Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
SCAGIONATO DALL’ACCUSA DI TERRORISMO GRAZIE ALLA PROFESSIONALITA’ DELLA POLIZIA E MAGISTRATURA ITALIANA DOPO MESI DI INGIUSTA DETENZIONE: “SPERO MI SIA DATA UNA POSSIBILITA'”
Quando Abdel Majid Touil è nella sua stanza, al terzo e ultimo piano di una palazzina senza ascensore e abitata da anziani in via Pitagora 14, si nasconde sotto le coperte del divano usato come letto in condivisione con il fratello; quando esce, percorre a piedi brevi tratti nelle vie di Gaggiano, evita i passanti e cerca subito un posto per sedersi, va bene anche un marciapiede.
Parla poco, piange spesso. Non l’ha aiutato l’arrivo dal povero villaggio di Sidi Jader del papà Abdallah, che a cinquantuno anni s’è inventato emigrante.
E non bastano gli sforzi della mamma Fatima, una donna straordinaria, impegnata giorno e notte come badante di un’anziana, che dal primo drammatico e confuso minuto ha combattuto in solitaria contro teorie infondate, luoghi comuni e razzismo, e che a distanza di sette mesi l’ha riportato a casa, dopo l’ingiusto arresto per strada su ordine delle autorità tunisine, l’ingiusta perquisizione nell’appartamento («Non c’erano armi, documenti, volantini, libri del Corano, non c’era niente eppure hanno combinato un casino» protesta la famiglia), e dopo l’ingiusta detenzione nel carcere dei mafiosi di Opera e l’ingiusto trasferimento nel Cie di Torino.
La vita di Touil, il 22enne marocchino catturato con l’accusa di aver partecipato all’attentato del museo del Bardo di Tunisi del 18 marzo, è come sospesa.
Domani riprenderà le lezioni per studiare l’italiano, con quelle insegnanti che vengono a trovarlo, gli portano regali. A febbraio «otterrò il permesso di soggiorno».
Da lì in poi, con la speranza di far fruttare il diploma di perito meccanico, proverà a cercare un’occupazione, «voglio credere che qualcuno mi darà una possibilità ».
A Gaggiano, preferibilmente. Dove però, esclusi i connazionali, nemmeno sotto le feste si sono interessati ai Touil. «Non una telefonata, non un’offerta di scuse».
Abdel Majid, ancor più magro di com’era, divenuto un’altra persona, ripete la sorella, rispetto al ragazzo allegro che era, ha frequenti mal di testa e dolori, «conseguenza della carcerazione». È in cura da una psicologa, «una o due visite al mese»
L’abitazione di via Pitagora è al buio. Il padre è nella cucina-salotto (un tavolo da quattro persone e un divano a due posti), davanti a un televisore che trasmette una partita di calcio del campionato marocchino.
Mamma Fatima è, naturalmente, al lavoro. C’è la piccola della famiglia, quindici anni. Studia a Gaggiano, è qui da 4 anni.
Abdel Majid ripete le coordinate raccontate a oltranza agli investigatori. «Sono partito dal Marocco senza soldi per raggiungere la Libia. Sono stato a Tunisi appena due giorni, a inizio febbraio. Sono arrivato sulla costa libica e mi hanno ritirato il passaporto. Sul barcone nel Mediterraneo, con me c’erano amici del villaggio. Le onde erano alte, il mare sempre scuro. Tanti avevano malori per il freddo».
Con lui c’erano altri amici e un ragazzo del suo stesso villaggio che ora si trova in Spagna dalla moglie. «Abbiamo raggiunto la Sicilia a metà febbraio e su un bus abbiamo raggiunto Milano».
Abdel Majid temeva, nella sua cella singola, l’espulsione e la consegna ai tunisini: «Mi avrebbero certamente ucciso. Non avrebbero avuto pietà , per loro sono un assassino».
La storia dice che, nella tragedia, Touil ha avuto fortuna. Quella ad esempio d’aver incontrato il capo dell’Antiterrorismo milanese, il magistrato Maurizio Romanelli, il primo ad «accorgersi» che qualcosa non tornava.
Rimarrà un mistero il motivo dell’ordine di cattura, ma è probabile che il passaporto di Abdel Majid possa essere «caduto» nelle mani del commando, in cerca di documenti per coprire le vere identità .
Non tornerà in Marocco, Touil: «Voglio rimanere qui» confida a Fatima, l’unica con cui parla del periodo della detenzione, la sola ad andarlo a trovare ad Opera.
Alla sorella non ha mai voluto raccontare dei mesi passati in carcere in isolamento: «Gli ho fatto regali, vestiti e scarpe. Ci vogliamo bene, l’importante è che sia con noi», dice.
Abdel Majid cerca perenne rifugio nel divano, si acquatta tirando la coperta sopra la testa. Le giornate sono ricordi indefiniti. Ci sono i due amici di Gaggiano con i quali si incontra di tanto in tanto, ci sono la televisione e le scarse parole con la famiglia.
Il volto è stanco, gli occhi sofferenti e il passo ancora rallentato.
Dov’è il ragazzo di 22 anni che ha attraversato il Mediterraneo per cercare una nuova vita? «Basta, quest’anno è finito. Non pensiamoci più».
Andrea Galli e Cesare Giuzzi
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
IL SEGRETO DEL SUO SUCCESSO NELLA SUA INTELLIGENZA POLITICA
C’ è un momento nell’ ultimo film di Zalone che credo sia particolarmente significativo per capirne lo stupefacente successo, anche se si tratta di un passaggio veloce e del tutto ininfluente: in Norvegia, nella fase di “rieducazione” ai valori di una civiltà tollerante e rispettosa ad opera della famiglia della fidanzata e della sua prole interrazziale, viene portato ad assistere ad un concerto che, la presenza sul palco di una stella di Davide, connota come un rituale legato alla memoria dell’ Olocausto.
Anche in quel caso Checco Zalone non rinuncia ad una bonaria battuta nei confronti della sensibilità etnica più esasperata dai drammi del Novecento.
Nessun altro comico si sarebbe permesso qualcosa del genere: nè Christian De Sica nè Pieraccioni nè Aldo, Giovanni e Giacomo. È la prova della singolare operazione mediatica e culturale di Zalone, che è riuscito a imbrigliare e disinnescare completamente lo spauracchio del “politicamente corretto”. Come ha fatto?
È una operazione di ingegneria comico satirica di lucidità spietata caratterizzata da un’attenzione ossessiva ai contrappesi.
Ad una battuta maschilista (per esempio sul destino delle bambine) ne succede un’ altra di segno opposto (l’ infantilismo provinciale del protagonista nei confronti di orientamenti sessuali diversi o della libertà della sua compagna), un bonario scappellotto ai nostri vizi retrogradi (la nostra idiosicrasia per le file e la doppia fila in macchina) è compensato dalle strizzatine alla gloria nazionale dell’ arte di arrangiarsi e all’orgoglio nazionale della buona tavola (nessuno sa cuocere la pasta come noi): siamo quelli che sognano una mezza invalidità come pensione, ma anche quelli capaci di adattarsi alle tribù cannibali (stereotipo etnico che negli USA avrebbe potuto causare più di un sopracciglio levato) come alle comunità ambientaliste dell’ artico.
Zalone non è un comico qualsiasi (ha la presenza del cabaret, la reattività del battutismo televisvo e un certo amore dei giochi di linguaggio alla Totò: ” buonanotte ai senatori”), ma credo che non si capisca il segreto del suo successo se non si esamina attentamente la sua intelligenza ” politica”: è l’ unico comico che è stato capace di estendere il suo consenso ad estremi sconosciuti, dalla anziana casalinga all’hipster, da Brunetta a Marco Giusti.
Checco Zalone è la democrazia cristiana che si fa cinema comico.
Se mette in scena la principale fobia dell’ opinione pubblica (il terrore di essere invasi dai migranti) la traveste con destrezza grazie alla principale passione popolare (il calcio: a Lampedusa fa entrare chi ha un buon palleggio).
Premetto che questa analisi politica non ha niente di avverso politicamente: ho scritto altrove che il cinema italiano avrebbe bisogno di almeno altri dieci Zalone.
Perchè ciò darebbe ad una industria in agonia da più di un ventennio le risorse per sostenere, cercare ed esplorare forme di cinema diverso.
Il risentimento nei confronti del suo successo (diciamo pure l’ invidia feroce) da parte di chi ha tentato disperatamente di fare del cinema commerciale con gli stessi esiti provocando delle perdite di denaro pubblico e privato enormi, è molto più deprecabile del fenomeno Zalone.
Ciò che colpisce è la perfezione di questo stile che è attentissimo a non avere alcuno stile. Pare che Mr. Bean dopo aver provato le sue gag chieda alla sua troupe: “Lo capiranno in Egitto?”. Zalone aggiunge: non è che qualcuno al Polo Nord può offendersi?
L’ esito, non meno affascinante, di questo incredibile successo e di questo cinema, è che non sappiamo assolutamente nulla di Checco Zalone. I suoi film non ci dicono assolutamente nulla di lui. Potrebbe essere gay o affiliato alla Fratellanza Ariana, potrebbe finanziare senza farlo sapere i 5 stelle o avere una fabbrica di mine antiuomo o indossare nell’intimità dei pullover di angora – come Ed Wood – o essere il principale sponsor di Emergency. I suoi film parlano di tutto tranne che di lui.
Per questo mi convince molto poco la linea critica che da Mereghetti ad Andrea Minuz (due altri estremi che Zalone ha saputo portare dalla sua parte) parla di questo suo film come un ritorno, o upgrade, della commedia italiana alla critica di costume.
I film di Age e Sacrpelli o di Monicelli parlavano con forza di loro, della loro storia, delle loro idee. A me, invece, sembra un ulteriore perfezionamento di una strategia di consenso che ha la determinazione di una pianificazione militare.
Io credo che Luca Medici abbia la formidabile intelligenza prensile dei grandi comunicatori e imprenditori, credo ad esempio che la satira sull’ossessione del posto fisso faccia ridere anche chi probabilmente ha perso per sempre la possibilità di avere alcun posto, anche precario – le stesse persone che non hanno avuto negli ultimi vent’anni in Italia alcuna possibilità di diventare padri, di mettere su famiglia, di vivere una vita decente come fa Checco in Norvegia.
Penso anche che il grande successo del film sia dovuto anche e soprattutto al modo in cui quelle sequenze apparentemente comiche raccontano un desiderio irrealizzabile e struggente al suo pubblico: l’intrattenimento, a differenza di quanto pensa il pubblico, non è mai neutro – il desiderio di evasione non è mai evasivo sulle questioni che ci stanno più a cuore.
Mario Sesti
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
“SONO VITTIMA DI INVIDIA”
“Mi hanno tolto casa, macchina, autista, benefit. Tutto. Oggi vivo pagando l’affitto e bollette dell’immobile che mi spetterebbe di diritto. Sono stati mesi terribili”.
Emilio Fede si racconta al Tempo e si lascia andare a uno sfogo per quanto accaduto il 28 marzo 2012, con il suo licenziamento da Mediaset: “Avevo terminato l’ultima edizione del Tg4 e stavo per raggiungere Silvio Berlusconi in tribuna a San Siro, quando due dirigenti di Mediaset mi dissero: Sei licenziato”.
Emilio Fede ha idea di chi ha voluto la sua testa, ma lancia un appello a chi sa, perchè parli.
“C’è stata una cospirazione per farmi fuori. I miei accordi con Mediaset erano chiari: dal 1 luglio 2012 sarei andato in pensione mantenendo il titolo di direttore editoriale, ovviamente con tutti i benefit. Invece tutto coincide con una lettera anonima recapitata alla fine di febbraio alla Stampa e al Corriere della Sera, nella quale si diceva che avevo tentato di portare in Svizzera svariati milioni di euro […] Tutto ciò ha creato una sorta di confusione sfociata in un licenziamento che si poteva evitare […] Chi ha ideato questo non fa parte dell’azienda. È un esterno. Io lo so e tempo due mesi verrà tutto fuori. Nel frattempo faccio un appello: chiunque sappia qualcosa, parli. Io sono stato vittima di invidia. C’entra un qualcuno che conosco molto bene”.
L’ex direttore del Tg4 scagiona Silvio Berlusconi e anche Fedele Confalonieri, ma non tornerebbe a Mediaset.
“No. Voglio essere reintegrato negli affetti della famiglia Berlusconi […] Questo è il quarto Capodanno lontano da Arcore. Per ben 23 anni ho trascorso le festività natalizie con Silvio Berlusconi e la sua famiglia. Una vita […] Con Berlusconi ci siamo risentiti con la promessa che quando finirà il processo Ruby ci rivedremo. È stato molto commovente” […] Francesca Pascale l’ho aiutata e sostenuta, ma poi mi ha voltato le spalle. La gratitudine non sempre esiste”
(da “Huffingtonpost“)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
“IL SOFTWARE DI TELECOM NON HA FUNZIONATO E DIETRO DI ME NON C’ERA IL TERZO LIVELLO DI CONTROLLO”
“Ho fatto un errore, posso dire anche grave. Meglio, abbiamo fatto un errore e me ne prendo tutta la responsabilità . Per almeno tre ore ho tolto dal video cento sms impresentabili: insulti, cori razzisti, inni alla jihad e decine di bestemmie, il centunesimo c’è scappato”.
Non si tira indietro di fronte a quanto è successo Francesco C., tecnico di Rai Com, addetto al controllo degli sms che compaiono in sovraimpressione durante le dirette della Rai.
Parlando in un’intervista a Repubblica, sul caso della bestemmia apparsa durante la diretta di L’Anno che verrà , però, ci tiene a precisare:
“È inspiegabile che sia finito sotto processo soltanto io. Sono rimasto schiacciato tra due responsabilità che non mi appartengono. Avrei dovuto essere protetto dal software di Telecom, che chiaramente non ha funzionato. Poi dietro di me doveva esserci una struttura editoriale, almeno un giornalista”.
“E’ la prima volta che ci capita. Ma è anche la prima volta che dietro di me non c’è il controllo previsto. Un desk di giornalisti. Il terzo livello di verifica è saltato e adesso tutti giocano a scaricare la responsabilità su di me. Fuggi fuggi, sono basito”.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 3rd, 2016 Riccardo Fucile
“GLI ITALIANI CHIEDONO ETICA POLITICA E LEGALITA'”
Scusi dottore, lei è un moralista?
“Ebbene sì”.
Ovviamente lei è un elettore del centrosinistra, si sente dire questo gran togato che gode della massima fiducia di Matteo Renzi.
Silenzio. Occhi in movimento, come seguissero di soppiatto qualche orbita segreta, ticchettando calcoli occulti. Sorriso appena diffidente.
Poi tutto d’un fiato: “Veramente ho votato anche altro”.
Non mi dica Berlusconi.
“Questo non dovrei dirglielo, ma una volta da ragazzino a Napoli feci ‘filonè a scuola…”.
E che sarà mai.
“… E andai con gli amici a sentire un comizio di Gianfranco Fini che era allora il capo del Fronte della gioventù”.
Ma và . Poi Alleanza nazionale?
“Movimento sociale. La mia collocazione è la destra”.
Legge e ordine, dunque. Nulla a che fare, come si vede, con la formazione politico giudiziaria di Pietro Grasso o di Luciano Violante, più Antonio Di Pietro che Gian Carlo Caselli.
“Ma non ho mai fatto politica, nemmeno all’università . Credo di non aver mai nemmeno votato per i rappresentanti d’istituto al liceo. Non mi sono mai iscritto a un partito”.
E adesso?
“Adesso faccio il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione”, trecento persone impiegate in un labirintico palazzo che si affaccia su Galleria Sciarra, a un passo dalla Fontana di Trevi, un luogo che per sapienza del destino fu anche l’epicentro del primo grande scandalo di corruzione della storia d’Italia: nel 1893 il padrone di casa, principe Maffeo Barberini-Colonna di Sciarra, fu implicato nell’affaire della Banca Romana.
Così Raffaele Cantone, questo signore magro, di media altezza, semplice nel vestire (con un tocco eversivo: calze a rombi colorati in campo verde), cade ironicamente dalle nuvole: “Lei apre nuovi orizzonti alla mia fantasia”.
L’autorità Anticorruzione nel palazzo del primo grande scandalo di corruttela.
“È un divertente contrappasso”.
Ma viene pure da pensare che altro stile non ci sia stato mai, sotto sotto, nelle cose d’Italia.
“La corruzione è un fatto sistemico, fisiologico”, arieggia lui, con l’espressione dell’entomologo che descrivendo gli insetti giustifica anche la propria esistenza. “Nel 1900, il presidente del Consiglio Giuseppe Saracco istituì una commissione per indagare sulla corruzione e il clientelismo nel comune di Napoli. Gli atti di quella commissione sembrano scritti oggi”.
Manzoni diceva che l’Italia è “pentita sempre e non cangiata mai”.
E Cantone: “Se dovessimo ritenere che l’illegalità è immanente, dovremmo dire che c’è un tratto antropologico nel nostro paese. E io questo non posso accettarlo”.
Renzi ha caricato di aspettative salvifiche totali questo magistrato che molti anni fa fece condannare all’ergastolo il boss della camorra Francesco Schiavone (“mai fatto il giudice, soltanto il pubblico ministero”).
E già qualcuno lo chiama lo “smacchiatore”, come fosse un prodotto per lavanderia, da supermercato, da banco, è pronto all’uso e non c’è nemmeno bisogno di agitarlo: l’Expo (“è stato un successo, potremmo vivere di rendita ma non lo facciamo”), Mafia Capitale, poi le eco-balle in Campania, e ora anche le banche popolari, dopo il fallimento di Banca Etruria e di Banca Marche.
“La storia degli arbitrati apparentemente non c’entra niente con l’Autorità anticorruzione”, ammette l’uomo della renziana provvidenza. Ma poi aggiunge: “Il nostro compito è di creare un meccanismo, un sistema per stabilire chi avrà diritto agli indennizzi e chi no”.
Ma non tocca alla Banca d’Italia?
“Quando avremo finito questa nostra conversazione dovrò incontrare il governatore Ignazio Visco. Ma guardi che l’Autorità è già dotata di una camera arbitrale. Voglio dire che non ci occupiamo di una faccenda completamente estranea alle nostre competenze. Insomma, non ci è stato mica chiesto di riformare il calcio!”.
E appena pronuncia queste parole Cantone si blocca, come sfiorato da un’inafferrabile ombra associativa, da un dubbio…
E se succede? Mai dire mai, dottore. Non sia precipitoso. E d’altra parte lui è stato investito del ruolo di autorità morale, di vestale della legalità , di salvifica fatalità dell’italico destino, anche se dice che non è vero, che è una super-semplificazione rozza, persino inquietante.
“Cercare un salvatore è molto deresponsabilizzante per una società “, dice. “Sono le democrazie poco mature che cercano demiurghi e super-eroi”.
Il Foglio lo ha spiritosamente eletto uomo dell’anno appena trascorso: il suo nome rimbalza ogni giorno e più volte al giorno tra i più alti seggi dell’empireo politico nazionale.
Cantone è stato candidato a tutto: sindaco di Roma, presidente della Campania, sindaco di Napoli, e persino presidente della Repubblica.
“La invito a verificare l’abisso che c’è tra le funzioni che i giornali tendono ad attribuirmi e quelle che effettivamente esercito”.
E allora gli si riferiscono alcuni commenti ironici che lo riguardano, su Twitter. “Anche io vado a dormire. #Cantone mi rimbocchi le coperte?”, scrive @ValentinaMeiss.
Poi un falso e ironico Gianni Cuperlo: “Dalle urne spagnole esce un paese ingovernabile. L’unica è chiamare Cantone”.
E ancora: “Stanotte l’ho visto finalmente. Cantone Natale che scendeva per i camini a portare i regali”.
E poi @FabrizioRoncone: “L’Inter ha chiesto a Cantone di seguire dal punto di vista psicologico Melo. Cantone, all’inizio un filo riluttante, ha accettato”.
Persino Mara Maionchi, la madrina di “X Factor”, alla domanda su chi secondo lei dovrebbe essere il prossimo giudice nel reality show di Sky ha risposto così: “Ma che domande sono? Cantone, ovviamente”.
Lui ascolta e sorride, con un atteggiamento di ritegno che pare allo stesso tempo di allerta.
“Di tutto questo colgo l’aspetto ironico e positivo”, soffia, con una limatura di sorriso. “Ma respingo l’idea che io sia una specie di mister ‘Wolf’ o peggio una fogliolina di fico. E poi, guardi, che essere evocato per un compito non significa che lo stai svolgendo”.
Sindaco di Roma?
“Nessuno me lo ha mai chiesto, e io non avrei mai nemmeno accettato”.
Sindaco di Napoli?
“Me lo chiesero”.
Eh, allora vede. Ora a Cantone tocca occuparsi anche delle banche, degli indennizzi, degli arbitrati…
“Non sfuggo alle responsabilità , se sono confacenti alle funzioni della struttura che presiedo. Sarebbe sbagliato tirarsi indietro. Ma non sono disposto a fare cose per le quali mi sento inadatto. Roma, per esempio, non è la mia città . Non farei mai il sindaco”.
E insomma ad animarlo è la certezza di essere attore e non agito. E c’è d’altra parte una foto, scattata da Filippo Sensi, il portavoce di Palazzo Chigi, nella quale Renzi è ripreso di spalle mentre Cantone gli sussurra qualcosa all’orecchio.
L’immagine suggerisce confidenza, un rapporto intimo e segreto.
Quante volte vi sentite al giorno?
“Quasi mai”.
Mai?
“Ogni tanto un messaggio su WhatsApp”.
E all’orecchio di Renzi lei cosa sussurra?
“Davvero non sono in grado di sussurrare nell’orecchio del presidente del Consiglio… Che peraltro è uno che non si fa sussurrare nell’orecchio da nessuno”.
Non ascolta.
“Tiene in considerazione le opinioni”.
Diciamo così. Anche nel governo Berlusconi, con le dovute differenze, s’intende, c’era una specie di Raffaele Cantone. Era uno che faceva tutto, risolveva problemi, si chiamava…
“Guardi che faccio gli scongiuri, se mi paragona a Guido Bertolaso”, ride.
Perchè gli scongiuri?
“Perchè è finito male. Bertolaso è stato molto a lungo un personaggio positivo. Poi è andata com’è andata. Alla fine, gratta gratta, questo è sempre il paese dell’osanna e del crucifige, è sempre il paese di Masaniello. C’è una parte d’Italia che prova una contorta soddisfazione a veder cadere un simbolo nella polvere. La caduta permette poi di dire che nei comportamenti borderline siamo tutti uguali”.
Ma in realtà la storia politica d’Italia è piena di tecnici finiti malissimo, e non per comportamenti borderline. Persino Mario Monti oggi si aggira per il Senato con la maestà malinconica delle rovine. E lo stesso vale per i troppi commissari alla spending review, per i super prefetti delle mille emergenze italiane e per tutti i salvatori della patria che con indifferente pendolarità questo paese ha masticato e sputato via in sembianze tragiche, o macchiettistiche.
Tutte falene che si accostano al freddo fuoco del linguaggio politico e vengono immancabilmente e cinicamente buttate via dai loro sfruttatori non appena le loro grazie appassiscono.
Dottor Cantone, per lei sarà diverso?
“La tendenza a nominare commissari ogni volta che c’è un guasto è la prova che il sistema non funziona. Ma io non sono chiamato a gestire un’emergenza, non sono il tipico “commissario”, parola che evoca l’idea della straordinarietà . Il mio è un compito che sta nella fisiologia dell’amministrazione”.
E davvero tutto in lui svela l’impegno di una vocazione stabilita fin dalla sua nomina, mantenuta nell’intonazione libera, ma accordata sui tempi musicali del renzismo, persino nel sorriso, che in lui non è raro ma è attento, come studiato.
Lei è un moralista, dottor Cantone?
“La parola ‘moralè non mi dispiace. Preferisco però la parola ‘eticà , quell’insieme di principi ai quali ancorare la propria attività . Dunque se con moralista si vuol intendere qualcuno che crede nella forza dell’etica, allora sì, sono un moralista”.
In un paese in cui tuttavia i moralisti sono finiti troppo spesso moralizzati. L’Antimafia sociale, politica e giudiziaria è precipitata in una nera pozza con l’affaire dell’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata per corruzione e abuso d’ufficio a Caltanissetta.
“L’incarnazione più completa e sorprendente, preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia”, dice Cantone.
La morale è dovunque conforme ai valori mutevoli nello spazio e nel tempo: con la prerogativa però, in Italia, di essere di generale convenienza. Si fanno anche carriere politiche così.
“Perchè l’Italia ha sete di legalità . Dunque ci sono anche i cinici, gli opportunisti, o gli sciocchi, come viene spesso raccontato, che la utilizzano. Ma io mi chiederei perchè esiste questa patologia politica”, la patologia dei magistrati che per esempio fanno grandi inchieste pirotecniche, poi le abbandonano prima della sentenza come Antonio Ingroia, e ancora prima che un giudice smonti tutto in tribunale si candidano alle elezioni.
“Questa patologia esiste perchè c’è una domanda forte di legalità nel paese, che si esprime anche in questo modo. Con tutti gli inestetismi del caso. Luigi De Magistris, quando venne eletto deputato europeo, fu tra i più votati in assoluto. E a Napoli, quando si è candidato sindaco, è stato un plebiscito. La domanda da farsi è: perchè De Magistris prese tutti quei voti?”.
E perchè li prese?
“Li prese perchè le persone ritengono che quello della legalità sia un nervo scoperto del paese. Se la gente vuole l’angelo vendicatore c’è un motivo. Può essere che sia immaturità dell’elettorato, ma può darsi che invece sia soprattutto un fortissimo desiderio di legalità . Allora la politica invece di lamentarsi della patologia, dovrebbe domandarsi perchè la patologia ha grande successo. E porvi rimedio”.
L’inchiesta che rese famoso De Magistris, la notissima Why not, si è poi afflosciata come un pallone sgonfio, anzi alla fine a essere condannato dal tribunale di Roma è stato proprio De Magistris: un anno e tre mesi per abuso d’ufficio.
“Il paese accetta gli errori, le contraddizioni, gli inestetismi e le cadute di stile, come quella di candidarsi nello stesso collegio in cui si è indagato con grande clamore. Accetta persino il sospetto della strumentalità , e lo fa perchè questi aspetti sono considerati meno importanti di una battaglia di principio. Della battaglia per la legalità “.
E lei dottore, lei ritornerà a fare il magistrato?
“Ad oggi la mia idea è di tornare in magistratura, ma il mio incarico all’Autorità anticorruzione scade nel 2020”.
E insomma c’è tempo. E mai Cantone è stato iscritto a un partito, come dice.
Ma a una corrente della Magistratura sì…
“Al Movimento per la giustizia, che era la corrente di Giovanni Falcone. Sono stato presidente dell’Anm regionale in Campania. Sono stato segretario del Movimento per la Giustizia a Napoli, ho sempre fatto parte attiva nel mondo della magistratura organizzata. A Napoli creammo una lista che si chiamava “Primo maggio”, c’era anche De Magistris”.
Siete amici.
“Con Luigi? Eravamo amici, anche se lui mi ha un po’ punzecchiato di recente. Aveva la stanza accanto alla mia in procura”.
E De Magistris, o’ sindaco di Napoli, è uno dei tanti magistrati contagiati dall’infezione della politica, uno di quelli che ha fatto “l’operazione”, contribuendo non poco all’ambiguità dei tempi.
“De Magistris si è dimesso dalla magistratura”.
Ma non sono troppi i magistrati in politica e nelle amministrazioni, persino quelli in aspettativa?
“È un diritto che non si può negare, e un sistema che non garantisca il libero accesso alle cariche amministrative o rappresentative sarebbe un sistema ben poco democratico. Certo, ci vogliono regole d’accesso, ma il pluralismo delle provenienze arricchisce la democrazia. Il problema vero è il periodo successivo, sono le cosiddette porte girevoli”.
Cioè i magistrati che dopo aver fatto politica tornano a indossare la toga, e senza passare dal via.
“Alfredo Mantovano oggi è giudice in tribunale”, ricorda Cantone.
E Michele Emiliano, da pubblico ministero di Bari, nel 2004 si fece eleggere sindaco della città in cui aveva indagato. Oggi è presidente della regione Puglia. Emiliano è un politico o è un magistrato?
“La scelta delle dimissioni è un fatto personale. Non può essere obbligatorio”.
Tuttavia Pietro Grasso si è elegantemente dimesso dalla magistratura.
“Ma era prossimo alla pensione!”.
Pausa. Sorriso.
“Guardi, una cosa è sicura: chi ha fatto politica, poi non può tornare a fare il giudice esattamente come gli altri”.
Sabino Cassese ne ha scritto sul Corriere di recente, persino il Csm ha evidenziato il problema.
“Ma non può essere il Csm a intervenire. Sono la politica e il Parlamento che devono fare una scelta di fondo. La magistratura ordinaria ha già fatto molto, come organismo, nel self-restraint: ha rinunciato agli arbitrati, alla giustizia sportiva… Tocca alla politica assumersi la responsabilità di una scelta. Non si può prevedere per legge che un certo ruolo all’interno del ministero della Giustizia sia riservato a un magistrato, e poi stupirsi con recitato scandalo se è un magistrato a ricoprirlo”.
E forse vuole dire che in questo astratto paese il nodo pratico e urgente delle questioni si diluisce sempre in dosi omeopatiche tra sguaiatissimi dibattiti da talk-show serale, tra furbizie e urlanti sceneggiate. E un motivo c’è se Cantone non è precisamente amato dai suoi colleghi dell’Associazione nazionale magistrati.
La sua è una lingua basica, apparentemente priva di trappole, trabocchetti, doppi fondi.
Sulla Terra dei fuochi, per esempio, Cantone non liscia il pelo del senso comune: “Vivo a Giugliano, piena terra dei fuochi. E su questa storia so con cognizione di causa che si sono dette balle spaziali. Si è andati dietro alle parole di un pentito, Carmine Schiavone, che dal 1993 noi magistrati consideravamo inattendibile su questo argomento”.
Fusti radioattivi, inferno atomico nelle campagne intorno Casal di Principe.
“Mai trovati. Mai nemmeno un fusto. E quando sono stati trovati rifiuti interrati, non erano mai dove diceva lui”.
Ma la televisione sparava forte, per mesi, ci fu anche una prima pagina del New York Times.
“Quella del traffico dei rifiuti è una faccenda seria. Lei crede che le zone più industriali della Pianura padana siano meno inquinate della Terra dei fuochi? Nessuno si è occupato di queste faccende per decenni. Poi all’improvviso si è creato un mostro mediatico, tutto suggestione, umori, sensazionalismo, pigrizia, ignoranza, si è fatto confusione tra la spazzatura bruciata, quella seppellita e quella che appesta certe zone della campagna. Un polverone inutile, che adesso ovviamente si è depositato. Nel silenzio e nell’inazione”.
A Caivano, padre Patriciello, prete di strada e di popolo, malediva i pomodori dal pulpito.
“Io rispetto don Patriciello. Ma lui non è un medico, non è uno scienziato e non è nemmeno un poliziotto. Si è fatto un collegamento acrobatico tra i rifiuti interrati e l’insorgenza dei tumori. Un collegamento smentito dai tecnici. Ne è venuto fuori un pasticcio imprendibile. Lei pensi che alle ultime elezioni, lì dove abito io, si è persino presentata una lista che si chiamava ‘Terra dei fuochì”.
E insomma, dice Cantone, l’emotività è gratuita, fine a se stessa, il suo proposito non è la risoluzione dei problemi (che per loro natura sono pratici, non filosofici nè sentimentali), ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al suo libero e spensierato gioco ai danni dell’azione e persino dell’efficienza.
E queste sono evidentemente posizioni che gli condensano attorno al capo vaste nubi di antipatia. Come quando, a Milano, presentando il libro dell’ex magistrato Piero Tony, disse che le correnti della magistratura “sono un cancro”.
E Md?
“Non mi piace l’utilizzo della giustizia come lotta di classe”.
E l’Anm?
“Non mi sento rappresentato”.
E il Csm?
“Un centro di potere vuoto”.
Oggi Cantone dice che “molti di quei giudizi erano semplificati, perchè si trattava della presentazione di un libro. E forse certe parole non le avrei dovute utilizzare, anche se esprimevano concetti di cui sono ancora persuaso. Per quelle frasi ho ricevuto attacchi violentissimi sulle mailing list della magistratura, ma ho anche ricevuto un numero rilevante di messaggi privati, di mail di incoraggiamento personale, da parte di moltissimi colleghi, attestati che ritengo importanti”.
Anche l’Anm l’ha criticata.
“Persino in questi giorni leggo giudizi molto severi nei miei confronti sulla questione degli arbitrati, critiche da parte di colleghi che a Napoli appartengono alla lista dalla quale anche io provengo, magistrati che forse mi votarono persino. Vede, l’Anm non è la magistratura. E la magistratura non è un monolite. È un potere diffuso che rozzamente alcuni politici pensano si muova come un partito. È ridicolo. È una cosa tecnicamente impossibile. La magistratura è composta da molti uomini e molto diversi. E anche l’esercizio di critica, la vivacità persino dura con la quale si discute, ne è una prova, oltre a essere un sintomo di salute democratica”.
Berlusconi parlava di partito dei giudici.
“Non solo Berlusconi. Ci sono uomini politici che pensano di poter influenzare un tribunale o una procura favorendo delle nomine, ingraziandosi alcune personalità della magistratura. Ma non è così che funziona. Questa è un’idea sciocca. Con tutti i suoi difetti la magistratura italiana non soltanto è un’istituzione libera da condizionamenti, ma è un fondamentale presidio di legalità “.
Con tutti i suoi difetti.
“La magistratura ha spesso esorbitato, ci sono stati esempi di protagonismo esasperato. Ma l’umanità , si sa, è un legno storto”.
E bene ancora non si capisce quale ruolo lui sia destinato a giocare in quel labirinto di specchi, strumentalizzazioni e furberie che da circa vent’anni è il conflittuale e intrecciato rapporto tra politica e giustizia.
Mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, attore del renzismo e agito da Renzi, sottoposto alla maledizione che sempre grava sugli uomini della provvidenza, Cantone è una delle creature più enigmatiche della nuova era italiana: non è Di Pietro e non è nemmeno De Magistris, non è uno di quei pm che ha indagato la politica e ha poi indossato la pelle dell’imputato.
“Faccio solo il mio mestiere”, dice lui, gettando uno sguardo distratto all’orologio, nel suo studio ammobiliato come un ministero di fascia alta, divano e poltrone come si deve, l’arazzo settecentesco, il ritratto del presidente della Repubblica.
“È mezzogiorno, devo scappare”, dice.
Va dal governatore della Banca d’Italia. Come un ministro.
Forse di più.
Salvatore Merlo
(da “il Foglio”)
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