Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
LA STRETTA SULLE PENSIONI E LE SPREQUAZIONI TRA PERIODO PRECEDENTE ALLA RIFORMA DINI E QUELLO SUCCESSIVO
I sindacati che parlano spesso di «equità » e ora anche di «numeri magici» difficilmente vi farebbero un calcolo così.
Un lavoratore autonomo che va in pensione oggi prende oltre tre volte e mezzo quello che ha versato durante la vita lavorativa, in termini di contributi.
Per l’esattezza, fatto 100 il «montante contributivo», il commerciante o artigiano o contadino prende 346 se uomo, 368 se è donna.
Il calcolo, fatto da Michele Belloni e Flavia Coda Moscarola sul sito Lavoce.Info , si applica anche a dipendenti pubblici, dove il rapporto è di due volte e mezzo (268 per gli uomini e 249 per le donne), e i privati dove è quasi due volte (162 per gli uomini e 188 per le donne).
Il fatto è che questo «regalo del retributivo» come lo chiamano i due economisti, non vale per tutti.
Vale, appunto, per chi gode del regime previdenziale molto generoso che era in vigore prima della riforma Dini.
Per chi ha cominciato a lavorare dopo l’anno della riforma, dal 1996, il «regalo» sparisce: quando andrà in pensione prenderà esattamente quello che avrà dato: fatto 100 prenderà 100.
Equo? Non proprio. Comprensibile, allora, che tra le prime riforme in cantiere dell’«agenda Fornero» ci sia l’estensione del considdetto metodo contributivo a tutti, anche ai privilegiati dell’««età dell’oro» pre-Dini.
Inoltre non c’è solo sproprozione tra quello che hanno versato e che incassano le generazioni pre-Dini.
C’è anche una differenza notevole tra quello che c’è scritto sui loro assegni.
Con il metodo retributivo pre-Dini le pensioni si calcolavano su una media degli ultimi stipendi, quelli da fine carriera, i più alti probabilmente dell’intera vita lavorativa.
Il contributivo, invece, fa una media.
Seguendo il ragionamento di una simulazione fatta dai due economisti Tito Boeri e Agar Brugiavini, mettendo a confronto due persone dal profilo lavorativo identico – stessi anni di lavoro e stessa busta paga – chi ha cominciato a lavorare a 23 anni nel 1974 può andare in pensione a 62 e prende il 76% dell’ultimo stipendio, esempio circa 1.340 euro.
Chi aveva 23 anni nel 1996 andrà in pensione minimo a 64 anni e prenderà il 71 per cento dell’ultimo stipendio, circa 900 euro.
Equo? Di nuovo, c’è da dubitarne.
Se questo sistema, oltretutto, fosse sostenibile, si potrebbe deprecarne l’evidente ingiustizia nei confronti delle coorti di lavoratori post 1995 ma fare finta di nulla finchè il sistema retributivo andrà a regime, più o meno nel 2030.
La verità è che la sproporzione tra contributi versati e pensioni erogate scava anche voragini nei conti delle casse previdenziali.
Solo l’80,1 per cento della spesa pensionistica è coperta dai contributi versati.
Il resto, quasi 50 miliardi di euro, li mette lo Stato.
E la differenza tra Nord e Sud è notevole.
In Lombardia e in Trentino il saldo è positivo (rispettivamente con il 105,7 e il 103,5 per cento) mentre fanno venire la pelle d’oca alcune regioni del Sud come la Puglia (58,9) e Calabria (54,1).
Un trend messo in evidenza anche dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda: «L’andamento della spesa per pensioni incarna tutte le negatività del policy making italiano, soprattutto con riferimento alla questione delle pensioni di anzianità ».
In un saggio scritto per la rivista Industria , osserva che «in termini reali negli ultimi trent’anni la spesa per pensioni è cresciuta mediamente del 3 per cento all’anno, contro una crescita del Pil dell’1,7 per cento».
E i l numero delle pensioni in essere è cresciuto mediamente dell’1,17 per cento mentre la popolazione residente è cresciuta dello 0,21 per cento all’anno».
Numeri che giustificano interventi rapidi del governo che riescano finalmente a distribuire l’onere dei sacrifici del risanamento un po’ più equamente tra generazioni.
Tonia Mastrobuoni
(da “La Stampa”)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
L’AZIENZA CHE FORNISCE SERVIZI E IMMOBILI AL PARLAMENTO LICENZIERA’ 350 LAVORATORI SU 530…GUADAGNAVANO 980 EURO AL MESE E DA GENNAIO SARANNO SENZA LAVORO
La Camera dei deputati dà il via ai tagli. Nulla, però, a che vedere con i privilegi e le spese folli dei parlamentari.
Se c’è da stringere la cintura, meglio che a farlo siano prima i lavoratori.
E così, in nome della riduzione dei costi della politica, 350 persone circa verranno licenziate tra poche settimane.
Sono i dipendenti della Milano 90 srl, che gestisce in appalto per la Camera dei deputati servizi come la mensa, la posta e le pulizie.
Lavoratori che di certo hanno poco a che vedere con vitalizi e privilegi: per ciascuno di loro la paga mensile ammonta, infatti, a 980 euro al mese.
I licenziamenti sono la conseguenza di un affitto revocato.
Quello di Palazzo Marini, a due passi da Montecitorio.
L’edificio storico è di proprietà del potente imprenditore romano Sergio Scarpellini che è anche il titolare della Milano 90 srl.
Nel 1997 il Parlamento volle regalare un ufficio dignitoso a ogni deputato e per questo decise di affittare Palazzo Marini e gli altre tre edifici gemelli di piazza San Silvestro. Per Scarpellini, che aveva acquistato gli stabili poco tempo prima con un mutuo (che di fatto è stato pagato dal Parlamento), si rivelò un affare straordinario.
La Camera dei deputati stipulò infatti con l’immobiliarista un contratto da nove anni più nove, che ammontava a 444 milioni di euro.
Con la stessa cifra si sarebbero potuti acquistare immobili al centro di Roma per oltre 60mila metri quadrati.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
EPILOGO DELLA STRANA STORIA DI AMICIZIA TRA MONTECITORIO E LA SOCIETA’ DELL’IMPRENDITORE ROMANO CHE ORA LICENZIERA’ 350 ADDETTI
Dopo 15 anni, la Camera dei deputatati rescinde il contratto di affitto con Milano 90 srl e lascia Palazzo Marini.
Ad oltre un anno dal dossier presentato dalla deputata radicale Rita Bernardini sulla strana storia di amicizia tra la Camera e la società dell’imprenditore romano Sergio Scarpellini, i tre questori (Francesco Colucci e Antonio Mazzocchi del Pdl e Gabriele Albonetti del PD) hanno comunicato la decisone di traslocare dal palazzo tra piazza S. Claudio, via del Tritone e via del Pozzetto.
Dal ’97 la Camera dei deputati firma infatti contratti di locazione miliardari (ora milionari), oltrechè relativi a vari servizi — commessi ai piani, pulizie, mensa, camerieri di sala, cassieri, barman/banconisti.
“Con la rescissione di Palazzo Marini — racconta Sergio Scarpellini — decadranno di conseguenza anche i servizi relativi ed io mi ritroverò costretto a mandare a casa 350 dipendenti”.
Il cosiddetto Marini però è l’unico palazzo preso in affitto da Scarpellini, dal quale la Camera può andar via con un anno di preavviso.
I contratti relativi agli altri palazzi, tutti nella zona di piazza S. Silvestro e anche questi con durata 9+9, non prevedono infatti alcuna possibilità di recesso anticipato: l’Aula di Montecitorio cioè, scriveva Bernardini, “è prigioniera dei contratti sottoscritti”.
Condizioni vantaggiose per l’imprenditore romano che, per sdebitarsi in qualche modo, offre alla Camera servizi di alta qualità (come gli ottimi piatti serviti nella mensa di “Palazzo San Macuto”) a prezzi sottocosto (poco più di 13 euro per un menù completo che comprende oggi bistecca di chianina, domani scampi appena pescati). Incontriamo Sergio Scarpellini nella sede della Milano 90 srl, “scortato” dal suo legale e dal suo commercialista.
Come nasce questo rapporto con la Camera dei deputati, come siete entrati in contatto?
Abbiamo intrapreso tanti anni fa questa attività : comprare palazzi e poi affittarli, e talvolta anche subaffittarli, garantendo però tutti i servizi. Una cosa convenientissima per la Camera. Partimmo nel ’97, quando stipulammo il primo contratto con l’allora presidente Violante per palazzo Marini. Avevamo però già affittato un palazzo al Senato, all’epoca di Fanfani. Dopodichè, nel ’90, abbiamo comprato l’albergo Marini e abbiamo fatto un’offerta alla Camera, perchè si sapeva che aveva bisogno di uffici. Sa, le notizie girano. Era un periodo storico in cui Camera e Senato volevano assicurare un ufficio ai propri parlamentari.
Quindi siete stati voi a farvi avanti, a proporvi?
Si, certo. Abbiamo fatto quest’offerta e abbiamo iniziato a trattare. Chiavi in mano, la Camera pretese che tutti i lavori, la mobilia ecc., fossero a carico nostro. Non ha speso una lira in più. Tutt’ora, quando cambiano i governi, se ad alcuni parlamentari non va bene l’arredo che c’era prima, siamo costretti, da contratto, a cambiarlo. Tutto a carico nostro. Un contratto convenientissimo. Durante i lavori di ristrutturazione poi, la Camera ci inviò una lettera in cui ci chiedeva altri spazi.
La Camera, quindi, è venuta da voi a colpo sicuro: sapeva che avevate altri palazzi disponibili e li ha richiesti. Perchè però non è stata fatta una gara? Non c’erano altre società , oltre alla sua, a cui la Camera avrebbe potuto rivolgersi per prendere in affitto alcuni palazzi?
Ma quale gara. Noi facciamo questo lavoro. Sa quelle cose come nascono, no? Visto che avevamo già preso i contatti, la Camera ci chiese se avevamo altri spazi. E questi altri spazi, tutti in quella stessa zona, siamo riusciti a trovarli e a comprarli. Ad oggi, sono circa 45 000 metri quadrati gli immobili affittati alla Camera. Una serie di Palazzi che abbiamo comprato esclusivamente per loro. Ci siamo indebitati per loro.
Dunque, voi avete comprato questi palazzi per poi darli in affitto alla Camera. Ma perchè, secondo lei, la Camera non li ha acquistati direttamente, magari accendendo un mutuo?
Quella è una loro scelta. Poi secondo me, alla Camera conviene stare in affitto. A noi invece converrebbe vendere. Quindi la campagna che ha fatto la Bernardini è soltanto una gran casino: non c’è niente di esatto. Non ci crederà , ma rispetto ai prezzi di mercato attuali, quelli che facciamo alla Camera sono bassissimi. I contratti del ’97 sono gli stessi che ancora reggono, senza alcun aumento. I palazzi sono sottostimati. Quello attuale dunque è un prezzo di favore.
Adesso invece che succede?
La Camera l’anno scorso ci ha inviato una lettera in cui diceva che avrebbe rescisso il contratto di Palazzo Marini 1 entro quest’anno. Anche se noi riteniamo che non lo possa fare. Mi trovo costretto così a licenziare 350 persone (ndr. per i quali è stata aperta la procedura di mobilità ) che svolgono vari servizi, che diamo alla Camera. Perchè io con i servizi aggiuntivi non guadagno, sono andato avanti fino ad ora con gli immobili affittati: pagavamo il personale con parte degli introiti provenienti dai contratti di affitto.
E’ abbastanza illogico però prendere tutto quel personale se non riuscite a pagarlo con le entrate che provengono dalla stessa fornitura del servizio (attorno ai 2, 7 milioni di euro all’anno)…
Nel tentativo di fornire un servizio ottimale abbiamo adottato una logica assuntiva in esubero. Attualmente potremmo fornire gli stessi servizi solo con 195 dipendenti, rispetto agli attuali 500 e rotti. Abbiamo assunto tutta questa gente anche perchè abbiamo una alta percentuale di assenteismo attorno al 40%. Proprio per questo, anche se la Camera tornasse sui suoi passi, almeno 200 persone le dovrei mandar via comunque. Certo, poi c’è anche la previsione di riforme costituzionali che confermano il dimezzamento della struttura rappresentativa della Camera dei deputati, ma le cause primarie, per cui siamo costretti a licenziarli, sono i recessi e le revoche dagli appalti.
Gabriele Paglino
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
NOMINA SOTTOSEGRETARIO BRAGA: MA QUALE DEI DUE?
“Di sicuro io sono il Francesco Braga di cui ha parlato il ministro esprimendo profonda stima per le mie capacità professionali, almeno come riportato dalle interviste sui media. Penso però che un mio collega omonimo (Ing. Franco Braga della Sapienza) sia la persona che vi interessa”.
La lettera arriva dall’America al Fatto Quotidiano, dopo le perplessità sulla nomina del sottosegretario alle Politiche agricole.
A Palazzo Chigi Braga non si è visto.
Era uno dei quattro assenti al giuramento.
Ma non sembra che a fermarlo sia stato un impegno improvviso. È che nessuno ha capito quale Braga sia stato nominato.
Il ministro Mario Catania, parlando con i giornalisti, ha espresso la sua soddisfazione per l’incarico a un professore che “conosco di fama per la competenza scientifica di alto livello e l’attività nel Nordamerica”.
Il curriculum citato corrisponde a quello dell’economista agro-alimentare Braga, proveniente dalla Cattolica di Milano e docente negli Stati Uniti.
Ma il nominato, come confermano da Palazzo Chigi, è un altro, il Braga ingegnere civile esperto di costruzioni antisismiche.
Che, con le Politiche agricole, però, ha poco a che fare.
Vista la situazione, ha fatto bene ieri mattina Saverio Ruperto a reagire così dopo la nomina a sottosegretario all’Interno: ha stretto la mano a Monti, ha rivolto uno sguardo al cielo e si è fatto il segno della croce.
Che Dio la mandi buona a questi nuovi 28 membri del governo.
Il loro premier li ha difesi dai (rarissimi) attacchi della stampa: “Attenti a parlare di conflitto di interessi, saremo di un’assoluta trasparenza”.
Ma nel caso Braga più che di trasparenza bisognerebbe parlare di nebbia fitta.
Quando ieri mattina in commissione Agricoltura a Montecitorio non hanno visto arrivare nessuno, e hanno scoperto che il loro referente nel governo non aveva neanche giurato, si sono chiesti perchè.
Forse doveva tornare dall’America? Ma no, non è quel Francesco Braga.
È il Franco Braga romano, detto Francesco, quello nominato.
Sicuri? Le riviste di settore dicono il contrario. E per la gioia degli agricoltori, il dubbio non sono riusciti a risolverlo. “Non hanno notizie neanche i miei colleghi più esperti — dice sconsolato il deputato Pd Marco Carra — abbiamo cercato su Google, ci pare sia l’ingegnere, non ci sarebbe nulla di male, però non abbiamo conferma che sia lui”.
Al telefono del suo ufficio il professor Braga (l’ingegnere) non risponde.
Un ragazzo al centralino spiega di non sapere della nomina: “Me la state dando voi questa notizia”.
Alla Sapienza accolgono la domanda con stupore, sia al Rettorato che in Facoltà .
Non sono a conoscenza dell’incarico a un professore dell’ateneo, e ritengono ancor più incredibile che “un ingegnere strutturale di stretta osservanza” possa diventare sottosegretario al ministero di via XX Settembre.
Lì dentro, giurano che qualcuno la risposta ce l’ha.
Ma non all’ufficio stampa: “Siamo in attesa di una comunicazione degli uffici competenti” .
L’attesa dura fino alle 9 di sera: niente da fare, del curriculum del “vero” sottosegretario non c’è traccia. E a Montecitorio le voci si rincorrono: “Il Braga ingegnere non è interessato a quel posto, semmai alle Infrastrutture. Vedrete che rinuncerà all’incarico”.
Ma ormai la frittata è fatta. D’altronde il caso Braga non è l’unico ad aver provocato versioni discordanti.
Anche sul ministro Filippo Patroni Griffi non tutti la pensano allo stesso modo.
Per l’ex ministro Brunetta, “è il più bravo che c’è”.
Pietro Ichino, senatore Pd, invece non commenta. Dice solo: “Andatevi a vedere quello che c’è pubblicato sul mio sito”. Giura che adesso “ha perdonato”. Ma gli archivi non perdonano.
La notizia campeggia nel blog del senatore e porta la data del febbraio scorso. Racconta che per Patroni Griffi, l’ex ministro Brunetta si inventò il “comma 12-decies”: i dipendenti pubblici (come il neo ministro, magistrato al Consiglio di Stato) che sono anche membri del Civit — la Commissione per la Valutazione, l’Integrità e la Trasparenza istituita dalla legge Brunetta — non sono più obbligati a lasciare il loro incarico nella pubblica amministrazione.
Lasciano la poltrona solo se ne hanno voglia.
Spulciando il sito del senatore Pd, però, il neo ministro non è l’unico a spuntare dagli archivi.
C’è anche Michel Martone, altro fresco ingresso al governo.
Qui la notizia è del novembre 2010: Ichino il giorno 26 presenta un’interrogazione scritta al ministro, sempre Renato Brunetta.
Che ha combinato stavolta? Ha assegnato a Michel, figlio del presidente del Civit Antonio Martone, “un compenso vistosamente sproporzionato (40 mila euro, ndr) per una consulenza vistosamente inutile”.
Ichino oggi precisa: inopportuno non era lui, ma la consulenza.
D’altronde Michel c’era rimasto male già allora: “Il prof mi conosce dai tempi della laurea”. Figuriamoci ora che uno sta al governo e l’altro nella maggioranza che lo sostiene.
Caterina Perniconi e Paola Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
PARLA BORGOGNI, EX CAPO DELLE RELAZIONI ESTERNE DEL COLOSSO PUBBLICO
La spavalderia ha già lasciato il posto a una modesta ammissione.
Lorenzo Borgogni, l’ex vertice delle Relazioni esterne del colosso Finmeccanica, il depositario di molti segreti e forse tangenti, l’uomo che ha rischiato di finire in carcere su richiesta della Procura di Roma, premette: “Finmeccanica si è indebolita di fronte alle pressioni della politica”.
E risponde come può – “sono tenuto al segreto di indagine”, dice – e forse anche come vuole.
Dottor Borgogni, lei è un manager di Stato che ha dirottato su un conto estero 7 milioni di euro. Da dove salta fuori questo denaro?
“Non erano tangenti, non è denaro di provenienza illecita. Tra l’altro voglio precisare che, appena convocato dai pm di Roma, l’11 gennaio 2011, fui io a mostrare questa documentazione. Quei soldi sono frutto di mie consulenze, io avevo consentito ad aziende di rinascere e di fare business, si tratta di rapporti tra privati e non c’è nulla che abbia a che vedere con un’ipotesi di corruzione”.
Il pm parla di “creste”. Grave per un manager di Stato.
“Non lo erano. Comunque, tornassi indietro non lo rifarei”.
In un’intercettazione del maggio 2010 lei, brutalmente, ipotizza di fare dossieraggio contro l’allora ministro Tremonti.
“Non è assolutamente così. Ero arrabbiato, sì. C’era una impossibilità e una difficoltà notevole di rapporti con l’ex ministro Tremonti, che aveva bloccato la nomina di Guarguaglini a vicepresidente di Confindustria. Eravamo noi a sentirci traditi. E ci sentivamo accerchiati da questi presunti scoop. Ad esempio sulle notizie che uscivano sulla Digint. Poi noi non ci eravamo inventati proprio nulla. Io riferivo al telefono di cose che diceva tutta Roma”.
Lei è al suo quarto interrogatorio, come teste, con i pm di Napoli Piscitelli, Curcio e Woodcock sul caso Finmeccanica; ma sono dodici le sue audizioni se si contano anche quelle rese per le indagini su P4 e sull’ex consigliere di Tremonti, Milanese. Intanto a Roma la sta sentendo anche il pm Ielo. Lei è un superteste o sta giocando una partita?
“Nessun gioco. Racconto fatti verificabili. Ho sempre detto che il nostro cda era espressione della politica, che nelle 18 società di primo livello di Finmeccanica, il cui azionista era il ministero del Tesoro, c’era questa interlocuzione e pressione. Mi arrivavano i curriculum, li mandavo all’ufficio del personale delle aziende. Se erano profili di ingegneri li esaminavo, se era altro dicevo “andiamoci piano”. Ma avevamo le nostre regole. Su 7 membri di Cda, la politica ne poteva segnalare 2, mai il presidente. E comunque in 10 anni avrò passato qualche centinaio di curriculum: è tanto se il dieci per cento sono andati in porto”.
Che cosa è stata la Finmeccanica di Guarguaglini? Un pozzo nero di tangenti?
“Guarguaglini è stato uno dei più grandi manager italiani e ha portato al successo la Finmeccanica, ha vuto la grande intuizione di trasformare la holding finanziaria in holding industriale. E tra l’altro finchè c’è stato lui come amministratore ha cercato di limitare le ingerenze della politica”.
Lorenzo Cola “consulente globale” della holding dice di averle portato tangenti. Una volta, le ha consegnato una busta con 350 mila euro che lei ha girato a Bonferroni, consigliere di amministrazione della holding e riferimento dell’Udc.
“Non andò così, mi creda. Ne ho parlato ai pm, sanno tutto. Ma non posso dire di più. Cola, in generale, è stato diabolico”.
Altri fatti. à‰ vero che i parenti dei potenti in Finmeccanica bussavano da destra e da sinistra? Le risulta che un figlio del senatore Pd Latorre è stato assunto in Agusta Westland?
“Sì, è così, credo ne avesse anche i titoli”.
Le risulta che sia stato assunto anche il fratello del deputato della Lega, Giorgetti?
“Sì, anche questo è un nome che è tra le persone assunte”.
Stessa sorte per una figlia di Massimo Ponzellini.
“È così, in questo caso me ne ha parlato proprio Ponzellini”.
Cosa sa del trasferimento delle attività Agusta Westland presso Malpensa con un fitto di capannoni per 5 milioni? È un favore al capogruppo della Lega alla Camera, Reguzzoni?
“Non posso andare oltre. È un argomento oggetto di domande e approfondimenti dei pm”.
Che intorno a Finmeccanica girassero figuri come Lavitola e Tarantini non era forse un segno di decadenza, di resa al sottobosco politico
“Su Tarantini, mi pare che proprio Guarguaglini abbia fatto di tutto per evitare rapporti. Su Lavitola, beh, eravamo già nella fase di debolezza”.
Chi porta Lorenzo Cola in Finmeccanica?
“Cola entra in Finmeccanica attraverso il ruolo di sottosegretario di Luca Danese, ai tempi dell’ingresso dell’Udeur nel governo D’Alema, credo 1999”.
Danese, il nipote del senatore Andreotti, già sottosegretario nel governo D’Alema in quota Mastella? Le risulta che Danese oggi è in affari con Alessandro Toci, primo collaboratore dell’ad di Finmeccanica, Orsi?
“Mi risultano dei rapporti, non saprei se di affari o di amicizia”.
Conchita Sannino
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
LA PROTESTA DEI DEPUTATI E SENATORI DEBUTTANTI
Raccontano che la più sorridente, a fine riunione, fosse la ministra al Welfare Elsa Fornera: «Così ci date una grossa mano d’aiuto, in vista delle misure che stiamo per adottare per le pensioni di tutti gli italiani», ha detto rivolta ai presidenti di Camera e Senato.
«Da gennaio passeremo al contributivo pro rata per tutti i lavoratori e dare il buon esempio ci aiuta».
La stangata previdenziale d’altronde è in arrivo, non è un mistero.
Così, l’input in questi ultimi giorni è partito dalla terza carica dello Stato.
Sembra sia stato Fini a contattare il collega Schifani: «Non possiamo cancellare i vitalizi dalla prossima legislatura, non basta, dobbiamo dare un segnale a spese nostre».
I capannelli che si sono formati in Transatlantico subito dopo la fine del vertice, intorno alle 19, erano lì lì per trasformarsi in focolai di rivolta.
Nel panico sono andati subito i 350 parlamentari che oggi sono alla prima legislatura.
La gran parte di loro non ne è ancora al corrente, come spiegavano ieri sera dagli uffici, altri lo apprenderanno in queste ore.
Ma si da il caso che i 246 deputati e 104 senatori che sono approdati in Parlamento nel 2008, se anche completeranno la legislatura, non avranno diritto ad alcun vitalizio o pensione.
Per tutti loro infatti, da gennaio scatterà il sistema contributivo, ma solo per l’ultimo anno di legislatura. Quando ancora non avranno raggiunto quei 4 anni, sei mesi e un giorno che col vecchio sistema avrebbe garantito loro il vitalizio (pur dal compimento del 65esimo anno di età ). Ma non finisce qui.
Le proteste montano e sono trasversali, 84 deputati del Pdl, 83 del Pd, in queste condizioni, tra gli altri, 38 senatori berlusconiani, 34 democratici.
L’argomento è stato congelato nella riunione dei presidenti col ministro..
Ma i questori non escludono affatto che venga studiata a giorni una norma transitoria che garantisca in qualche modo i 350 parlamentari sotto scopa e che venga introdotta nella deliberazione finale degli uffici di presidenza congiunta di Camera e Senato.
«È tutta pubblicità ingannevole, demagogia bugiarda» urlava ancora pochi giorni fa all’indirizzo di Gianfranco Fini, il capogruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri.
E molti nei capannelli a Montecitorio e Palazzo Madama ripetevano: «Così non prenderemo mai la pensione».
Proteste dentro il Palazzo, ma anche fuori. Alla spicciolata apprendono la cattiva notizia i 228 ex deputati che stavano per raggiungere la fatidica soglia dei 50 o 55 anni di età e con essa, il vitalizio.
Agli antipodi i casi di Ilona Staller – la pornodiva che proprio in questi giorni ha compiuto i 50, salvandosi per una manciata di settimana dalla tagliola del primo gennaio – e di Irene Pivetti. L’ex presidente della Camera che a gennaio avrebbe compiuto i 50, dovrà attendere il 2023, dunque altri dieci per percepire il vitalizio.
Ma l’elenco è lungo.
Incappa nella stretta il presentatore ed ex deputato socialista Gerry Scotti.
Ma anche il governatore della Regione Campania, Stefano Caldoro (Pdl) e l’attuale vicepresidente della Regione Lombardia, il leghista Andrea Gibelli.
L’ex deputato questore Edoardo Ballaman (anche lui del Carroccio) e l’ex sottosegretario verde Paolo Cento.
Poi ci sono altri deputati in carica, ma che avevano quasi raggiunto l’età pensionabile con i criteri attuali e che vedranno allontanarsi il miraggio di una decina d’anni.
Dai leghisti Giancarlo Giorgetti e Giacomo Stucchi a Italo Bocchino.
Ma la palma del sacrificato numero uno va al finiano Roberto Menia. I 50 anni li compie il 3 dicembre.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica“)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
IL CAPOGRUPPO DEL CARROCCIO A MONTECITORIO RIPERCORRE LA STORIA DEL PARTITO NEL LIBRO “GENTE DEL NORD”… ELOGIA IL CERCHIO MAGICO E DEDICA ALL’EX MINISTRO DEGLI INTERNI POCHE RIGHE
Nella Lega “vista dall’interno” raccontata da Marco Reguzzoni sembra non esistere Roberto Maroni.
L’ex titolare del Viminale, nonchè presidente in carica del Parlamento della Padania, è citato in appena poche righe nel libro autobiografico che il capogruppo del Carroccio a Montecitorio ha appena dato alle stampe, “Gente del Nord”.
Uomo fedele al Capo, Reguzzoni indica Renzo Bossi il futuro perchè “non tradirà ” e descrive i componenti del cerchio magico come “luminosi eroi”.
La fatica letteraria promette di raccontare “l’avventura della Lega vissuta dall’interno” ma in realtà sembra più un manifesto programmatico per il partito in via di riposizionamento.
Non si contano i messaggi diretti a quanti nel partito volessero indebolire leadership e gruppo dirigente cavalcando il malumore della base.
A scanso di equivoci, Reguzzoni ricorda nero su bianco la sua designazione diretta da parte del gran capo Umberto che zittì i detrattori con un deciso “si fa così e fine della discussione”.
Molto istruttivo come il Reguzzoni oggi “di lotta” presenta in chiave retrospettiva il Reguzzoni che fino a ieri era di governo. Ecco un passaggio.
A pagina 67 racconta di quando — appena eletto — ha mosso i primi passi alla Camera: “Ti fanno compilare mille moduli, decine di liberatorie e autorizzazioni sulla privacy (…). La sensazione è che il sistema inizi a inquadrarti, dandoti un po’ di carota (indennità , rimborsi, privilegi) ma al contempo stringendoti in una cornice di regole e ‘buoni comportamenti’ che poco per volta ti porteranno a essere parte del sistema stesso. Da rivoluzionario a componente del regime, insomma”.
Reguzzoni proprio non ci sta: si rifiuta risolutamente di fornire i propri dati bancari. Si rifiuta di sottoscrivere il conto corrente per il versamento di indennità e privilegi parlamentari.
Non gli piaceva che il conto in convenzione fosse intestato al Banco di Napoli. I commessi e i funzionari al banco vanno nel panico, mai vista una cosa simile.
“Il mio rifiuto non ha una spiegazione del tutto razionale, e forse risulta anche un po’ infantile, ma la Lega anni fa ha denunciato l’operazione di salvataggio del Banco di Napoli messa in atto grazie ai soldi dei risparmiatori padani e quindi non me la sento io — leghista — di avere un conto corrente proprio in quell’istituto.
Per me si tratta di una piccola rivendicazione di autonomia, che ha lo scopo di chiarire che non intendo assuefarmi al sistema”.
Ovviamente Reguzzoni ha fornito un altro conto corrente e la polemica si è esaurita lì. Segue top ten delle barzelle dei leghisti e quadretto strappa lacrime di Reguzzoni che sta in albergo a Roma “perchè non voglio avere una casa alternativa alla mia”.
Colore a parte, è interessante sfogliare l’album di fotografie della Lega “che conta” per l’ex presidente della provincia di Varese.
Reguzzoni ridisegna a suo modo la geografia dei rapporti interni, i valori e i pesi dentro il Carroccio.
Nella sua operazione-verità lascia appositamente vuoti i contorni di alcuni protagonisti (a lui) sgraditi. Uno su tutti, Roberto Maroni.
Non proprio uno che si possa ignorare, visto il suo passato e il suo incarico da ministro dell’Interno nel governo Pdl-Lega.
A lui sono riservate poche righe.
Non accenna neppure alla sua amicizia personale con Umberto Bossi, nè al popolo di Pontida che lo ha acclamato con tanto di striscioni “Maroni premier”.
Del resto i protagonisti della Lega-story sono altri. Stando a quanto riscrive Reguzzoni.
A partire dal cosiddetto “cerchio magico” che l’ingegnere di Busto riporta sotto la giusta luce nel suo libro, facendone “luminosi eroi”.
Un faro in pieno volto per Rosi Mauro che i detrattori hanno ribattezzato “mamma Ebe”, a indicare il suo ruolo secondo molti manipolatorio nei confronti del leader malato, circostanza che le avrebbe consentito una fulminante carriera, dal vertice di un sindacato sconosciuto e senza iscritti (SinPa) alla vicepresidenza del Senato.
La Rosi a pagina 20 è definita “la Pasionaria, una forza della natura”. Anzi, “una montagna». Di più: “Un vulcano pronto a eruttare fuoco e fiamme”.
Reguzzoni però finisce implicitamente per avvalorare le maldicenze quando racconta nei dettagli l’episodio dell’ictus del Senatur dell’11 marzo 2004.
La moglie Manuela Marrone e Rosi Mauro prendono la situazione in mano, di fronte all’immobilismo degli altri: “Bossi giace incosciente su un lettino, mentre attorno a lui decine di persone si affannano a guardare e a farsi guardare. Si ha quasi l’impressione che il paziente non sia la priorità . Io riesco solo a ottenere, non senza difficoltà , che stiano fuori dalla stanza almeno le scorte e i portaborse”, ricostruisce Reguzzoni.
E’ Manuela Marrone “che con piglio deciso fa sgombrare tutti dalla stanza e prende in mano la situazione”.
Situazione che, secondo i maroniani, da lì in poi include anche il partito.
E a leggere il libro si ha l’impressione che Reguzzoni riporti fedelmente il volere dell’intransigente moglie del Senatùr.
In particolare il capitolo sulla possibile successione del partito. Il capogruppo manda un chiaro avvertimento: ”Il capo c’è e ci sarà , l’esercito di liberazione può continuare il suo lavoro”.
E poi dà il via alla campagna elettorale, elencando le cose che la Lega, lui capogruppo a Montecitorio, ha ottenuto al governo. Indicando vecchie e nuove sfide e un nome su tutti: Renzo Bossi.
Uno che, cresciuto a feste e comizi del Carroccio, “è chiaro che ha il nostro progetto di libertà nel sangue” e per questo, giura Reguzzoni gelando la nutrita fronda interna di chi contesta il paternalismo: “I nostri militanti veri, fuori da logiche di potere e di palazzo, vedono in Renzo una speranza per il futuro. Uno così non può tradire, non può vendersi, pensano a ragione”.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Dicembre 1st, 2011 Riccardo Fucile
IL CDA RAI VOTA UN PRIMO TAGLIO DI 85 MILIONI ALLE SPESE
Non c’è un euro. E per rimediare, meglio tagliare: le sedi estere, le testate giornalistiche, i programmi sportivi.
Mai cacciare chi provoca danni economici e d’immagine, però. C
on un bel paradosso: il Cda di viale Mazzini approva un piano di rientro per 85 milioni di euro (che si sommano ai 70 di una prima manovra), mentre il Tg1 di Augusto Minzolini ripete minimi storici imbattibili per il passato, presente e futuro Rai.
E la Sipra che denuncia: “Facciamo fatica a vendere la pubblicità del telegiornale di Rai1”.
Il Consiglio di amministrazione ha votato senza contrari e astenuti il palliativo studiato dal direttore generale Lei: Rainews si fonde con Televideo (per riflettere la redazione unica di Mediaset, roba vecchia), meno corrispondenti in giro, meno risorse per il prodotto.
Un buon calmante, nulla di più, per sistemare i 350 milioni di euro di debiti, i 700 di esposizione bancaria, nonostante sei anni fa le casse fossero piene.
Sorpassato in volata da Tg5 e Tg3, sempre ieri, Augusto Minzolini s’è fatto sentire per contestare i numeri.
Nemmeno l’indice share può mettere in discussione il telegiornale pop: “Ho letto imprecisioni sui giornali”.
Aspettando l’udienza per il rinvio a giudizio di martedì, causa note spese elevate e “fonti” non dichiarate nelle ricevute, Minzolini deve osservare le cifre con più attenzione.
Arrivò spavaldo nel 2009, terzo direttore in sei mesi, a novembre viaggiava intorno al 28,5 per cento di share e 6 milioni di telespettatori.
Nel 2011, stagione terribile, resiste soffrendo al 23,7 per cento di share e 5,3 milioni di italiani. Risultato: mancano 5 punti.
Che vuol dire? Che la pubblicità perde valore, la concessionaria Sipra si preoccupa, e fonti qualificate Rai spiegano: “Facciamo fatica a vendere le inserzioni prima e dopo il Tg1, soprattutto per l’edizione serale . Non riusciamo a riempire lo spazio disponibile e siamo costretti a tamponare piazzando spot di altre trasmissioni”. In soldoni: ballano 10 milioni di euro soltanto nel 2011.
Forse Minzolini sarà sostituito prima di Natale, in attesa di sviluppi politici, l’interim di un vicedirettore in carica è più che probabile.
Eppure, per recuperare la credibilità , oltre che i quattrini, sarà più complicato.
L’Università Cattolica ha studiato il pubblico televisivo, e per i telespettatori il Tg1 ricorda il Tg4 di Emilio Fede e Studio Aperto.
E quindi, tra amici, va compreso anche il messaggino di Clemente Mimun (Tg5) per il collega in caduta libera: “Verso Augusto ho sincera amicizia e affetto e del sorpassino non mi importa nulla. Mi interessa che il nostro Tg sia sopra al 20% di share e che sia apprezzato e seguito. Minzolini è una sorta di pungiball – chiunque passa, pensa di potergli dare uno schiaffone. Gli sono solidale perchè è capitato anche a me e non è carino”.
Nel frattempo, il Cda di viale Mazzini si riunisce domani, all’ordine del giorno ci sono un paio di nomine, in corsa per la direzione Sviluppo c’è Carlo Nardello, che si adoperò nel 2005 insieme con Deborah Bergamini per attutire la scoppola del voto regionale contro il governo di Berlusconi.
Lorenza Lei promette tagli e ancora tagli, l’antipasto di 85 milioni, pur compreso, non convince il consigliere Nino Rizzo Nervo: “Le azioni straordinarie rappresentano un primo indispensabile passo sulla via del risanamento, ma non sono sufficienti. Bisogna colpire l’evasione del canone. E alcuni interventi strutturali di riorganizzazione aziendale non sono più rinviabili”.
Il Cda sta pensando anche di riallacciare i rapporti con Sky per riavere quei 350 milioni di euro in sette anni per trasmettere sul satellite, sdegnosamente rifiutati dall’ex dg Mauro Masi.
Carlo Tecce
( da “Il Fatto Quotidiano”)
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