Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
SI RESPIRA UN CLIMA QUASI VACANZIERO, MA SU MES E TASK FORCE E’ RIPRESO IL SOLITO ANDAZZO
Scampato il pericolo in Europa, celebrato il trionfo in Italia, una sensazione di frizzante euforia pervade il governo, accompagnata da una rassicurante narrazione: i soldi ci sono, e sono anche tanti, la prospettiva della storica ricostruzione è un collante forte quasi come la rimozione dei nodi da sciogliere, ancora tutti lì sul tavolo.
E, complice anche una comprensibile e legittima stanchezza dopo mesi duri e brechtiani, l’aria è un po’ da “buone vacanze”.
Accade così che, scattata la mezzanotte al consiglio dei ministri di mercoledì, è stato Francesco Boccia a ricordare a tutti che si deve discutere del prolungamento dello “stato di emergenza”, argomento distrattamente accantonato: “Mica possiamo aspettare il 29, va spiegato, organizzato, vanno date le indicazioni alle regioni”.
Al termine di una rapida e rilassata discussione, si conviene che Conte andrà in Aula martedì ad informare il Parlamento per prolungarlo fino al 31 ottobre e non, come annunciato prima del vertice europeo, fino al 31 dicembre.
Perchè, per come si è messa la situazione, dire che l’Italia è in emergenza fino a fine anno, sarebbe un po’ anti-climatico anche rispetto all’Europa e ai mercati: è come sostenere che c’è ancora la guerra, dopo aver sostenuto che l’Italia questa guerra l’ha vinta ed è iniziata la ricostruzione.
Per gli abili comunicatori che albergano a palazzo Chigi sarà un gioco da ragazzi adattare il format alle nuove esigenze, coprendo la strumentalità , tutta politica, che ha accompagnato la manovra: quando il premier temeva di tornare indebolito dall’Europa, così indebolito da avere dubbi sulla durata del governo, il prolungamento dell’emergenza era, sulla base di un calcolo politico prima ancora che su una analisi sanitaria, il modo per blindarsi utilizzando lo stato di eccezione. Adesso che il pericolo è passato l’emergenza può essere solo a metà , dunque due mesi in meno. Il che, e non è un dettaglio, rende tutto più gestibile, anche il dibattito pubblico con Salvini o con Renzi.
Insomma, la fase è cambiata. E lo è, oggettivamente, dopo una svolta storica in Europa.
Soggettivamente si registra, a livello di clima, più che l’adrenalina di un nuovo inizio e la tensione verso un’impresa senza precedenti, uno spirito da problema risolto, come se i soldi fossero già stati ottenuti, allocati e spesi e, in fondo, c’è solo da occuparsi di qualche dettaglio sul “come”.
E come se la partita europea fosse finita, nonostante i tanti vincoli e le tante condizionalità presenti per l’utilizzo delle risorse.
Di questo calo di tensione ideale e morale, ammesso che questa tensione prima ci fosse e che non fosse solo spirito di sopravvivenza, fa parte la celebrazione alla Camera, un discorso sull’“abbiamo vinto” più che sul “che fare”, e la leggerezza della discussione sul “governo della ricostruzione” e sulle sue modalità .
Raccontano i ben informati che quando il premier ha nominato la parola task force, Dario Franceschini, dopo un brivido lungo la schiena pensando a come andò con Colao, gli abbia chiesto spiegazioni e abbia ricevuto una rassicurazione: “Ma no, mi hanno capito male, ci pensa il governo, nessuna struttura esterna”.
L’ipotesi, al momento, è che del coordinamento in materia di Recovery Fund se ne occupi uno dei comitati interministeriali esistenti, quello del ministro per gli Affari comunitari Enzo Amendola, il Ciae (comitato interministeriale affari europei), che si sviluppa su un livello politico con tutti i ministri e con la collaborazione di comitati tecnici ed esperti.
E che dunque lo schema preveda un pieno coinvolgimento del governo e non il tentativo di fare a meno del governo, cedendo sovranità ai tecnici. Del Parlamento, si vedrà , adesso che la corale richiesta di una Bicamerale per il rilancio (parola che evoca precedenti poco fortunati) ha spiazzato palazzo Chigi.
Di questa leggera euforia fa parte anche la discussione sul Mes, tormentone destinato ad andare avanti fino a quando il principio il realtà , e con esso la verità , irromperà sul format (è accaduto anche a Trump, un campione mondiale della post verità ).
Perchè è chiaro che il premier, a questo punto, pensa che tra scostamento di bilancio e possibilità di anticipo di una parte dei soldi del Recovery fund si può rinunciare a una misura che fa imbizzarrire un pezzo della sua maggioranza.
Tuttavia non riesce a dirlo, nemmeno dopo il trionfo europeo che pur rappresenta un contesto ideale per uno sfoggio di leadership e di decisionismo.
In questa tattica c’è il rischio di una dispersione di un patrimonio, anche di tensione collettiva e di comportamenti virtuosi, perchè il messaggio e la discussione non è sui cambiamenti radicali. Ma il “in fondo, non cambia nulla”.
L’andazzo è quello di prima. E buone vacanze.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
ORA LA PARTITA SI GIOCA SULLE RIFORME NAZIONALI
Ci sono voluti — si fa per dire — solo quattro giorni alla Ue per raggiungere un accordo sul Recovery Fund. Una svolta senza precedenti nella sua storia economica. Per la prima volta è stata superata la barriera del debito comune europeo, dopo giorni e notti di resistenza da parte dei Paesi frugali.
Il risultato immediato è un grande «impulso di fiducia» per l’Unione Europea e una grande vittoria per Giuseppe Conte, dice a Open Mujtaba Rahman, direttore del dipartimento lavoro della società di consulenza Eurasia Group in Europa, fondata dal politologo Ian Bremmer.
La svolta c’è stata e questa volta i mattatori non sono solo Angela Merkel ed Emmanuel Macron: «Nessuno avrebbe potuto farcela da solo». Ma, per una Europa che si prepara a fare debito comune, i rischi riguardano ora «i delicati rapporti tra Stati».
La quadra sul Recovery Fund è stata accolta — soprattutto dal blocco di Italia, Francia e Germania — come una svolta storica. Siamo davanti a un vero successo?
«L’accordo è un grande risultato per i Paesi del sud Europa. Possiamo parlare di un momento spartiacque per l’Unione europea, si sono superate certe barriere. L’idea di prestiti su larga scala e di trasferire il denaro ai Paesi più colpiti dall’epidemia aiuti soprattutto sotto forma di sovvenzioni e non di prestiti. E un periodo di 30 anni per restituire i soldi prestati. Sono tutte innovazioni che fanno di questo accordo un momento storico e significativo. Ma ora la vera domanda è come verrà implementato. Perchè compiere passi falsi causerebbe danni enormi, in particolare per paesi come l’Italia».
L’Italia è stata il maggior beneficiario dei fondi. Come vede il ruolo del presidente del Consiglio Giuseppe Conte?
«Nel breve termine ha sicuramente rafforzato la posizione del premier Giuseppe Conte, che è stato uno dei principali sostenitori a livello europeo dell’accordo. Le nazioni Frugali si erano opposte alle sovvenzioni per il valore di 390 miliardi di euro e se si pensa al punto di partenza e al risultato finale, questa è stata una grande vittoria simbolica per Conte e per il governo italiano. L’opposizione italiana sta davvero facendo fatica a capire come attaccare l’accordo. Va riconosciuto a Conte di aver permesso all’Italia di fare un grande passo avanti nell’integrazione europea. Se nel lungo termine altererà la politica italiana rendendo la sua appartenenza all’Ue meno traballante dipenderà dall’implementazione dell’accordo».
Qual è stato l’elemento cruciale per arrivare a un compromessi con gli Stati del “Nord”?
«I Paesi frugali sono riusciti a ottenere un aumento sui rebate, ovvero sui rimborsi spettanti agli Stati membri. E alle Nazioni del Nord Europa è toccata la fetta più grande, in particolare all’Olanda, con 1,9 miliardi. Inoltre hanno rafforzato il processo della governance, ovvero della valutazione delle riforme nazionali, riducendo tra l’altro il volume dei prestiti. Come sappiamo i fondi per il piano di aiuti saranno reperiti sul mercato e ripagati, oltre che dagli Stati membri, anche dalla Commissione Ue con risorse proprie. Ciò su cui hanno spinto i Paesi frugali riguarda le tasse green e digital da cui riusciranno a prelevare fondi aggiuntivi. Questa è stata una componente cruciale per convincere il blocco guidato dall’Olanda e dall’Austria a firmare l’accordo».
È stata veramente una sconfitta per i partiti populisti?
«Senza l’accordo è molto probabile che Conte avrebbe dovuto richiedere il Mes e la percezione pubblica sul meccanismo di stabilità continua a essere negativa. Nel breve termine, se non fosse arrivato un accordo, il governo avrebbe perso la fiducia dei cittadini e i partiti d’opposizione avrebbero sfruttato la situazione. Il governo ha ricevuto i soldi ma ora ha bisogno di spenderli in modo efficace. L’esecutivo ha la capacità di farlo? Stiamo parlando di 209 miliardi di euro. Questo è una enorme opportunità dal punto di vista economico. L’Italia ha la capacità amministrativa e istituzionale per spenderla bene? Non è ancora chiaro. Ma al momento evitare di essere obbligato a prendere il Mes è stato per Conte un grande risultato, anche se potrebbe valutare comunque di implementarlo».
In suo articolo ha parlato del rischio che l’accordo possa non funzionare. Che cosa intende?
«Ciò di cui sono preoccupato riguarda la governance e il futuro dei rapporti tra i Paesi membri. La Commissione europea è l’organo esecutivo dell’Unione europea e ha il potere di implementare i trattati e farli rispettare. Quello che il premier austriaco e olandese hanno chiarito fin da subito è che non credono che la Commissione sia in grado di assicurarsi che, per esempio in Italia, le riforme siano studiate e implementate. La discussione politica deve quindi essere molto calibrata e cauta altrimenti, nel peggiore dei casi, potrebbe avvelenare la relazione tra i leader dell’Ue. I partiti populisti potrebbero ribadire che le riforme nazionali non sono decise attraverso deliberazioni con Bruxelles, ma decise da altre capitali europee. Ma al momento l’accordo ha infuso un grande spirito di fiducia nell’Ue, che procede emettendo debito comune e ridistribuendo i fondi ottenuti ai paesi più bisognosi. Non c’è alcun impatto economico negativo. È una mossa seria che ha aumentato la fiducia negli investitori e la loro volontà di entrare nel mercato europeo. Ma, come già detto, al momento è tutto teorico. Il banco di prova effettivo per valutare l’accordo e le sue conseguenze — soprattutto in Italia — dipenderà dal modo in cui i soldi verranno spesi».
Una delle sorprese del vertice è stato l’intervento del premier ungherse Viktor Orban. Qual è il suo gioco?
«Da sempre Orbà¡n cerca soldi in Europa per sostenere il suo network corrotto. E c’è riuscito. Orbà¡n gestisce quella che possiamo definire una cleptocrazia e ha bisogno di continui flussi di denaro per tenere in piedi il suo governo. Non penso che fosse davvero preoccupato per la solidarietà europea. Voleva ottenere fondi ed evitare l’intrusione europea nei suoi affari domestici. E ha avuto successo in entrambi i casi. Un giorno dopo l’accordo ha licenziato il direttore del primo sito web non governativo in Ungheria: Index. Sintomo che l’accordo ha rafforzato la sua posizione politica e di controllo».
Dietro al risultato del premier Conte, quanto hanno pesato il ruolo di Merkel e Macron?
«Tutti dovevano avere un ruolo. Angela Merkel non avrebbe potuto farcela da sola, lo stesso per il presidente Emmanuel Macron. Anche Charles Michel non avrebbe avuto successo da solo. Ecco perchè l’Ue è un’organizzazione multilaterale. Nessun Paese sarebbe stato in grado di portare a casa questo accordo da solo. E’ stato uno sforzo collettivo. Questo è ciò che ha di grandioso e storico il compromesso raggiunto a Bruxelles. E dobbiamo essere realisti a riguardo: era più grande di Merkel, di Macron e di Conte. Si tratta del risultato di tutta l’Unione».
(da Open)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
VIENE SMENTITO CLAMOROSAMENTE DAL PRESIDENTE DEGLI ALBERGATORI: “SALVINI DICE CHE GLI ARRIVI FANNO SCAPPARE I TURISTI? NON E’ VERO, E’ SOLO PROPAGANDA, NESSUNO LI VEDE IN GIRO PERCHE’ GRAZIE A LAMORGESE VENGONO SUBITO SMISTATI E IL TURISMO NON NE RISENTE”
La coerenza e la logica abbondano sulla bocca di Matteo Salvini. In visita a Lampedusa, il leader del Carroccio non si fa scrupoli a criticare il «governo criminale che spalanca i porti e finisce sui telegiornali di tutto il mondo».
Mentre arriva l’accusa al governo, però, ci sono anche strette di mano, abbracci e selfie con le persone senza alcun tipo di distanziamento sociale e senza mascherina — come ormai Salvini è abituato a fare -, come si vede in un video su Twitter
Le accuse al governo sono pesanti: «Odia la Sicilia, evidentemente. Il Pd e i 5 stelle odiano la Sicilia. È l’anno più difficile dal dopoguerra per il turismo, spalancare i porti ed essere sui Tg di tutto il mondo come il campo profughi d’Europa è una roba criminale, da criminali”
Gli sbarchi a Lampedusa continuano, questo è un dato di fatto, e i soccorritori hanno bollato queste ultime come «giornate estenuanti» considerato che l’hotspot di Lampedusa accoglie 600 persone con una capienza di 95.
Il parere di chi a Lampedusa ci lavora, ovvero gli albergatori, è molto diverso da quello che sostiene Salvini: «L’invasione dei migranti? Un fenomeno più mediatico che reale. Certo ne arrivano tanti, ma, grazie all’ottimo lavoro delle forze dell’ordine, vengono soccorsi, condotti all’hotspot e poi trasferiti. I turisti non li vedono certamente per le strade dell’Isola», riferisce il presidente di Federalberghi Lampedusa.
Stando a quanto dice chi a Lampedusa ci lavora, i famosi albergatori che Salvini chiama in causa, le cose non stanno come dice il leader della Lega: si tratta di «un problema molto serio, che coinvolge emotivamente il nostro territorio» soprattutto a causa delle immagini veicolate dai media «quelle, false, di un’isola invasa dai migranti. Non è così».
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
IL LORO DATORE DI LAVORO SI E’ OFFERTO DI GARANTIRE PER LORO, MA L’IGNORANZA RAZZISTA E’ PIU’ FORTE
Abdoulie e Festus vengono da Gambia e Nigeria e sono in Italia da circa cinque anni, regolarmente. Hanno un lavoro con contratto a tempo indeterminato in una ditta vicino Padova e da due mesi sono alla disperata ricerca di un appartamento da condividere con un loro amico gambiano, ma finora non ci sono riusciti perchè nessuno, nonostante le garanzie offerte, è disposto a concedergli un contratto di locazione.
Ad aiutarli nella loro ricerca finora infelice ci sono anche i colleghi e soprattutto Andrea Rigobon, giovane datore di lavoro che non solo ha contattato per loro oltre sessanta fra privati ed agenzie, ma si è anche messo a disposizione per fare da garante, inutilmente.
Con Abdoulie e Festus abbiamo provato anche noi a rispondere ad alcuni annunci, ma senza fortuna, fra chi è disposto soltanto ad accettare inquilini studenti e chi non ha potuto fare altro che ammettere la triste verità : molti proprietari di casa non hanno alcuna intenzione di affittare casa a persone straniere e di colore.
Abdoulie e Festus hanno rispettivamente 24 e 23 anni e vengono da Gambia e Nigeria. Vivono in Italia, regolarmente, da sei e cinque anni ed hanno un lavoro con contratto a tempo indeterminato in una ditta di Borgoricco, vicino Padova, che si occupa di piante e fiori. In Veneto assicurano di trovarsi bene, di sentirsi accolti da tantissimi amici e colleghi italiani, ma da un po’ di tempo stanno purtroppo facendo i conti con un aspetto del nostro Paese fino ad oggi per loro sconosciuto.
Razzismo? Non usano mai questa parola e quando l’ascoltano preferiscono non puntare il dito contro nessuno. Fatto sta che da due mesi Abdoulie e Festus sono alla disperata ricerca di un appartamento da condividere a Padova con un loro amico gambiano, ma finora non ci sono riusciti perchè nessuno, nonostante le garanzie offerte, è disposto a concedergli un contratto di locazione. “Ci rifiutano perchè siamo africani” dicono.
Entrambi non sono attualmente senza una sistemazione, sia chiaro. Non vivono per strada ma sono accolti da amici o in un bad & breakfast, pagando regolarmente quanto dovuto. Lavorano e possono permetterselo.
Così come possono permettersi una sistemazione più comoda e indipendente a Padova, magari in qualche quartiere ben servito dai collegamenti per recarsi a lavoro e con la possibilità per loro di poter cominciare a settembre anche la scuola.
Come spiega Abdoulie, nei loro progetti c’è anche il desiderio di prendere la licenza di terza media (“Per noi stranieri è molto importante”) e la scuola si trova proprio nel capoluogo veneto: trovare una casa lì consentirebbe a due giovani di poter lavorare e studiare e continuare un percorso di integrazione in Italia che finora non ha mai avuto nessun altro tipo di problema. Hanno tanti amici e anche i colleghi stanno cercando di aiutarli nella loro ricerca, a partire da Andrea Rigobon, giovane datore di lavoro che non solo ha contattato per loro oltre sessanta fra privati ed agenzie, ma si è anche messo a disposizione per fare da garante. Inutilmente però, almeno fino ad oggi.
“Vorremmo che ci dessero almeno una possibilità ” commenta infine Festus, mentre Abodulie conclude: “Mi sento male e un po’ triste per questa situazione, non va bene”.
(da Fanpage”)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
I SOLITI DELIQUENTI SOVRANISTI FANNO CIRCOLARE UNA FOTO FATTA IN AUSTRALIA SETTE ANNI FA A UN INDAGATO PER TRAFFICO DI STEROIDI SPACCIANDOLA PER UN MIGRANTE ARRIVATO NELL’ISOLA SICILIANA
Un tempo erano le collanine, poi si è passati agli smartphone. Ora sono i muscoli.
Gli odiatori del web, oltre ad esacerbare il clima contro gli stranieri, cascano con tutte le scarpe a qualsiasi contenuto non reale che viene proposto dalla «gente che ci dice quello che gli altri non ci dicono».
L’ultimo caso — per il momento — è quello della foto-bufala del migrante palestrato a Lampedusa. Peccato che non si tratti di un migrante e che la foto sia stata scattata ben sette anni fa in Australia. Ma, intanto, la fake news ha fatto il pienone di commenti che incitano alla morte e al razzismo. E ha anche ottenuto oltre 750 condivisioni (solo da quel profilo)
L’immagine, che è reale (quindi non un fotomontaggio) è stata condivisa da una donna sulla propria pagina Facebook lo scorso 16 luglio. Il soggetto nella foto viene descritto così: «Quando sei un clandestino appena sbarcato a Lampedusa perchè si fugge dalla guerra, dalla fame, dagli anabolizzanti e dal rinnovo mensile alla palestra». Ecco come appare sui social. Per motivi di privacy abbiamo oscurato l’identità di chi ha condiviso il post e di chi ha rilasciato quegli aberranti commenti.
Mentre scriviamo questo articolo, questa foto ha già ottenuto ben 763 condivisioni (e una serie di commenti censurabili, tutti dello stesso tenore). Peccato che, oltre all’odiosa pratica, come spiega FactaNews la foto del cosiddetto migrante palestrato a Lampedusa non rappresenti nè un migrante e non è stata scattata a Lampedusa.
La foto risale al 2013 ed è stata scattata in Australia, all’aeroporto di Brisbane. L’uomo, protagonista dello scatto, è un cittadino coinvolto in un’indagine delle forze dell’ordine australiane sul traffico e contrabbando di steroidi.
Evento raccontato anche da molte testate all’epoca. Ma la corsa all’odio porta la gente a credere a tutto. L’importante è che ci sia lo straniero da demonizzare. Ma il demonio lo abbiamo in casa.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO DELL’ASGI SUI 6 MILIONI STANZIATI DAL GOVERNO ITALIANO PONE GROSSI INTERROGATIVI SUGLI INTERVENTI NEI CENTRI DI DETENZIONE LIBICI
Sono passati oltre 2 anni dalla firma del Memorandum d’intesa Italia-Libia. A poche ore dal voto in Parlamento sulle operazioni militari all’estero e la proroga della missione di assistenza alla Guardia costiera Libica, rimangono vaghe le promesse del Governo di Tripoli di rispettare i diritti umani, in un Paese frammentato da anni di conflitto armato, in grave crisi politica ed economica.
Nonostante il silenzio di Tripoli sulle modifiche all’accordo, continuano le sparizioni forzate dei migranti respinti in Libia – documentate dalle Nazioni Unite – il tutto anche all’interno di strutture “adeguate e finanziate” dal governo italiano.
I progetti esaminati da ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) si inseriscono nel quadro più ampio degli interventi della Farnesina del cosiddetto “Fondo Africa” di 200 milioni, in gran parte gestito dalla Cooperazione, sia con interventi d’emergenza che di stabilizzazione.
I 6 milioni dell’Agenzia per la Cooperazione.
Non solo progetti partiti a fine 2017 a sostegno di donne e bambini detenuti arbitrariamente a Tripoli nel Centro di Tarek al Matar – ora chiuso a causa del conflitto – il bando dell’AICS, l’Agenzia per la Cooperazione italiana – appunto – ha aperto le porte alle Ong italiane ad altri centri di detenzione a Zawya, Khoms e Tajoura le cui condizioni critiche sono segnalate nello stesso bando di AICS.
I nove progetti della Farnesina in Libia, alcuni dei quali sono ancora in corso di realizzazione, prevedono un costo di spesa pubblica di oltre 6 Milioni.
Secondo un analisi di ASGI l’obiettivo dell’intervento non è infatti di tentare di risolvere le gravi criticità individuate nei centri di detenzione, ma semplicemente di “migliorare” le condizioni sanitarie, nutrizionali ed igieniche, in modo temporaneo (in quanto limitato dalla durata dei progetti) e inevitabilmente non risolutivo.
Migranti utilizzati per ampliare le strutture.
Le organizzazioni italiane attive in Libia, oltre che occuparsi della distribuzione di beni di prima necessità , hanno anche riabilitato centri di detenzione, nominalmente sotto il controllo del ministero degli interni, ma in realtà gestiti da milizie locali, spesso coinvolte nel traffico di migranti.
“Il sistema di detenzione è troppo compromesso per essere aggiustato”, scrive l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo (OHCHR), mentre insiste nella chiusura di tutti i centri di detenzione libici.
Tuttavia, dai resoconto finanziari raccolti da ASGI, con il supporto della Cooperazione italiana e attraverso la collaborazione di organizzazioni libiche locali, sono state ampliate le strutture esistenti, contribuendo a finanziare l’illegittima detenzione di persone in condizioni inumane.
Gli interventi includono la costruzione di bagni, ma anche costruzione di muri e cancelli, ripristino dell’energia elettrica o della sostituzione di finestre. Dai racconti dei direttori dei centri di detenzioni di Khoms e di Sabaa a Tripoli emerge che in alcuni casi gli stessi migranti sono stati utilizzati per costruire muri di recinzione e ampliare le strutture.
La trasmissione dei rendiconti e altri documenti.
Nonostante le numerose richieste inviate all’Autorità responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza del MAECI (Ministero degli Esteri); l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo ha sempre negato il diritto di accesso ai testi dei progetti approvati nel “tutelare le relazioni internazionali e la sicurezza degli operatori”, senza fornire alcuna ulteriore spiegazione.
Gli avvocati di ASGI hanno ricevuto rendiconti annuali e periodici, i contratti di subappalto con le associazioni libiche (oscurando tutti i dati di quest’ultime), i rendiconti narrativi delle attività svolte delle seguenti organizzazioni non governative italiane: HelpCode, CESVI, CEFA, Emergenza Sorrisi, Terre des Hommes. In alcuni casi i rapporti finanziari narrativi forniscono elementi aggiuntivi come quali cibi o quali tipi di medicine sono stati acquistati.
Approssimativa rendicontazione e scarsa trasparenza delle ONG.
I rendiconti contabili e finanziari che l’AICS ha trasmesso (oscurando i nomi dei partner libici o l’ammontare del budget per alcune voci di spesa tra cui compensi personale), sono in alcuni casi “voci di spesa generiche, approssimative e talora di importi identici ed arrotondati”, scrive ASGI.
La ONG Helpcode, per esempio, nel rendiconto finale del progetto “Intervento di prima emergenza con tecnologia innovativa per migliorare le condizioni igienico-sanitarie nei centri migranti e rifugiati a Tripoli”, di importo pari a 662.108,00 euro, indica per l’attività riabilitazioni idriche tre unità – presumibilmente una per ciascun centro interessato dagli interventi – di costo unitario stranamente identico tra loro (16.000 euro). In Libia, Helpcode ha inizialmente collaborato con l’organizzazione non governativa Staco; ma il rapporto si è concluso nel 2018.
Gli operatori libici sul campo e il monitoring.
Nell’estate del 2018, il centro di detenzione di Tarek al-Matar è stato colpito da violenti combattimenti; “era il caos”, ricorda un operatore umanitario presente nella struttura durante gli scontri. “L’equipaggiamento medico che usavamo nel centro e il generatore, entrambi donati dalla cooperazione italiana sono stati saccheggiati dalle milizie”, conclude l’operatore libico.
Per tutti gli interventi della Cooperazione italiana in Libia si è optato per un management da remoto, in quanto gli accessi degli operatori umanitari italiani sono stati più volte evitati per motivi di sicurezza.
L’organizzazione Helpcode per esempio, ha speso oltre 22.000 euro per attività di monitoraggio, attraverso l’utilizzo di un’applicazione chiamata “GINA”, che garantiva un meccanismo di controllo remoto sulle distribuzioni, ma secondo un operatore libico che ha utilizzato il sistema durante le distribuzioni nei centri, rimane impossibile sapere cosa succede quando gli operatori lasciano i centri. “In generale stavamo semplicemente investendo denaro nelle basi delle milizie per assicurarci l’accesso”, conclude.
Alcune organizzazioni hanno cambiato approccio.
“Il grande equivoco è che – come CEFA – non abbiamo mai gestito i centri, abbiamo fatto solamente interventi o formazione alle guardie in due occasioni”, racconta Andrea Tolomelli, responsabile progetti. L’ultimo progetto di CEFA all’interno dei centri di detenzione di Tripoli si è concluso a giugno, e “non c’è l’intenzione di ri-progettare interventi strutturali, poichè con l’esperienza che abbiamo maturato in Libia, la nostra visione è cambiata radicalmente. Ora preferiamo puntare su attività live-saving”, conclude il responsabile di CEFA.
La strategia di contenimento migratorio. Secondo Asgi, gli interventi nei centri di detenzione non sono sostenibili nel tempo. “Non ambiscono ad un miglioramento durevole delle condizioni dei centri, nè ad un meccanismo che impegni il governo libico ad assumere la responsabilità di assicurare una detenzione rispettosa dei diritti fondamentali”, scrive l’organizzazione. “Non può così escludersi che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonchè autori delle già ricordate sevizie ai danni dei detenuti”, conclude ASGI.
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
MA A ESSERE MARCIO E’ TUTTO IL SISTEMA
L’indagine sulla caserma Levante di Piacenza è sbalorditiva soltanto per l’ampiezza e l’intensità degli arbitrii, delle violenze e dei reati commessi (ancora da dimostrare, ma già ben definiti).
Ma come è stato ripetutamente sottolineato in queste ore, non è successo nulla di nuovo.
I pestaggi genovesi del 2001, la brutalizzazione di Stefano Cucchi e gli stupri di Firenze sono i precedenti da vetrina di una lunga collezione, e un giorno o l’altro avremo più chiaro, per esempio, il caso di Mario Cerciello Rega, il carabiniere assassinato un anno fa (26 luglio 2019) – e rimane una vittima, e però di eventi sempre meno limpidi.
Ha ragione Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, quando non cede alla retorica delle mele marce e suggerisce che è il sistema a non funzionare più. Però, aggiungo io, non il sistema dell’Arma: tutto il sistema, da cima a fondo. E, per cominciare, non funzioniamo noi.
A marzo durante le rivolte in carcere sono morti tredici detenuti, e non sappiamo ancora il perchè. Overdose da metadone, è stato detto nelle ore successive e tanto ci è bastato.
Siccome i detenuti sono comunemente considerati cittadini di serie B, mascalzoni giustamente privati di diritti e di dignità , è stata sufficiente un’autodichiarazione delle autorità e chiusa lì.
Chi se ne importa. Le torture nel carcere di Torino, di cui si è avuta notizia nei giorni scorsi, non sono soltanto figlie della prepotenza di Stato, ma anche del nostro disinteresse, da cui quella prepotenza trae forza.
Continuiamo a pensare che se si finisce dentro è perchè qualcosa si avrà fatto, e se si finisce fra i cazzotti dei carabinieri un po’ ce lo si sarà meritato, e i guai dei cittadini sono ben altri, e ben altri i diritti per i quali battersi.
Ma c’è un diritto fondamentale, su cui si fondano tutti gli altri: è il diritto all’inviolabilità e alla libertà dell’essere umano. È un diritto tutelato dal Diritto, e il gioco di minuscole e maiuscole non richiede altre spiegazioni.
Sappiamo per statistica dei mille di noi — tre al giorno — ogni anno incarcerati da innocenti. Sappiamo dalle rilevazioni periodiche del numero debordante, in paragone alle medie europee, di donne e uomini reclusi in attesa di giudizio, quindi innocenti secondo la Costituzione, la legge fondamentale su cui abbiamo scelto di edificare la nostra democrazia, e quotidianamente tradita in un silenzio rotto da poche e flebili voci.
Chi si ostina a protestare viene chiamato garantista con un accento di disprezzo culminato nella scellerata dichiarazione del responsabile giustizia del Pd (santo cielo), che ha parlato di giustizialismo e garantismo come di opposti estremismi.
Ma se il Diritto continua a passare per un trastullo da signorini, nessun altro diritto — all’istruzione, alle cure, al lavoro — sarà mai all’altezza della nostra ambizione di chiamarci Stato di diritto e democrazia liberale.
Il 2020 è anche l’anno nel quale davanti ai nostri occhi è passato il trailer — le vicende di Palamara — di un film che dovremmo conoscere a memoria, se soltanto ce ne curassimo.
Sono sistemi sciagurati e antichissimi di gestione della giustizia e dell’indipendenza della magistratura la cui protervia e la cui impunità si riflettono in quel mare di innocenti in carcere. Ci è venuto disastrosamente comodo alzare l’indice accusatore di ogni nostro male sulla politica, inconsistente e ladruncola, e talvolta ladrona, mentre ci affaccendiamo da mattina a sera in un Paese che ha cancellato ogni regola, e dovrebbero bastare le cifre dell’evasione fiscale e dell’assenteismo per inchiodarci all’evidenza.
Ci siamo dunque avvinghiati all’abbaglio di qualche Zorro — la magistratura, i carabinieri — dall’incorruttibile spada puntata sulla pancia dei veri disonesti, perchè ognuno di noi è invece un disonesto per modo di dire e per legittima difesa.
Ma se è vero che lo Stato siamo noi, l’incontrovertibile è Papa Francesco: ci siamo illusi di restare sani in un mondo malato.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
E’ GIUSTO CHIEDERSI IL PERCHE’ DI OMERTA’ E DEPISTAGGI
«Un fatto enorme e gravissimo che ricorda la vicenda di mio fratello Stefano». Ilaria Cucchi, la sorella del geometra romano ucciso nell’ottobre del 2009 dopo essere stato fermato, a Roma, dai Carabinieri, ha commentato l’inchiesta in corso sui militari dell’Arma della stazione Levante di Piacenza.
A loro carico, l’accusa di aver costituito un sistema criminale: le ipotesi di reato andrebbero dal traffico di droga alle estorsioni e alla tortura.
«Il fatto che si parli di mele marce lascia un po’ perplessi. È un sistema che evidentemente non funziona. Spero che si vada fino in fondo senza fare sconti — ha aggiunto Cucchi -. Bisogna andare fino in fondo, non si facciano sconti a nessuno come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’indagine sulla morte di Stefano».
Poi, nell’intervista a L’Espresso, ha rievocato una situazione dei processi sul caso di suo fratello, in particolare quello in corso sui depistaggi: «Mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma subito dopo la testimonianza come nel caso del loro collega Casamassima».
L’avvocato che segue la famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ha aggiunto: «I meccanismi di autocontrollo e vigilanza sono deficitari, fallimentari o non esistono proprio. Questi fatti sono sempre accaduti. Ben venga la magistratura che ha finalmente deciso di farsi carico di un obbligo di pulizia all’interno di istituzioni troppo importanti per la nostra democrazia».
(da agenzie)
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Luglio 23rd, 2020 Riccardo Fucile
NON SAREBBERO PRECISE, METTENDO A RISCHIO PERSONE E AGENTI… “POSSONO ESSERE USATE CON ECCESSO DI DISINVOLTURA”… I PISTOLERI SOVRANISTI POSSONO RIFARSI CON LE PISTOLE AD ACQUA
Stop al taser, almeno per il momento. Il Ministero dell’Interno ha emanato una circolare lo scorso 21 luglio per comunicare la “non aggiudicazione” della fornitura delle pistole ad impulso elettrico della Axon Public Safety Germany — ex Taser International, che aveva vinto la gara indetta l’anno scorso per la fornitura del modello TX2 – e il ritiro dei dispositivi già in dotazione alle forze dell’ordine.
Alcune caserme stavano portando avanti la sperimentazione delle pistole, grazie alla fornitura, a titolo gratuito, dei dispositivi da parte dell’azienda. Si tratta di 32 taser, che ora verranno riposti nelle armerie delle questure.
Per implementarle mancava solo un passaggio: le prove balistiche. Che non sono andate a buon fine, anzi. Proprio per questo, il Viminale ha chiesto ai questori di Milano, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Catania, Brindisi e Genova di “dar corso all’immediato ritiro e alla custodia, presso le rispettive armerie, dei dispositivi”.
Si tratta delle città in cui era stata avviata la sperimentazione delle pistole ad elettroshock, partita a marzo 2018. “La Direzione centrale dei servizi tecnico logistici — si legge nella circolare – “ha determinato la non aggiudicazione della procedura ad evidenza pubblica diretta all’acquisizione delle pistole ad impulsi elettrici da destinare alle forze di Polizia”. Insomma, tutto rinviato a data da destinarsi. Un iter che era iniziato nel 2014, e che è stato accelerato quando Matteo Salvini era a capo del Viminale.
Ma cos’è andato storto di preciso? Le prove balistiche avvenute al centro di tiro della Polizia di Nettuno, il luogo in cui di solito si fanno i collaudi per i dispositivi in dotazione alle forze dell’ordine, hanno rivelato — alla presenza degli istruttori di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza – delle lacune molto gravi, potenzialmente pericolose per i cittadini e per gli stessi agenti.
In primis – racconta un articolo di Francesco Grignetti su La Stampa – la mancanza di precisione dei dardi. Inoltre, in alcune occasioni il dardo si è staccato dal cavo elettrico: “In merito alla prova di sparo fuori bersaglio, sono state riscontrate delle criticità relative alla fuoriuscita dei dardi, che hanno dato risultanze non conformi alle previsioni del Capitolato tecnico”, scrive il Dipartimento della Polizia di Stato.
Adesso bisognerà vedere come risolvere la questione della gara d’appalto. La società , scrive ancora La Stampa, si è opposta alla decisione, manifestando “grande stupore”: “Nel corso delle precedenti prove balistiche, i dispositivi della società avevano dimostrato piena aderenza alle specifiche tecniche previste dal Bando di gara in oggetto”. Probabilmente si passerà per vie legali, allungando ancora di più i tempi. Axon ha chiesto la ripetizione in contraddittorio dei test balistici.
In queste condizioni, la rinuncia alle pistole elettriche di Axon si è rivelato un atto dovuto. Infatti, questo grosso inconveniente probabilmente non cambia l’indirizzo del Ministero dell’Interno, che vorrebbe dotare le forze dell’ordine dei Taser.
Così come sono gli stessi agenti a chiedere con forza la loro implementazione, per bocca dei sindacati di categoria. Fonti di polizia riferiscono ad HuffPost di essere favorevoli al taser di per sè, ma che alla luce dei problemi emersi non lo userebbero, visti i problemi per la sicurezza
La pistola ad impulsi elettrici, comunque, rimane un argomento controverso. Per la legislazione italiana rientra nella categoria delle “armi proprie”: può essere venduta a un singolo con il porto d’armi, tramite uno specifico permesso, ma non può essere portata in giro.
Inoltre, non può essere prodotta in Italia. Nonostante la sua diffusione nel mondo — le forze dell’ordine di più di 107 paesi ce l’hanno a disposizione – nel 2007 l’Onu ha etichettato l’arma come uno “strumento di tortura”.
Inoltre, è noto che alcune categorie di persone sono particolarmente esposte all’elettroshock, come i cardiopatici o chi fa uso di droghe o ha fatto sforzi fisici prolungati (ad esempio chi sfugge ad un inseguimento). Nel 2019, Reuters aveva stimato che 1.081 persone sono morte negli Stati Uniti dai primi anni 2000 in seguito a colpi ricevuti da un taser.
In Italia è stata Amnesty International a lanciare un allarme sui pericoli del Taser. Lo ha fatto nel 2018, quando era stata ufficializzata la sperimentazione. Come spiega ad HuffPost Riccardo Noury, portavoce della ong, “Proprio per la sua minore letalità può essere usata con eccesso di disinvoltura”. L’organizzazione “non è pregiudizievolmente contraria all’uso del taser”, ma “siamo preoccupati” dall’implementazione delle pistole senza degli studi accurati sui rischi.
Noury racconta l’esempio dell’Olanda: “Lì la sperimentazione è partita nel 2017, ed è stata fallimentare. Quello che è emerso è che nella metà dei casi le persone colpite dal taser erano già ammanettate, o dentro un veicolo, o in una cella di polizia o di un ospedale psichiatrico. In tutti questi casi il loro comportamento non consisteva in una immediata minaccia alla vita. Quindi, nella metà dei casi questa sperimentazione ha mostrato un uso illegale e non necessario della pistola”. L’uso del taser sarebbe regolamentato da un protocollo rigido, ma la categoria di soggetti fragili è ampia: “Le persone non possono mostrarti il certificato medico in quel momento”.
(da “NextQuotidiano”)
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