Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
VEDE DE LUCA E TESSE LA TELA PER FASSINO
Palazzo Chigi, un paio di settimane fa. Matteo Renzi ha di fronte De Luca: “Vince’, trovate un candidato su Napoli per giocarcela. Se Bassolino vince le primarie poi perdiamo le elezioni. Serve uno condiviso così evitiamo le primarie e proviamo ad andare al secondo turno”. Vincenzo De Luca ne traccia l’identikit: nel partito non c’è nessuno; deve essere uno non del Pd, che venga dalla società civile, e che rispecchi i canoni del renzismo, insomma che dia l’idea della novità e delle riforme.
Lo studio del premier e anche dei suoi principali collaboratori (a partire da Luca Lotti) è diventato, per la prima volta, la cabina di regia delle amministrative.
Perchè, a dispetto della strategia di minimizzazione all’esterno di queste settimane (l’obiettivo è il referendum, non mi importano le amministrative) Renzi gioca a vincere.
Sa bene che il voto a Milano, Torino, Roma, Napoli sarà comunque interpretato come un voto politico. E per la prima volta si sta muovendo come un segretario di partito (e non solo come premier) che si occupa di amministrative.
Ecco l’incontro con De Luca su Napoli. E l’idea di cercare un “civicone” per far saltare Bassolino e primarie.
Sia De Luca sia Renzi sono convinti che quella dell’ex sindaco sia solo una “posizione negoziale” e che, a determinate condizioni e a determinate offerte politiche, possa rientrare.
Un calcolo che non trova conferma nelle confidenze che Bassolino ha fatto a qualche amico: “Io — col percorso che ho alle spalle — non vado alla ricerca di incarichi. Non mi interessa se mi offrono di tornare in Parlamento o in Europa. Mi interessa questa sfida su Napoli, sennò sto bene lo stesso”.
L’effetto Quarto rende frenetica la ricerca del “civicone”. Perchè è evidente che lo scandalo ha “azzoppato” i Cinque stelle su Napoli a vantaggio di De Magistris.
E il Pd, al momento, non è in partita. Nel corso delle riunioni del partito a Napoli si è materializzato il “piano b”, ovvero la ricerca di un anti-Bassolino, con solito nome di Gennaro Migliore da gettare nell’agone delle primarie. Piano già bocciato dal governatore campano: “Bravo ragazzo — il commento di De Luca — ma i voti dove li prende?”.
Ma non c’è solo il dossier Napoli sulla scrivania del premier a palazzo Chigi.
Qualche giorno fa Luca Lotti ha chiamato a Palazzo Chigi Giacomo Portas, il leader dei Moderati, da sempre nel centrosinistra e molto forte a Torino.
Quando si candidò nel 2011 all’interno della coalizione di centrosinistra prese il 9,6 per cento: “Ce la dobbiamo fare a vincere al primo turno — il ragionamento di Lotti — perchè al secondo si rischia. Tu che hai il polso, che dici?”. Risponde Portas: “Si può fare, con una coalizione larga, sia al centro che a sinistra”.
A sinistra non tutta Sel sostiene Airaudo. L’assessore regionale al Welfare, Monica Cerruti, ad esempio sta lavorando per sostenere Fassino.
Poi ci sono i Cinque Stelle. A Venaria, dove governano, è iniziato lo smottamento: “Lì — prosegue Portas nella sua ricognizione — governano in modo imbarazzante, non sanno neanche cosa sia una Asl. Una di loro, la Viviana Andreotti è venuta con noi e sostiene Piero. Se ci si lavora non sarà la sola”.
Lo schema non è Partito della Nazione contro il resto del mondo, ma “coalizione larga”: un pezzo di Sel-Pd-Moderati civiche.
E non è un caso che Fassino abbia messo i manifesti e iniziato la campagna elettorale dalle “periferie”. Al centro arrivano pezzi di centrodestra tipo l’ex governatore Ghigo, Vietti, ma in parecchi nel Pd, tipo Stefano Esposito, hanno consigliato di “tenerle basse queste operazioni” perchè è gente che non ha più un voto ma un nome legato ad altre storie. Piuttosto, oltre ai Moderati, vanno costruite anche altre liste civiche che peschino al centro. Col Pd attorno al 35, i Moderati tra il 9 e il 10, non è impossibile l’impresa di Fassino.
Impossibile sulla carta dopo Mafia Capitale, ma non nella testa del premier l’operazione Roma, ovvero la candidatura di Roberto Giachetti: “Giachetti è Renzi — sussurrano in Parlamento i fedelissimi — e se Matteo non ci avesse creduto non avrebbe messo una faccia che è la sua. E poi chi lo ha detto che non va al ballottaggio? In uno schema con una marea di candidati ci vai pure col 25 per cento. Lì inizia un’altra partita”.
Per ora la scelta ha avuto un impatto interno fortissimo. Perchè rompe definitivamente il controllo del partito romano da parte di Bettini e Zingaretti: “Matteo non dà spazio alla restaurazione, prosegue l’opera di Orfini sul partito e asseconda l’azione di Mafia Capitale, visti i buoni rapporti di Giachetti con la procura”.
L’effetto Quarto si avverte anche a Roma, secondo i renziani, perchè semmai i Cinque stelle conquistassero la Capitale ci sarebbe una Quarto al giorno sui vari dossier.
Infatti tutto lascia intendere che non vogliano vincere e siano alla ricerca di un Carneade, preservandosi per le politiche.
Di Milano si è parlato poco a palazzo Chigi, perchè è l’unica operazione che viene considerata avviata bene con Sala. Anzi, la notizia è che Renzi ha messo la testa su tutte le altre città e non solo su Milano.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
SCIOLTE LE RISERVE, A ORE L’ANNUNCIO
Il dado è tratto. A due giorni dal pubblico endorsement di Matteo Renzi, il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti ha deciso di correre alle primarie per sindaco di Roma che si terranno il 6 marzo.
Lo ha comunicato ad alcuni stretti collaboratori: l’annuncio sarà il 15 gennaio, con un video su Youtube in cui l’ex capo di gabinetto del sindaco Rutelli lancerà il suo messaggio ai romani in vista delle primarie.
Un’accelerazione, rispetto ai tempi ipotizzati fino a qualche giorno fa, che è dovuta senza dubbio alla mossa di Renzi, che ha colto in contropiede anche il commissario del Pd romano Matteo Orfini.
Ma dovuta anche alla freddezza con cui è stato accolto il nome di Giachetti fuori e dentro il Pd. Insomma, a questo punto meglio sciogliere gli indugi e iniziare a giocare davvero la partita della campagna per le primarie, che non sarà tutta in discesa, anzi.
A sfavore di Giachetti pesano le resistenze dell’ala più di sinistra del Pd, che vede nella sua figura e nelle modalità del lancio da parte del premier una forte ed eccessiva impronta renziana.
E tuttavia ad oggi ancora non si intravvede un nome della sinistra dem in grado di competere realmente con lui.
Nell’ala del partito che fa riferimento a Nicola Zingaretti la freddezza è palpabile, come conferma il deputato Marco Miccoli, vicino alla Cgil, secondo cui “parte del nostro elettorato potrebbe non riconoscersi nel nome di Giachetti”.
Ma il governatore, in una telefonata mercoledì con Orfini, ha ribadito che da lui non ci sarà fuoco amico. Il ragionamento è questo: in una situazione difficile come quella romana, nessuno ha intenzione di mettere i bastoni tra le ruote a una scelta presa personalmente da Renzi. Che dunque ci mette la faccia, in caso di vittoria ma ancor più in caso di sconfitta.
“Conosce meglio di tutti la città , è romano e romanista”, ha detto il premier martedì a Repubblica.tv parlando di Giachetti.
Gelo anche dai big della minoranza, con Cuperlo che fa sua una idea di Walter Tocci, quella di presentare un fronte civico, rinunciando anche al simbolo del Pd.
Ipotesi subito bocciata da Lorenzo Guerini. Dunque le primarie ci saranno. Con tutta probabilità senza Sel, dopo anche Paolo Cento —dopo Fassina -ha chiuso all’ipotesi di una coalizione di centrosinistra.
Ai gazebo di marzo, oltre a Giachetti, dovrebbe esserci anche Roberto Morassut , deputato dem, già assessore all’Urbanistica con Veltroni.
Mentre sembra orientato verso il no Marco Causi, vicesindaco negli ultimi mesi di Marino, che aveva ipotizzato una “candidatura di servizio, di stretto sapore programmatico”.
Ai gazebo possibile anche la corsa di Paolo Masini, assessore alla Scuola con Marino.
Sulle primarie pesa anche l’incognita del senatore Walter Tocci, vicesindaco con Rutelli dal 1993 al 2001, corteggiato da Giachetti per un nuovo impegno al suo fianco, ma anche da ambienti della minoranza come competitor alle primarie in nome di una profilo più di sinistra, capace di ricostruire una coalizione con Sel.
Un ruolo, quello di alfiere della minoranza ai gazebo, che potrebbe essere ricoperto anche da Bianca Berlinguer che si è già pubblicamente chiamata fuori dalla corsa per il Campidoglio, ma resta in cima ai desideri dell’area che non si riconosce nel premier-segretario.
Per ora, i riflettori sono tutti puntati sull’ex radicale Giachetti, 55 anni, consapevole delle difficoltà della sfida.
“Non mi spavento, sono uno che ha fatto cento giorni di sciopero della fame, e lì ho rischiato davvero”, ha spiegato a Repubblica.
“E non mi sfugge che sul mio nome non c’è stato un particolare calore da parte di alcuni…”. I suoi però sono carichi a mille. A partire dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che ha svolto un delicato ruolo di king maker nei suoi conversari col premier. Ora il candidato ha davanti a sè 50 giorni di campagna prima dei gazebo.
Un tempo relativamente lungo per riuscire nella difficile missione di ricompattare il Pd romano, e soprattutto di motivare militanti e simpatizzanti dem a crederci ancora e tornare alle urne dopo la drammatica fine dell’esperienza Marino.
Perchè, ad oggi, in assenza di sfidanti del M5s e del centrodestra, e anche dentro il Pd, il vero avversario di Giachetti sono la rabbia e la rassegnazione dei romani.
E il rischio di un flop di partecipazione alle primarie.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
A DESTRA COME A SINISTRA, CHI HA USATO QUESTO SLOGAN E’ FINITO MALE
Questo non è un articolo, è un aggiornamento delle puntate precedenti: è finito nei guai un altro partito degli onesti.
Sono decenni che succede e da decenni tutti ci riprovano e ci ricascano, qualcuno anche due o tre volte, come il governatore lombardo Bobo Maroni che emergeva fra i leghisti onesti già alla fine degli anni Ottanta.
Poi arrivarono i duecento milioni di lire della maxitangente Enimont, ma la Lega continuò a essere un faro: «La Lega degli onesti» disse Maroni quando si trattava di mandare in carcere Nicola Cosentino, e subito arrivò Francesco Belsito coi lingotti d’oro e i diamanti in Tanzania; a Maroni toccò salire su un palco a gridare onestà -onestà mentre issava una ramazza al cielo benedicente.
Ora Maroni è a processo con l’accusa d’aver portato un’amica a Tokyo coi soldi pubblici, e speriamo si sia reso conto che la militanza nel partito degli onesti esige un po’ di spericolatezza.
La storia ci insegna che gli autoproclamati onesti finiscono in galera, e se ne scampano finiscono nel nulla.
Il caso più clamoroso è quello del povero deputato berlusconiano Alfonso Papa che con una certa temerarietà chiamò «partito degli onesti» il Pdl pochi giorni prima che la Camera lo spedisse (sbagliando) in cella.
Pure Roberto Formigoni vibrò per un «Pdl sempre più partito degli onesti», che poi era l’ambizione di Angelino Alfano – testuale, «partito degli onesti» – quando diventò segretario di Forza Italia per acclamazione.
In nome (anche) dell’onestà è stato poi fondato il Nuovo centrodestra, e così era stato fondato (Nino Lo Presti: «Agli onesti del Pdl dico: venite con noi») il movimento finiano Futuro e Libertà , poi evaporato in compravendite di case monegasche e in risultati elettorali non elettrizzanti.
Ma non vorremmo dare l’idea che la maledizione del partito degli onesti sia questione di destra; anzi, è soprattutto di sinistra, ideatore il grande leader repubblicano Giovanni Spadolini oltre trent’anni fa, continuatore Giorgio La Malfa all’alba di Mani pulite, e entrambe le esperienze si chiusero con qualche arresto.
Il superpartito degli onesti è stato l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro («procedere a braccetto con gli onesti!») e ha prodotto – oltre a Domenico Scilipoti e Antonio Razzi – delle furibonde liti sulle grana fino alla dissoluzione.
Onestissima era la Rete, partito di Leoluca Orlando («chi si siede al nostro tavolo deve essere onesto»), e ancora più onesto quello di Antonio Ingroia («noi siamo onesti»).
Nel tempo la leadership del partito degli onesti se la sono presa anche Rosa Russo Jervolino e Cicciolina, fino agli ideologi sommi e totalizzanti dell’onestà in politica: i ragazzi a cinque stelle. Onesti o meno onesti, dalla vicenda di Quarto escono da sprovveduti, che in politica è peggio.
Mattia Feltri
(da “La Stampa”)
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
FONSPA HA ACQUISTATO I CREDITI A RISCHIO DELLA BANCA APPENA QUATTRO GIORNI PRIMA DEL DECRETO DEL GOVERNO… TRA GLI AZIONISTI IL PRESIDENTE DELLO IOR, BENETTON, BINI SMAGHI E IL FINANZIERE TARANTELLI
Quattro giorni prima del decreto del governo che di fatto l’ha messa in liquidazione, Banca Etruria ha venduto una parte dei propri crediti in sofferenza.
A comprare è stato Fonspa, un piccolo istituto di credito, guidato dal banchiere Panfilo Tarantelli, che assomiglia molto a una sala vip della finanza.
Il gruppo Fonspa, controllato dalla holding Tages, può contare su soci e amministratori come Lorenzo Bini Smaghi, nel comitato esecutivo della Bce fino al 2011, Alessandro Benetton, il commissario dell’Ilva, Piero Gnudi, il presidente dello Ior Jean Baptiste de Franssu, la famiglia De Agostini.
L’acquisto dei crediti di Banca Etruria, per un valore di 300 milioni, è stata concluso il 17 novembre, giusto in tempo per sfuggire alla tagliola del decreto varato dal consiglio dei ministri il 21 novembre.
Senza quell’affare dell’ultimo minuto, anche quei crediti in sofferenza comprati da Fonspa sarebbero finiti nel gran calderone della cosiddetta bad bank per poi essere ceduti con le nuove procedure messe a punto da Banca d’Italia e approvate dal governo, a sua volta marcato stretto dalla Commissione Europea.
Una scelta di tempo eccezionale, non c’è che dire.
Un caso? Sì, fino a prova contraria, perchè quando Fonspa ha concluso l’operazione, non erano ancora note le modalità di un eventuale intervento del governo.
D’altra parte è difficile pensare che le parti in causa non immaginassero che di lì poco le autorità di vigilanza avrebbero messo mano al caso dei quattro istituti in crisi (oltre all’Etruria anche Banca Marche, Carife e Cassa di Chieti).
Fatto sta che la vendita è andata in porto appena prima del fischio finale.
Con grandi vantaggi per Fonspa, che tra tutti i crediti in sofferenza messi in vendita dall’istituto di Arezzo (il portafoglio complessivo ammontava a quasi 2 miliardi di euro) con ogni probabilità è riuscito ad aggiudicarsi quelli meno difficili da incassare.
Vittorio Malagutti
(da “L’Espresso”)
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
“DI MAIO? UN BAMBINO”… IL CAPOGRUPPO M5S LASCIA L’INCARICO DA CONSIGLIERE
Presidente? “Ancora per poco. Sto per rassegnare le mie dimissioni da consigliere”. Alessandro Nicolais, capogruppo del Movimento 5 Stelle a Quarto, ha deciso di lasciare l’incarico dopo il terremoto provocato dall’inchiesta napoletana condotta dal pm John Henry Woodcock.
Qual è il motivo che l’ha portata a prendere questa decisione?
“Alla base ci sono motivi personali. Il mio percorso politico, se così si può dire, era iniziato con gli ideali 5Stelle, adesso non avendo più un sindaco 5Stelle vado via. Non posso venir meno al volere degli elettori”.
Resterà però militante M5S?
“Con il cuore resterò nel Movimento, a me il marchio non lo toglie neanche Beppe Grillo”.
Lo ha comunicato ai vertici?
“Io non avviso Di Maio o Fico. Ho scritto una mail allo staff nella quale ho comunicato la mia decisione, che ora sto andando a ratificare in Comune”.
Quindi non ha sentito Fico e Di Maio. Però a dicembre scorso aveva contattato Fico per chiedergli di venire a Quarto. Aveva fatto presente che il Sindaco stava subendo delle pressioni?
“Con Fico non ho mai parlato, l’ho incontrato solo in campagna elettorale. Poi ho scambiato quei messaggi su whatsapp, in cui ho fatto una richiesta di chiarimenti riguardo l’espulsione di Giovanni De Robbio. Gli ho detto che era necessario un approfondimento e gli ho chiesto di partecipare a una nostra assemblea. La storia è nota, mi ha risposto di andare avanti e che sarebbe venuto quanto prima”.
Poi l’assemblea non c’è mai stata?
“No, mai. Ma io so per certo, perchè me lo ha detto il sindaco Capuozzo, che lei ha incontrato Roberto Fico insieme al vicesindaco”.
E in che periodo?
“A dicembre sicuramente sì. Quando Fico veniva a casa nei fine settimana”.
Sa di cosa hanno parlato?
“No, questo non lo so. A me l’unica cosa che mi ha disturbato è stato sentire il mio nome spiattellato da un ragazzino, che è il vicepresidente della Camera. Di tutta questa faccenda ognuno si farà un esame di coscienza, io rassegno le dimissioni, gli altri risponderanno a chi ne dovranno dare conto”.
Il suo nome è stato fatto perchè la sindaco Capuozzo ha avvisato Di Maio del fatto che lei voleva modificare il regolamento per consentire di fare un numero illimitato di riunioni delle commissioni e aumentare quindi i gettoni di presenza.
“Le informazioni scritte e apparse sugli screenshot nei giorni scorsi sono frutto della fretta e della concitatezza dei momenti, che hanno portato alcune persone a trasmettere e a recepire nel modo sbagliato le informazioni. Partiamo da un principio assoluto: all’art.5, punto 8 del Regolamento del Consiglio Comunale è fatta definizione della Commissione Capigruppo, che è la prima commissione permanente del Comune. Sulla base di questa cosa mesi fa chiesi di accertare se, in quanto commissione permanente, la Capigruppo fosse destinataria degli stessi meccanismi di rimborso di tutte le altre commissioni. ‘Fate una ricerca’, chiesi a chi lavora nell’ufficio affari generali, ‘per valutare quale sia l’applicazione del regolamento in altri comuni’. Informai Sindaco e Segretario generale della cosa, e loro stessi individuarono la Corte dei Conti come destinataria di tale quesito. Nè più, nè meno. La richiesta non ha avuto alcun seguito, avrebbe peraltro comportato un aggravio delle spese per il Comune, e noi abbiamo sviluppato una politica diversa tagliando le commissioni e non aumentandole, come erroneamente recepito. I fatti stanno così”.
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
UN SONDAGGIO SU 46.000 UTENTI FOTOGRAFA VIZI E VIRTU’ DI CHI CERCA UN POSTO
Una volta eravamo un popolo di navigatori ed eroi, oggi siamo un popolo di stanziali più che di nomadi.
E’ vero che esiste il fenomeno dei giovani che appena possono scappano all’estero o che i pensionati se ne vanno là dove batte il sole per difendere la pensione (e per non pagare troppe tasse).
Ma messi di fronte alla ricerca del lavoro e alla mobilità necessaria, a volte, per conquistarlo, gli italiani si rivelano piuttosto attaccati al sacro suolo.
La conferma viene da un mega-sondaggio, realizzato dal portale Face4Job, un milione di pagine visitate al giorno, su oltre 46 mila utenti unici, tutti praticamente alla ricerca di un lavoro o desiderosi di cambiarlo.
Più uomini che donne, per metà occupati e per metà alla ricerca di un’occupazione, uno su due tra i 20 e i 35 anni e per l’altra metà over 35.
Alla domanda “preferisci un lavoro basato sulle competenze o sulle tue naturali vocazioni”, gli utenti si tengono diplomaticamente a metà strada (“un giusto mix tra le due”, 46,6%), con una pattuglia che si dichiara del tutto indifferente al tema, pur di lavorare (13,3%).
Le altre risposte sono rivelatrici.
Alla domanda “dove preferisci trovare un lavoro”, sette rispondenti su dieci dichiarano in Italia (69,3%), mentre un gruppuscolo del 4,5% è disponibile ad andare a lavorare in Europa e uno sparuto 1,5% si allarga oltre l’Europa nel mondo.
Alla domanda “quanto saresti disposto a spostarti per trovare un lavoro o per cambiarlo”, un intervistato su tre afferma che vorrebbe “restare nella propria regione ma vicino a casa”; un 17,5% solo nella propria città , mentre un altro terzo afferma che andrebbe ovunque, pur di trovare un lavoro.
Infine, sul quesito “di quanto dovrebbe essere più alto lo stipendio, al netto dei costi di trasferimento, per andare a lavorare all’estero o lasciare il tuo paese”, quasi uno su due (45,4%) afferma che dovrebbe essere almeno tra il 50% e il 100% in più di quello attualmente percepito. Un 13,2% ammette convinto che non accetterebbe mai di andare a lavorare all’estero; mentre l’11,6% dichiara che non guarderebbe allo stipendio “se fosse il lavoro che ho sempre sognato”.
Walter Passerini
(da “La Stampa”)
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
“TANTO NON PAGHEREBBE MAI, NON HA SOLDI”… A MARZO 2015 GIA’ RISPONDEVAMO: “BALLE, HA LA PIU’ NOTA GELATERIA DI GENOVA E LA PIU’ FAMOSA DISCOTECA DEL LEVANTE”: QUELLE CHE ORA LA MAGISTRATURA HA SEQUESTRATO
La decisione della Lega e del suo segretario Salvini di non costituirsi parte civile nel processo Belsito aveva fatto discutere e storcere il naso anche a molti leghisti della prima ora.
Qualcuno aveva maliziosamente visto un nesso con la dichiarazione a verbale dell’ex tesoriere secondo cui aveva personalmente girato 20.000 euro a Salvini in nero per finanziare la sua campagna elettorale.
Sul nostro blog, il 1 marzo del 2015 riportavamo la dichiarazione di Salvini sulla rinuncia a costituire la Lega parte civile: “Sono cose che fanno parte del passato” e ancora: “Belsito tanto non pagherebbe, non ha quattrini”.
E noi scrivevamo: “quella di Salvini è una giustificazione penosa, sappiamo tutti che Belsito possiede, tra l’altro, la più grande discoteca del levante e la più rinomata gelateria di Genova”.
E oggi, guarda un po’, leggiamo sul “Secolo XIX” sotto il titolo in prima pagina “Belsito ha evaso 2,4 milioni. Sequestrato il bar Balilla”: “tra i beni sequestrati quote intestate a prestanome della gelateria Balilla, una delle più note di Genova, e nella discoteca Sol Levante di Lavagna”.
Piu’ in dettaglio: “sono state sequestrate il 75% delle quote della gelateria, storico locale in centro, intestate alla madre 80enne Antonella Scuticchio, e il 75% delle quote della discoteca Sol Levante intestate a Movida srl, in mano a un avvocato e a un ex socio di Belsito, quali suoi fiduciari”.
Ma per Salvini, habituèe di Genova e della sua seconda casa sulle alture di Recco, Belsito era un poveraccio senza un soldo.
Matteo, perchè non fai un tweet dei tuoi che finisca con il classico: “che ne pensate?”
http://destradipopolo.net/?p=20974
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Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
L’ACCUSA E’ DI FALSO E VIOLAZIONE DELLE NORME EDILIZIE
Ignazio Baiano, il marito del sindaco di Quarto Rosa Capuozzo, risulta indagato per falso e violazione delle norme edilizie nell’inchiesta sul presunto abuso edilizio (condotta parallelamente a quella della Dda sul Comune) che avrebbe rappresentato un elemento di ricatto sulla Capuozzo da parte dell’ex consigliere De Robbio.
Baiano risulta indagato per aver alterato, secondo l’ipotesi accusatoria, la data su alcuni documenti allo scopo di ottenere il condono edilizio per opere eseguite nell’abitazione di cui è proprietario.
E’ quanto emerso dall’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso e dal pm Francesca De Renzis, titolari delle indagini sul presunto abuso: un’inchiesta che viene svolta parallelamente a quella principale affidata alla Dda sulle presunte infiltrazioni camorristiche nel Comune di Quarto.
Il presunto abuso edilizio, secondo l’inchiesta della Dda, avrebbe rappresentato un elemento di ricatto esercitato nei confronti del sindaco da De Robbio per ottenere incarichi e nomine di persone da lui segnalate.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Gennaio 14th, 2016 Riccardo Fucile
I DOSSIER SEGRETI CHE POTREBBERO RENDERE MENO RIGIDA L’INDIA E IL LAVORO DIPLOMATICO ITALIANO
Il caso dei due marò sta lentamente uscendo dall’esclusiva gestione indiana.
Primo, Massimiliano Latorre è in Italia, in convalescenza, e dovrebbe rimanerci fino a quando un collegio arbitrale internazionale non avrà deciso dove si terrà il processo per l’uccisione di due pescatori dello Stato indiano del Kerala, il 15 febbraio 2012 (decisione che probabilmente non ci sarà prima del 2017).
Secondo, Salvatore Girone è ancora a Delhi, in libertà provvisoria, ma una richiesta italiana affinchè sia lui sia Latorre possano attendere in patria i risultati del giudizio arbitrale sulla giurisdizione è già stata avanzata al collegio dei cinque arbitri stesso: una decisione è attesa entro marzo.
Terzo, la richiesta della Corte Suprema, ieri, al governo indiano per sapere come e con che tempi intende affrontare l’arbitrato internazionale sottintende il fatto che la Corte stessa ha accettato l’idea che d’ora in poi la decisione procedurale su come e dove tenere il processo ai due militari italiani non sia più in mano alla giustizia indiana, che lo ha gestito per oltre tre anni, ma a un collegio arbitrale internazionale composto da cinque giudici, uno italiano, uno indiano e tre indipendenti.
Il fatto che il governo indiano non si sia opposto a questa interpretazione è un dato di fatto positivo, soprattutto considerando la reazione molto forte che si era scatenata martedì sera in India dopo che il senatore Nicola Latorre (nessuna parentela), presidente della Commissione Difesa del Senato, aveva assicurato che il marò Latorre non sarebbe tornato in India (dichiarazione discussa anche ieri nell’udienza della Corte Suprema).
Quarto, su un livello diverso da quello giudiziario, è in corso un’iniziativa diplomatica di Roma per spingere Delhi a favorire una soluzione non conflittuale della questione della giurisdizione, cioè su dove tenere il processo a Girone e Latorre.
Su questo versante, durante l’udienza di ieri a Delhi il governo indiano ha un po’ deluso le aspettative di Roma, presentandosi, attraverso l’avvocato dello Stato, senza dire nulla di nuovo.
Nelle prossime settimane, però, l’esecutivo guidato da Narendra Modi dovrà probabilmente uscire allo scoperto. Non solo perchè la Corte Suprema gli ha chiesto di presentare in forma scritta, il 13 aprile, la sua posizione sull’arbitrato.
Quanto perchè le pressioni diplomatiche italiane in corso suggeriscono che nei prossimi mesi Delhi avrebbe interesse a essere collaborativa, a trovare un modo pacifico per attendere che il collegio arbitrale decida sulla giurisdizione (il che significa favorire, nel frattempo, il rientro in Italia di Girone).
Non è detto che il governo indiano si muova verso un atteggiamento accomodante, finora non l’ha fatto.
Fatto sta che, se continuerà a tenere una posizione di chiusura, continuerà a rallentare almeno un paio di dossier che il governo Modi ritiene importanti.
Uno è la riapertura dei colloqui per un trattato bilaterale tra India e Ue per la liberalizzazione commerciale.
I colloqui sono bloccati da tempo, l’idea sarebbe quella di riaprirli (nei prossimi giorni si terrà una riunione tecnica) ma l’Italia potrebbe rallentare il processo, come pare abbia già fatto in passato al punto che lo stesso Modi ha dovuto cancellare un viaggio a Bruxelles proprio perchè la vicenda dei due marò impediva che si facessero passi avanti su questo dossier.
Il secondo è l’accesso dell’India a un club di Paesi, l’Mtcr, che controlla il commercio di tecnologia missilistica.
Roma ha già messo il veto sull’ingresso di Delhi in autunno e promette di farlo di nuovo a una riunione che si terrà in primavera se la vicenda dei marò non farà passi avanti.
Della questione si interessa anche la Casa Bianca: Barack Obama aveva promesso a Modi l’ingresso nel prestigioso Mtcr ma l’opposizione italiana tiene fermo tutto.
A fine marzo, il primo ministro indiano sarà a Washington per una conferenza sul nucleare e se tornasse a casa senza ottenere niente sul versante Mtcr, che al nucleare è collegato, dovrebbe dare qualche risposta politica.
Detto questo, l’India non è famosa per cedere sui contenziosi internazionali. Nonostante le iniziative di Roma, nonostante la pressione di Obama potrebbe volere tenere rigida la posizione sui marò.
Tutto, in quel caso, resterà nelle mani dell’arbitrato internazionale
Danilo Taino
(da “il Corriere della Sera“)
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