Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
SONO 15.000 LE PROPOSTE MA SOLO 565 TAGLIANO IL TRAGUARDO
Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello – tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori – su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in).
Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull’agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge.
Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con – al massimo – 44 giorni di tempo.
Dall’altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale.
Leggi ‘lepre’. E leggi ‘lumaca’.
Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che “nel 2016 queste vanno” necessariamente “portate a casa” perchè “a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015” il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato.
“Purtroppo – ha poi aggiunto Renzi – non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perchè il dibattito che si apre al Senato” a fine gennaio “sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l’elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi”.
In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari.
Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l’iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante – costituzionalmente – siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo.
Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d’azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari.
Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it.
Secondo l’osservatorio civico, infatti, “ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo”. Nell’attuale legislatura, come nella scorsa, circa l’80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti.
Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l’iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?
Chi arriva in fondo.
Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell’80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo.
E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo.
Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.
I tempi.
In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare.
Non stupisce quindi che la top 10 delle ‘leggi lumaca’ sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle ‘leggi lepre’ vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno).
Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.
Tante ratifiche di trattati.
Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.
Cambi di gruppo e instabilità .
Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall’altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione.
Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di ‘trincea’ fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l’opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d’Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggiorparte dei casi in contrasto con il Partito democratico.
Pd in testa.
Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare).
Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.
I decreti.
A seguire nell’analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento.
Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato.
Negli ultimi 4 governi, il più ‘efficiente’ è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti.
I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.
Le Regioni.
Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato.
Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.
Come si vota.
Un altro elemento fondamentale nell’approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull’attuale legislatura, l’analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all’approvazione finale di questi provvedimenti.
Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia.
Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all’interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.
Le opposizioni.
Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perchè se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontanto altro.
Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd.
Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.
Voto di fiducia: chi l’ha usato di più.
Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento.
Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l’approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia.
In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento.
Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia?
Al primo posto c’è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013.
Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).
Voti finali alla Camera.
Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo.
Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi – e il riposizionamento dei berlusconiani – la percentuale è scesa al 64,57 per cento.
Voti finali al Senato.
I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali
Voti finali panpartisan.
Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro.
Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.
Michela Scacchioli
(da “la Repubblica”)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
SE NESSUNO SUPERA IL 30-35% UN GOVERNO MONOCOLORE PUO’ NASCERE CON IL SOSTEGNO DI PARTITI ESCLUSI DAL BALLOTTAGGIO
Vi sono politologi, come Maurice Duverger e molti suoi epigoni, che affermano che i sistemi di partito sono largamente dipendenti dalle leggi elettorali.
Altri studiosi, come Giovanni Sartori o Stein Rokkan, affermano invece che sistemi di partito e forma di governo sono sì influenzati dai sistemi elettorali, ma più ancora da fattori di lungo periodo quali le modalità di formazione dello Stato nazionale, la presenza di minoranze etniche o religiose, la forma di Stato, i conflitti interni al sistema economico, e così via.
Nella scienza politica del ‘900 vi sono insomma stati due indirizzi, ma oggi i politologi più accorti riconoscono ormai l’insufficienza di una analisi focalizzata solo sull’influenza delle leggi elettorali
Le recenti elezioni spagnole si prestano egregiamente ad illustrare la questione.
Tutti i commentatori hanno sottolineato che il loro esito, assieme ai risultati in altri Paesi europei, sembra sancire la fine di quel bipolarismo che i più avevano salutato con favore. Solo Angelo Panebianco sul Corriere ha giustamente ricordato che una competizione bipolare caratterizza ancora Gran Bretagna e Francia, cui unirei la Germania.
Ma non si può tacere che l’assetto bipolare della competizione elettorale ha subito anche in questi Paesi – con l’eccezione proprio della Germania – un marcato indebolimento, con l’emergere in Gran Bretagna di un partito nazionalista (Ukp) e il rafforzarsi degli indipendentisti scozzesi, e in Francia con il consolidarsi del Front National.
Su questa crisi del bipolarismo le leggi elettorali hanno avuto ben poca influenza: la legge spagnola è stata a lungo indicata in Italia come un possibile toccasana per superare la frammentazione del sistema partitico, e descritta (grazie ai suoi piccoli collegi e al mancato recupero nazionale dei resti) come una legge dall’esito implicito fortemente maggioritario.
Ma è bastata una crisi economica per vedere sorgere nuovi partiti e assestare al supposto inevitabile bipolarismo spagnolo un colpo forse mortale.
A un sistema pensato come sostanzialmente maggioritario non ha insomma risposto un esito bipolare, bensì un probabile difficile periodo di instabilit�
Di contro la Germania, notoriamente caratterizzata da un sistema proporzionale, ha conosciuto stabili coalizioni, e una competizione elettorale bipolare.
Contrariamente all’assunto che a governi di coalizione corrisponda necessariamente instabilità politica, la Germania dimostra che anche in caso di grande coalizione tra i due partiti protagonisti della competizione bipolare (Cdu e Spd) si può avere stabilità politica ed efficacia dell’azione di governo.
Il rapporto tra leggi elettorali e struttura del sistema partitico e natura della competizione elettorale non è insomma univoco, ed è vano ricorrere all’ingegneria elettorale per forzare un sistema in un assetto bipolare.
Paradossalmente, potremmo affermare che non è un sistema elettorale maggioritario a produrre il bipolarismo, ma al contrario che è il bipolarismo a consentire leggi fortemente maggioritarie.
Quali conclusioni trarre da questi sviluppi europei per la situazione italiana ed il ruolo dell’Italicum?
Nessuno ha mai messo in dubbio che in tempo di guerra siano opportuni governi di unità nazionale. Viviamo in tempi di grave crisi economica, di terrorismo internazionale, e di tensioni generazionali con una forte disoccupazione giovanile e una popolazione anziana destinata alla povertà dalla crisi dello stato sociale.
In queste condizioni, se vi è un partito dominante che superi il 40-45% dei voti è lecito ricorrere a un premio di maggioranza che assicuri efficaci governi monopartitici.
Ma in una situazione multipolare, in cui nessun partito superasse il 30-35% dei voti e distanziasse nettamente gli avversari, una legge elettorale ipermaggioritaria produrrebbe artificiosi governi monopartitici frutto della scelta degli elettori dei partiti esclusi dal ballottaggio.
Se questo è vero, teorizzare – come da tempo si va facendo in Italia – che governi sostanzialmente monopartitici, risultato non della presenza di un partito dominante ma di iperbolici premi di maggioranza, siano necessariamente da preferire a stabili governi di coalizione basati (come in Germania) su solidi accordi programmatici è un indubbio azzardo.
In conclusione, l’Italicum è una buona legge, ma potrà produrre un governo efficace solo se un partito raggiungerà il 40% dei voti; un ballottaggio tra partiti del 30% o poco più, deciso dagli elettori dei terzi partiti, non potrebbe infatti garantire un governo in grado di rispondere alle domande della maggioranza degli elettori.
Se questo è il caso, sarebbe opportuno introdurre nell’Italicum una clausola di salvaguardia prevedendo che nel caso nessun partito superi il 35% del voto non si ricorra al ballottaggio.
Piuttosto che a governi monopartitici, maggioritari in Parlamento ma fortemente minoritari nel Paese, meglio sarebbe, in condizioni di emergenza, il ricorso ad una grande coalizione.
Ha funzionato in Germania e in Gran Bretagna. Potrebbe funzionare anche in Italia.
È anche dalla capacità di giungere a mediazioni condivise che si giudica l’adeguatezza e il senso di responsabilità di una classe politica.
Stefano Passigli
(da “il Corriere della Sera“)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
SCAMPANO “STRANAMENTE” LICATA, BRONTE E CEFALU’ GESTITE DAL PARTITO DI ALFANO E DELLA LORENZIN
Strutture molto simili, numeri quasi identici, ma una sorte assolutamente opposta.
È la strano destino dei punti nascita in Sicilia, tagliati con un rapido tratto di penna per ordine del ministero della Salute, ma in qualche caso risparmiati in extremis senza alcuna ragione apparente.
Negli stessi giorni in cui il dicastero di viale Ribotta ha inviato gli ispettori a Brescia e Torino (dove nelle ultime ore cinque donne sono morte in sala parto), una polemica squisitamente politica investe il ministro della Salute Beatrice Lorenzin.
Il motivo? Il caso di alcuni punti nascita che in Sicilia hanno chiuso i battenti dal primo gennaio del 2016.
Un epilogo annunciato già un anno e mezzo fa, quando il ministero aveva ordinato alla Regione Siciliana di porre fine all’esistenza delle strutture che effettuavano meno di 500 parti all’anno. L’ex assessore alla Sanità Lucia Borsellino aveva quindi stilato un elenco con sedici ospedali dotati di ginecologia che però non superavano la soglia minima indicata da Roma.
Alcune di quelle strutture hanno subito chiuso i battenti, altre sono state salvate in via preventiva, mentre a sei punti nascita è stato concesso di rimanere in attività , ma solo fino al 31 dicembre del 2015: a quel punto il ministero avrebbe dovuto decretare la sospensione del servizio.
Cosa che è effettivamente accaduta per i centri di Petralia Sottana, in provincia di Palermo, di Santo Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento, di Mussomeli, in provincia di Caltanissetta, e dell’isola di Lipari.
A sorpresa, però, il ministero ha deciso di risparmiare, almeno per il momento, i punti nascita di Licata, in provincia di Agrigento, e di Bronte, nel catanese. Ed è questa la miccia che ha fatto detonare la polemica.
“Il ministro Lorenzin, evidentemente, decide di chiudere i punti nascita seguendo motivi più politici che scientifici, ma noi non possiamo permettere che la salute sia considerata un privilegio da distribuire con il manuale Cencelli”, attacca la deputata del Pd Magda Culotta, tra i più strenui difensori del punto nascita di Petralia Sottana, fondamentale per tutta la comunità delle Madonie, mal collegata con gli altri ospedali.
Dello stesso avviso il segretario palermitano del Pd Carmelo Miceli che invece parla di “iniqua differenza di trattamento figlia di possibili logiche campanilistiche e di appartenenza”. Il riferimento è proprio per i punti nascita che Lorenzin ha deciso di risparmiare: quelli, appunto, di Bronte e Licata, che casualmente sono anche feudi elettorali del Nuovo Centrodestra, lo stesso partito del ministro della Salute.
La città di Bronte, cinquantamila abitanti e 260 parti nel 2014, è la storica roccaforte di Pino Firrarello, notabile catanese della Dc, per un ventennio senatore di Forza Italia, del Pdl, e alla fine sostenitore del Nuovo Centrodestra.
Un potere ancora saldissimo, dato che l’ex senatore è il suocero di Giuseppe Castiglione, luogotenente di Angelino Alfano in Sicilia, sottosegretario all’Agricoltura, coinvolto nell’inchiesta sul centro richiedenti asilo di Mineo, altra importantissima enclave elettorale del Nuovo Centrodestra.
È per questo che è rimasto aperto il punto nascita di Bronte? Perchè ha trovato nella famiglia Castiglione — Firrarello, grandi elettori Ncd, un validissimo sponsor capace di far breccia nelle decisioni operate dal ministero?
Di certo c’è che la parlamentare dem Culotta (che a Roma fa parte della stessa maggioranza di governo della Lorenzin) ha annunciato di voler portare il caso Bronte in Parlamento, mentre il quotidiano livesicilia.it parla di “frequenti visite romane” di alcuni big Ncd per salvare il punto nascita in provincia di Catania.
Stessa antifona a Licata, l’altra struttura graziata dal ministro Lorenzin, che essendo in provincia di Agrigento è al centro della zona d’influenza di Alfano.
“Una battaglia vinta”, la definiva il 31 dicembre scorso Vincenzo Fontana, deputato regionale del Ncd e vicepresidente della commissione Sanità in parlamento Regionale.
Autore poi di una specie di confessione: “Grazie all’impegno e al lavoro del ministro Alfano e del ministro Lorenzin, con i quali — diceva — sono stato costantemente in contatto ed informato sull’evoluzione dell’iter”.
Come dire che per salvare la ginecologia a Licata sono intervenuti direttamente i titolari del Viminale e della Salute: due ministri per una città da 38 mila abitanti e 400 parti nel 2014.
Tutto, pur di salvare il punto nascita di casa propria, e quindi ottenere il riconoscimento elettorale di infermieri, medici, cittadini.
E del resto una delle strutture salvate già in fase preliminare, nonostante non superasse il limite di 500 parti, era quella di Cefalù, splendida cittadina balneare in cui per dieci anni la poltrona di sindaco è stata occupata da Simona Vicari, oggi sottosegretaria allo Sviluppo Economico, anche lei, manco a dirlo, fedelissima esponente del Nuovo Centrodestra.
Un partito che, dopo il business dell’accoglienza, spunta in controluce anche nel delicatissimo domino della sanità siciliana.
Giuseppe Pipitone
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
MAI COSI’ POCHI DISOCCUPATI DAL 1990, CALANO I MINI-JOB
“L’Italia finalmente c’è”, ripete Matteo Renzi. L’Italia forse c’è, suggeriscono gli ultimi dati Eurostat, ma il tasso di disoccupazione tocca l’11,5% mentre tra i giovani lavora soltanto il 15,1%, contro percentuali addirittura triple nel resto del continente.
Tanto che lo stesso ministero per lo Sviluppo economico deve ammettere: “La nostra ripresa è più lenta e più lunga”.
Intanto la Germania corre come un treno e il paragone con le statistiche del Belpaese è sconfortante.
Il numero di occupati in territorio tedesco non è mai stato così alto dall’epoca della riunificazione, così come il numero di persone senza lavoro ha raggiunto il minimo storico dal 1990.
A certificare il record è l’istituto tedesco di statistica Destatis che ha pubblicato il bilancio annuale del 2015: 43 milioni di lavoratori, 324mila in più rispetto al 2014. “La crescita dell’occupazione”, annota il bollettino, “continua da 10 anni nonostante nel 2015 l’aumento (+0,8%) sia stato leggermente inferiore al 2014 (+0,9%)”.
“Il numero totale di persone che hanno un impiego ha toccato il livello più alto dalla riunificazione della Germania”, e pare che l’arrivo di oltre un milione di profughi nel territorio tedesco non abbia intaccato la capacità di creare lavoro, sia per i tedeschi che per i migranti residenti.
Una notizia che certamente rallegrerà Angela Merkel, che naviga in difficili acque dopo la decisione di aprire le frontiere ai profughi siriani.
Anzi, il Destatis certifica che “la crescente partecipazione della forza lavoro interna e l’immigrazione di lavoratori stranieri hanno annullato gli effetti demografici negativi”. Il record fa il bis per il numero di disoccupati, sceso al di sotto dei due milioni, anche in questo caso mai così basso dalla riunificazione: nel 2015 le persone senza occupazione sono diminuite di 140mila unità (-6,7%) e il tasso di disoccupazione è calato dal 4,7% al 4,3%.
Un dato che secondo l’istituto di statistica proietta la Germania nell’eldorado del lavoro in Europa: “Il tasso di disoccupazione è la metà della media europea e questo significa che, ancora una volta, la Germania è il paese europeo meno toccato dal problema della disoccupazione”.
A beneficiare maggiormente del trend positivo, osserva ancora il Destatis tedesco, sono stati i lavoratori con contratto dipendente – cresciuti di 421mila unità (+1,1%) fino a raggiungere i 38,7 milioni.
Scende invece il numero dei lavoratori autonomi e di coloro che possiedono un contratto a breve periodo o un mini-job, e aumenta parallelamente la cifra dei dipendenti con contributi previdenziali.
Uno scenario che sembra discostarsi enormemente dai risultati italiani del 2015, influenzati dal Job’s Act: come aveva fatto notare il New York Times, il numero di disoccupati è calato ma soltanto perchè è aumentato quello di coloro che smettono di cercare occupazione.
Allo stesso tempo, il numero di contratti a tempo indeterminato è cresciuto solo di 2mila unità dal dicembre 2014. E, lungi dal far assumere i giovani, la nuova riforma del governo sembra aver avvantaggiato quasi unicamente gli over 50.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
DAL PRIMO GENNAIO TICKET PER GLI INTERVENTI IMMOTIVATI: ESCURSIONISTI DELLA DOMENICA E IMBECILLI AVVISATI
Mille euro per farsi soccorrere sulle montagne piemontesi.
Dal primo gennaio gli escursionisti improvvidi, o più probabilmente i turisti della domenica che si improvvisano scalatori, dovranno pagare un ticket per le chiamate al Soccorso alpino.
Con lo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre è infatti entrato in vigore la delibera regionale che, oltre ad aggiornare le tariffe dell’elisoccorso, prevede la compartecipazione al costo degli interventi “immotivati, inappropriati o provocati da un comportamento imprudente “.
Fino al 2015 il soccorso era stato gratuito sempre e per tutti, ora non più.
La delibera è stata firmata dall’assessore alla Sanità , Antonio Saitta, e da quello a Montagna e Protezione civile, Alberto Valmaggia.
Spiega che i costi saranno addebitati completamente solo per “le chiamate totalmente immotivate”, mentre per tutte le altre non congrue il tetto sarà di mille euro: le tariffe sono 120 euro per la chiamata e 120 ulteriori ogni minuto di volo, mentre quando si attiva solo il soccorso a piedi il costo fisso sarà di 120 euro cui si aggiungono 50 euro l’ora per ogni squadra impiegata dopo la prima ora di soccorso.
“Una regolamentazione come questa andava fatta perchè ha un valore prima di tutto educativo – ragiona il presidente del Soccorso alpino piemontese Aldo Galliano – Noi di questi ticket che sono stati introdotti però non vedremo un euro, perchè andranno direttamente all’assessorato, ci competerà segnalare i casi in cui l’intervento si è rivelato incongruo secondo le tre tipologie previste”.
Il regolamento però ovviamente va interpretato e lascia un margine molto soggettivo al caposquadra che fa la relazione e poi al presidente del soccorso che deve girare i casi alla direzione della Protezione civile: “Non si può negare che ci saranno episodi al limite e che potrebbero aprirsi contenziosi, ma questo regolamento dovrebbe invogliare tutti quelli che frequentano la montagna ad assicurarsi e anche prevedere polizze che coprano questi costi come accade in altri paesi”, aggiunge Galliano.
Sui problemi interpretativi il presidente del Sasp nazionale Piergiorgio Baldracco spiega: “In altre regioni le regole sono più chiare, ma in Valle d’Aosta nonostante questo si recuperano i soldi di un terzo degli interventi inidonei, mentre per tutti gli altri si resta a bocca asciutta”.
In Piemonte, se il nuovo regolamento fosse già stato in vigore l’anno scorso si sarebbe fatto pagare qualcuno in una ventina di casi, secondo le stime, parziali, del direttore del 118 regionale Danilo Bono: “Nei 700 casi dove è stato coinvolto l’elisoccorso, almeno 20 rientrano nelle tipologie previste, ma dall’entrata in vigore non ne abbiamo avuto nemmeno uno – racconta – Sull’applicazione io credo che sarà il buon senso la regola più importante e le situazioni saranno valutate caso per caso. Credo anche che se comunicato opportunamente possa servire a scoraggiare chi va in montagna impreparato o con l’attrezzatura inadeguata. Non è pensato per far cassa”.
Se l’intervento delle squadre o dell’elisoccorso si conclude con un ricovero in ospedale invece il costo non è addebitato in nessun caso.
L’idea è quella di creare un effetto deterrente, più che una vera compartecipazione alle spese dell’elicottero: “Se si fosse voluto finanziare il costo degli interventi avrebbe avuto molto più senso introdurre un ticket generalizzato per tutti i casi in cui si alza in volo, compresi quelli in pianura – ragiona Baldracco – Ad esempio con 200 euro fissi, e le stesse esenzioni per reddito degli altri ticket sanitari, si tirerebbero su cifre molto più importanti e non si punirebbe chi frequenta la montagna”.
Chi fa il volontario da anni ha già visto di tutto, dall’anziano che non trova più l’auto dopo essere andato a funghi a chi rimane bloccato in quota perchè non ha calcolato l’orario del tramonto: “Spesso capita di irritarsi perchè ci si trova a fare interventi che con un po’ di buon senso da parte dell’escurisionista si sarebbero potuti evitare – confessa Galliano – Non puniremo nessuno, ma applicheremo le regole”.
Jacopo Ricca
(da “La Stampa“)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
DOPO I DUE DENUNCIATI DI IERI PER AVER DANNEGGIATO UN PRESEPE, ANCHE IL CASO CHE AVEVA SUSCITATO SDEGNO HA UN RESPONSABILE: “NON E’ MUSULMANO”… CROCIATA RINVIATA
«C’è un sospettato nella vicenda del Bambin Gesù impiccato a Pitelli , non lo abbiamo ancora preso ma si tratta di un ragazzino».
L’immagine della statua del bambinello, rapita e poi appesa a un cappio, la notte di Capodanno, ha fatto il giro del Paese.
Il questore della Spezia Vittorino Grillo, però, annuncia che le indagini sono a «buon punto» e che «sono stati raccolti indizi ben circostanziati. Non ci sono ancora denunce — ha affermato durante l’incontro con la stampa per il bilancio dell’attività 2015 — ma riteniamo che si tratti di una bravata, la matrice non è religiosa, non è opera di un musulmano, in questo senso voglio rassicurare la cittadinanza».
La polizia tiene il massimo riserbo sull’inchiesta, confidando di poter formalizzare il deferimento nelle prossime ore.
Ad ogni modo, appare ormai certo che l’episodio di Pitelli non sia collegato con quanto avvenuto nei giorni seguenti a Cafaggio.
Gli investigatori in un primo momento avevano ipotizzato che potesse essere opera di una sorta di serial killer dei presepi.
Invece, i carabinieri del reparto operativo della Spezia sono riusciti ad acciuffare i responsabili del danneggiamento alle sagome della sacra famiglia esposte in via Camisano .
Si tratta di due ragazzi, italiani, C.S. e B.S, rispettivamente di 20 e 19 anni. Hanno già confessato, spiegando di aver utilizzato dei petardi acquistati in un negozio a Castelnuovo Magra.
«Non l’abbiamo fatto di proposito, uno dei botti ci è sfuggito nella direzione sbagliata», si sono giustificati con gli investigatori dell’Arma.
(da “il Secolo XIX”)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
SUL BLOG UNA PRESENTAZIONE CELEBRATIVA DEL COLLOQUIO CON DI MAIO…. LA “SERIETA” DEL M5S E’ STATA AGGIUNTA E ALCUNE VALUTAZIONI CRITICHE SCOMPAIONO
«Il Movimento cinque stelle è maturo per il governo, scrive il Financial Times»: così, fin dal titolo, sul blog di Beppe Grillo il 30 dicembre, veniva presentata celebrativamente un’intervista di fine anno del quotidiano della city a Luigi Di Maio, il giovane aspirante leader del direttorio dei cinque stelle.
Il rigoroso quotidiano britannico così elogiativo nei confronti del movimento, che un tempo appariva a quel mondo soltanto una forza «populista» e «demagogica»?
IL TITOLO
C’è un titolo al quale Grillo si aggrappa «Italy’s Five star Movement comes of Age»; ma nei social del Ft già viene aggiunto un punto interrogativo («Has Italy’s Five Star Movement come of age?»), e su internet il titolo attuale è diverso, per evitare equivoci e essere il più chiari possibile, “Italy’s Five Star Movement seeks to be taken seriously”, quella di esser preso come una forza matura è l’aspirazione del Movimento, non il giudizio del giornale.
Soprattutto, il blog di Grillo omette le intere prime dieci righe del Ft, dove m5s viene definito «populista», e alle origini anche «clownesco», e aggiunge aggettivi elogiativi che non ci sono affatto.
LA TRADUZIONE ALLEGRA
Sul blog leggiamo che «il M5S ha fatto tanta strada ed è oggi una seria alternativa a Renzi», ma sul giornale c’è scritto, molto più neutralmente, «protest group has come a long way since its eccentric start and is now the country’s second party».
Una considerazione puramente fattuale e avalutativa, ma la traduzione sul blog oltre a sottolineare quel «comes of Age» (letteralmente: matura, non «è maturo») e all’aver fatto tanta strada – aggiunge che è una «seria» alternativa a Renzi: l’aggettivo «seria» sul quotidiano non c’è.
Sono due modifiche sostanziali, che danno al pezzo quel che nel pezzo non c’è: un’accezione di sdoganamento e un giudizio molto positivo.
LA SCOMPARSA DELL’AGGETTIVO «POPULIST»
Scompare invece, sul blog, l’aggettivo «populist», che su Ft continua invece a comparire fin dalla presentazione, e naturalmente nel pezzo, quando si deve introdurre al lettore anglosassone questa forza politica.
E’ poi Di Maio – non il giornalista James Politi – che insiste sul fatto che “il Movimento non è una tossina populista, ma il suo antidoto”.
Peccato che il Financial Times scriva esattamente il contrario, e cioè “the populist Five Star Movement”.
LE CHAT INTERNE
La storia cela alcuni retroscena. Possibile che si possa forzare così il senso di un’intervista scritta, senza subire critiche? Improbabile, ma la struttura interna del Movimento cinque stelle è una galassia che solo una lettura delle chat interne tra i parlamentari può aiutare a disvelare.
Nei giorni successivi all’intervista – che, singolarmente, non è stata gestita dallo staff di comunicazione, ma direttamente dal gruppo di Di Maio – il capo della comunicazione dei cinque stelle, Rocco Casalino, domandava nelle chat se c’era qualcuno che gliela potesse tradurre testualmente dall’inglese.
DI CHI È LA MANO?
Resta poco chiaro chi sia l’autore materiale della traduzione – diciamo così – lievemente favorevole al Movimento.
Che è stata ricostruita punto per punto da Giampaolo Galli, deputato del Pd.
Nel Movimento c’è un «genio delle lingue»: così si definisce nel curriculum la coach tv Silvia Virgulti, compagna di Di Maio, che ha avuto frequenti contatti di lavoro col mondo anglosassone, e collaborato con alcune ambasciate (il mondo canadese in particolare).
Impensabile che l’errore possa esser stato commesso da lei. Fatto sta che, insomma, la «serietà » del Movimento è stata aggiunta da una manina, il «comes of age» (che vuol dire «matura») è diventato un definitivo «è maturo», il «populista» e varie valutazioni critiche sono scomparse.
«Il pezzo è chiarissimo, poi tante persone cercano di interpretare i nostri pezzi a loro piacimento», taglia corto James Politi, che interpelliamo per chiudere definitivamente la questione.
Il blog di Grillo, si direbbe, non pare pervenuto allo standard anglosassone.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
L’EX RADICALE IN POLE, MA PONE LE PRIMARIE COME CONDIZIONE
«Io penso che Matteo abbia già deciso, che voglia candidare me. Almeno, così va dicendo in giro».
A Montecitorio circolano pochissimi parlamentari, la gran parte continua a godersi lunghe vacanze. Roberto Giachetti invece presiede l’Aula. E quando incrocia un amico, si confida.
Il suo nome circola insistentemente per il Campidoglio e Renzi potrebbe lanciarlo già durante la direzione nazionale di metà gennaio.
«Non so — si mantiene cauto con l’interlocutore – immagino che prima dovremo incontrarci. Perchè io ancora non ci ho parlato, mi credi?».
Chi lo ascolta tentenna, il renziano doc insiste: «Io davvero preferirei non candidarmi. Se però me lo chiedono, almeno vediamo a quali condizioni».
Non si tratta di garanzie personali, semmai del percorso politico migliore: «Ad esempio le primarie. Senza, il mio nome non esiste».
Le primarie, appunto. Ecco lo snodo intorno al quale l’avventura del vicepresidente democratico della Camera si incrocia con la rivolta della base del centrosinistra capitolino.
A Roma, è cronaca, Stefano Fassina ha bruciato tutti sul tempo annunciando la propria candidatura per il dopo Marino. Molti degli amministratori di Sel si sono opposti, preferirebbero contarsi nei gazebo.
Per dare forza alla battaglia, hanno già fissato un evento simbolo: il prossimo 23 gennaio, assieme ai presidenti di municipio del centrosinistra, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti (Pd) e il suo vice Massimiliano Smeriglio (Sel) riempiranno il teatro Brancaccio.
E chiederanno primarie unitarie per il centrosinistra “di governo”. Vent’anni di collaborazione che, ricorda in ogni circostanza Smeriglio, è impossibile archiviare a cuor leggero: «La partita è ancora tutta da giocare».
Il modello del “partito degli amministratori” romani è naturalmente quello di Giuliano Pisapia, che in un appello pubblico firmato assieme ai sindaci di Cagliari e Genova ha chiesto di preservare l’esperienza delle primarie del centrosinistra.
A Milano, in realtà , Sel deciderà solo a metà mese se partecipare, ma i dirigenti locali vogliono l’alleanza con il Pd e chiedono ufficialmente un candidato unico che sfidi nei gazebo il renziano Giuseppe Sala.
Stessa linea di una fetta dei vendoliani bolognesi e di molti amministratori di altre realtà comunali.
A Roma, però, pesa la netta chiusura di Fassina: «Il Pd della Capitale — attacca l’ex dem – è dominato dal Nazareno. È fisiologico che in un partito ci siano posizioni diverse, ma abbiamo fatto una scelta».
Un autentico muro, di fronte al quale però non si arrendono i mediatori.
Chiedono a Fassina un passo indietro e sognano l’apertura di un tavolo per le primarie. Uno schema che non dispiace a Giachetti: «Penso che il mio nome metterebbe in difficoltà molti di loro – ha confidato in queste ore – Non è facile girarsi dall’altra parte, abbiamo lavorato dieci anni insieme quando c’era Rutelli sindaco. Se rompono, rischiano di stare all’opposizione per dieci anni…».
In realtà non è solo questione di sentimenti, o di comuni trascorsi al Campidoglio.
C’è il calcolo politico del Pd, la convinzione che il voto utile penalizzi chi spacca la coalizione.
Lo certifica anche il capogruppo dem alla Camera Ettore Rosato: «Non pensino che forzando la mano sulle amministrative noi cambiamo l’Italicum perchè capiamo che sono indispensabili. Anzi, si separerebbero definitivamente da noi».
Il nome dell’ex radicale Giachetti, che nel frattempo ha incassato anche l’endorsement di Marco Pannella («lo voterei a occhi chiusi»), resta insomma in pole.
Lo sostengono anche alcuni giovani dem renziani di Roma, che guidati da Tobia Zevi preparano una Leopolda nella Capitale.
Molto comunque si deciderà durante la direzione nazionale del Pd. E tanto dipenderà dalla pressione della base.
A partire da quella del “partito degli amministratori” convocati al teatro Brancaccio.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 5th, 2016 Riccardo Fucile
INVECE CHE INVESTIRE PER RIDURRE LE LISTE DI ATTESA SI PROSPETTA LA SOLITA SOLUZIONE
Dopo le polemiche sui festeggiamenti di Capodanno, che in un primo momento sembrava voler far saltare, arriva altro carbone sulla testa del commissario capitolino Francesco Paolo Tronca, alla vigilia della festività della Befana.
E’ colpa della soluzione che avrebbe trovato alla crisi degli asili nido e delle scuole materne romane: annosa questione per i romani più piccoli, che da anni devono battersi a colpi di dichiarazioni dei redditi e ricorsi per guadagnare il proprio posto nella scuola pubblica.
A sorpresa, tra i titoli della cronaca cittadina, arriva il piano che sarebbe contenuto nel documento unico di programmazione 2016-2018 in cui il commissario avrebbe riportato che, per far fronte alla richiesta dei bambini in lista d’attesa, “sarebbero necessari ulteriori fondi, per un importo pari a 6 milioni e 500 mila 613 euro l’anno per la copertura delle spese di gestione”.
Dato che non c’è speranza di trovare queste risorse “si propone di avviare un progressivo passaggio alla gestione in concessione, che consentirebbe una minor spesa per ciascuna struttura stimata in 450 mila euro annui”, assicura l’analisi commissariale.
Stesso discorso per le materne: per esaurire le liste d’attesa servirebbero altre “90 sezioni nuove a tempo pieno, e ulteriori fondi per un importo pari a 12 milioni e 375 mila euro l’anno”.
Per questo l’idea è una “progressiva statalizzazione delle scuole dell’infanzia”.
Questo scenario fa sobbalzare sulla sedia anche gli ex consiglieri capitolini del Pd che per arrivare alla gestione commissariale hanno sacrificato volontariamente il proprio posto in aula Giulio Cesare.
Dopo essersi uniti al coro pro-Capodanno, oggi si aggiungono a quello anti-privatizzazione: “Vogliamo un incontro con Tronca”, chiedono a mezzo stampa.
“A Roma esiste già un sistema integrato pubblico-privato di gestione dei servizi educativi” .
Utile, a loro avviso “vista la complessità del settore e la delicatezza delle persone a cui il servizio si rivolge, un confronto immediato con il subcommissario delegato in materia”. Anche i sindacati confederali chiedono un incontro urgente al commissario, preoccupati della tutela delle oltre 6mila educatrici e insegnanti capitoline.
Insorgono i minisindaci e i miniassessori della capitale: “Faremo le barricate” annuncia Andrea Catarci, presidente del municipio VII. “Il commissario Tronca non batte un colpo sui problemi specifici segnalati dai municipi, territorio per territorio. Al contrario, dimenticandosi del carattere provvisorio e ademocratico della sua carica, rilancia la malsana idea di privatizzare gli asili nido”.
Di azzeramento delle liste d’attesa si parlava anche nel programma della giunta Marino, ma la situazione resta evidentemente irrisolta.
Stefano Fassina, candidato sindaco di Sinistra Italiana, chiede al commissario Tronca “di fermarsi e chiediamo al governo di dare indicazioni politiche chiare al commissario di Roma affinchè cambi radicalmente rotta”.
Tronca in una nota precisa che tutte le scelte ipotizzate “sono coerenti con il percorso tracciato dalla precedente amministrazione, nonchè con il piano di rientro che aveva già prescritto un programma di ristrutturazione della spesa nel settore dei nidi”.
Ma non è finita qui: il Messaggero dà conto di altri particolari che emergono dal Documento unico di programmazione 2016-2018 del Campidoglio.
In particolare il piano prevede l’affidamento in gestione ai privati (per sette o otto anni) dei monumenti che necessitano di lavori urgenti di restauro.
Tra i monumenti, ci sarebbero il Fontanone del Gianicolo (360 mila euro il costo dell’intervento), una parte delle scuderie di Villa Torlonia (300mila euro), l’Arco dei quattro venti (150mila euro) e il complesso monumentale delle serre (700mila euro) di Villa Pamphilj, due padiglioni di Villa Aldobrandini (un milione di euro), i Casali del Sepolcro di Priscilla sulla via Appia Antica (384mila euro), il casale e la torre dell’area archeologica del Sepolcro degli Scipioni (300mila euro). Il lavoro più imponente riguarda l’allestimento dell’area del Teatro di Marcello: un lavoro imponente da 7,5 milioni di euro.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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