Ottobre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
SVOLTA STORICA NEL 2011: “E’ LA RISPOSTA RCOLOGICA DEGLI ITALIANI ALLA CRISI”
Non l’avevano prevista nemmeno i Maya.
Nel 2011 in Italia si sono vendute più biciclette che automobili. Un sorpasso storico che non accadeva dal Dopoguerra.
Le auto immatricolate sono state 1.748.143, le bici vendute 1.750.000.
Quasi duemila pezzi in più.
Uno scarto minimo, se la si butta in matematica.
In realtà simbolico di come le due ruote stiano marciando alla conquista del cuore degli italiani. Perchè è vero, la crisi, e sì, c’è maggiore attenzione all’ambiente, ma quel dato racconta una rivoluzione degli stili di vita.
Rivoluzione positiva, se ha senso quel che ripeteva in continuazione lo scrittore inglese di fantascienza Herbert George Wells: “Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per il genere umano ci sia ancora speranza”.
La fantascienza è diventata realtà , la bicicletta oggi si vende più della macchina.
E anche se dall’altro lato della medaglia si scorge la più grave crisi del settore automobilistico degli ultimi decenni (il mercato è ripiombato ai livelli del 1964, ad agosto si è avuta la nona contrazione consecutiva a due cifre, con un meno 20 per cento di vendita rispetto al 2011), qualcosa si muove in avanti.
Anche perchè alle biciclette vendute vanno aggiunti 200 mila restauri.
Racconta Pietro Nigrelli, direttore del settore cicli di Confindustria Ancma: «Sempre più gente decide di recuperare vecchi modelli ritrovati in garage o in cantina. Con 100-150 euro i negozi specializzati, ce ne sono 2700 sparsi in Italia, ti propongono un restyling completo, seguendo le mode del momento: manubrio dritto, ruote colorate con lo scatto fisso (senza movimento libero dei pedali, ndr), telaio riverniciato. Così si valorizzano bici vecchie ma che erano fatte su misura, con telai d’acciaio».
Insomma, ci piacciono talmente tanto che andiamo a recuperarle tra i bauli e la polvere delle cantine.
Ma perchè? Cos’è cambiato?
La crisi, il prezzo della benzina arrivato a 2 euro al litro e i 7 mila euro all’anno (calcolati da Federconsumatori) per mantenere l’auto ci hanno sicuramente convinto a pedalare di più.
«Ma non è solo questo – sostiene Nigrelli – il segreto del successo sta nel fatto che la bici è easy, facile da usare, costa poco, è maneggevole, comoda, oggi anche hi-tech nelle versioni ibride ed elettriche. Su un tratto di 5 km batte qualsiasi altro mezzo». Sarà per questo che è l’unico mezzo di trasporto privato che non ha subito un crollo di vendita.
I produttori ne fanno di pieghevoli, a tre ruote, rètro, anfibie, senza pedali, placcate d’oro e in pelle di struzzo per chi vuole sì pedalare, ma con glamour.
Si usa per andare al lavoro, per spostarsi in città , per fare le gite.
Eccolo, un altro motivo del successo: la vacanza a pedali.
«La tendenza è quella di ricercare sempre di più il “turismo personalizzato” – dice Franco Isetti, presidente del Touring Club Italiano – le persone scelgono da sole mete e itinerari non omologati, che uniscono la visita ai beni culturali, il tour enogastronomico e il contatto con l’ambiente e i centri storici. La bicicletta è il mezzo ideale, il più semplice per coniugare tutto questo. Oltretutto, con i modelli ibridi la pedalata assistita e la possibilità di sfruttare anche il motore elettrico, si è aperto il mercato ai più anziani».
Il sorpasso della bicicletta sull’automobile è avvenuto anche in Germania.
C’era da aspettarselo, lì le città sono decisamente “bikefriendly”, grazie al record europeo: 40 mila km di piste ciclabili.
In Italia l’ultimo finanziamento ad hoc risale a 13 anni fa.
«Questo rinnovato amore – ragiona Antonio Della Venezia, presidente della Federazione italiana amici della bicicletta – aprirà la mentalità a chi ha sempre usato soltanto l’auto. Non credo che l’Italia tornerà ai livelli di vendita di auto precedenti al 2008. È l’occasione per cambiare stile di vita».
Fabio Tonacci
(da “la Repubblica“)
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Ottobre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
LA VICENDA DEL TESORETTO DIROTTATO DENUNCIATA DA TURIGLIATTO
Prima che sia troppo tardi. 
Roberto Cota sa che una volta alzato il coperchio, dalla pentola può uscire di tutto.
Se il Piemonte non è mai stato innocente, come tutti sapevano e dicevano da anni, meglio prenderne atto senza aspettare le carte, e le comunicazioni dei pubblici ministeri, che ci metteranno mesi a incrociare scontrini e bonifici con l’attività dei consiglieri regionali.
Il governatore ha già chiesto ai gruppi che sorreggono la sua maggioranza gli stessi documenti che la Procura ha acquisito o chiesto di acquisire.
Una specie di indagine interna che potrebbe portare alla pubblicazione delle carte più compromettenti.
Sono in tanti a correre il rischio della gogna.
Anche il grande accusatore, il deputato Pdl Roberto Rosso, che con le sue dichiarazioni ha dato il via all’inchiesta. Oggi sarà in tribunale a Vercelli, per reati contro la Pubblica amministrazione.
L’indagine della procura di Torino invece è conoscitiva, come hanno spiegato i magistrati.
Dietro a questa definizione c’è la volontà di capire un sistema dei rimborsi ai politici e alle loro liste, fatto di regolamenti a molte vie di uscita e da consuetudini ormai scolpite nel tempo.
Le verifiche non si limiteranno all’attuale giunta governata da Cota, vincitore delle elezioni nel 2010, ma andranno a ritroso, come dimostra la richiesta di documenti risalenti a 5-6 anni fa.
Storie vecchie e nuove, come nuvole nere sul ceto dirigente torinese che in questi giorni ha riscoperto la virtù del silenzio.
Mariano Turigliatto (non parente) è uno strano tipo di politico.
Professore di lettere, inventore di quel progetto Scuola 2.0 che sta facendo il giro d’Italia.
È stato sindaco di Grugliasco, quarantamila abitanti alle porte di Torino, per due legislature. Alle Regionali del 2005 la futura governatrice, ingolosita dalla sua popolarità sul territorio, lo inserisce al 23esimo posto nell’ormai celebre listino Insieme per Bresso.
I suoi voti si rivelano decisivi per la vittoria della zarina.
Turigliatto entra in Regione, esponente unico della lista, a sua insaputa inserito in quell’elenco che comprende i Maurizio Lupi e i Michele Giovine dei quali si è tanto parlato, artisti delle remunerative liste fai da te.
Il consigliere solitario scarta di lato. Prende carta e penna e comunica la sua rinuncia al rimborso di 110.728,33 Euro per ogni anno di legislatura, cifra complessiva di 553.641,65 Euro.
È l’unico eletto, se non presenta lui la richiesta non può farlo nessuno.
Ma nel 2008 scopre che ormai da tre anni una associazione che porta il nome della lista, della quale lui ignorava l’esistenza, percepisce i rimborsi erogati dalla Camera dei deputati.
Lui non vede un euro. Viene tenuto all’oscuro dell’importo e soprattutto della destinazione del denaro.
Nel febbraio 2012 decide di scrivere al presidente della Camera (competente per questi rimborsi), Giancarlo Fini, chiedendo lumi sulla sorte di quel gruzzolo che lui aveva rifiutato. Nessuna risposta.
Ovvio che i rapporti tra l’ex sindaco di Grugliasco e Bresso siano andati a male. «Come unico patrimonio ho la mia faccia e la mia rispettabilità , quindi cerco di tutelarla in ogni modo. Ecco perchè ho reso pubblica la vicenda dopo averle provate tutte, senza venire a capo di niente».
Dal mistero del presunto tesoretto della passata legislatura alle spese di oggi. L’avvocato Alberto Goffi è un consigliere regionale dell’Udc folgorato sulla via della lotta a Equitalia.
Diventa un fustigatore seriale del governo Monti, scrive un libro «contro le tasse-killer», si avvicina al Movimento per la gente, creatura di Maurizio Zamparini, il presidente del Palermo noto per pasteggiare ad allenatori.
Casini non gradisce la svolta, lo rimuove dalla carica di segretario generale Udc.
Lui non lascia il gruppo e prosegue nella nuova missione.
In questi giorni la città era tappezzata dai manifesti con il suo volto, che annunciavano una serata al teatro della Concordia, presente Zamparini e ospiti assortiti.
In basso, quasi invisibile all’occhio umano, si leggeva la dicitura «In collaborazione con il gruppo regionale Udc».
Quasi la fotocopia dei poster dell’anno precedente per una serata sullo stesso tema.
Al netto delle spese per le affissioni negli spazi a pagamento, tra i più alti d’Italia, fanno 4.000 euro per ognuna delle due campagne, con il forte sospetto che per legittime iniziative private siano stati utilizzati fondi del gruppo consiliare Udc, che non risulta essere il partito più ostile all’attuale premier.
«Per chi fa tanto, a volte i soldi possono essere pochi».
La premessa di Goffi suona come una ammissione. «Vero, le spese di affissione sono state pagate dal gruppo. Ho spiegato le mie esigenze all’ufficio di presidenza, che me le ha autorizzate. I fondi regionali mi servono anche per aiutarmi nella mia attività contro Equitalia, ma quello di Zamparini è un movimento culturale, non politico. Io sono un uomo molto attivo, e sono furioso con l’attuale situazione da caccia alle streghe, che finisce con il premiare chi non fa niente. Attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio».
L’ultima frase ha un fondo di verità .
Quando le pentole si scoperchiano, e di puri se ne vedono pochi in giro, è quello il problema.
Marco Imarisio
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
DALL’ALIMENTARE AI FRIGORIFERI, LA TRASFORMAZIONE DELL’INDUSTRIA DAL BOOM ECONOMICO AD OGGI
Quest’anno, a Natale, niente panettone Galup.
La storica azienda di via Finestrelle, nel centro di Pinerolo, ha firmato l’accordo con il sindacato per la messa in mobilità dei lavoratori. Le banche hanno staccato la spina. Sembrano lontani anni luce i caroselli interpretati da Erminio Macario, l’artista torinese per eccellenza: raccomandava il panettone di monsù Ferrua e ci avvertiva che venivano a comprarlo anche da Torino, fino da Mondovì, non prima di aver salutato madamin Rosa e la sua «bela carusseria».
La Galup, nata come pasticceria in un piccolo forno di mattoni rossi nel cuore della cittadina piemontese, è stata la prima a produrre il panettone basso ricoperto di glassa alle nocciole delle Langhe e nel 1937 aveva ottenuto il brevetto di «fornitore della Real Casa».
A Torino (ma anche a Genova, con un altro impasto) il panettone basso, a Milano, con Motta e Alemagna, il panettone alto, alto come il Duomo.
Un’altra storica azienda dell’alimentare chiude i battenti.
Il destino sembra già scritto: il capannone, 10 mila metri quadrati nel centro di Pinerolo, fa gola agli immobiliaristi, che infatti hanno già manifestato interesse all’acquisto.
Il marchio, forse, se lo contenderanno altri produttori di panettoni, che vorrebbero usarlo per i loro prodotti di alta gamma.
Galup è parola dell’infanzia: in piemontese vuol dire «goloso» e veniva usato quasi sempre in senso negativo per sgridare qualche ragazzo che si mostrava, appunto, troppo goloso, troppo ingordo.
Ma era anche un marchio di qualità : quando di un cibo si diceva che «a l’è propri galup» era come assegnarli le stelle Michelin.
La Galup si era trasformata in fabbrica nel 1948, quando monsù Pietro Ferrua aveva messo in piedi una piccolo laboratorio industriale.
E, a partire dagli anni 70, fino al trionfo degli 80, i panettoni Galup si erano affermati in tutto il mondo.
Grazie anche alla televisione, agli spot interpretati da Macario, a sottolineare la piemontesità assoluta del prodotto.
Già , a ben pensarci, dopo Motta, dopo Alemagna, dopo Galup sta finendo l’industria italiana legata a Carosello.
L’industria del boom economico, l’industria che ha fatto grande l’Italia: i frigoriferi, i televisori, gli aspirapolvere, le lavatrici, i detersivi, gli aperitivi e tutto quell’universo merceologico che ha accompagnato per mano gli italiani nel processo di modernizzazione, ne ha rispecchiato i problemi e le aspirazioni all’emergere della società dei consumi.
Quello spazio pubblicitario ha avuto molti meriti, si è subito proposto come una sorta di galateo del consumo.
Se si scorre l’elenco dei vecchi spot pubblicitari è come leggere degli epitaffi, percorrere un ideale viale di Spoon River.
Magari i marchi esistono ancora, sono stati assorbiti da qualche multinazionale, ma hanno perso senso e storia.
Ogni rèclame sembra raccontare una vita, un’impresa, la fatica di affermarsi, l’identità italiana, la gioia del benessere, abitudini tenaci, profondi affetti, ma ora, sotto la polvere di qualche teca, «tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina».
Aldo Grasso
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 2nd, 2012 Riccardo Fucile
LO SCRITTORE AVREBBE PREFERITO GINO CERVI NELLA PARTE DEL PRETE E PEPPONE LO AVREBBE INTERPRETATO LUI STESSO
Per Giovannino Guareschi don Camillo non avrebbe mai dovuto avere la faccia di Fernandel. 
E’ un bel colpo per tutti quanti noi, abituati da sempre all’identificazione immediata tra l’attore francese dentone e il prete manesco della Bassa Padana.
Da Guareschi era appena tollerato Gino Cervi, colui che dette il volto all’antagonista storico di don Camillo, il sindaco comunista Giuseppe Bottazzi detto Peppone.
Per lo scrittore emiliano forse Cervi avrebbe potuto meglio fare la parte del prete, che tra l’ altro lui aveva creato come rappresentante ideale di quel clero combattivo su cui lo aveva ispirato, almeno per il nome, Don Camillo Valota, un prete cattolico partigiano della seconda guerra mondiale, imprigionato a Dachau.
Una prima conferma dell’abiura iconografica fu quando i figli dell’autore, Alberto e Carlotta, un anno fa, d’accordo con l’editore di un libro di Don Camillo a fumetti, preferirono rappresentare i due personaggi con il volto dello stesso Guareschi, che tra l’altro aveva sempre detto che per lui erano due parti di sè. In questo caso era dunque stato scelto per il prete un aspetto più giovanile e senza i classici baffoni staliniani di Peppone-Guareschi maturo.
Anche il critico Tatti Sanguneti oggi rivela che nei film i volti dei due protagonisti sarebbero dovuti essere diversi.
In origine, infatti, Peppone lo avrebbe dovuto interpretare proprio Giovannino Guareschi, mentre Gino Cervi doveva fare don Camillo. “Ma dopo aver fatto girare per una ventina di volte una scena a Guareschi, il regista francese Julien Duvivier e lo stesso scrittore si convinsero che non era possibile”.
Sarà comunque difficile sradicare dalla memoria collettiva le facce che il cinema ha, con maggior successo, attribuito a Don Camillo e Peppone.
Anche perchè sono figure simbolo, difficilmente rintracciabili in esempi contemporanei di convivenza tra prassi e politica.
Gianluca Nicoletti
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