sviluppo e ci daremo da fare, nei limiti delle nostre responsabilità e delle nostre possibilità , per la ripresa del Paese, nel momento molto duro che stiamo attraversando, ognuno dovrà fare la sua parte”. Si è preso un bell’impegno a Venezia il presidente di Edizione srl Gilberto Benetton, dall’alto del suo impero familiare nato sui maglioncini colorati della sorella Giuliana.
Un impero che oggi si regge principalmente dalle concessioni pubbliche via Autostrade e Autogrill, senza contare le posizioni di peso (e le disavventure) nella finanza che conta in Italia.
Benetton può fare affidamento su un patrimonio personale di 2,4 miliardi di dollari, secondo la stima della rivista americana Forbes nel marzo scorso.
Una somma in crescita di 300 milioni sul 2010 e di 900 milioni rispetto al 2009 e identica a quelle attribuite agli altri tre fratelli Giuliana, Carlo e Luciano con i quali ha fondato l’impero di Ponzano Veneto.
Assieme a loro occupa il quinto posto nella classifica degli uomini più ricchi d’Italia.
“L’Italia purtroppo si trova a fronteggiare un debito molto alto, dovendosi dare da fare di più rispetto ad altri Paesi per essere all’altezza la situazione. Dovremo essere noi stessi, questa generazione, a pagare le malefatte del passato, dandoci da fare per risolvere il debito”, ha poi puntualizzato dopo aver tributato fiducia al governo Monti e auspicato, come molti, le misure per lo sviluppo nel breve periodo.
Sacrifici per tutti, ma i Benetton, nel loro piccolo, si consoleranno con l’imminente adeguamento delle tariffe autostradali che per il 2012 dovrebbe aggirarsi intorno al due per cento.
Certo, non è il quattro per cento medio annuo che il mercato si aspettava qualche anno fa prima che gli aumenti venissero vincolati agli investimenti effettuati dalle concessionarie (per evitare che il regalo fosse troppo smaccato), ma coi tempi che corrono non è affatto poco.
E soprattutto, a differenza dei salari e delle pensioni di molti comuni mortali, costituisce una rendita certa e continuativa anche con la crisi e la recessione in arrivo nel 2012.
L’incremento dell’1,92 per cento del 2011, per esempio, è valso un beneficio complessivo stimabile in 41,6 milioni, che ha quantomeno compensato il calo dei ricavi da pedaggio valutato in 19 milioni collegato alla diminuzione del traffico .
Senza contare il ruolo chiave degli Autogrill (sempre in mano ai Benetton) che soltanto nei primi nove mesi del 2011 ha portato nelle casse di Ponzano Veneto 799,6 milioni (+2,9 per cento) di ricavi dalle vendite nei punti di ristoro.
Le due società presentano una posizione debitoria non rassicurante, specialmente Atlantia, cui fa capo Autostrade per l’Italia, che a fine settembre aveva un debito di 8,844 miliardi contro gli 1,441 miliardi di Autogrill.
E nelle orecchie degli osservatori del settore delle infrastrutture echeggiano ancora le parole dell’ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che nell’ultima relazione annuale del maggio scorso aveva denunciato i ritardi negli investimenti di Autostrade: “A oggi sono stati completati poco più del 60 per cento degli ampliamenti concordati nel 1997 tra Anas e la principale concessionaria autostradale e meno del tre per cento di quelli decisi nel programma del 2004, il programma più recente, quello del 2008, è ancora in fase di studio”, aveva tuonato. Parole che oltre a rinnovare la polemica sulle proporzioni di colpe tra privati e “sistema”, avranno probabilmente riaperto le ferite per la mancata fusione — o cessione, come venne bollata all’epoca — con la spagnola Abertis, bloccata dal governo Prodi nel 2006.
Una delle conseguenze è stata che poi i soci stranieri nelle autostrade i Benetton se li sono trovati comunque, per di più in Lussemburgo, paradiso fiscale dove sono poi state trasferite le quote di maggioranza relativa delle infrastrutture di Ponzano che oggi fanno capo al fondo lussemburghese Sintonia partecipato da investitori finanziari e fondi stranieri e poi ricondotto all’Italia attraverso la controllante Edizione.
È lo stesso Gilberto, da sempre il più attivo nella finanza tra i fratelli di prima generazione, a dire che: “Possiamo protestare, inveire, ma siamo tutti colpevoli di questi problemi, anche perchè i politici che ci hanno portato a questo punto li abbiamo nominati noi”.
Ma è la stessa politica che ha privatizzato autogrill e autostrade.
E sempre con la politica si intrecciano investimenti chiave come quelli negli aeroporti, ma anche operazioni sul filo dello scambio come l’ingresso in Telecom Italia accanto a Marco Tronchetti Provera.
Quando quell’avventura è finita, nel 2009, il costo per il gruppo Benetton è stato una minusvalenza di 303 milioni.
O ancora l’avventura in Alitalia accanto a Roberto Colaninno e soci: quest’anno ha portato nel bilancio di Atlantia un segno negativo (per la rettifica del valore della partecipazione) di 25 milioni.
Di contro la diversificazione dai maglioncini delle origini (60 milioni di utili a fine settembre contro i circa 125 di Autogrill e i 713 di Atlantia) sostenuta proprio da Gilberto ha spalancato ai Benetton le porte di snodi cardine del potere finanziario italiano come Mediobanca ed Rcs (l’editore del Corriere della Sera, di cui hanno il cinque per cento).
E, in generale, in postazioni chiave dalle quali la riservata famiglia veneta si trova spesso nel ruolo di ago della bilancia.
Come accade anche oggi nella guerra per il controllo del campione nazionale di costruzioni Impregilo, dove i Benetton dovranno decidere se schierarsi con l’ex amico Gavio o con il rampante Salini.
In ballo proprio le principali partite per il rilancio del Paese che il ministro Corrado Passera sceglierà di giocare.
O, eventualmente, le contropartite. Ma per ora da Ponzano arrivano solo echi di no comment.
Giovanna Lantini
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
L’ITALIA STA COMPRANDO 131 CACCIA BOCCIATI DA USA E CANADA
Il supermoderno, super-tecnologico, supersofisticato e supercostoso cacciabombardiere F35 Joint Strike Fighter non funziona come dovrebbe.
Non lo dice qualche prevenuto contestatore del progetto o qualche pacifista oltranzista.
Lo scrive il Pentagono in una nota interna di cui ha dato notizia l’agenzia Afp e che il Fatto ha potuto consultare.
È un bel guaio che ci riguarda da vicino.
L’F35 non è solo il più gigantesco e caro programma attualmente avviato dalla Difesa Usa capofila di un gruppo di paesi, con un valore stimato di 385 iliardi di dollari.
Anche l’Italia è direttamente interessata alle sorti di quel velivolo perchè partecipa alla sua realizzazione, anche se in misura modesta e soprattutto sta per acquistarne la bellezza di 131 esemplari con una spesa preventivata eccezionale: oltre 15 miliardi di euro fino al 2026.
Senza contare gli elevatissimi costi di esercizio.
Secondo il sito Altreconomia che riporta i risultati di uno studio dell’ufficio di analisi economiche dal Parlamento canadese, tra manutenzione e gestione ogni F35 costa nell’arco di vita preventivato la bellezza di 450 milioni di dollari.
Che moltiplicato per il numero di aerei che l’Italia vorrebbe acquistare fa un po’ meno di 60 miliardi di dollari, 45 miliardi di euro.
Il fatto che oltretutto l’aereo prodotto dalla Lockheed Martin non funzioni al meglio e che quindi siano necessari aggiustamenti per farlo volare in sicurezza e con le migliori prestazioni comporta inevitabilmente un perfezionamento dei progetti e dei programmi di produzione e implica un aggravio di costi.
Di quanto, al momento è impossibile dire, ma i difetti indicati dalla commissione di studio messa al lavoro dal dipartimento della Difesa Usa non sono per niente marginali e questo fa supporre che i cambiamenti necessari in corso d’opera possano risultare seri e assai cari.
Ovvio che questi costi suppletivi finiscano per incidere sul prezzo finale del cacciabombardiere. L’Italia potrebbe quindi trovarsi di fronte alla sgradevole situazione di dover sborsare altri soldi oltre quelli previsti, per di più in una fase in cui ai cittadini il governo sta chiedendo sacrifici durissimi.
Dal momento che la decisione definitiva sull’F35 non è stata ancora presa, che il governo è cambiato, che c’è un nuovo ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola e il contratto di acquisto non è stato ancora perfezionato, questa potrebbe essere l’occasione per un ripensamento complessivo.
Anche perchè, indipendentemente dai costi rilevanti, molti nutrono seri dubbi sull’opportunità per la Difesa italiana di dotarsi di un’arma del genere, con caratteristiche non in linea con il nostro modello militare difensivo.
Il progetto dell’F35 sembra nato sotto una cattiva stella.
Sono anni che va avanti tra problemi tecnici a ripetizione, ritardi rispetto ai tempi programmati e aggravi di spesa continui.
All’inizio il costo di ogni velivolo era stato preventivato in 80 milioni di dollari, ma prima ancora che sia pienamente avviata la produzione è salito di almeno 50 milioni calcolando il costo medio delle tre tipologie di velivolo programmate.
La nota del Dipartimento americano della Difesa è il risultato di un lavoro di studio affidato a una “piccola squadra”, avviato il 28 ottobre e terminato nei giorni scorsi.
Ufficialmente si chiama Quick Look Review, cioè esame veloce, ma in realtà è un rapporto assai dettagliato di 55 pagine, compresi numerosi grafici e tabelle.
La conclusione è sorprendente perchè i tecnici raccomandano un “riesame serio dell’organizzazione della produzione”. La nota mette in evidenza numerosi difetti tra i quali le vibrazioni e gli scossoni constatati durante i voli di prova che comporterebbero problemi non da poco per l’affaticamento eccessivo dei piloti. Tra i vizi individuati ne emergono cinque, tra i quali il più significativo appare quello del meccanismo di aggancio della coda nella versione C che non consentirebbe di eseguire atterraggi sulle portaerei. Tutti gli otto test di atterraggio eseguiti sarebbero falliti.
Per gli F35, l’Italia ha già speso circa 2 miliardi e mezzo di euro.
Quasi 2 miliardi per lo sviluppo del progetto e il conseguente passaggio alla fase industriale, più 600 milioni per l’ampliamento e l’ammodernamento dello stabilimento di Cameri in provincia di Novara.
In quei capannoni l’Alenia della Finmeccanica produrrà l’ala sinistra del cacciabombardiere e assemblerà quella parte di velivoli destinati all’Europa e non prodotti direttamente dalla Lockheed Martin negli Stati Uniti.
Daniele Martini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
NEL MIRINO GIUSTIZIA CIVILE, REVISIONE DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI, REALIZZAZIONE OPERE PUBBLICHE
Un nuovo consiglio dei ministri nei primi giorni dell’anno (il 3 o 4), passaggio con i sindacati probabilmente il 9 per avviare il tavolo sulla riforma del lavoro, tutto pronto entro il 30 gennaio quando ci sarà il Consiglio europeo specificamente dedicato alla crescita.
Tre i pacchetti sui quali lavora il governo e dei quali si parla da molto: uno dedicato alle liberalizzazioni, uno dedicato alle infrastrutture e uno dedicato al tema giustizia-economia.
Il piano illustrato ieri da Monti durante le tre ore di consiglio dei ministri, prevede di dispiegare completamente la strategia della crescita dell’Italia in tempo per il 30 marzo quando sarà presentato il Piano nazionale di riforme in Europa.
Nelle priorità del governo anche la riforma del mercato del lavoro, soprattutto sotto forma di revisione degli ammortizzatori.
Sullo sfondo la possibile modifica dell’articolo 18 che trova l’opposizione di sindacati e Pd, mentre per i tagli alla spesa e la cosiddetta spending review sarà necessario tutto il primo semestre del 2012: sarà pronta in vista delle legge di Stabilità 2013.
Sul piano delle misure, bocche cucite.
Quello che è certo che saranno a costo assai ridotto o addirittura zero: come il taglio Irap per le assunzioni e l’Ace (defiscalizzazione per le imprese che investono).
Le risorse sono praticamente inesistenti e non è possibile (dopo 76 miliardi nel 2011) mettere in atto nuove manovre per recuperare fondi.
Per questo continua il pressing dall’esterno sul governo per la costituzione di un mega-fondo con attività mobiliari e immobiliari da far sottoscrivere a banche e imprese, ma che membri autorevoli dell’esecutivo giudicano un “prestito forzoso”.
Tuttavia qualcosa filtra: obiettivo del ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera è quello di coinvolgere i privati nella realizzazione delle opere pubbliche attraverso il cosiddetto “project financing”.
Mentre prende corpo l’idea di una abolizione totale, con un unico provvedimento, delle tariffe minime di tutte le professioni esercitando la delega della legge di Stabilità .
Liberalizzazioni.
Forse è la carta che il governo intende giocare con maggiore determinazione, sfidando le ire di avvocati, notai, architetti, e di tutte le altre professioni.
Si chiama abolizione delle tariffe professionali minime: la norma è già in mano al governo in base alla manovra d’estate e alla recente legge di stabilità .
L’esecutivo potrà agire con un semplice regolamento di delegificazione abolendo tariffe e altre norme per ciascuna professione.
Non è escluso che il governo, invece di trattare con ciascuna professione, vari un regolamento unico e un decreto in cui si abolisce l’articolo 2233 del codice civile in base al quale le tariffe devono essere calibrate “all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Il pacchetto liberalizzazioni dovrebbe recuperare anche gli interventi su taxi, farmacie e farmaci di fascia C.
Fin qui ciò che è probabile e che risulta da dichiarazioni di membri del governo o da indiscrezioni.
I nodi del dossier liberalizzazioni sono molto più ampi: nelle poste, ad esempio, la liberalizzazione non è ancora decollata per la mancanza di una authority specifica.
Ma soprattutto l’apertura totale ai privati dei servizi pubblici locali gestiti dai Comuni, dai trasporti, all’informatica, all’energia.
Gli enti locali possiedono 675 società , di cui 72 nell’energia, 52 aeroporti e interporti, 87 nel settore dell’acqua (la cui vendita tuttavia è bloccata dal referendum).
Tra queste società si sono veri e propri giganti.
Crescita e tagli.
Accelerare sui brevetti e coinvolgere le aziende: scuola e ricerca sono i punti forti esposti da Francesco Profumo, rettore del Politecnico di Torino, presidente del Cnr e ministro per l’Università .
Obiettivo: produrre più brevetti, riuscire a far sbocciare dal rapporto tra università e centri di ricerca nuove iniziative imprenditoriali.
L’idea è quella di aprire il Cnr e le Facoltà a parteniariati con Fondazioni bancarie e imprese.
Quanto di questo si tradurrà in norma non è ancora noto, tuttavia queste sono le intenzioni del ministro.
L’altro punto sul quale si conta, i cosiddetti “semi” per lo sviluppo, è costituito dal già varato taglio dell’Irap per chi assume giovani e donne e dall’introduzione dell’Ace (defiscalizzazione degli investimenti delle imprese).
Niente per ora c’è sul fronte dello stimolo dei consumi: la filosofia del governo è che al massimo si possono dare aiuti al reddito e alle famiglie disagiate.
L’unica possibilità di recuperare denaro sta nel taglio delle agevolazioni fiscali (alternativo all’aumento dell’Iva da ottobre) e dalla spending review ma sarà un lavoro lungo e difficile.
Il governo pensa di poterlo portare a termine entro giugno: si dovranno consolidare i tagli lineari dove sono stati efficaci e sostituirli con azioni mirate dove hanno prodotto vere e proprie strozzature nelle amministrazioni dello Stato.
L’obiettivo è comunque quello di aggredire i 480 miliardi di spesa dello Stato e delle amministrazioni periferiche.
Infrastrutture.
Un piano grandi opere anche con capitali privati. E’ questo l’altro nodo sul tavolo del governo Monti.
L’obiettivo è quello di rilanciare le infrastrutture: su questo tema dovrebbe esserci un ulteriore sblocco di fondi e nuove disposizioni per facilitare il project financing e semplificare le procedure.
Secondo quanto annunciato dagli stessi ministri Passera (Sviluppo economico) e Barca (Coesione Territoriale) si punterebbe a otto-nove grandi opere per il Sud, a misure per attrarre capitali privati sulle infrastrutture e a favorire la deburocratizzazione.
Il ministro Corrado Passera è al lavoro su questi temi da tempo e nei giorni scorsi il Consiglio dei ministri ha fatto un primo passo: un provvedimento impone ad ogni ministero, dalla Sanità alla Difesa, di approntare un documento pluriennale di pianificazione dei programmi di investimento per opere pubbliche.
Lo stato di avanzamento delle opere sarà oggetto di un monitoraggio assai stretto: si terranno sotto controllo, con un sistema informatizzato, i lavori e l’utilizzo dei finanziamenti nei tempi previsti. In prima linea anche i Fondi strutturali.
Già 3,1 miliardi saranno concentrati su quattro settori: ferrovie, scuola, agenda digitale e occupazione dei lavoratori svantaggiati. Infine una nomina: su proposta del ministro per le Infrastrutture Corrado Passera, il consiglio dei ministri ieri ha nominato Pasquale De Lise direttore generale dell’Agenzia per le infrastrutture stradali e autostradali.
Mercato del lavoro.
E’ uno dei nodi più importanti sul tavolo del governo: la riforma del mercato del lavoro.
E l’articolo 18, che tutela i lavoratori licenziati senza giusta causa, è il tema più “caldo” sul quale il segretario del Pd Bersani e i sindacati hanno fatto muro.
Nel suo discorso di insediamento in Parlamento Monti ha assicurato che “non verranno modificati i rapporti di lavoro stabili in essere” e ha fatto riferimento ad un nuovo ordinamento.
In che direzione? Lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, il sostegno alle persone senza impiego volto a facilitarne il reinserimento nel mercato del lavoro, costruito sul modello della flexsecurity danese e l’intenzione di colmare il fossato che si è creato tra garantiti e non garantiti.
Dopo lo sciopero di tre ore post manovra e i presidi dei tre segretari di Cgil-Cisl e Uil di fronte a Montecitorio i rapporti sembravano ai ferri corti tuttavia l’annuncio del ministro Fornero (Lavoro e Welfare) di un convocazione per il 9 gennaio sembrerebbe riaprire la partita.
Certamente il pacchetto di richieste dei sindacati, che ha in prima linea modifiche alla riforma delle pensioni e interventi sul potere d’acquisto, non coinciderà con le proposte del governo sul mercato del lavoro.
Ma una prima carta che potrà giocare la Fornero è quella dei nuovi ammortizzatori sociali e del contratto unico di inserimento.
Roberto Petrini
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 29th, 2011 Riccardo Fucile
IL FIDANZATO DELL’ASSESSORE REGIONALE MONICA RIZZI, SPONSOR DEL FIGLIO DEL SENATUR, RISCHIA DI METTERE NEI GUAI IL TROTA… UN’INDAGINE DELLA PROCURA SU UN GIRO DI AFFARI IMMOBILIARI
Un’amicizia “spericolata” rischia di portare nei guai giudiziari Renzo Bossi, figlio del leader della Lega.
Il legame è quello con Alessandro Uggeri, fidanzato dell’assessore regionale Monica Rizzi, che aiutò Bossi jr nella campagna elettorale delle regionali 2010.
Un’amicizia stretta al punto che il “Trota” – come il padre ribattezzò anni fa Renzo – trovò ospitalità nella villa di Uggeri nelle settimane in cui combatteva per raccogliere preferenze.
In quella villa erano però state segnalati festini con escort e cocaina.
Le verifiche investigative hanno trovato conferma ai sospetti.
E a quelle serate sexy risultava presente anche Bossi jr. Il consigliere regionale leghista non è formalmente indagato, ma l’inchiesta comunque lo riguarda.
È un altro “scivolone” in un curriculum movimentato. in origine furono dei falsi (non suoi) e una gita spericolata con una moto a quattro ruote nei boschi di Ponte di Legno.
I fatti si svolgono a Brescia, la circoscrizione nella quale Bossi jr è stato eletto con 13mila preferenze, e qualche polemica.
Secondo i magistrati ad agevolarlo nella corsa al Pirellone sarebbero stati dei dossier fabbricati per eliminare dalle liste del Carroccio due avversari scomodi: un “aiuto” confezionato da un maresciallo delle Fiamme Gialle su mandato della Rizzi, bresciana, assessore regionale allo Sport e amica del Trota.
Per questa vicenda la Rizzi è indagata con l’accusa di trattamento illecito di dati protetti (il fascicolo è in mano al pm Fabio Salamone).
Una nuova grana che si aggiunge a quella relativa alla finta laurea in psicologia e alla presunta qualifica di psicoterapeuta infantile (l’assessore ha ammesso di avere millantato).
Ma torniamo a Bossi e alla campagna elettorale del 2010.
La Rizzi viene incaricata dal Senatur in persona di spianare la strada al figlio.
Lei, che conosce Renzo da quando è piccolo, affronta l’impegno come una missione.
Il candidato Bossi jr viene alloggiato in un villone di Roè Volciano, sulle colline vicine a Salò.
Il proprietario di casa è appunto Uggeri: è con lui che a Ponte di Legno scorrazzano in quad in una riserva naturale distruggendo il campo di un contadino e imbattendosi in una guardia forestale (parte un colpo di pistola, dinamica ancora da accertare, indagano i carabinieri di Breno).
Uggeri è un tipo brillante. La sua villa, già teatro di feste in stile Billionaire con fuochi d’artificio e elicotteri in giardino, diventa il quartier generale di Bossi jr. Uggeri gli fa da bodyguard, autista, confidente.
Assieme a Valerio Merola, in arte Merolone – rà s dei locali nella zona del Garda – diventa il suo compagno di scorribande notturne.
Ma i carabinieri di Brescia e la Guardia di Finanza stanno tenendo d’occhio Uggeri per una presunta frode fiscale: l’uomo – secondo gli investigatori – apre e chiude società a un ritmo vorticoso.
Un sistema che gli consente di evadere il fisco e realizzare profitti.
Ed è nel corso di queste indagini che alcuni testimoni mettono i militari sulla pista dei festini con cocaina e prostitute.
Gli accertamenti sono alle battute finali. E confermerebbero che nella sua avventura bresciana il “Trota” si è affidato alle persone sbagliate. Incaricati di aiutarlo a fare incetta di voti, Uggeri & Co avrebbero utilizzato il giovane Bossi come cartina di tornasole.
Forse anche come biglietto da visita per i loro affari. In ambienti investigativi si racconta che in almeno una delle sue società Uggeri avrebbe coinvolto il figlio del leader della Lega.
Altre indiscrezioni riguardano alcuni episodi imbarazzanti che sarebbero accaduti nei mesi scorsi: episodi “pubblici” con protagonisti Uggeri e lo stesso Bossi, nelle loro serate tra feste e locali.
Su questo punto, però, non ci sono conferme.
L’indagine è ancora coperta da uno stretto riserbo: ma il deposito degli atti è imminente.
Le ipotesi di reato più pesanti (droga, prostituzione), riguarderebbero Uggeri e un suo socio.
Paolo Berizzi
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 28th, 2011 Riccardo Fucile
IL GOVERNO PUO’ ANCORA INDIRE UN’ASTA E RICAVARE UN MILIARDO DI EURO: O IN ITALIA SI FANNO PAGARE SOLO I CITTADINI?
Dopo quello delle frequenze televisive c’è un secondo beauty contest che Mario Monti dovrebbe fermare.
Sono rimaste poche ore ma è ancora possibile far pagare il giusto ai signori del gioco. Poco prima di Natale è circolata la voce che le concessioni per le slot machines stanno per essere assegnate, gratis.
Manca ancora il decreto e c’è tempo per impedire l’ennesimo regalo ai dieci concessionari (Bplus, Sisal e Lottomatica in testa) del gioco, tuttora in causa con lo Stato per decine di miliardi di euro per le loro inadempienze del passato.
Non è più ammissibile in un’epoca di sacrifici che queste società continuino a macinare utili milionari grazie a un quadro normativo e politico che le favorisce.
Già conosciamo l’obiezione: le concessioni dovrebbero fruttare circa 135 milioni per il pagamento di un diritto di 15 mila euro per ognuna delle nuove VLT (grande slot di nuova generazione) e 200 euro per ciascuna nuova slot installata.
In realtà questa cifra è una miseria rispetto ai miliardi di euro che i re del gioco incasseranno di qui fino al 2021.
Il pallino è in mano all’Aams, l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato diretta da Raffaele Ferrara.
La legge del Governo Berlusconi prevede che il settore più redditizio dell’economia sia assegnato in concessione gratuita per 9 anni.
Ma se le licenze fossero assegnate a pagamento con una gara pubblica, come si vuole fare per le frequenze televisive, sarebbe possibile incassare una somma vicina al miliardo di euro.
Segnate bene in mente questo numero: 42 miliardi di euro.
A tanto ammonta la raccolta annuale delle slot machines legalizzate nel nostro paese nel 2011.
Parliamo di un giro di affari superiore di dieci miliardi a quello realizzato in tutto il mondo dall’intero gruppo Fiat.
Contribuiscono a questa cifra (preoccupante per le conseguenze sociali) due famiglie di apparecchi da intrattenimento: le piccole “new slot” disseminate nei bar che permettono di vincere fino a 100 euro e le più grandi e potenti VLT, presenti ormai in centinaia di grandi sale che non hanno nulla da invidiare a un vero casinò, che permettono di vincere fino a 500 mila euro con il jackpot. Introdotte alla fine del 2010 grazie al decreto Abruzzo hanno raccolto da gennaio a novembre del 2011 ben 11 miliardi di euro.
Mentre le vecchie “new slot” hanno incassato poco meno di 27 miliardi.
In tutto sono 38 miliardi ai quali bisogna aggiungere l’incasso previsto per dicembre per arrivare alla cifra mostruosa di 41 miliardi.
Se si eliminano le vincite resta una cifra comunque enorme: da gennaio a novembre sono 7 miliardi e 636 milioni di euro.
Si può prevedere che nel 2011 le slot e le vlt trattengano nelle loro casse una cifra superiore agli 8,3 miliardi di euro.
Non a caso la società italiana cresciuta di più in borsa nel 2011 è Lottomatica, il più grande dei 10 concessionari per dimensioni ma non per quota di mercato.
In testa con un buon 25 per cento del parco macchine, infatti, troviamo Bplus, una limited company con sede a Londra controllata da Francesco Corallo, figlio di Gaetano, vecchio amico del boss catanese Nitto Santapaola.
Gaetano è stato condannato negli anni ottanta a 7 anni e 6 mesi (poi ridotti a 4 dall’indulto) per associazione a delinquere per la scalata proprio ai casinò italiani di Sanremo e Campione.
La società del figlio, che dice di non avere nulla a che fare con il padre e che è stato prosciolto in due inchieste della Procura di Roma (che lo vedevano indagato per traffico di droga e riciclaggio con il padre nel 2000 e 2009), ha ottenuto la concessione per riscuotere le tasse dello Stato italiano.
Nonostante la struttura societaria della società basata alle Antille olandesi, Corallo jr è il primo esattore delle tasse del gioco in Italia.
Il beauty contest del gioco è stato indetto anche per sanare questa situazione paradossale ma il prezzo è troppo caro.
Lo Stato italiano, dopo avere assegnato il compito di riscuotere miliardi di euro di imposte a società che non hanno rispettato gli impegni e che talvolta non si sa nemmeno a chi appartengono, ha deciso di donare loro una concessione novennale.
L’ennesimo regalo di una storia che inizia nel 2004.
Quando Berlusconi decide di fare emergere questo enorme settore sommerso affida ai dieci concessionari il compito di collegare le slot in rete con il computer della Sogei e di controllare il rispetto delle regole.
I requisiti per selezionare questi esattori e controllori del gioco erano però superficiali. Nessuno chiese informative prefettizie per conoscere nel dettaglio la storia degli amministratori nè tanto meno fu imposta una struttura societaria italiana trasparente. Le dieci concessioni dovevano scadere nel 2008 ma sono state prorogate, sempre gratis, per tre volte, l’ultima pochi giorni fa fino all’aprile del 2012.
Non solo.
Anche le nuove Vlt, molto più redditizie, sono state affidate senza gara ai dieci concessionari nella misura arbitraria di 14 vlt per ogni 100 esistenti nel parco macchine singolo concessionario.
In tal modo lo Stato ha perpetuato il regalo del 2004 mantenendo intatte le quote di mercato anche nel nuovo settore delle vlt.
A ottobre finalmente è arrivata la gara per le nuove concessioni.
Un po’ come nel beauty contest delle tv però sono stati privilegiati i concessionari attuali che potranno conservare le loro slot e vlt se rispetteranno i criteri stabiliti per legge, tra i quali finalmente c’è anche l’obbligo di far sapere chi è il proprietario. Mentre i tre nuovi entranti qualificati saranno costretti a crearsi prima una rete di vecchie slot per potere poi chiedere di entrare (sempre in ragione di 14 nuove VLT per ogni cento macchinette) nel nuovo mercato.
È difficile fare una stima del valore delle 13 concessioni in assegnazione.
L’incasso netto delle vecchie slot si può stimare in 600 milioni di euro all’anno. Mentre l’importo che resta in cassa a Bplus, Lottomatica, Sisal e compagni per le vlt è più piccolo in valori assoluti ma molto più elevato in termini percentuali.
Le grandi slot hanno trattenuto in cassa dopo il pagamento dei premi “solo” 1,2 miliardi di euro nel 2011.
Ma lo Stato si è accontentato di una tassazione pari solo al 2 per cento contro l’11,5 per cento dell’aliquota chiesta alle vecchie slot.
L’aliquota generosa (portata solo da pochi mesi al 4 per cento) è stata giustificata con un versamento una tantum di 15 mila euro per ogni macchina.
In realtà quel versamento si ripaga al massimo in un paio di anni mentre la concessione dura 9 anni.
Se il trend si mantiene simile a quello della fine del 2011, si può stimare che per 7 anni almeno i concessionari incasseranno un miliardo all’anno dalle vlt al netto delle tasse .
E altri 600 milioni di euro dalle slot, stavolta per nove anni. In tutto l’arco della concessione gli introiti potrebbero superare i 12 miliardi di euro.
Anche considerando i costi fissi per l’affitto delle sale, per le macchine e per il personale, la concessione resta un ottimo affare, un asset che i tredici concessionari iscriveranno nel loro bilancio e che non c’è alcuna ragione che non paghino a caro prezzo.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
argomento: Costume, economia, Giustizia, governo, la casta | Commenta »