Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
QUANDO MARONI CREO’ UN TRUST PER DIFENDERE I SOLDI DAI CREDITORI E DAI GIUDICI E SOTTRARLI AD AZIONI ESECUTIVE
Roberto Maroni ha trasferito 20 milioni di euro della Lega Nord alla Sparkasse di Bolzano e ha chiesto al suo legale, Domenico Aiello di costituire un trust o uno fondazione dove far confluire tutti i beni del partito per metterli al riparo dai leghisti amici di Umberto Bossi, come Matteo Brigandì.
Le intercettazioni inedite dell’indagine Breakfast della Dia di Reggio Calabria svelano i retroscena di un giallo di cui si era occupato anche L’espresso con un articolo seguito da imbarazzate mezze smentite.
Peter Schedl, allora direttore generale della Sparkassse, e il presidente attuale Gerhard Brandstà¤tter (avvocato altoatesino e socio di studio di Aiello) hanno seguito il trasferimento dei fondi da Unicredit alla banca dell’Alto Adige.
Aiello parla con Schedl il 14 gennaio 2013.
Aiello (A): l’operazione è quella di cui le ha accennato
Gerhard Schedl (S): Sì sì me l’ha accennata
A: Sto portando l’onorevole Stefani (tesoriere della Lega, ndr) in filiale a Milano ad aprire il conto (…) Brandstatter mi parlava di una cifra notevole. Quasi venti milioni e mi ha chiesto un’indicazione per il tasso
A : Il meglio che può fare, semplice. Andiamo via in una situazione che è il 3 e mezzo. Lui indicava il 4, c’ero io quando ha chiamato…
S: Il 4 non è possibile (…) facciamo così partiamo dal 3 e mezzo e poi da lì vediamo strada facendo.
Poi Aiello (A) chiama Brandstatter
(B), allora presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.
A: Siamo andati ad aprire il conto
B: Sì mi ha chiamato adesso per dirmelo
A: Ah okay domani gli arrivano sei milioni di euro.
A gennaio 2013 la disponibilità sul conto IT13Z06….6 sulla filiale di Milano di Sparkasse arriva a 19 milioni 817 mila e 469 euro.
Nel 2014 i soldi saranno spostati, dopo l’arrivo alla segreteria di Matteo Salvini, in un conto di Banca Intesa.
La ragione è in una mail del 21 febbraio 2013 del dirigente Sparkasse Paola Brunelli ad Aiello: “Il tasso attualmente applicato si intendeva legato a una determinata operatività … si era prospettata la possibilità di investire in fondi, azioni, Crbz, pbbligazioni societarie ecc… successivamente siamo venuti a conoscenza del fatto che la legge 966-7-2012 art. 89 vieta ai partiti politici di investire la propria liquidità in strumenti finanziari diversi dai titoli emessi da Stati membri della Ue. ..”.
Brunelli chiama il 12 marzo 2013 Aiello: “Che pasticcio!
Questa cosa spicca agli occhi di qualcuno che venisse a fare dei controlli nel senso che mi dicono: ‘perchè tutti gli altri clienti con patrimoni grossi hanno l’1,5 e questo ha il 3,5?!’”
All’origine del trasferimento del conto e dell’idea del trust c’è la questione Brigandì.
L’ex parlamentare per anni legale di Bossi, in quel periodo fa valere i suoi vecchi incarichi.
La Lega viene condannata a pagare milioni di parcelle e Maroni chiede contromisure ad Aiello.
L’ipotesi nasce in vista delle elezioni 2013 ma rivive in estate dopo la vittoria in Lombardia.
Aiello, intercettato senza essere indagato dal pm Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria, riceve una telefonata di Maroni il 22 luglio 2013 alle 23.
L’allora segretario gli dice di aver parlato con Calderoli per costituire, imitando Alleanza Nazionale, una fondazione dove trasferire tutto il patrimonio della Lega, mobiliare e immobiliare.
La ragione?
Maroni spiega: “in buona fede, non pensavo che si sarebbe arrivato a tanto, ma, se Bossi inizia a fare questo gioco, si impone una reazione, per evitare di rimanere in mezzo ”.
La questione della Fondazione, spiega Maroni, deve rimanere tra lui, Aiello, Calderoli e Carmine Pallino, un commercialista : “non deve essere portata a conoscenza di altri”.
Maroni sottolinea che bisogna trovare, rapidamente, il modo di separare il patrimonio dalla gestione del partito
Aiello replica che il notaio Busani l’aveva già studiata. Lui rispolvererà il progetto.
Effettivamente antico.
Già il 20 dicembre 2012 Aiello chiamava il suo collega Massimo Centonze e gli diceva che Maroni lo aveva autorizzato a creare un fondo separato “come fosse un trust” .
Perchè quel fondo dovrà essere il portafoglio della campagna elettorale.
Aiello prosegue: il partito deve avere un patrimonio separato rappresentato da un conto corrente da aprire alla Sparkasse perchè “se i nove milioni che sono stati pignorati li avesse avuti su questo fondo non potevano essere oggetto di sequestro”.
Aiello dice che bisogna far presto “entro il 10 gennaio perchè il 15 gennaio si presentano le liste”.
Il timore di Maroni è che poi venga un ‘pazzo’ come il procuratore di Forlì Sergio
Sottani che dice: ‘l’impegno di ogni singolo candidato per me costituisce una compravendita di candidatura. Invece così il singolo candidato si impegna a versare direttamente sul patrimonio destinato”
Aiello a gennaio 2013 confida anche al commercialista Massimo De Dominicis: “Noi obbiamo segregare un patrimonio esistente di 20 milioni e uno nascente”.
Entro il 10 gnnaio. Anche perchè “loro prendono una vagonata di soldi a dicembre e una vagonata a luglio e adesso è arrivata una vagonata di soldi”.
De Domenicis: “Il veicolo migliore è il trust”, istituto giuridico di origine anglosassone usato in Italia per ragioni ereditarie o fiscali nel quale un soggetto (qui la Lega) trasferisce i beni al cosiddetto trustee.
Poi Aiello il 9 gennaio 2013 chiama il notaio Busani per avere chiarimenti.
Busani (B): Quanti soldi parliamo di segregare?
Aiello (A): Almeno 10 milioni.
B: Hai paura di azioni esecutive?
A: Una l’abbiamo appena subita di 3 milioni, prestazioni professionali erano. Tra l’altro un dirigente della Lega Nord (Brigandì, nd r). Però prima vorrei capire la bontà della struttura che mettiamo in piedi…
B: Domenico, la bontà è che i soldi non sono più sul conto della Lega e vaffambagno. Se fanno l’esecuzione non li trovano!
Il 10 gennaio 2013 Aiello chiama Maroni preoccupato proprio per eventuali nuove azioni di Brigandì che “forse ha portato via altre carte che erano sue”.
Poi suggerisce all’allora segretario: “In ragione di questo valuta ancora quello spostamento almeno di una parte del residuo, almeno il 50 per cento di quei fondi lì’ perchè se questo qui già conosce quel conto corrente …”.
Maroni rinvia all’indomani. Il trasferimento dei 20 milioni poi ci sarà .
Il trust e la fondazione? “Io non ne ho più saputo nulla”, chiosa il notaio Angelo Busani.
Marco Lillo
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
CON MARCHIONNE PER CELEBRARE IL DEBUTTO IN BORSA DELLA FERRARI
Matteo Renzi monta sulla Ferrari per cavalcare il mito italiano per eccellenza ed entrare nel mondo della finanza. Dopo Wall Street, il Cavallino fa il suo debutto storico a Piazza Affari.
Il premier, alle 9 in punto, sarà immortalato nelle foto accanto al presidente Sergio Marchionne, protagonista assoluto della nuova vita della Rossa.
La Ferrari per Renzi è il simbolo del global tricolore capace di unire la creatività nostrana, fatta di artigianato e grande tecnologia, alla capacità di far circolare il brand nel mondo.
Completata la separazione tra Fiat Chrysler Automobiles e Ferrari, sbarcano in Borsa i due titoli scorporati: passaggio cruciale all’interno di uno scenario che guarda al consolidamento dell’industria dell’auto.
La vetrina di Piazza Affari è di quelle prestigiose, oltrechè nazionalpopolari, e Matteo Renzi, nonostante si tratti del debutto in Borsa di un’azienda privata, non mancherà . Davanti a Palazzo Mezzanotte, come avvenuto a New York, sarà esposta l’intera gamma della casa di Maranello: una decina di vetture, comprese le serie speciali LaFerrari e l’ultima nata F12 Tdf.
Di questo grande evento Renzi e Marchionne avevano già parlato in modo informale durante il Gp di Monza.
Segno che il rapporto tra i due è diventato quasi simbiotico, nonostante nell’ottobre del 2012 volassero gli stracci.
“Non ho mai immaginato Marchionne come modello di sviluppo per l’economia”, diceva l’allora primo cittadino di Firenze.
E l’amministratore delegato della Fiat replicava: “Renzi? È la brutta copia di Obama, pensa di essere Obama, ma è il sindaco di una piccola città ”.
E ancora: “Marchionne dovrebbe sciacquarsi la bocca prima di parlare di Firenze”, rispondeva a sua volta Renzi.
I toni erano questi e all’epoca al centro dello scontro c’era il fallimento del progetto ‘Fabbrica Italia’.
Ma poi, quando nel febbraio 2014 Renzi diventava premier, già nel mese successivo, durante il salone di Ginevra, i vertici Fiat iniziavano ad abbracciare la politica del nuovo presidente del Consiglio.
La riduzione del cuneo fiscale “è un atto dovuto anche per incoraggiare le imprese”, diceva l’a.d. del Lingotto mentre si schierava anche a favore dell’abolizione dell’articolo 18, definito un rottame su binari morti, e del Tfr in busta paga.
La comune distanza nei confronti della Cgil di Susanna Camusso e della Fiom di Maurizio Landini si può dire che tra Renzi e Marchionne sia stata galeotta.
Negli anni della crisi, la numero uno di Corso d’Italia aveva definito “pericolosa” la posizione assunta dalla Fiat con il blocco degli straordinari e la sospensione del trasferimento di 500 lavoratori in cassa integrazione da Mirafiori a Grugliasco.
Ma quando Renzi va a visitare lo stabilimento di Detroit, prima di lui era andato Obama, applaude alla nuova Fca: “Straordinaria, eccitante ed esaltante” la “scommessa” di Marchionne su Fiat e Chrysler che erano “bollite”.
E contrariamente a quanto detto due anni prima dal palco del consiglio comunale di Firenze, il premier definisce l’azienda di Detroit un modello da seguire per l’Italia.
E la sintonia con Marchionne è tale che il numero uno del Lingotto, citando il premier, dice: “Delle critiche della Camusso ce ne faremo una ragione”.
A Marchionne arriva così l’attestato di stima più grande e riguarda la partita chiave del gruppo Fiat.
“Per me – dice il premier – non è importante dove si trova il quartiere generale finanziario e delle attività . Per me la cosa importante è mantenere il made in Italy. Non è importante se a Wall Street o a Amsterdam. Quello che è assolutamente importante è l’aumento dei posti di lavoro in Italia”.
Non solo: “Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne”.
Più volte, inoltre, i vertici Fiat hanno fatto visita a Palazzo Chigi, dove hanno presentato anche la prima Jeep Renegade prodotta a Melfi.
Come se non bastasse, nel maggio scorso, Renzi ha snobbato Confindustria per andare a Melfi, dove è arrivato a bordo di una Jeep Renegade rossa e dove gli operai lo hanno accolto leggendo una poesia.
Ora arriva un appuntamento particolarmente importante. Gli occhi della finanza mondiale saranno puntati su Piazza Affari e Renzi è pronto a cointestarsi un successo nella speranza di far identificare la sua Italia, che corre e che va spedita, con la fabbrica di Maranello.
E questa accelerazione-identificazione gli serve proprio ora che più che mai, in Italia e all’estero, cominciano ad affiorare critiche e dubbi sul nuovo corso di palazzo Chigi.
(da ““Huffingtonpost“)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
GIOCO A RIMPIATTINO TRA SILVIO, MATTEO E GIORGIA: NESSUNO VUOLE INTESTARSI LE SCELTE… OBIETTIVO ALZARE POLVERONI INTORNO A UNA PROBABILE SCONFITTA
Se Matteo Renzi può permettersi di spostare a fine anno il referendum sul suo governo evitando le forche caudine delle Amministrative e trattandole come un test senza rilievo nazionale, Berlusconi, Salvini e Meloni non hanno questa chance: l’esame della vita, per loro, sarà l’elezione dei sindaci.
E qualunque siano i nomi e lo schema delle alleanze, senza un risultato significativo in almeno una delle grandi città , c’è per tutti e tre il rischio di essere travolti dai risultati.
È per questo che il leader leghista non ha voluto “mettere la faccia” sulla competizione milanese, e per lo stesso motivo la giovane segretaria di Fratelli d’Italia nicchia su Roma.
La giustificazione ufficiale di entrambi – come ha spiegato Giorgia Meloni a “Libero” – è che “è difficile per chi guida un partito nazionale” impegnarsi in una competizione cittadina, ma è una tesi fragile: fu proprio la candidatura a sindaco di un segretario nazionale della destra – Gianfranco Fini – il “detonatore” degli eventi che portarono alla costituzione del vecchio Polo della Libertà , e mai come in questo momento l’elettorato di destra avrebbe bisogno di chiari riferimenti, anche personali, per mobilitarsi in campagna elettorale.
Il gioco a rimpiattino fra i tre è figlio di una consapevolezza politica molto precisa.
Il modello del doppio turno è spietato. Se il centrodestra non riuscirà a conquistare almeno un ballottaggio importante, vedrà al secondo turno quel che resta del voto “moderato” fuggire verso il Pd mentre la restante quota del voto di protesta si incanalerà verso i Cinque Stelle.
E c’è un sapore di nemesi in questo rischio, perchè – a parti invertite – il destino degli ex-Pdl potrebbe somigliare a quello della Dc di Martinazzoli che vent’anni fa, nel ’93, si ritrovò terza nelle sfide “che contavano”, scavalcata dai candidati della Lega e del Msi in tante città , e vide i suoi consensi accasarsi altrove per non fare mai più ritorno.
Berlusconi, Salvini e Meloni, insomma, si giocano la loro carriera sul voto di giugno. Nessuno ha voglia di compiere atti di forza, di intestarsi in esclusiva le scelte sulle candidature, perchè tutti sanno che il king maker, in questo caso, rischia di essere anche il capro espiatorio di turno, quello che pagherà pegno per il possibile insuccesso e che un minuto dopo i risultati dovrà salire sul banco degli imputati.
Le amministrative saranno qualcosa di molto simile alle primarie che l’ex-Cavaliere non ha mai voluto, e l’intenzione al momento sembra quella di giocarle per interposta persona, attraverso gli alter-ego di candidati sindaci più o meno concordati ma senza una appartenenza specifica, per poter ammortizzare eventuali figuracce ed evitare di “contarsi” in modo troppo preciso.
Il rilancio di Silvio Berlusconi sulla pazza idea di correre con liste civiche, senza esporre il simbolo di Forza Italia, nasce dalla medesima esigenza.
L’ultimo sondaggio di Lorien Consulting diffuso oggi quota il partito del Cavaliere al 9 per cento su base nazionale, con la Lega di Salvini sei punti sopra, al 15 per cento. Ovvio che senza una vittoria in almeno una delle grandi città , magari senza neppure un ballottaggio, e per di più sorpassato dal suo aggressivo competitor nelle percentuali, il vecchio leader finirebbe malamente pensionato.
E sarebbe lui “il Martinazzoli” su cui scaricare le frustrazioni di un centrodestra uscito dai giochi che contano.
Alzare polvere intorno a una probabile sconfitta, confonderne le responsabilità , suddividerne il peso, è a questo punto la tentazione di tutti.
Perchè anche Salvini e Meloni non sono messi meglio.
Per Salvini, che si misurerà da capolista sul risultato di Milano, la “capitale morale” è stata sempre una piazza difficile: alle ultime amministrative, quando il Cinque Stelle era ancora un movimento irrilevante, la Lega strappò coi denti il 9 per cento pur venendo da importanti posizioni di governo cittadino con la giunta Moratti.
La Meloni, se non si metterà personalmente in gioco a Roma, rischia non solo la figuraccia ma pure l’accusa di scarso coraggio (che a destra basta per demolire ogni leadership).
Dunque, anche se l’occasione di usare il voto per importi e archiviare la leadership berlusconiana è fortissima, al momento prevale il tatticismo e nessuno tira fuori la sciabola.
Adelante con juicio, secondo il motto manzoniano di Don Ferrante, in cui sempre si rifugia la politica italiana quando rischia di rimetterci le penne.
Flavia Perina
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
“BASTA ESAMI, SONO DI SINISTRA”… “PER FARE IL SINDACO DI MILANO CI VOGLIONO LE PALLE? ALLORA PARTO BENE”
“Sì, voterei le unioni gay con il M5S. Non so cosa c’è in comune con 5 stelle, ma durante la gestione di Expo hanno partecipato e spesso ho trovato interlocutori giovani e preparati”.
Lo dice Giuseppe Sala, ex commissario unico di Expo e candidato sindaco alle primarie del Centrosinistra, ospite dell’Intervista di Maria Latella su Sky tg24, lanciato nella corsa alle primarie del centrosinistra per diventare il nuovo sindaco di Milano, per il quale si dice ‘preparato’.
Nel senso che – racconta – il sindaco Pisapia ha detto che per fare il sindaco in città come Milano ci vogliono le palle…’.se fosse quello io parto bene”.
Sala spiega che “la gente può capire cosa ho vissuto in questi anni”, come commissario di Expo, “a cosa ho dovuto resistere” e a quante “pressioni” ha dovuto far fronte.
Certo fare il sindaco “è un cambio anche per me, ne sono consapevole, ma chi fa il commissario per il governo svolge un ruolo sufficientemente politico”.
Insomma, “sto svestendo un abito e ne sto mettendo un altro, ma un po’ lo conosco”.
E in più. “Non temo le inchieste che hanno interessato Expo. Io sono un incorruttibile. Ho maneggiato miliardi quando ero direttore generale di Telecom e non ho mai tirato su neanche una penna. Dal punto di vista della incorruttibilità sono sicuro, se poi ci fossero problemi amministrativi, sono disposto a tirarmi indietro perchè amo Milano. Ma – ripete – sono sempre stato un incorruttibile”.
“Non sono il candidato di Renzi – ci tiene a ribadirlo Sala – il premier mi stima ed è una stima ricambiata”.
Quanto agli altri, “vorrei chiedere a Letta, a Prodi che cosa pensano di me…Credo che pensino tutti bene di me”.
Sala parla di un futuro ipotetico da primo cittadino, e per quanto riguarda l’emergenza smog che in questo ultimo mese ha soffocato l’aria della città , dice che – a suo giudizio – “è stato fatto quel che andava fatto. Se fossi sindaco? Continuerei a puntare sul rafforzamento del trasporto pubblico, sulle metropolitane, allungando la linea fino a Monza. Mentre non sono al momento d’accordo su un allargamento dell’area C”, ipotesi invece che vede favorevole la sua sfidante Francesca Balzani, numero due di Pisapia. Quanto al progetto di uno status speciale per Milano cui aveva parlato nei giorni della sua candidatura spiega: “Non dobbiamo chiedere soldi in più, vorremmo avere più autonomia nella gestione delle nostre risorse. Il patto di stabilità è una gabbia”.
In caso di vittoria, sceglierebbe come vice tra Balzani e Pierfrancesco Majorino?.”Credo sia corretto immaginare che il vice sindaco sia donna”.
Lo sfidante del centrodestra? “Aspetteranno dopo il 7 febbraio, eventualmente contro di me metteranno in campo Sallusti”.
Poi l’eterna questione. “Sono senz’altro di sinistra. Quando avevo 18 anni si votava o da una parte o dall’altra. Diciamo che ora sono della sinistra progressista. Non è che sono come l’ascensore che quando fa comodo la sinistra mi viene a cercare, l’esame del sangue non me lo faccio fare più e poi ci sono i programmi, deciderà la gente. La cosa più di sinistra che io ho fatto? Senza dubbio creare lavoro, tanti posti di lavoro”.
(da agenzie)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
TECNICI E AUTORI A SPESE DI REGIONE E TV DI STATO A MATERA DAL 13 DICEMBRE
La pacifica occupazione di Matera da parte delle truppe tecniche della Rai per la realizzazionedell’«Anno che verrà », il programma di Raiuno al centro delle polemiche, è cominciata domenica 13 dicembre ed è diventata pienamente operativa due giorni dopo, il 15 dicembre, come raccontano gli organizzatori materani.
In tutto quasi trecento persone approdate nella futura Capitale europea della cultura nel 2019 grazie a un laborioso accordo tra la Rai e la giunta regionale della Basilicata presieduta da Maurizio Marcello Pittella del Pd.
Laborioso perchè solo il 15 dicembre alle 16 è stato formalizzato e sottoscritto l’impegno contabile numero 6807 dell’esercizio 2015 per 460.000 euro «al netto di Iva», come si legge nella deliberazione numero 1616, e decisa «per favorire un’azione informativa ed educativa finalizzata alla promozione e allo sviluppo del patrimonio paesaggistico, storico e culturale della città di Matera quale Capitale europea della cultura nel 2019». Nel verbale si parla della proposta della Rai di realizzare «un programma televisivo che sarà trasmesso in prima serata in diretta su Raiuno il 31 dicembre per gli anni 2015-2016-2017-2018-2019».
Una convenzione a lunga scadenza che lega la città di Matera alla Rai per Capodanno fino alla fine dell’anno in cui sarà Capitale europea della cultura.
Opzione che la Basilicata ha già deciso di esercitare subito. Secondo quanto ha sottolineato la stampa locale, l’accordo tra Rai e Regione Basilicata è stato raggiunto soprattutto grazie al lavoro di Luigi De Siervo, amministratore delegato di Rai.Com, e del capostruttura di Raiuno, Antonio Azzolini.
C’è stato un po’ di inevitabile affanno perchè solo il 20 novembre 2015, quindi poche settimane prima della partenza per Matera, è stato ufficializzato il patto tra la regione Basilicata e la tv di Stato.
Oltre all’assegno di 460.000 euro netti, la convenzione ha previsto anche l’ospitalità alberghiera ma non, diciamo, gastronomica.
Tecnici, maestranze e redazione del programma hanno risolto pranzo e cena ricorrendo alla diaria Rai, ovvero a un compenso forfettario quotidiano prossimo ai 60 euro per colazioni, pranzi e cene.
L’ospitalità alberghiera è costata alla Regione Basilicata circa 130.000 euro.
Sono stati scelti, sempre in base agli accordi, solo hotel a tre o quattro stelle. Non a due, perchè sarebbero stati rifiutati dalle organizzazioni sindacali, e nemmeno a cinque perchè ritenuti troppo costosi.
Due i tronconi di personale Rai arrivati a Matera.
Uno è partito da Milano, legato alla realizzazione delle strutture tecniche. In un primo momento si era pensato a una squadra del centro di produzione di Napoli, ma poi la Rai ha optato per Milano.
Dall’apparato milanese sono partiti gli appalti esterni tecnici, materialmente destinati alla costruzione del palco.
Da Roma invece si è mosso l’universo editoriale di Raiuno: i conduttori, gli autori, la regia, la redazione.
Matera è apparsa quasi sotto assedio per il via vai di circa venti mezzi pesanti tra tir e autocarri per il montaggio del grande palco su piazza Vittorio Veneto, il vero e proprio cuore della città .
Un po’ di malumori tra i commercianti, che hanno temuto danni per un turismo internazionale già molto ricco in vista dell’appuntamento del 2019
Per la macchina organizzativa materana non è stato facile reggere l’urto delle truppe Rai. Molti pacchetti turistici erano già chiusi da tempo.
Ma l’hotel Hilton è riuscito a garantire decine di stanze. Soprattutto l’hotel San Domenico, proprio a ridosso della piazza, si è mobilitato trasformando la sua sala per ricevimento in 13 camerini per gli artisti.
È stata così evitata una massiccia trasferta verso gli hotel di Altamura: uno sconfinamento regionale nella vicina Puglia che avrebbe comportato una ulteriore crescita dei costi. Altro capovolgimento ha vissuto la Mediateca di Matera, che si affaccia proprio su piazza Vittorio Veneto.
La struttura ha ospitato il quartier generale Rai: la redazione, il trucco, altri camerini. C’è voluto l’ingegno di Donato Loparco, anima della Mediateca, per mettere a punto soluzioni tecniche adatte a un grande set televisivo.
Come spesso succede (non solo per l’universo Rai) si è scatenata tra i 300 la ricerca per il miglior ristorante.
I prezzi non elevati di Matera e la diaria Rai hanno assicurato ottime cene a base di cavatelli con i peperoni cruschi, di crapiata (la tradizionale zuppa di legumi) e di lampascioni alla materana.
Gettonatissimo (sempre a detta degli organizzatori materani della spedizione Rai) il ristorante «L’abbondanza lucana», in zona Sassi.
Qualche attesa e un po’ di fila, ma alla fine tutti satolli e contenti.
Paolo Conti
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
LA PHILIPS VUOLE SPOSTARE IL MONTAGGIO IN ROMANIA E TENERE IL COMMERCIALE IN EMILIA
Nonostante il rischio neve anche stanotte gli operai della Saeco di Gaggio Montano, grazie alla roulotte prestata dalla Protezione Civile, hanno tenuto fermo il presidio h24 della fabbrica contro i 250 licenziamenti decisi dai proprietari olandesi della Philips.
La vertenza è iniziata a fine novembre e continua ad avere un impatto molto forte sul clima politico-sindacale di Bologna, distante solo 50 chilometri.
Si sono inerpicati fino all’Appennino sia il sindaco Virginio Merola sia il neo-arcivescovo Matteo Maria Zuppi e il presidente della Regione Stefano Bonaccini ha trascorso nello stabilimento l’ultimo dell’anno.
E nella conferenza stampa del 29 dicembre anche Matteo Renzi ha fatto un velocissimo accenno al caso.
L’impianto della Saeco di Gaggio fa macchine domestiche per il caffè, dà lavoro da sempre a 550 dipendenti e la Philips è subentrata dal 2009 a un fondo francese di private equity.
Gli olandesi dopo anni di produzione a singhiozzo, con tanta cassa integrazione, sono giunti alla conclusione che è meglio lasciare in Emilia ideazione e commerciale e portare il montaggio in Romania.
Nel settore degli elettrodomestici quella della Saeco non è la prima vertenza dura degli ultimi anni, basta ricordare i casi Electrolux e Whirlpool, a confronto di lavatrici e frigoriferi però l’assemblaggio delle macchine del caffè è una lavorazione a minor valore aggiunto e pertanto la differenza del costo del lavoro pesa ancora di più.
Ma i licenziamenti della Saeco nella stagione della ripresa e del Pil che dovrebbe cominciare a correre ci raccontano il lato amaro di questa stagione dell’industria italiana. La ripartenza, quando si sarà manifestata anche più robusta di come appare oggi, non sarà una sanatoria, non impedirà un’ulteriore scrematura dell’apparato industriale italiano con quello che ne consegue in esuberi, chiusure e vertenze.
Non è entusiasmante sottolinearlo, ma tra tante imprese-lepri che sfondano nell’export ce ne sono altrettante – e forse di più – che non hanno saputo reagire ai mutamenti dei mercati. E un giorno o l’altro dovranno saldare il conto con le loro inefficienze e le loro pigrizie.
Come detto il caso Saeco a Bologna fa discutere animatamente.
Capita così che i politici locali si improvvisino esperti di politica industriale e lancino fantasiose ipotesi alternative, succede anche che la Fiom locale per una volta vada d’accordissimo con il ministro (bolognese) Federica Guidi e le manifestazioni di sostegno da novembre ad oggi non hanno avuto cali di tensione.
In città caso mai c’è qualcuno che maliziosamente mette a confronto la visibilità della vertenza Saeco con il pudore che avvolge il caso Coop Costruzioni, 300 lavoratori senza lavoro per il crac dell’azienda che hanno ottenuto in zona Cesarini un anno di cassa integrazione.
Comunque mentre Bologna, dopo i successi di attrazione del Suv Lamborghini e dell’impianto Philip Morris, si candidava a insidiare Milano come hub delle multinazionali in Italia, gli olandesi della Philips stanno guastando la festa.
Nei rapporti con il ministero dello Sviluppo economico finora sono stati arroganti, non hanno prodotto motivazioni e numeri certi e così in Emilia sono diventati il diavolo.
Il governatore Bonaccini si è spinto addirittura a minacciare ritorsioni contro gli stranieri che vengono in Italia a depredarci dei nostri marchi.
In realtà l’avvento delle cialde pronte ha rivoluzionato il mercato e sono entrati in gioco direttamente i grandi brand del caffè e comunque il confronto con i concorrenti della De Longhi è impietoso.
I veneti producono un milione di pezzi l’anno e vanno a gonfie vele, Saeco solo centomila e hanno problemi enormi di produttività ed efficienza. A Gaggio c’è un’altra azienda del gruppo che fa i grandi distributori automatici di caffè – quelli da ufficio – e va bene perchè il prodotto è più complesso, l’investimento negli impianti fissi più consistente e non si può delocalizzare in quattro e quattr’otto.
Vedremo come andrà a finire una vertenza che ha il sapore delle «eroiche battaglie» del sindacalismo del ‘900 e sulla quale la politica bolognese ha messo la faccia.
A Gaggio, sull’Appennino a 700 metri di altitudine, un abitante su due deve il suo reddito alla Saeco e i commercianti, come nella Torino anni ’80, hanno abbassato le saracinesche in segno di solidarietà con gli operai e aspettano notizie da Roma.
Dopo la Befana al ministero la Philips dovrà uscire allo scoperto, si capirà qualcosa di più e dovrebbe iniziare una vera trattativa.
Nessuno al tavolo potrà dimenticare che un operaio rumeno costa quasi la metà di un italiano ma nei casi Electrolux e Whirlpool, pur differenti, alla fine una mediazione s’è trovata.
C’è da sperare che sia onorevole.
Dario Di Vico
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
LA FRASE SUGLI AUTOBUS DI ROMA DIVIDE GLI STUDIOSI… LUI REPLICA: “NON LO LASCIO ALLA LE PEN”
C’è maretta tra gli studiosi gramsciani. Pietra dello scandalo: lo slogan della campagna che da un paio di settimane campeggia su tutti gli autobus e le pensiline di Roma.
“Odio chi non parteggia. Odio gli indifferenti”.
Solo che, al posto della firma del filosofo sardo fondatore del Pci, compare il ben più prosaico motto: «Io amo Roma. E tu?».
Ovvero il claim con cui Alfio Marchini, imprenditore a capo di un movimento civico, per la seconda volta in tre anni proverà a scalare il colle capitolino.
Orgoglioso della scelta, che rivendica: «È una mia idea, non vedo proprio perchè dobbiamo lasciare Gramsci ostaggio della Le Pen, che dice di avere i suoi libri sul comodino ».
E per nulla imbarazzato dall’evidente contraddizione, visto che la sua corsa potrebbe essere sostenuta – ma ancora non è certo – da alcuni pezzi del centrodestra: «È giunto il tempo di raccontarci senza finzioni che la capitale d’Italia è stata uccisa dall’indifferenza, che ha lasciato campo libero a tutti i poteri marci che l’hanno depredata», taglia corto Marchini.
«Roma non ne può più! Anche di chi, da sinistra, ha chiuso gli occhi davanti al saccheggio morale, culturale e civile della città . O vogliamo prenderci in giro e sostenere che sia tutta colpa della destra? Basta con ipocrisie e stucchevoli buonismi».
Sia come sia, l’utilizzo del brano tratto da La città futura, il numero unico del giornale pubblicato nel febbraio 1917 con lo scopo di ”educare e formare” i giovani socialisti alla “disciplina politica”, non è piaciuto affatto a Guido Liguori, docente di Storia all’università della Calabria e presidente della International Gramsci Society Italia. «Marchini nella sua campagna per le comunali cita pure Gramsci (senza nominarlo). Il comunista sardo ridotto a pubblicità subliminale. Schifo profondo», ha tuonato il professore su Facebook.
Una condanna senza appello, per il candidato sindaco. Accusato di sfruttare per bieche ragioni elettorali il padre della sinistra italiana.
«Che però è citato, piccolo, in basso a destra, come prevede la legge», precisa Marchini. In soccorso del quale arriva Beppe Vacca, uno dei maggiori studiosi del marxismo contemporaneo nonchè presidente della Fondazione Gramsci: «Non vedo cosa ci sia di male», dice.
«È un grande slogan, chiunque lo usi, che citi o no l’autore, è legittimo che lo faccia ed è auspicabile che ne tragga vantaggio. A parte il fatto che è lo stesso concetto utilizzato pure da Papa Francesco».
Il dibattito è aperto.
Giovanna Vitale
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
STIME SOTTO IL 10%, SALLUSTI DISTACCATO DI 20 PUNTI DA SALA…A ROMA LA MELONI TENTENNA, STORACE SI AUTOCANDIDA CON L’APPOGGIO DI ALEMANNO E IL CAOS E’ COMPLETO
Correre ovunque con liste civiche. Abbandonare nelle grandi città il drappo ormai lacero e stracciato (e perdente) di Forza Italia.
È la “pazza idea” che tenta Silvio Berlusconi, come lui stesso va raccontando nelle telefonate ricevute a cavallo di Capodanno.
Troppo alto il rischio di un bagno di sangue al voto di giugno a Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli.
Il colpo di grazia è arrivato – tutt’altro che imprevisto – dal sondaggio realizzato dalla Lorien consulting e reso pubblico l’ultimo giorno del 2015: il partito del Cavaliere precipita al 9 per cento su base nazionale, dunque ormai sotto la fatidica soglia di galleggiamento del 10.
E questo, nonostante l’ultimo mese di battage mediatico dell’ex premier.
Poco più clementi i numeri degli ultimi sondaggi di Alessandra Ghisleri che collocano Fi sopra quella soglia. Ma la sostanza non cambia.
“Non possiamo certificare il fallimento, se quello fosse il dato nazionale alle amministrative, sarebbe la fine” è lo sfogo di un Berlusconi assai demoralizzato.
Da qui l’ipotesi illustrata ai più fidati, di presentarsi alle amministrative con liste civiche, magari piazzando i consiglieri forzisti uscenti nelle liste personali dei candidati sindaci. Addio Fi.
Il motivo è lampante: il voto di primavera sarà l’ultimo banco di prova prima delle Politiche e se ratificasse quel tracollo e quel distacco dal Carroccio, le chiavi della lista unica con l’Italicum passerebbero a Salvini. Per Berlusconi e i suoi non più del 30 per cento dei posti. Un disastro, appunto, che Berlusconi vorrebbe risparmiarsi.
“Fi torni faro della coalizione con Lega e Fdi” è l’utopia che rilancia Mariastella Gelmini, coordinatrice in Lombardia.
Ma anche nelle città i sondaggi non si discostano da quelli nazionali. Proprio a Milano tornano a salire le quotazioni diuna candidatura di Alessandro Sallusti, perchè nell’ultimo rilevamento recapitato ad Arcore è emerso che con lui Forza Italia raggiungerebbe almeno il 16 per cento, con un altro candidato meno marcato scenderebbe sotto il 10. Sebbene il direttore del Giornale resti a una ventina di punti di distacco da Giuseppe Sala, sempre che l’ex commissario Expo vinca le primarie del centrosinistra.
Ancora più complicata la situazione a Roma. Giorgia Meloni è a un passo dalla candidatura, sebbene ancora tentenni.
Ma con lei e senza un proprio uomo Fi nella Capitale precipita nei sondaggi ben al di sotto del 10 (si parla del 6-7). “Alfio Marchini non può essere il candidato del centrodestra” si ostina a ripetere la leader di Fdi.
Intanto Francesco Storace rompe gli indugi e minaccia di correre lui, sostenuto (per ora) dal solo Gianni Alemanno. Insomma, il caos.
In questo quadro, Salvini lancia segnali di crescente insofferenza. “Se questi di Fi continuano a fare giochetti, alle amministrative corriamo al primo turno da soli con la Meloni” è lo sfogo raccolto dai suoi.
Berlusconi è convinto di ricomporre il quadro con un nuovo incontro a tre subito dopo l’Epifania (il 5 si vedranno a Roma gli sherpa dei tre partiti al tavolo di Altero Matteoli). Intanto, la manifestazione unitaria del centrodestra a Roma è già slittata dal 6 al 20 febbraio.
È una corsa al si salvi chi può. I governatori Giovanni Toti e Roberto Maroni la settimana scorsa hanno pranzato a Milano e pianificato una manifestazione da tenere insieme a Bergamo dall’eloquente titolo “Il centrodestra che vince”.
Il loro, sottinteso: senza sigle di partito ma col solo logo delle due regioni nel simbolo.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
INDUSTRIA ANCORA IN AFFANNO E LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE TROPPO ALTA
L’Italia non riesce a recuperare le perdite della crisi e a mettersi a pari dei big Ue su industria e lavoro.
Secondo i dati Eurostat rielaborati dal ministero dello Sviluppo Economico (Mise), a stentare è soprattutto l’occupazione giovanile, che dal minimo registrato durante la crisi ha recuperato 0,9 punti (2,7 in Germania, 4,2 in Gb e 1,9 in Spagna).
Arranca la produzione industriale. In base ai dati contenuti nel “Cruscotto congiunturale” messo a punto dal Mise, il livello della produzione industriale italiana è ancora di oltre il 31% inferiore rispetto ai massimi precrisi ed ha recuperato solo il 3% rispetto ai minimi toccati durante la recessione.
La Francia ha recuperato l’8%, la Germania il 27,8%, la Gran Bretagna il 5,4% e la Spagna il 7,5%.
Il confronto è ancora più implacabile se si guarda esclusivamente al settore delle costruzioni: ad ottobre di quest’anno l’Italia era 85 punti sotto il massimo precrisi ed ha toccato il nuovo minimo assoluto dall’inizio della crisi economica.
Secondo Eurostat, tutti gli altri big hanno invece recuperato dai picchi negativi, dal 3,4% della Francia al 32,9% della Spagna.
Occupazione, dati preoccupanti.
Nel mercato del lavoro il nostro Paese torna in difficoltà rispetto agli altri. Nel terzo trimestre, il tasso di disoccupazione è sceso all’11,5%, ma in Germania era al 4,5% e nel Regno Unito al 5,2%.
La Spagna segnava ancora un grave 21,6%, tuttavia rispetto ai momenti più bui della crisi Madrid ha recuperato 4,7 punti contro 1,6 punti di Roma.
Caso a sè quello della Francia: il tasso di disoccupazione è più basso di quello italiano, pari al 10,8% ma si tratta del dato peggiore degli ultimi 18 anni.
L’Italia è infine fanalino di coda nell’occupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni con un tasso del 15,1% contro il 28% della Francia, il 43,8% della Germania, il 48,8% del Regno Unito e il 17,7% della Spagna.
Rispetto ai picchi negativi della crisi il recupero è stato di 0,9 punti, contro 1,9 della Spagna, 2,7% della Germani a 4,2 della Gran Bretagna.
(da agenzie)
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