Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
GUERINI RINFACCIA A CONTE LA PRIMA PAGINA DEL FATTO, IL PREMIER ACCUSA DE MICHELI DI SCORRETTEZZA… TRA VELENI E SOSPETTI PASSA UN ACCORDO SU AUTOSTRADE DA DEFINIRE
A mezzanotte anche il più mite di tutti, mai una parola fuori posto, mai uno scatto, modi che gli valsero il soprannome dell’Arnaldo Forlani del Pd, anche lui sbotta, e questo misura la temperatura della situazione.
Lorenzo Guerini si avvicina a Giuseppe Conte mostrando sul suo iPhone la prima pagina del Fatto, quella dove compare mezzo Pd sotto la scritta “United dem of Benetton”: “Guarda il tuo amico Casalino – dice avvicinandoglielo ad altezza viso — ha fatto la prima pagina contro di noi. Adesso basta, così non si può andare avanti in questo modo”. Non si scompone più di tanto il premier, più teso del solito, quasi non aspettasse altro: “Tu mi parli del Fatto? La tua amica De Micheli ha fatto uscire un documento riservato contro di noi, da avvocato ci sarebbero anche dei profili legali su cui intervenire”.
Palazzo Chigi, interno notte, tra le più lunghe del Governo: “Paola — prosegue il premier — è stata una scorrettezza inammissibile”. È nero. Nel suo volto c’è una richiesta implicita di dimissioni, anche se la parola non è pronunciata. La lettera in questione è quella in cui la ministra dei Trasporti chiede di riflettere sui rischi della revoca, facendo capire che se c’è una responsabilità è di palazzo Chigi, che prima ha ritardato il dossier e poi ha prospettato una soluzione da danno erariale: “Sai bene che non ho fatto uscire io quella lettera — è la risposta della ministra — qui c’è qualcuno che ha giocato a farmi passare da amica dei Benetton. A me dei Benetton non frega nulla, sto difendendo il lavoro di un anno”.
L’ombra di Casalino avvolge il conclave di Governo, in un clima di sospetti, veleni, voci di rimpasto. Neanche il Pd ha gradito la fuga di notizie. Boccia, Provenzano, Amendola, che però non crocifiggono la ministra. Prima che arrivino i cartoni di pizze già tagliate e le birre ghiacciate all’una di notte, la prima riunione separata.
Via i capidelegazione. Conte si riunisce, nella stanza accanto, con De Micheli e Gualtieri, con grande stupore di Dario Franceschini: “Perchè — domanda stizzito il ministro della Cultura – non si può sentire Paola?”. Il premier è ultimativo: “O chiudiamo o si revoca”. Il decreto di revoca è pronto. È in una delle due cartelline che ha portato Gualtieri, col via libera di Zingaretti, che ha coperto la linea di Conte, superando la prudenza del suo stesso capodelegazione Franceschini.
Boccia e Provenzano parlano fitto fitto, mentre azzannano uno spicchio di pizza alla diavola: “Nicola ha fatto un capolavoro politico, dicendo che la lettera di Autostrade era insufficiente. Perchè da quel momento i Benetton ha capito che non c’erano più margini. E ha evitato di regalare una prateria a Di Maio”.
Altra linea di tensione. Lui e il premier si scrutano, si parlano a stento, da settimane ormai, distanza diventata visibile anche qualche ora prima all’ambasciata francese dove si festeggia la presa della Bastiglia.
Il premier sa che l’affaire Autostrade è una Bastiglia per il Movimento. E “Luigi” lo aspetta al varco, perchè lì rischia di saltare, soprattutto dopo che ha fissato l’asticella alta sulla revoca per conquistarsi la leadership di fatto del Movimento: “Guarda che così, con Benetton dentro, non la reggiamo, non erano questi i patti”.
È a qual punto che il premier, a Consiglio dei ministri in corso, chiama i vertici della società autostradale. Bellanova è la più insofferente: “Basta, qui non si capisce cosa dobbiamo aspettare, doveva essere un’informativa, un’ora e andiamo a casa”.
Alle quattro del mattino, qualche ministro si è appisolato, risvegliato da un sussulto quando Spadafora torna con un paio di vassoi di cornetti. Dentro lo Stato con Cdp, i Benetton scendono attorno all’11 per cento, poi lo sbarco in Borsa, questo il canovaccio di mediazione sul far dell’alba: non una revoca, ma una mutazione genetica radicale, con i Benetton che da padroni di Autostrade diventano una minoranza senza una poltrona nel Cda.
Il che consente a tutti di cantare vittoria: la famiglia Benetton comunque non è stata cacciata, Conte ha lo scalpo perchè le Autostrade non sono più roba loro, il Pd per una mediazione che non fa saltare il Governo.
Evviva, nel day after hanno vinto tutti, soprattutto il mitico “popolo” che si è ripreso le Autostrade. A caro prezzo. Resterà alla storia come il Consiglio dei ministri in cui alle quattro di notte il premier si è “comprato” Autostrade, concordando i dettagli della valutazione, per poi raccontare l’acquisto come fosse una revoca.
Una delle ipotesi notturne è che lo Stato paga per avere, attraverso Cdp, l’88 per cento di Aspi che è più di quanto pagherebbe per avere il controllo di Atlantia, il che per Benetton è una profumata via d’uscita più che un calcio nel sedere.
E resta la scia di veleni politici, che conduce a un altro classico di questa fase, il rimpasto, valvola di sfogo di un equilibrio in cui i soci fondatori non “ne possono più”, altra frase sulla bocca di tutti stanotte.
Lo si è visto questa mattina quando Marcucci e Perilli, i capigruppo di Pd e 5 stelle al Senato hanno avuto una quasi rissa per le commissioni. Rimpasto che non si farà , perchè se tocchi una casella viene giù tutto ciò che si regge a stento.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
L’EX MINISTRO DELL’ECONOMIA: “LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE AVVERTE IL RISCHIO LEGALE DI FARE INVESTIMENTI IN ITALIA”… “FUORI DAL MONDO CHE LA POLITICA SI METTA A PARLARE DEGLI AZIONISTI”
“La comunità internazionale avverte ormai il rischio legale di fare investimenti in Italia”. L’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria fa suonare l’allarme rosso sulla gestione del dossier Autostrade da parte del Governo.
E mentre tutti festeggiano e cantano vittoria per la soluzione trovata in Cdm, lancia l’altolà sul pericolo che nel nostro Paese ci sia una “gestione venezuelana” dell’economia e che si facciano annunci troppo prematuri su questioni che hanno una risonanza difficilmente controllabile, con ripercussioni anche sulle tasche dei risparmiatori e dei contribuenti.
Professor Tria, come giudica la soluzione trovata sul dossier Autostrade?
Quello che vedo, ed è preoccupante, è il modo in cui si sta procedendo in questo accordo. Il titolo Atlantia vola oltre il 20 per cento, mentre l’altro giorno era crollato del 15%. Lei si immagina cosa vuol dire questo sui mercati? Stiamo parlando di società quotate, sono cose che lasciano perplessi. Una volta si muovevano controllori per valutazioni di responsabilità di queste oscillazioni di mercato.
Si riferisce alle recenti dichiarazioni di Conte contro la famiglia Benetton?
Interventi della politica, che addirittura parla degli azionisti, mi pare siano fuori dalla normalità . Credo che ci sia un problema di sistema. Poi su quale sarà la soluzione futura, siccome stiamo parlando di società quotate, Atlantia nel caso specifico, le responsabilità sono delle società . Gli azionisti si nominano solo se ci sono profili penali. Qui c’è un problema di reputazione italiana per gli investitori internazionali e ne usciremo certamente danneggiati, al di là di quello che accadrà ad Autostrade.
Ci spieghi meglio, non dovevano essere tirati in ballo i Benetton?
Se c’è una società che risponde dei danni fatti, cioè Autostrade, c’è la magistratura che può accertare se ci siano effettivamente queste responsabilità e ancora non è stato accertato niente da questo punto di vista, quindi non è che la politica può ordinare, in modo diretto o indiretto, se una società può avere un azionista piuttosto che un altro. Poi io con i Benetton non ho nulla a che fare e non mi interessa questo, ma noto il modo anomalo con cui questa vicenda è stata gestita, tanto che ha fatto oscillare i mercati, forse facendo anche guadagnare qualcuno. Ci sono perplessità espresse anche da vari fondi internazionali sul modo in cui è stata condotta la vicenda
Dentro Autostrade entrerà Cdp, di fatto diventerebbe una public company.Ci aiuta a capire tecnicamente cosa significa?
L’importante è come ci si arriva. La Cdp, all’86 per cento di proprietà del Ministero dell’Economia, cioè dello Stato, deve rispondere anch’essa a delle regole. Essa utilizza il risparmio postale e uno dei suoi problemi è che deve rimanere fuori dal perimetro delle amministrazioni pubbliche. Quindi l’uso di Cdp deve sempre tener conto di questo.
E se Cdp venisse inclusa nell’ambito delle amministrazioni pubbliche?
Be’, in quel caso sarebbero guai per l’Italia e anche per le visure del debito italiano. Se accadesse questo, Cdp dovrà comprare azioni e ci sarà un costo di esse che dipende dalle sue valutazioni di mercato e che a loro volta dipendono dal rendimento di Autostrade, che a sua volta dipende dal tipo di concessioni e di modifiche che verranno fatte alla concessione di cui usufruisce attualmente Autostrade. Quel che è certo è che Autostrade usufruiva di concessioni eccessivamente favorevoli, ma questa è una responsabilità di chi ha firmato quelle concessioni. Così come ci sono responsabilità sui controlli sull’operato dell’azienda da parte dei ministeri competenti. Sono cose che verranno accertate dalla magistratura, noi non possiamo dire nulla.
In definitiva dal Cdm niente revoca.
C’è un accordo consensuale quindi nulla da dire. Se l’azionista che controlla Autostrade accetta un accordo, essendo una società privata è libera di farlo. Quello che rilevo, come già detto, è che bisogna stare attenti quando si parla.
Il passaggio che segna l’avvio della nuova fase, con l’ingresso dello Stato, avverrà attraverso un aumento di capitale dedicato che gli garantirà il controllo. Soci graditi a Cdp potranno comprare quote da Atlantia.
Io ricordo che Atlantia è una società quotata a cui non si possono dare ordini. Con Autostrade è diverso, però finora il controllo è di Atlantia, quindi è Atlantia che deve decidere cosa fare e lì dentro ci sono grandi fondi internazionali, non solo i Benetton. Qui non si sta parlando di persone ma di società .
Ci aiuti a capire se l’ingresso di Cdp è di fatto una statalizzazione.
Statalizzazione significa che è proprietà dello Stato. La Cdp è di proprietà dello Stato all’86 per cento, quindi se ne controlla il 51 per cento, Autostrade è una partecipata con controllo pubblico. Non c’è però lo Stato direttamente dentro, perchè comunque Cdp non è l’amministrazione pubblica.
Il secondo passaggio, secondo l’intesa, sarà lo scorporo, cioè tirare fuori Autostrade dal perimetro di Atlantia. Ogni socio di Atlantia avrà la sua quota direttamente in Autostrade. Così i Benetton, che hanno un terzo di Atlantia, si ritroveranno ad avere in mano meno del 10% di Autostrade.
Il processo è discutibile solo se queste decisioni non sono prese attraverso il Cda di Atlantia, ma attraverso pressioni che devono per forza avere una base giuridica, altrimenti significa che grandi investitori che stanno dentro Atlantia si trovano a dover affrontare una sua crisi. Se si smettesse di parlare di Benetton, ma delle società , sarebbe meglio e sarebbe più chiaro da un punto di vista delle norme e delle regole che governano i mercati azionari.
Quindi una volta fatto il patto dell’alba in Cdm, poi si risponde alle regole del mercato.
Be’, non siamo il Venezuela, anche se per certi aspetti a volte sembra. Gli investitori internazionali si sentono molto esposti e poco sicuri nel nostro Paese.
Sono a rischio i soldi dei risparmiatori postali che utilizza Cdp in questa operazione?
Se vengono utilizzati bene e in modo redditizio non sono a rischio, se sono utilizzati male, sono utilizzati male.
Se fosse ancora ministro, cosa avrebbe fatto? Qui si vendono grandi battaglie in nome del popolo che poi rischia di pagare il popolo stesso.
Sarei stato più prudente nel parlare perchè le dichiarazioni, gli attacchi politici, provocano danni o benefici nel mercato azionario artificialmente.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
“NON SI E’ MAI VISTO UNO STATO CHE SI PERMETTE DI ENTRARE NELL’AZIONARIATO DI IMPRESA”
All’alba il Cdm ha trovato un accordo con i Benetton che prevede l’ingresso dello Stato in Autostrade fino al 51%. Ne abbiamo parlato con il Professor Alberto Iozzi, docente di Economia politica ed esperto di economia industriale
Alla fine è emersa l’opzione che vede lo Stato progressivamente socio di maggioranza e i Benetton fuori da Autostrade.
«Metodologicamente è la soluzione peggiore», spiega a Open il Professor Alberto Iozzi, docente di Economia politica all’Università di Tor Vergata, a Roma, esperto di economia industriale. Iozzi però non risparmia critiche alla concessione in essere che «al momento della sottoscrizione non era conforme al quadro normativo vigente». Un dossier quindi, quello di Autostrade, di difficile soluzione proprio in ragione di quanto sottoscritto nel 2008.
Professore, si ha l’impressione che il Cdm abbia scelto una soluzione intermedia ai due estremi (revoca sì, revoca no). È così?
«Sicuramente è una soluzione intermedia. All’interno del governo c’erano posizioni molto diverse. Però erano entrambe sembravano difficilmente praticabili. Da un lato, avevamo quella favorevole alla revoca, che però sarebbe costata una cifra enorme alle casse dello Stato. Dall’altro, c’era una posizione di non revoca della concessione, che però sarebbe stata politicamente difficile da giustificare e avrebbe causato molti problemi interni. Si è scelta metodologicamente la soluzione peggiore: non si ha quasi notizia di uno Stato che si permette di entrare all’interno dell’azionariato dell’impresa, decidendo chi può star dentro e chi può star fuori. Qui c’è stato un vincolo ad personam, alcuni soggetti non possono più essere azionisti: io non ho conoscenza di un precedente di questo tipo».
E sugli altri punti dell’accordo, come ad esempio la riduzione delle tariffe?
«Recentemente c’è stato un provvedimento dell’Autorità di regolazione dei trasporti che ha risistemato la regolazione tariffaria all’interno del settore autostradale, chiudendo di fatto un processo di riforma aperto più di vent’anni fa. Inizialmente questa procedura sembrava fosse applicabile solo alle nuove convenzioni ma, di recente, è stata applicata anche alle convenzioni in essere. Autostrade si è opposta e una delle clausole di questo accordo sembra essere la rinuncia, da parte di Aspi, a proseguire con l’opposizione. Bene, allora se c’è una rinuncia vuol dire che c’è un sistema di regolazione tariffario ben definito e non si capisce da dove possano venire le riduzioni tariffarie. Tra l’altro la struttura di regolazione tariffaria di Art è fatta molto bene. Da dove potrebbero venire queste ulteriori riduzioni di pedaggi non si capisce…»
Cassa depositi e prestiti ha ricevuto il mandato di avviare, entro il 27 luglio, il percorso che dovrebbe portare all’uscita progressiva dei Benetton. Ma c’è il rischio che i Benetton non accettino queste condizioni? Cosa succederebbe in questo caso?
«Bisognerebbe vedere come è scritto questo accordo. Al momento sembra un accordo dove la parte chiaramente perdente sono i Benetton: sono chiamati a misure compensative di oltre tre miliardi e a uscire dalla proprietà di Aspi, a rinunciare a tutti i ricorsi in essere in questo momento. Bisognerebbe ben capire quali sono i vincoli, eventualmente, che possono impedire a Benetton di uscire e se ci sono state altre misure compensative. In caso di revoca il rischio di contenzioso con costi notevoli per lo Stato c’è.
C’era una clausola capestro, introdotta nel rinnovo delle convenzioni nel 2008: prevedeva che , in caso di revoca della concessione, il concessionario sarebbe stato compensato di tutti i profitti che non avrebbe fatto nel corso del tempo. E questa sembrava un’idea ragionevole. Se io e lei facciamo un contratto e io cambio idea per qualche motivo, lei si deve tutelare. Il problema è che questa clausola è stata estesa anche nel caso di revoca della convezione per colpa grave, e questa è stata una convenzione sottoscritta tra Anas e Autostrade, con un quadro regolatorio che in quel caso non rispondeva a nessuna delle norme esistenti in precedenza. Tant’è che questa convenzione non è stata approvata da tutti gli organismi che dovevano dare un parere. E per approvare questa convenzione si è dovuta utilizzare direttamente una nuova legge. È stato un caso unico. Ripeto: la convenzione in vigore al momento della sottoscrizione non era conforme al quadro normativo vigente».
Quale sarebbe stata, a suo parere, la soluzione migliore?
«Nel settore autostradale c’è stata una stratificazione di interventi, negli ultimi 20 anni, che lo hanno reso veramente molto poco gestibile. Tra rinnovi delle concessioni senza gara e interventi normativi sul livello delle tariffe assolutamente sconsiderati. A questo punto non so davvero quale potesse essere la soluzione migliore. Una buona soluzione, auspicata fin dalla riforma del 1996, sarebbe stata affidare l’intero processo regolatorio a un organismo responsabile.
Così come abbiamo le autorità di regolazione per le comunicazioni o l’energia elettrica. Abbiamo una Autorità di regolazione dei trasporti che però ha competenza solo in materia tariffaria, non su altre cose. L’ente concedente è l’Anas che, diciamo negli ultimi 20 anni, ma forse anche da prima — dal punto di vista della regolazione — ha rappresentato un’esperienza sicuramente non positiva».
L’art.35 del Milleproroghe prevede che in caso di revoca la gestione passi ad Anas. Qualcuno, come il governatore della Liguria Toti, ha fatto osservare che così si passerebbe dalla padella alla brace… Lei cosa ne pensa?
«Prima parlavo dell’esperienza di Anas in materia di regolazione, che è stata sicuramente molto negativa, ma non possiamo certo parlare di esperienza positiva in termini di gestione delle autostrade. Anzi, forse anche in quel caso parliamo di esperienza fortemente negativa. Il settore autostradale in Italia è caratterizzato dalla presenza di alcuni concessionari privati, pochi, e diversi concessionari a controllo pubblico. Già le società a controllo pubblico sono, dal punto di vista tecnologico ed economico, chiaramente meno efficienti di quelle private».
Il piano che emerge è quello, in sostanza, di una nazionalizzazione di Autostrade. È la strada giusta secondo lei? Negli ultimi trent’anni le nazionalizzazioni sembravano passate di moda, c’è un’inversione di tendenza?
«Sono convinto che le nazionalizzazioni siano passate di moda nel nostro Paese. La privatizzazione prevede una fiducia nel mercato, con mille correzioni, controlli e vincoli da parte dell’autorità pubblica. Il nostro è un Paese dove la concorrenza non esiste, non è mai esistita. Anche il processo che stiamo vedendo probabilmente è abbastanza coerente con questo. L’unica soluzione sarebbe stata provare a ripartire da zero, con un settore privato forte, ma anche una autorità di regolazione altrettanto forte in grado di porre delle regole di comportamento, e di determinazione delle tariffe, a dei gestori privati».
Il range di tempo per il termine del processo dovrebbe essere tra sei mesi e un anno. La convince questa finestra?
«La mia impressione è che per passaggi di pacchetti azionari così grandi, di società così importanti, sia un tempo un po’ troppo corto. Però è solo una impressione, non sono in grado di darle informazioni più precise».
Nella seconda fase dovrebbe esserci la quotazione in Borsa. Cosa accadrà a quel punto? Potrebbe entrare un nuovo “socio forte” e prendere, sostanzialmente, il posto dei Benetton?
«Possibile. Certo abbiamo sempre una Cassa Depositi e Prestiti al 51%, dunque un azionista di maggioranza probabilmente non troppo comodo per un investitore privato, che potrebbe aver voglia anche di decidere le politiche aziendali».
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
IN DUE STEP I BENETTON SCENDERANNO ALL’ 11% DELLE AZIONI
Ma quanto costa agli italiani il cambio di pelle di Autostrade, quello che il ministro dello Sviluppo economico in quota 5 stelle Stefano Patuanelli ha definito in modo trionfale come il ritorno “a cioè che era sempre stato loro”? Almeno tre miliardi.
Perchè è questa la cifra che lo Stato metterà sul piatto, attraverso la Cassa depositi e prestiti, per entrare dentro la società e acquisirne il 33 per cento.
Tecnicamente non sono soldi pubblici perchè i soldi della Cassa sono soldi del risparmio postale degli italiani e tutti gli investimenti fatti con questi soldi hanno un ritorno remunerativo, ma sono comunque soldi degli italiani.
La cifra di tre miliardi è ballerina per varie ragioni di cui si dirà tra poco, ma è quella che al momento viene accreditata come la più verosimile da tutti gli attori coinvolti nella partita.
Per conoscere il valore esatto dell’investimento della Cassa bisognerà procedere prima alla valutazione di Autostrade. Solo avendo chiaro quanto vale la società allora si può fissare la portata dell’aumento di capitale, che altro non è che l’iniezione di soldi da parte di Cpd dentro Autostrade stessa.
Al momento, come si diceva, si stima uno stanziamento di almeno tre miliardi per avere il 33% della società . Definire il valore della società dipende da alcune questioni rimaste aperte e che vanno risolte sia per sbloccare l’intervento della Cassa che per avvicinare tutti gli altri investitori all’operazione. Prima bisogna fissare il nuovo regime tariffario, chiarire le questioni che riguardano la definizione della revoca e altri punti. Solo dopo può partire il tutto.
Contemporaneamente all’ingresso di Cdp, Atlantia (la società attraverso cui i Benetton controllano Autostrade) venderà il 22% delle azioni della società autostradale.
A chi? A uno o più investitori che saranno graditi a Cdp.
In pole ci sono già il fondo americano Blackstone, ma anche quello australiano Macquarie. Insieme avranno il 55% della nuova Autostrade e quindi il controllo. L’operazione assomiglia molto a una nazionalizzazione, ma tecnicamente non lo è perchè il comando è spartito in due, con Cdp in un ruolo sicuramente predominante ma non totale.
L’ingresso della Cassa e di altri investitori istituzionali avrà come effetto una diluizione della quota dei Benetton, che finirà in minoranza. Dentro resteranno anche il colosso tedesco Allianz e i cinesi del fondo Silk Road, ma anche le loro quote andranno a calare.
Il cambio di pelle avverrà in due step, che richiederanno in tutto un anno di tempo. Il primo sarà quello dell’operazione Cdp e degli investitori amici.
Il secondo sarà costituito dallo scorporo: Autostrade sarà tirata fuori dal perimetro di Atlantia. Le azioni di Autostrade rimaste dentro Atlantia saranno redistribuite tra i soci in base ai nuovi equilibri che si sono determinati con l’ingresso di Cdp e degli altri soci. Così i Benetton si ritroveranno ad avere in mano l′11% di Autostrade. E saranno fuori dal consiglio di amministrazione.
Contestualmente scatterà la quotazione in Borsa di Autostrade, con un corposo pacchetto di azioni collocato a Piazza Affari. A quel punto il peso dei Benetton potrebbe ridursi ulteriormente, fino ad azzerarsi se decideranno di vendere la quota che gli è rimasta in mano. Atlantia ha offerto anche la disponibilità a una seconda via: cedere direttamente l’intera partecipazione a Cdp e a investitori istituzionali di suo gradimento.
Ma questa via impatterebbe fortemente sulla Cassa in termini di soldi da mettere sul piatto e per ciò è esclusa. Alla fine la nuova Autostrade sarà una public company, cioè una società con un azionariato molto diffuso dove i Benetton non saranno più i controllori.
In sintesi: il controllo dello Stato, Atlantia al lumicino e l’approdo in Borsa che ridimensionerà e sterilizzerà ancora la società faranno sì che Autostrade non sia più classificabile come una società dei Benetton.
Ma allo stesso tempo i Benetton possono dire di aver evitato l’allontanamento coatto da parte del Governo. Tutto questo processo partirà il 27 luglio, quando Cdp potrà iniziare ad avviare il negoziato per entrare in Autostrade. Questo scenario mette da parte la soluzione della revoca della concessione ad Autostrade. Anche se il Governo si è tenuto la carta in tasca.
La Cassa ha regole non derogabili, uno Statuto, un consiglio di amministrazione che dovrà approvare l’operazione. Oltre alla natura dei soldi che saranno investiti (risparmio postale remunerato e non soldi pubblici in modalità solo andata), il via libera di Cdp va inquadrato in una logica industriale e nell’obiettivo di garantire lo sviluppo delle infrastrutture nel Paese.
Le autostrade, tra l’altro, sono una vecchia conoscenza perchè fu proprio Cdp a finanziarle negli anni ’50 e ’60, oltre a partecipare indirettamente alla realizzazione di una delle più importanti: l’Autostrada del Sole. E nella lista rientrano anche opere come il traforo del Monte Bianco e la Serravalle-Milano.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
MEDITERRANEA, SEA WATCH E MSF RICONOSCONO I PASSI AVANTI
Una tiepida accoglienza. Si può sintetizzare così l’atteggiamento delle principali ong impegnate nei soccorsi in mare di fronte alle novità contenute nella riforma Lamorgese dei decreti sicurezza. Mediterranea, Sea Watch e Medici Senza Frontiere riconoscono i passi avanti, ma vorrebbero una discontinuità molto più netta con la stagione dominata dall’ex ministro Salvini.
“La strada della riforma Lamorgese è giusta, ma si può fare di più”, dice Luca Casarini, capomissione della Mare Ionio. E’ appena sbarcato al porto di Augusta dopo la più lunga missione della nave della piattaforma civica di Mediterranea.
“Siamo stati 50 giorni in mare, in due riprese abbiamo salvato 110 naufraghi, e tra questi 8 sono risultati positivi. Quindi noi dell’equipaggio siamo stati in quarantena all’ancora a un miglio dal porto”.
Casarini ha letto su Repubblica le anticipazioni contenute nella bozza predisposta dalla ministra dell’Interno, e su cui è stato trovato l’accordo politico tra i partiti della maggioranza.
“Se la riforma dei decreti sicurezza elimina quello che era il cuore dell’operazione di Salvini, ossia criminalizzare il soccorso in mare bypassando la magistratura e dando ai prefetti il potere di comminare maxi multe alle ong e di disporre il sequestro amministrativo delle navi, ne siamo contenti”.
Casarini però fa un passo oltre, chiede un generale mutamento dell’approccio culturale. “Dovrebbero incentivare chi effettua i soccorsi, e non parlo soltanto delle ong ma anche dei mercantili che attraversano il Mediterraneo. Un modo per farlo sarebbe inserire nella bozza una norma per cui entro 24 ore dal salvataggio il Centro di coordinamento a terra deve obbligatoriamente assegnare un place of safety, un porto di sbarco, così da evitare inutili e pericolose lungaggini”.
La Sea Watch, ong tedesca, commenta le novità concentrandosi in particolare sull’eliminazione delle sanzioni amministrative e sulla contestuale previsione di innalzare quelle penali, in caso di violazione del divieto di ingresso in acque territoriali, a 50mila euro.
“La riforma, se alla fine sarà approvata, è comunque una soluzione compromissoria, secondo me non si tratta di fare compromessi ma di cancellare del tutto certe disposizioni. La vera discontinuità con Salvini va oltre l’abrogazione dei decreti sicurezza: non può esserci discontinuità finchè questo Paese continuerà a mantenere i rapporti con la Libia per cercare di governare le partenze delle persone”.
Anche Marco Bertotto, responsabile affari umanitari di Msf Italia, non nasconde che le aspettative erano diverse. “Non vedo alcun cambio di direzione di questo governo rispetto al precedente nel soccorso in mare e nella collaborazione con le autorità libiche. E se dopo un anno sono ancora lì a discutere di mettere o non mettere le multe non mi sembra un gran risultato”.
La posizione di Bertotto, e di tutta Msf, sul punto è chiara: “Non dovrebbe esserci nessun decreto ad hoc e nessuna multa per chi opera il soccorso in mare. Attendiamo di vedere il testo finale della riforma Lamorgese, noi in ogni caso siamo tranquilli perchè i nostri salvataggi sono stati fatti sempre nella massima collaborazione con le autorità , informando i Centri di coordinamento e gli Stati di bandiera”.
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
VIA LE MAXI MULTE ALLE NAVI DELLE ONG, TORNA LO SPRAR, DOCUMENTI D’IDENTITA’ AI RICHIEDENTI ASILO
Le multe alle Ong spariscono, anzi no. Non del tutto, rimangono ma cambiano forma giuridica, e saranno decise da un giudice.
Sulla questione politicamente più ostica della riforma dei Decreti Sicurezza – le maxi-sanzioni volute da Salvini per le navi che violano divieti di ingresso in acque territoriali – i delegati della maggioranza riuniti ieri al Viminale sembrano aver trovato una quadra, un compromesso accettabile per il Pd e non mortificante per il Movimento 5 Stelle, che quelle spropositate sanzioni aveva introdotto e autorizzato durante il governo precedente. Sbrogliato il nodo multe, dunque, sul resto della bozza di riforma (10 pagine suddivise in 9 articoli) presentata dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese è stato raggiunto l’accordo tra le parti.
La prossima riunione, in calendario entro una decina di giorni, potrebbe essere quella del varo finale, dopodichè il testo sarà portato al Consiglio dei ministri. Ma non prima di Ferragosto, vista la fitta agenda politica di questi giorni
Il nodo delle multe
Si torna allo status quo ante Salvini. Vengono soppresse le multe amministrative, attualmente emesse dalle prefetture a carico dell’armatore e che con il Decreto sicurezza Bis erano state alzate fino alla spropositata cifra di un milione di euro. La riforma Lamorgese stabilisce che se una nave effettua un soccorso in mare, e lo comunica sia al Centro di coordinamento competente sia al proprio Stato di bandiera, non incorre in alcun divieto.
In caso contrario, al momento dell’ingresso in acque territoriali rischia la violazione del Codice della navigazione, reato penale che per la fattispecie assimilabile alla forzatura di un blocco (come accaduto in passato con la Sea Watch della comandante Carola Rackete e la Mare Ionio della piattaforma civica italiana Mediterranea) prevede fino a 2 anni di carcere e una sanzione pecuniaria di 516 euro.
La protezione ‘speciale’
Altro caposaldo della riforma Lamorgese: torna di fatto la protezione umanitaria per i migranti, cancellata da Salvini. Non si chiamerà più così, ma “protezione speciale”, e anche se non riuscirà a coprire, come l’umanitaria, il 25 per cento delle richieste di chi non aveva diritto allo status di rifugiato, garantirà protezione internazionale a una serie ampia di categorie sensibili, in primis a coloro che nel proprio Paese rischiano di subire torture o trattamenti inumani.
Approvata anche la parte della bozza che rende convertibili in permessi di soggiorno per motivi di lavoro la maggior parte dei permessi concessi: per protezione speciale, per calamità , per attività sportiva, per motivi religiosi, per assistenza minori. “È stata una riunione fondamentale”, commenta il viceministro dell’Interno Matteo Mauri. “Abbiamo lavorato su un nuovo testo messo a punto da Lamorgese sulla base delle proposte che i gruppi di maggioranza hanno avanzato nei precedenti incontri. Mancano ormai solo alcuni particolari”.
Ripristinato il sistema Sprar
Dove si percepisce maggiormente l’intenzione di cancellare le restrizioni volute dall’ex ministro dell’Interno è nell’articolo 4, che ripristina l’accessibilità al sistema di accoglienza Sprar, da cui erano stati espulsi i richiedenti asilo.
Con una differenza: il baricentro si sposta dai prefetti ai sindaci. Sono i comuni, infatti, che già prestano i servizi di accoglienza per i titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, a poter accogliere i richiedenti asilo, nelle medesime strutture e offrendo servizi che favoriscano l’inclusione sociale (come l’insegnamento della lingua). Ai richiedenti asilo viene riconosciuto il diritto di iscriversi all’anagrafe e saranno dotati di una sorta di carta di identità , riconosciuta dallo Stato italiano, valida per tre anni
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
SARA’ IL CANDIDATO COMUNE DI CENTROSINISTRA E M5S: LA DECISIONE DOPO SETTIMANE DI TRATTATIVE
Sarà Ferruccio Sansa, il principale avversario di Giovanni Toti alle prossime Regionali liguri. Dopo sei mesi di trattative, veti incrociati e fumate nere, questa sera l’ultimo vertice di coalizione del centrosinistra allargato al M5s ha definitivamente sciolto le riserve sul nome del giornalista.
Sul tavolo anche l’opzione Paolo Bandiera, la carta “unitaria” con cui dopo la direzione regionale di martedì sera il Pd contava di recuperare nel fronte giallorosso Italia Viva, respinta al mittente però per l’ennesima volta da sinistre e grillini, l’investitura di Sansa è stata considerata come prima (e unica, di fatto) alternativa, la candidatura più “rappresentativa” del programma comune. “Abbiamo dato mandato a Ferruccio Sansa come candidato di coalizione”, è la conferma del Pd ligure.
“È una grande occasione — è stata la prima dichiarazione da candidato designato di Sansa — La sfida sarà salvare gli ideali ed essere nello stesso tempo concreti. Concretissimi. Dalla disoccupazione alla crisi delle imprese, dal covid alla viabilità , le statistiche e la nostra esperienza dimostrano che le emergenze in Liguria sono state affrontate in modo inadeguato. Ora bisogna proporre un modello nuovo che guardi al futuro. Un futuro che vada ben oltre la mia candidatura”.
A sostenere il giornalista nella sua corsa alla presidenza, però, potrebbe essere un campo meno largo del previsto.
Già sfilati su di lui i renziani, che hanno fatto capire correranno da soli, probabilmente in appoggio dell’altro nome in lizza, Aristide Massardo, la scelta di questa sera darà il via alla campagna elettorale ma potrebbe segnare anche un parziale sconvolgimento degli equilibri, con una divisione interna al Campo progressista.
Le quattro sigle minori sulle nove del fronte, infatti, Italia in comune, Psi, Centro democratico e Alleanza civica, già in serata dichiaravano di essere pronte ad abbandonare il progetto unitario per “confermare — si legge in una nota del Psi — il sostegno alla candidatura di Massardo”.
Il professore che per primo ha lanciato la corsa verso la Regione, e da possibile candidato di coalizione in alternativa a Sansa potrebbe diventarne avversario.
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
BONAFEDE COSA ASPETTA A PRENDERE PROVVEDIMENTI VERSO MAGISTRATI POLITICIZZATI ?
“Non so proprio come fare a difendere la dignità della mia famiglia”. E’ quanto scrive Ilaria Cucchi, sorella di Stefano morto nell’ottobre del 2009 a Roma, in una lettera inviata al ministro della Giustizia e al procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione, alla luce della decisione della Procura di Ferrara che ha archiviato le indagini a carico di un medico che nel 2018, commentando una intervista della donna, la definì una “mitomane pronta a tutto” aggiungendo che “la morte di suo fratello si è rivelata essere una gallina dalle uova d’oro per lei e per la sua famiglia”.
“Sono Ilaria Cucchi, nota a tutti per essere la sorella di Stefano, morto ammazzato mentre era nelle mani dello Stato, dopo un arresto eseguito da alcuni Carabinieri la notte del 15 ottobre 2009 – si legge nella lettera – . Ho detto ‘nota’ perchè questa è la mia grande colpa: 120 udienze, undici anni di processi e, soprattutto, le terribili condizioni nelle quali io ed i miei genitori siamo stati costretti a riconoscere il povero corpo martoriato di mio fratello, ci hanno resi noti. Famosi”.
La sorella del geometra prosegue affermando di non “avere mai perso la fiducia nella giustizia continuando a portare rispetto per le Istituzioni di questo Paese. Mano a mano che ci stavamo avvicinando alla verità siamo sempre più stati oggetto di attacchi beceri, insulti, auguri e minacce di morte”.
I genitori di Stefano “hanno perso la salute – afferma Ilaria – invecchiati sui banchi delle aule dei Tribunali piegati dal dolore e dalla malattia. Questo non ha fermato gli haters, sempre più aggressivi e violenti. Fanno male. Aggiungono dolore al dolore. Ci consumano. Soprattutto mia madre e mio padre”.
Il 24 novembre del 2018, in una intervista, la sorella di Stefano afferma che la sua “vita è sconvolta da minacce continue” a cui sono seguiti i commenti finiti al centro dell’indagine di Ferrara.
“Il procuratore Capo ha personalmente firmato – spiega Cucchi – la richiesta di archiviazione della mia querela perchè quel commento ‘non integra la fattispecie della diffamazione in quanto scriminato dall’esercizio del diritto di critica”.
La richiesta di archiviazione “cita l’articolo ma “omette totalmente di riportare il commento denunciato. Pensate che l’autore ne ha riconosciuto la paternità e si è detto disposto, eventualmente, a chiederci scusa per aver agito d’impulso. Il Procuratore di Ferrara – conclude la missiva – ha pensato bene di risparmiargli l’onere certificando l’infondatezza della notizia di reato. Una bella pacca sulla spalla ed il medico è libero di insistere. Tutti i cittadini sanno che ora avranno via libera”.
(da agenzie)
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Luglio 15th, 2020 Riccardo Fucile
BOCCIATI DAGLI STUDI INTERNAZIONALI E ANCHE DA CRISANTI
Nei giorni scorsi abbiamo parlato dell’annuncio di Luca Zaia sui test rapidi per il Coronavirus che davano una risposta in sette minuti che erano stati sperimentati dalla USL del Veneto su fabbricazione coreana.
È quindi per puro spirito di completezza dell’informazione che diamo conto oggi di uno studio pubblicato sul «Journal of Clinical Virology» che li boccia perchè sbagliano nel 50% dei casi.
Sul tema il Corriere del Veneto ha sentito Andrea Crisanti:
L’unico test rapido disponibile in commercio, quello per la rilevazione rapida dell’antigene (Rad) prodotto da un’azienda farmaceutica coreana e basato su una reazione cromatica che segnala se il liquido nasale prelevato col tampone contiene tracce del virus, non è ancora stato validato dalle autorità italiane ma è stato analizzato dai microbiologi del dipartimento di Salute di Hong Kong, designato dall’Oms tra i centri di riferimento per lo studio del coronavirus lo scorso aprile.
E le conclusioni sono tutt’altro che lusinghiere. Il gruppo di ricerca ha comparato la diagnosi rapida sull’antigene (una proteina indicata dal sistema immunitario come estranea o potenzialmente pericolosa) con la coltura virale e il test molecolare Rt-Pcr, conducendo poi un’ulteriore valutazione su 368 campioni respiratori di pazienti positivi al Covid-19 raccolti tra l’1 febbraio e il 21 aprile con diverse tecniche.
Il risultato è che i limiti di rilevazione «variavano enormemente»: in particolare, il kit Rad è risultato 103 volte meno sensibile della coltura virale e 105 volte meno sensibile del test standard. Il dato più eclatante, comunque, è che il test rapido ha rilevato un numero di campioni risultati positivi al test Rt-Pcr compreso tra l’11,1% e il 45,7% del totale: questo vuol dire che in almeno un caso su due (e fino a un massimo di nove casi su dieci) il test non riconosce l’infezione, e quindi produce dei falsi negativi. «Questo studio – scrivono gli autori – ha dimostrato che il test Rad serve solo come complemento al test Rt-Pcr a causa del potenziale di risultati falsi negativi».
Insomma, la pubblicazione smentisce l’efficacia dei test rapidi e trova d’accordo Andrea Crisanti, l’uomo dei tamponi a tappeto che ormai da tempo è entrato in rotta di collisione con Zaia.
«Questo tipo di test ha molti limiti e non ha superato nessuna valutazione, non so perchè la Regione abbia deciso di presentarlo pubblicamente – commenta Crisanti –. I kit che danno i risultati in pochi minuti possono essere applicati nei momenti di epidemia con tanti casi positivi, quando bisogna fare uno screening di massa in tempi rapidi e va bene prendere anche solo la metà dei pazienti effettivamente positivi. L’Italia ora è in una situazione completamente diversa, in cui serva l’assoluta certezza dei risultati e la priorità è proprio quella di non mancare i positivi. Questo approccio rischia di essere perfino controproducente».
(da agenzie)
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