Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
“TUTTO PER ARIA E NON CERTO PER COLPA NOSTRA”
“È una trattativa difficile perché dal Centrodestra sono arrivati tutti no. Ma lo schema di lavoro è stato diverso: i nostri no erano pubblici, i loro una lunga sfilza di no privati. Spero che almeno uno dei loro no si trasformi in sì. Per ora il centrodestra nella sua interezza ha detto di no a tutte le nostre ipotesi di personalità terze: Mattarella, Draghi, Amato, Casini, Cartabia, Riccardi”. Così il segretario del Pd Enrico Letta parlando all’assemblea dei grandi elettori pd.
“Grazie al rispetto reciproco con gli alleati siamo stati in grado di impedire esiti altrimenti pericolosi. È stato molto difficile ma utile. Con gli alleati c’è sempre stata massima trasparenza e reciprocità”.
Così Enrico Letta alla riunione dei grandi elettori del Pd.
Secondo il segretario dem “la conferma della nostra alleanza è un punto importante, non banale. In questo passaggio, fino ad ora, c’è stato un lavoro positivo ed efficace di tutta la coalizione del centrosinistra allargato. Un lavoro positivo con Italia viva, ad esempio, che ha consentito di stoppare l’operazione Casellati. E coi 5 stelle che ci ha consentito di essere uniti e arginare i tentativi del centrodestra di sfondare”.
Letta annuncia che “se non ci saranno novità entro domattina confermero la scheda bianca”. Aggiungendo: “È tutto completamente per aria e non per colpa nostra”
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
LE MANI SUL FUOCO PER CUFFARO, LA STIMA PER DELL’UTRI
Per settimane, anzi mesi, era sparito completamente dai radar. 
Disertava i talk show in tv, negava le interviste e pure le dichiarazioni alle agenzie di stampa. Le ultime risalivano addirittura ad agosto ed erano sull’Afghanistan: niente di divisivo, come sempre.
Poi basta: la messa in chiesa? Meglio guardarla in tv. Il ristorante? Troppa gente, neanche a parlarne. Più si avvicinava la fine del settennato di Sergio Mattarella e più Pier Ferdinando Casini cercava di farsi dimenticare.
Addirittura, raccontava il Corriere, quando qualche cronista lo chiamava per strada – “Casini, Casini!” – lui faceva finta di non sentire e tirava dritto. Quasi non fosse quello il suo nome. Era troppa la paura di bruciarsi sulla strada del Quirinale per lui che più di una volta è finito incenerito dalle sue stesse parole.
Un rapido elenco, in ordine sparso: aveva messo le “mani sul fuoco” per garantire su Totò Cuffaro e quello era stato riconosciuto colpevole di favoreggiamento alla mafia; aveva disturbato l’ufficio stampa della Camera – che presiedeva – per fare sapere di aver espresso la sua “stima” a Marcello Dell’Utri, e i giudici subito dopo lo avevano condannato per concorso esterno.
E poi: aveva detto che fare una commissione parlamentare d’inchiesta sulle Banche era “demagogia e propaganda”, salvo poi accettare di presiederla.
E ancora: aveva inaugurato la sua elezione a presidente di Montecitorio scagliandosi contro “il male oscuro del trasformismo“, lui che è stato con la destra e con la sinistra, alleato di Silvio Berlusconi e candidato del Partito democratico, amico di Gianfranco Fini e di Matteo Renzi, ma pure di Massimo D’Alema.
Prima, seconda e terza Repubblica: passano le ere politiche e lui è sempre lì, perpetuo attore non protagonista sulla scena del Transatlantico. Perché affannarsi per rimanere a galla quando è più facile galleggiare?
Dieci legislature consecutive, tutte col sorriso
L’inconfondibile zazzera bianca, il sigaro, la sciarpa del Bologna e un sorriso che si può avere solo se hai trascorso gli ultimi quattro decenni a passeggiare per Montecitorio, Casini di anni ne ancora solo 66: sarebbe il terzo presidente più giovane dopo Francesco Cossiga e Giovanni Leone.
Sembra incredibile, eppure nelle ultime ore il suo nome è tornato a far parte a pieno titolo del toto-Quirinale. A farlo, dopo mesi di silenzi e retroscena, è stato lui stesso, pubblicando sui social una foto che lo immortala da giovanissimo su un palco: “La passione politica è la mia vita“, ha scritto. I maligni hanno fatto notare che è vero: oltre alla politica non ha mai fatto altro.
Nato a Bologna in un giorno di dicembre del 1955, Casini respira scudocrociato sin dalla culla. Figlio del segretario Dc della città, è un doppio enfant prodige: non solo della politica – come dice lui – ma anche dell’arte di dribblare i problemi. Racconta Pino Corrias che al liceo fu sua sorella a prendersi uno schiaffo perché distribuiva un volantino scritto da Casini: “In effetti fu colpa mia”, ammette lui ancora oggi. Laurea in giurisprudenza, entra in consiglio comunale ad appena 24 anni: è il 1980 e Bologna gli sta già stretta. Tre anni dopo ecco l’elezione alla Camera, la prima di altre sette – una da presidente – più altre due al Senato: in totale fanno dieci legislature e 39 anni trascorsi in Parlamento.
Gli anni della Balena bianca
A Roma, dopo una breve esperienza dietro a Tony Bisaglia, il capo dei dorotei, diventa il più stretto dei collaboratori di Arnaldo Forlani. E’ giovane, di bell’aspetto, di perenne buonumore: caratteristiche che negli anni ’80 sono comuni soprattutto tra i socialisti, non certo nella Dc. E infatti a piazza del Gesù lo fanno responsabile della propaganda del partito, che vuol dire cene, conoscenze, bella vita e un contorno di belle ragazze di ottima famiglia.
Fin dal referendum del 1974 è contrario al divorzio, dunque, divorzia due volte: la prima dalla bellissima Roberta Lubich, la seconda dalla ricchissima Azzurra Caltagirone, miliardi in palazzi e giornali. Tutto questo, ovviamente, non influisce minimente sulla sua presenza – praticamente fissa – al Family day. “Non capisco cosa c’entrino le scelte private con la difesa che io faccio della famiglia”, si lamenta ogni volta che lo provocano sull’argomento.
Il partito in mano a Cesa
E’ uno dei rari momenti in cui sembra perdere la pazienza. Ai tempi di Tangentopoli, per dire, era tranquillissimo: mai sfiorato da nulla, si sgancia rapidamente da Forlani e si fa trovare pronto per l’arrivo di Silvio Berlusconi. All’inizio aveva un gemello: Clemente Mastella. Li chiamavano Cip e Ciop: insieme fanno il Ccd, acronimo di Centro cristiano democratico, un taxi per portare ad Arcore gli ex diccì in fuga dal centrosinistra.
“Io ridevo a tre barzellette del cavaliere ogni dieci. Lui a dieci su dieci”, raccontò maligno Mastella sempre a Corrias. A colpi di barzellette, Casini si guadagna l’elezione a presidente della Camera. Esordisce col discorso contro il trasformismo, mentre alla guida del suo partito – che nel frattempo ha cambiato nome in Udc – arriva Lorenza Cesa. E’ il 2005 e Cesa ha appena incassato il “non luogo a procedere” dal gip di Roma per una storia di tangenti cominciata dodici anni prima, nel marzo del 1993. Dopo un paio di giorni di latitanza, l’allora giovanissimo democristiano si consegna nel carcere di Regina Coeli e dice: “Intendo svuotare il sacco”.
Cesa, in pratica, spiega come venivano chieste le mazzette agli imprenditori per gli appalti dell’Anas. Per quei fatti viene condannato nel 2001 a 3 anni e 3 mesi per corruzione aggravata. Due anni dopo, però, nel 2003 la corte di Appello annulla le condanne per un cavillo procedurale: il processo deve ricominciare ma per il giudice gli atti compiuti sono ormai “inutilizzabili“. Cesa incassa il non luogo a procedere e va a dirigere l’Udc, il partito di Casini che allora è un punto fermo del centrodestra berlusconiano.
Le mani sul fuoco per Cuffaro
Quelli sono gli anni in cui l’attuale candidato al Colle, da presidente della Camera, fa sapere di avere telefonato a Dell’Utri per esprimergli “stima e amicizia” – come da comunicato di Montecitorio – mentre i giudici erano chiusi in camera di consiglio. La terza carica dello Stato, dunque, ci teneva a fare sapere di aver solidarizzato con un imputato che da lì a poco sarebbe stato condannato per un reato grave come il concorso esterno: un fatto senza precedenti rimasto, per fortuna, tale.
Questa storia della mafia, d’altra parte, ha rischiato più volte di togliere il sorriso dalle labbra di Casini. Mai coinvolto personalmente da alcuna inchiesta o sospetto, l’aspirante presidente della Repubblica si è trovato suo malgrado a guidare un partito che per anni ha accumulato candidati impresentabili, soprattutto al Sud, soprattutto in Sicilia. A cominciare, appunto, da Cuffaro, il vero azionista di maggioranza – a livello elettorale – dell’Udc.
Quando la magistratura lo mette sotto inchiesta per favoreggiamento a Cosa nostra, Casini arriva a mettere le mani sul fuoco per garantire sull’allora potentissimo governatore della Sicilia. “Cuffaro – assicurò – è una persona perbene, quando sarà assolto da tutte le accuse, tanti sciacalli di queste ore saranno in prima fila a chiedergli scusa”.
Il seguito è fatto noto: nel 2008 Cuffaro venne condannato a cinque anni per favoreggiamento semplice, festeggiò come si trattasse di un’assoluzione e Casini lo candidò al Senato. “Mi assumo la resposabilità politica della sua messa in lista”, disse lui ad Annozero. Michele Santoro gli chiede: “In caso di un’eventuale condanna di Cuffaro anche lei ne trarrebbe le conseguenze?”. Risposta: “Sarei in condizione di chiedere scusa, poi dopo deciderò al momento giusto”.
Per la fredda cronaca, non si hanno notizie di decisioni in tal senso. Nel 2008, in ogni caso, sarà soltanto grazie ai voti di Totò “Vasa Vasa” se l’Udc riuscì poi a entrare a Palazzo Madama. Ma Cuffaro è solo il nome più noto di quella stagione dell’Udc. In quel partito, infatti, c’era anche gente come Giuseppe Drago, pure lui ex presidente della Sicilia, condannato per peculato per essersi appropriato dei fondi riservati alla presidenza. O come Vincenzo Lo Giudice, detto “Mangialasagna“, assessore regionale che in campagna elettorale usava la colonna sonora del Padrino e uno slogan non troppo originale: “Vi faccio un’ offerta che non potete rifiutare”. E’ quasi superfluo aggiungere che Mangialasagna fu poi condannato a dieci anni per mafia.
L’approdo a sinistra
Il legame con l’anima siciliana del partito si rompe nel 2010, quando Casini rifiutò di entrare nel governo Berlusconi, mentre Cuffaro e Saverio Romano si staccarono per fondare il Pid, i Popolari d’Italia domani. “Se ne vanno? Mi libero di un peso“, si sfogava lui, pronto a cominciare un nuovo percorso: quello di avvicinamento al centrosinistra e – chissà – il sogno Quirinale.
In tandem con Fini trova riparo dietro Mario Monti, poi segue Matteo Renzi, che gli dà un seggio al Senato e gli chiede di guidare la commissione d’inchiesta sulle banche. E’ un flop annunciato, visto che la commissione non riusce a far approvare una relazione unitaria: troppo diverse le posizioni dei gruppi parlamentari per mettersi d’accordo sui tanti buchi nella vigilanza di Bankitalia.
Secondo Leu nella relazione del presidente c’erano “alcune reticenze gravi rispetto al lavoro che abbiamo fatto e che doveva essere reso pubblico“. Casini si scopre un sostenitore della magistratura: “Spetta alle indagini dimostrare che ci sono dei ladri, dei truffatori che hanno cercato delle scorciatoie nell’illegalità per tenere in piedi i loro istituti”. Una mossa da Ponzio Pilato: dell’operato della sua commissione il suo presidente se ne lava le mani. La notizia è che le aveva ancora.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
DALLA MARCIA SUL TRIBUNALE ALLA SPOLA CON I VOLI BLU, FINO ALLA BATTAGLIA PER IL SUO VITALIZIO
Una volta si guardò allo specchio e in traslucido forse le comparve Pertini. Infuriava la seconda ondata del virus, il governo contava centinaia di morti e doveva decidere di togliere alla gente – dopo i cinema, le cene fuori, le scuole – perfino il Natale.
Eppure Maria Elisabetta Alberti Casellati, diventata presidente del Senato per una testacoda della Storia grazie ai voti dei 5 Stelle, scelse quel momento per assaltare il governo: insieme agli auguri di Natale impacchettò una sequela di accuse sui “troppi errori” nella lotta al virus: “E’ incomprensibile – scandì – che gli italiani non sappiano ancora come comportarsi per il Natale” e per esempio se “potere portare un augurio ad un genitore anziano, solo e magari anche malato”.
In effetti era il problema di tanti: non tanto il dilemma su come organizzare la tavola, sistemare i segnaposti e contare i bicchieri per il vino, piuttosto quello di spostarsi da una città all’altra, magari con un treno o un aereo, da prenotare all’ultimo momento, spesso a prezzi da rivolta di piazza.
Un problema che la presidente durante i mesi della pandemia non aveva mai avuto: dal registro del Falcon 900 dell’Aeronautica a disposizione della seconda carica dello Stato emerse, col riverbero dei giornali tra cui il Fatto, che da maggio 2020 ad aprile 2021 Casellati usò il suo aereo blu 124 volte, cioè con la media di uno ogni tre giorni. Tre volte su 4 il tragitto era stato Roma-Venezia o all’inverso, cioè per andare o tornare da casa.
In altre occasioni la meta era stata la Sardegna: no, non di dicembre, ma in pieno agosto. Lo staff della presidente spiegò che la presidente per motivi di salute (si disse alla schiena) non può sottoporsi a lunghi viaggi in auto. Lei stessa si sfogò durante una visita a Milano con gli incolpevoli Beppe Sala e Attilio Fontana: “Tutto per andare a lavorare: non c’erano treni, non c’erano aerei, questo nessuno lo dice”.
Per far andare a lavorare Casellati in quegli 11 mesi l’ammontare dell’esborso pubblico è stato, secondo un calcolo di Angelo Bonelli, di un milione di euro.
Più spesso sullo specchio di Casellati è apparso invece Mattarella. Anche con imbarazzanti incidenti diplomatici come quando la presidente del Senato portò con sé in Libano la ministra Elisabetta Trenta quando invece di solito chi guida la Difesa accompagna solo il capo dello Stato.
E anche con incidenti veri e propri, s’intende in macchina. Sulla strada per Vo’, in provincia di Padova, dov’era in programma la visita del presidente della Repubblica per l’inaugurazione dell’anno scolastico. Il convoglio di Casellati era in ritardo e c’era il problema che il protocollo dice che solo il capo dello Stato può essere l’ultimo a presentarsi sul luogo della cerimonia. Il corteo senatoriale tentò il sorpasso sulla diligenza quirinalizia e finì a sportellate, e non è una metafora, fu proprio una specie di autoscontro.
La scorta di Casellati finì contro la scorta di Mattarella, cioè quella che precedeva il veicolo in cui si trovava il presidente. L’interruzione delle corse clandestine presidenziali fu definitiva quando sulla corsia opposta spuntò anche un pensionato con la Panda che attraversava la campagna padovana. Risultato finale: brutto quarto d’ora di confronto tra le due scorte e il pensionato in un fossato fuori strada.
Quella di questi quattro anni di Maria Elisabetta Alberti Casellati è stata sempre una corsa a perdifiato per far dimenticare ciò che ha fatto, ha detto, è stata prima dell’elezione al vertice del Senato, un lavoro matto e disperatissimo per apparire congrua al ruolo, questo di ora e – vedi mai – quello un gradino superiore.
C’è qualcuno che ha sempre creduto al triplo salto con avvitamento che avrebbe portato Casellati alla presidenza della Repubblica, molto prima che se ne cominciasse a parlare in questi giorni. E quel qualcuno è lei.
Ora per forza di cose è molto difficile, tre anni e mezzo dopo la sua elezione a presidente del Senato, non ricorrere all’autoimprestito di ciò che ilfattoquotidiano.it già raccontò della storia personale della prima donna presidente del Senato, eletta – con un gioco di parole sbalorditivo, di cui il M5s dopo tutto questo tempo non si è mai pentito – a capo di una delle Camere del Parlamento che doveva essere quello della “legislatura del cambiamento”, iniziata con il governo spaccatutto – morto dopo 13 mesi – e (quasi) finita a discutere se il presidente della Repubblica lo deve fare Pierferdinando Casini, stipendiato dal Parlamento dal 1983, o appunto Casellati, la “berlusconiana più berlusconiana di tutte”, da definizione di Guido Quaranta.
Avvocata, specializzata in diritto canonico, matrimonialista, docente universitaria, fondatrice di Forza Italia, padovana, vicina a Niccolò Ghedini, più volte sottosegretaria.
Altera, rigida e quindi fedele, fino alle estreme conseguenze: compresa quella di diventare la carta di Silvio Berlusconi – al quale ha votato tutta la sua vita politica – per cassare un po’ della vecchia biografia.
Non più il capo di governo che si rinchiude nella cantinetta con le vallette, ma il leader di partito che ha portato una donna alla carica più elevata, la seconda dello Stato. Le toghe rosse, il colpo di Stato, la persecuzione giudiziaria, la democrazia in pericolo, la giustizia a orologeria, la “dittatura mediatica”: Maria Elisabetta Alberti Casellati ha sempre rispettato tutto il pentagramma di Forza Italia, è stata, anzi, tra i corifei che negli ultimi dieci anni, vent’anni, hanno difeso con tutto l’armamentario il capo assoluto davanti a qualsiasi intemperia.
Con le parole: nel 2011 Dagospia raccontava che in tre anni la Casellati, allora sottosegretaria alla Giustizia, aveva cambiato 26 addetti stampa, alcuni scartati e altri fuggiti perché non riuscivano a stare dietro “all’ansia da prestazione mediatica”.
Una pratica – il tiro a volo con i collaboratori – che in questi dieci anni, dopo il tramonto al rallenti di Berlusconi e la sua ascesa allo scranno più alto di Palazzo Madama, Casellati non ha mai abbandonato, come ha raccontato di nuovo pochi mesi fa Salvatore Merlo sul Foglio.
Ma ha protetto il suo capo anche con le sue opere: fu sostenitrice e qualcuno dice collaboratrice fattiva del ddl sul processo breve – governo Berlusconi IV, ministro Alfano – che avrebbe cancellato una montagna di processi e tra questi, per coincidenza, quelli su Mills e Mediaset.
Un po’ dopo, all’inizio dell’altra legislatura del cambiamento, cinque anni fa, fu tra i 150 parlamentari del Popolo delle Libertà che marciarono sul tribunale di Milano contro la celebrazione del processo Ruby. “Quando Berlusconi ha incontrato Mubarak prima di questo episodio – andò a dire in tv – pare che sia venuto fuori da alcune testimonianze che proprio nell’incontro Mubarak aveva parlato di questa sua nipote, ed era un incontro ufficiale”.
Insieme ad altre colleghe senatrici si vestì completamente di nero nella seduta del Senato del 27 novembre 2013: era in calendario il voto per la decadenza di Berlusconi da senatore, cioè il giorno del “lutto per la democrazia” spiegarono.
Per lei Berlusconi, anche dopo la sentenza in Cassazione, era innocente “e gli italiani lo sanno”. Gli altri, quelli che votavano a favore della decadenza, erano un “plotone di esecuzione“. Berlusconi non sbaglia mai: Cruciani la intervistò durante una vecchia edizione della Zanzara e lei rispose di non aver mai sentito l’ex premier raccontare una sola barzelletta oscena, cioè la terza o quarta cosa per cui Berlusconi è famoso. “Ma come, non sa quella della mela?”, che Berlusconi aveva raccontato durante una riunione a Palazzo Grazioli e la cui trasposizione in video era finita su cento siti. Lei spinse il solito tasto play: “Ciò che si fa in privato…” eccetera.
Una donna che pensa alle donne, provò a convincere nel suo discorso di insediamento. La sua storia dice che è favorevole alla riapertura delle case chiuse, che firmò una proposta di leggere per abolire la legge 194 sull’aborto, che disse che il via libera alla pillola abortiva Ru486 “strizza l’occhio alla cultura della morte”.
Una volta Berlusconi disse che cancellare gli stupri dall’elenco dei reati era una missione impossibile ”anche in uno Stato poliziesco” e che l’unica sarebbe stata mettere un soldato accanto “a ogni bella ragazza”. Molte si indignarono, lei no: piuttosto “l’emergenza sicurezza in Italia è figlia del lassismo del centrosinistra”.
Di sicuro pensò alle donne di famiglia, però: quando lavorò al ministero della Salute, scelse proprio la figlia Ludovica come capo della sua segreteria, una storia che è stata raccontata più volte e che le Casellati hanno cercato di scrollarsi di dosso in questi (parecchi) anni.
Nell’altra vita piantò anche un casino perché aveva da ridire “sugli altissimi meriti sociali” per i quali il presidente Giorgio Napolitano nominò senatori a vita la scienziata Elena Cattaneo, l’architetto Renzo Piano, il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia e il direttore d’orchestra Claudio Abbado, acclamato in tutti i teatri del mondo. Per una madre di direttore d’orchestra (Alvise) non capire i meriti di Abbado potrebbe portare qualche problema in famiglia.
Nella seconda vita, quella più austera del vertice delle istituzioni, il ruolo e le ambizioni malcelate le hanno imposto una posizione subito sotto al pelo dell’acqua e un po’ di smussatura delle sue uscite pubbliche: tutte le Prime alla Scala, molti concerti nell’emiciclo di Palazzo Madama (struggente il suo trasporto per Amedeo Minghi all’acme di Trottolino-amoroso, dudu-dadadà), corone d’alloro, tricolori, galà, ricevimenti in ambasciate, istituti italiani di cultura, associazioni di solidarietà.
Nei suoi tour (compiuti anche via terra) ha ricevuto una invidiabile collezione di premi. Ci si limita qui per comodità alla lista verbalizzata da Wikipedia: premio Calabria nel mondo, premio Excellent 2019, Aquila di San Venceslao, Testimone del volontariato Italia, Aquila d’Oro 2019.
Casellati non disdegna anche altri riconoscimenti, più di sostanza. Il vitalizio, per dire. Come raccontò sul Fatto Ilaria Proietti, quando nel 2014 fu eletta al Csm l’amministrazione del Senato sospese l’assegno mensile perché pareva cosa giusta che una ex senatrice che sta al Consiglio superiore della magistratura non aggiunga anche la pensione da parlamentare. A lei questa cosa non è piaciuta e ha fatto partire la mitraglietta delle carte bollate per recuperare i tre anni di arretrati.
Alla fine gli organi di giustizia interna del Senato, quando lei già era diventata presidente di quella Camera, le ha dato ragione. La cifra è sempre rimasta un mistero, ma si calcola che corrisponda a circa 200mila euro.
Gli avvocati non bastano, invece, quando c’è da presiedere l’Aula, che non è un lavoro per tutti perché necessita di nervi saldi, prontezza e qualche dose di ironia. Invece da lassù per Casellati sembra tutto un po’ più difficile.
Gettò tutto il suo aplomb nel cestino – eufemismo – perché i commessi del Senato non riuscivano a fermare un leghista che faceva video con il cellulare. “Siete qui come pupazzi, per Dio!” strillò a microfono aperto, invocando l’Onnipotente da buona cattolica ma anche da buona veneta.
Un’altra volta invece il Pd chiese di discutere della vicenda dei presunti fondi russi alla Lega sulla quale indagava la magistratura (e tuttora lo fa), ma la presidente dichiarò inammissibili le tre interrogazioni, tanto da non pubblicarle nemmeno.
“Il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici” tirò via Casellati. Tutti gli sforzi per cambiare per effetto del ruolo che ricopre si sono infranti spesso in certe “irritualità“, come quando ha votato – cosa che da prassi un presidente non fa – sul caso Gregoretti, ovviamente insieme al resto del centrodestra. Quando vede Salvini lo scivolone è sempre dietro l’angolo. “Prego presidente” lo apostrofò in Aula nonostante Salvini non sia presidente di niente, tra i pochi in Italia.
Il leader della Lega se la prese di più quando lo invitò a concludere il suo intervento sulla (non) fiducia al governo Conte 2: “Senatore Casini concluda per cortesia”. Tutti i senatori della Lega reagirono come se fossero stati presi a male parole. Lei rise molto, lui un po’ ma volle precisare: “No, Casini no! Casini no!”. L’interessato non rispose. Poco prima aveva detto: “Mi rivolgo ai colleghi dei 5 Stelle: chi l’avrebbe detto che avremmo condiviso assieme questa esperienza? La prima volta che ci siamo visti ci guardavamo in cagnesco e adesso votiamo insieme“.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL TICKET SU CUI LAVORA DRAGHI
Un pacchetto all inclusive per garantirsi il Quirinale. 
Con Luigi Di Maio che ha fatto bene agli Esteri ed è l’esponente di punta della forza ancora più forte in Parlamento, o Giancarlo Giorgetti in pole position per diventare presidente del Consiglio, e con l’insidia di Dario Franceschini che potrebbe giocarsi le sue carte e il jolly Roberto Fico sullo sfondo (Conte l’ha già fatto e Salvini è troppo legato ai russi). Escludendo l’idea di altri premier tecnici, come Vittorio Colao, Marta Cartabia o Elisabetta Belloni.
Tra le tante opzioni sul tavolo c’è anche questa: Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica in cambio di un governo a trazione politica. E quindi con un premier che sia espressione di un partito.
Tra i corridoi dei Palazzi si vocifera di febbrili contatti tra le parti, con una proposta che sembra prendere quota: il trasloco dell’ex Mr. Bce al Colle favorirebbe la promozione l’insediamento a Palazzo Chigi di un profilo non tecnico.
Se al Quirinale c’è un economista, con una breve parentesi politica, non si può affidare tutto nelle mani dei tecnici, è il senso del ragionamento. E per questo il nome che circola è quello di Giorgetti.
Le parole di Umberto Bossi, pronunciate nella giornata di ieri (leggi l’articolo), indicano una possibilità. “Alla fine faranno il nome di Draghi” e per sostituirlo “potrebbe spuntarla Giorgetti”. Una strategia tutta da costruire, ma comunque è una base di lavoro.
L’operazione-Giorgetti sarebbe anche un modo per placare gli appetiti di Matteo Salvini. Non potendo diventare presidente del Consiglio, avrebbe il piano B: spedire a Palazzo Chigi un altro esponente della Lega. Giorgetti vanta un ottimo legame con Draghi, tra i due c’è sempre stata sintonia in questi mesi di governo. Addirittura nei momenti di maggiore tensione, non è venuta meno la stima reciproca. Non a caso è stato proprio l’attuale ministro dello Sviluppo economico a proporre un “semipresidenzialismo di fatto” nei mesi scorsi, con Draghi nel ruolo di Capo dello Stato per sovrintendere il Recovery plan e un premier che si muove in sintonia con il Quirinale.
La prospettiva non dispiacerebbe ad alcuni settori del Partito democratico, in particolare gli ex renziani della corrente Base riformista, che vede come punto di riferimento il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.
I rumors lo indicano come un regista dello scenario, trovando sullo stesso piano Di Maio. Dalla Farnesina, l’ex capo politico del Movimento 5 Stelle è impegnato a garantire continuità stabilità politica. Sembra tutto perfetto, sulla carta, se non fosse che di mezzo ci sono molti scogli.
Prima di tutto, bisogna fare i conti con le resistenze interne ai dem: il disegno deve essere prima di tutto digerito dal segretario, Enrico Letta, tra i principali sponsor di Draghi al Quirinale.
Ma soprattutto dovrebbe convincere il ministro della Cultura, Dario Franceschini, che è il più ostile del partito nei confronti dell’eventuale elezione di Supermario alla Presidenza della Repubblica. E se proprio dovesse accadere, batterebbe i pugni sul tavolo per reclamare la promozione a Palazzo Chigi.
E perché il Movimento Cinque Stelle dovrebbe stare a guardare, essendo il partito di maggioranza relativa in Parlamento? In questo caso un nome spendibile sarebbe il presidente della Camera, Roberto Fico, che nel tempo ha forgiato un’immagine istituzionale.
Un punto appare fermo: i partiti non vogliono accettare che sia il Capo dello Stato che il presidente del Consiglio abbiano un profilo tecnico. Una strategia che spazza via la prospettiva del cosiddetto governo-fotocopia, con il cambio della guardia a Palazzo Chigi e un mini-rimpasto nelle caselle ministeriali. Dunque, si indeboliscono le ipotesi di Colao e Cartabia, che sono già ministri dell’esecutivo guidato da Draghi. Così come potrebbe essere scartata l’opzione-Belloni, attuale numero uno del Dis. Più di tutti il suo nome potrebbe unire, ma non rientra tra i profili politici. In un quadro così fluido, è sempre in piedi la possibilità che Draghi resti premier, con un nuovo inquilino al Quirinale.
Ma anche in questo caso ci sarebbe da intervenire sulla squadra di governo. Un rimpasto anche significativo con la sostituzione di alcuni ministri, principalmente – se non esclusivamente – tecnici. Su tutti il titolare della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, contestato da vari settori, ma anche della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, invisa a Salvini. In ogni caso, però, c’è un intoccabile: il ministro dell’Economia, Daniele Franco, praticamente un clone di Draghi.
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
RISCHIO OMICRON RIMANE MOLTO ALTO: 21 MILIONI DI NUOVI CASI IN UNA SETTIMANA
Secondo l’Oms il livello di rischio relativo alla variante Omicron rimane ancora molto alto. A provarlo è il numero di nuovi casi di contagio che ha raggiunto un altro record la scorsa settimana: “Sono stati segnalati oltre 21 milioni di nuovi casi, che rappresentano il numero più alto di casi settimanali registrati dall’inizio della pandemia”.
L’Organizzazione mondiale della sanità nel suo aggiornamento settimanale epidemiologico ha affermato, inoltre, che il numero di nuove infezioni è aumentato del 5% nella settimana fino a domenica, rispetto all’aumento del 20% registrato la settimana prima. “Un aumento più lento dell’incidenza dei casi è stato osservato a livello globale”, ha affermato ancora l’Oms. Nello stesso periodo sono stati segnalati anche quasi 50.000 nuovi decessi, una cifra simile alla settimana prima. Il rapporto afferma anche che Omicron ha continuato ad aumentare il suo dominio a livello globale sulle altre varianti di preoccupazione.
“L’attuale epidemiologia globale della SARS-CoV-2 è caratterizzata dal predominio della variante Omicron su scala globale, dal continuo declino della prevalenza della variante Delta e dalla circolazione di livello molto basso delle varianti Alpha, Beta e Gamma”, ha detto l’Oms. “I paesi che hanno registrato un rapido aumento dei casi di Omicron a novembre e dicembre 2021 sono stati o stanno iniziando a vedere un calo dei casi. Tuttavia, “sulla base delle prove attualmente disponibili, il rischio complessivo relativo alla variante Omicron rimane molto elevato”. L’Oms ha segnalato che dai campioni raccolti negli ultimi 30 giorni che sono stati sequenziati e caricati sull’iniziativa scientifica globale Gisaid, Omicron ha rappresentato l’89,1%. Mentre la Delta ora rappresenta il 10,7 percento.
L’Italia, segnala ancora l’Oms nel suo aggiornamento, è al secondo posto nella regione europea per il numero di vittime Covid nella settimana che va dal 17 al 23 gennaio, con 4,1 decessi ogni 100mila abitanti. Il numero più alto di nuove morti in quest’area è stato infatti segnalato dalla Federazione Russa (4.792, 3,3 ogni 100mila abitanti, -7%), seguita appunto dall’Italia che con 2.440 nuovi decessi settimanali (+24%) è anche quarta a livello mondiale dopo Usa, Russia e India. Segue il Regno Unito (1.888 nuove morti, 2,8 per 100mila, dati simili alla settimana precedente).
In generale, il numero dei decessi settimanali nella regione europea diminuisce del 5%, con un totale di oltre 21mila morti segnalate. Dalla metà di dicembre 2021, il numero di contagi nell’area europea ha continuato a crescere: la regione ha segnalato oltre 10 milioni di nuovi casi questa settimana, con un aumento del 13% rispetto ai 7 giorni precedenti. E l’Italia resta fra i primi Paesi anche sul fronte dei contagi settimanali. Con 1.231.741 casi in 7 giorni (2.065,2 per 100mila abitanti, dato stabile rispetto alla settimana precedente) è seconda nella regione europea, dopo la Francia che conta oltre 2,4 milioni di nuovi casi (3.757,4 ogni 100mila abitanti, +21%). Terza per contagi nell’area è la Germania (715.470 nuovi casi, 860,3 per 100mila, +57%).
A livello mondiale, indica ancora l’Oms, l’Italia è ancora il quarto Paese per contagi, alle spalle di Usa, Francia e India. Tornando nella regione europea, 34 Paesi (55%) hanno segnalato un aumento maggiore del 20% nei casi Covid settimanali. Le crescite più alte sono quelle riportate da Kosovo (13.126 contro 2.990 nuovi casi, +339%), Moldavia (19.083 contro 8.019 contagi in 7 giorni, +138%) e Armenia (4.094 contro 1.762, +132%).
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
SOLITA DISINFORMAZIONE A FUORI DAL CORO
Talmente fuori dal coro da escludere due voci fondamentali di quella circolare
dell’Ospedale Galeazzi di Milano.
Mario Giordano, anche martedì 25 gennaio, ha proseguito nella sua “battaglia” contro Fabrizio Pregliasco reo, secondo lui, di vietare gli interventi ai pazienti non vaccinati. Lo ha fatto mostrando il foglio che contiene il reale documento inviato dal medico che – direttore sanitario dell’IRCCS Istituto Ortopedico – ai colleghi. Ma lo fa mettendo in risalto solo una parte, senza fare nessuna citazione degli altri punti fondamentali.
Con il suo classico modo di fare, Mario Giordano si scaglia contro il direttore sanitario dell’Ospedale ortopedico Galeazzi di Milano. Prima brandisce quel foglio di carta che tiene tra le sue mani (si tratta di un documento reale), poi lo legge. Nel videowall alle sue spalle viene posta la lente d’ingrandimento solo sulla parte iniziale di quella circolare, mentre viene sfumata la restante parte del documento.
Nelle uniche parti leggibili, e mandate in onda da Fuori dal Coro, si legge: «Dalla settimana del 10 gennaio si ritiene necessario rivedere la programmazione degli interventi riservando l’attività a pazienti: che possiedono il green pass rafforzato (vaccinazione/guarigione)».
Il documento nelle mani del giornalista e conduttore è reale. Ma, come si può vedere sullo sfondo, quella è solo una parte del testo. Cosa c’è scritto nel documento integrale? Lo sveliamo subito:
«Oggetto: Revisione attività chirurgica gennaio 2022.
Cari Colleghi, alla luce della situazione epidemiologica ingravescente riguardo al COVID-19 dalla settimana del 10 gennaio p.v. e della successiva, si ritiene necessario rivedere la programmazione degli interventi elettivi riservando l’attività a pazienti:
Che possiedono il green pass “rafforzato” (vaccinazione/guarigione); con rischio anestesiologico inferiore ad ASA 3; pazienti che NON necessitano di riabilitazione sia interna che esterna.
Si prega di contattare l’Ufficio ricoveri per rivedere la programmazione delle settimane di interesse al più presto possibile. Cordiali saluti».
Nella narrazione di Mario Giordano contro Pregliasco, dunque, mancavano due punti che sono rimasti accuratamente sottaciuti. Perché se è vero che l’indicazione sulla programmazione degli interventi (parliamo sempre di ortopedia) con precedenza alle persone in possesso di certificazione verde rafforzata è reale, ci sono anche altre due indicazioni.
La prima riguarda tutti quei pazienti le cui operazioni, per livello di “gravità”, possono essere differibili. E viene indicato quel paletto citando il “rischio anestesiologico inferiore ad ASA 3“.
Leggendo la circolare del Galeazzi di Milano e confrontandola con questa classificazione appare evidente come l’indicazione data da Pregliasco riguardi tutti quegli interventi riconducibili al rischio ASA 1 e ASA 2. Cioè: pazienti sani e pazienti con malattia lieve senza limitazioni funzionali.
E poi c’è il terzo punto di quella circolare che, purtroppo, Mario Giordano ha dimenticato di leggere: «pazienti che NON necessitano di riabilitazione sia interna che esterna».
Vista la situazione epidemiologica, dunque, l’ospedale di Fabrizio Pregliasco ha deciso di dare la precedenza a tutti quei pazienti che presentano gravi patologie a livello ortopedico (perché questo si fa all’interno dell’IRCSS Galeazzi di Milano) e a tutti gli altri che sono vaccinati o guariti dal Covid.
La spiegazione del medico
E già la scorsa settimana lo stesso Fabrizio Pregliasco aveva smontato questa narrazione anticipata da Mario Giordano e sostenuta, ovviamente, dal quotidiano La Verità (non a caso, ieri sera, c’era anche Maurizio Belpietro in studio): «Gli interventi di emergenza traumatologica sono tutti garantiti, ovviamente anche ai non vaccinati. Abbiamo selezionato alcune situazioni che possono essere procrastinate di qualche mese. Faccio un esempio, questo non credo che sia il momento per un paziente fragile di sottoporsi a un intervento procrastinabile, come l’alluce valgo, sia per la sua sicurezza sia per mantenere operativo e libero l’ospedale». E mandare in onda documenti e leggerne solo una parte – quella che fa comodo alla trasmissione e alla propria audience – potrà pur essere Fuori dal Coro. Ma è raccontare una verità non vera. Nonostante nomi e attribuzioni.
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
UN MESSAGGIO SOSPETTO SU UNA CHAT DEL GRUPPO
Luca Morisi è tornato ad occuparsi della comunicazione della Lega? L’ex spin doctor di Matteo Salvini, creatore della macchina comunicativa social del Carroccio nota come “La Bestia” finito al centro di uno scandalo giudiziario che ha visto la sua posizione archiviata dopo le indagini, ha inviato un messaggio sul gruppo Whatsapp che il partito di Via Bellerio utilizza per mantenersi in contatto in diretta con i giornalisti delle tv, dei quotidiani e dei giornali online.
Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, era molto tempo che il suo nome non compariva in quella chat: il suo messaggio è stato immediatamente cancellato, ma – come accade sulla popolare app di messagistica istantanea – a sparire è soltanto il contenuto, mentre resta perfettamente visibile il mittente.
Si può pensare a un errore, uno scambio di conversazioni, ma secondo alcune fonti leghiste consultate dal quotidiano diretto da Luciano Fontana Morisi sarebbe tornato ad occuparsi della comunicazione della Lega, pur rimanendo in un ruolo più marginale rispetto a prima.
“Se vuole può tornare a lavorare con me anche subito” aveva detto Matteo Salvini poco dopo lo scandalo che aveva travolto il suo braccio destro.
Morisi fu coinvolto in un’inchiesta per traffico di stupefacenti dopo la denuncia di due ragazzi che si erano messi d’accordo con lui per incontrarlo il 14 agosto scorso nella sua casa in un cascinale a Casal Belfiore, vicino Verona. Poco prima di finire nel mirino degli inquirenti, aveva dato le dimissioni dal suo ruolo di spin doctor della Lega. La Procura ne ha chiesto l’archiviazione lo scorso 10 dicembre sulla base di due elementi: il social manager aveva ammesso di aver acquistato la cocaina, ma non ci fu “un accordo preventivo di scambio” con gli altri due ragazzi per consumarla insieme.
(da agenzie)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL SEGNALE NELLE URNE: 52 VOTI PER L’EX DC… OBIETTIVO SISTEMA PROPORZIONALE ED ELEZIONE DIRETTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Il punto di partenza sono i 52 voti per Pier Ferdinando Casini alla terza votazione. È
in quel numero che si misura il peso specifico di Matteo Renzi nell’elezione del Presidente della Repubblica, in cui finora si è mosso tra le righe, consapevole di non avere la stessa forza di sette anni fa.
Qualcuno, all’interno della cerchia renziana, garantisce di aver votato scheda bianca, seguendo l’indicazione ufficiale. Salvo aggiungere: «Poi nel segreto dell’urna c’è libera scelta…».
Alla fine spunta un dato numerico, un preciso indizio che conduce a Italia viva, con l’aggiunta di Base riformista, in attesa di capire cosa vogliono fare i grandi elettori di Coraggio Italia.
L’ipotesi di convergenza non è peregrina. «È possibile», confermano dal partito di Luigi Brugnaro e Giovanni Toti. Mentre non viene smentito il confronto in corso con gli ex renziani rimasti nel Pd, la corrente che fa riferimento all’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Il contatto è costante.
Con questo disegno il gruzzolo di consensi: mettendo insieme Iv, Ci e pezzi dem si arriva almeno a quota-100.
A quel punto può decollare in maniera definitiva candidatura di Casini, che resta quella preferita dal fondatore di Iv.
Mario Draghi è il “piano B”, l’uscita di emergenza, qualora non si riuscisse a raggiungere l’intesa sull’altro nome. «Mica è un mistero che Renzi voglia Casini. È stato il primo a candidarlo, mesi fa. In molti credevano che lo volesse bruciare, ma i fatti stanno dimostrando il contrario», ragiona con Huffpost un deputato molto vicino al leader
Nell’incontro di oggi con il segretario del Pd, Enrico Letta, non si è parlato solo dello stop alla candidatura di Elisabetta Casellati. È stato fatto un passo in più. L’ipotesi di convergenza sulla presidente del Senato è tramontata appena Letta l’ha bocciata. Su questo punto Renzi ha assunto una posizione furbesca, mettendosi a ruota: nessun veto su Casellati, anche in segno di rispetto per il ruolo istituzionale, ma nemmeno alcun sostegno al buio. Quindi il supporto sarebbe stato possibile con un’intesa larga, che però non c’era, come era ben noto. Un modo per chiudere la porta senza sbatterla in faccia al centrodestra, Salvini in primis.
E si torna al punto di partenza della battaglia renziana, quello per portare Casini al Quirinale. In questo senso si spiega pure il ritrovato dialogo con Letta. Il leader dem ha sempre lasciato intendere la propria disponibilità a sostenere l’ex presidente della Camera, a patto che – come per qualsiasi altro aspirante Capo dello Stato – ci sia un accordo ampio con le altre forze politiche, incluso il centrodestra.
Ma perché tanta testardaggine a portare avanti Casini? «Renzi sa che è l’unico profilo in grado di garantire per il suo progetto politico, il grande disegno centrista che sta perseguendo fin dalla fondazione di Italia viva», spiega ad Huffpost un parlamentare di peso molto vicino all’operazione. Non è un mistero che il grande centro sia un vecchio sogno di Casini, che dal Colle potrebbe farsi garante di una riforma elettorale in senso proporzionale, altro storico pallino dell’ex leader dell’Udc.
Ma i messaggi renziani sono stati recapitati, anche in un’altra maniera, al centrodestra oltre che al futuro Capo dello Stato. «Oggi è tempo di scrivere una pagina nuova, che questo sia l’ultimo presidente della Repubblica eletto con questo sistema, un sistema corretto ma terribilmente antico e arcaico», ha scandito.
Mettendo nero su bianco il rilancio della riforma presidenzialista: «Il tema è far eleggere ai cittadini il presidente della Repubblica». Musica alle orecchie di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che non vedono l’ora di mettere mano alla Costituzione per rendere l’Italia una Repubblica presidenzialista.
Il futuro Presidente deve farsi dunque garante, ovviamente nel rispetto delle prerogative previste dal ruolo, di una riscrittura complessiva della Carta costituzionale, ambizione indimenticata dell’ex Rottamatore.
E Casini, avendo governato per anni con Silvio Berlusconi, non ha mai scartato l’ipotesi: un amo lanciato al centrodestra. La presa di posizione presidenzialista ha un’ulteriore funzione, più implicita: senza dirlo chiaramente, che il Mattarella bis non è in cima alle sue preferenze renziane. Non è un caso che i suoi fedelissimi in Transatlantico sminuiscano la portata della terza votazione con Mattarella scelto da 125 grandi elettori. «Scelte personali», è la formula liquidatoria.
Il tempo ormai stringe. Così domani, di buon mattino, Renzi vuole serrare i ranghi: vedrà, molto probabilmente alla Camera, i suoi parlamentari per cominciare la strategia in vista della fase clou, che lui ha sempre individuato tra giovedì e venerdì. Non oltre. Per cercare l’avanzata finale sull’ascesa di Casini al Colle.
(da Huffingtonpost)
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Gennaio 26th, 2022 Riccardo Fucile
ORLANDO MANDA GLI ISPETTORI
“Si offre lavoro a una donna, di massimo 30 anni, capace di parlare inglese, e – insieme al curriculum – si chiede una foto in costume da bagno”. È quanto si leggeva, fino a lunedì, nell’annuncio pubblicato online da un’azienda di Napoli che si occupa di vigilanza privata e accoglienza in strutture.
L’offerta riguarda una posizione da receptionist in un ufficio nel Centro direzionale di Napoli. Dopo le polemiche sui social per la richiesta evidentemente sessista e fuori luogo, la Medial service ha provveduto a modificare il messaggio spiegando, secondo quanto riferisce La Repubblica, che “si è trattato di un errore di un’impiegata inesperta che non conosceva le policy aziendali sulla parità dei sessi” e ammettendo che la richiesta della foto in costume da bagno era del tutto inappropriata.
Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha chiesto al direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, di inviare gli ispettori per accertamenti.
Ad attirare l’attenzione, però, è stato anche l’aspetto retributivo. L’azienda, che sul suo sito garantisce “massima professionalità nella sicurezza globale”, offre una paga da poco più di 5 euro l’ora.
“Si offre un contratto a tempo indeterminato”, spiega infatti l’annuncio. “L’orario di lavoro sarà a giorni alterni di 8 ore per un totale di 24 ore lavorative settimanali. Retribuzione netta complessiva di 500 euro mensili”.
(da agenzie)
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