Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
AL BAR FANTE DI CUORI DI COSSATO, PROVINCIA DI BIELLA, RESISTONO A INFLAZIONE E AUMENTI: “L’IMPORTANTE E’ NON RIMETTERCI”
A Cossato, provincia di Biella, c’è un bar dove il prezzo del caffè è rimasto invariato da quando costava 1500 lire: con l’euro il prezzo è di 70 centesimi.
Il bar si chiama Fante di cuori ed è gestito Orlando Paldino e Rosina Furiati che ci hanno raccontato il perché della loro decisione.
“Speriamo di aver dato un esempio – spiega la signora Furiati – il prezzo giusto dovrebbe essere di 90 centesimi, c’è la crisi, c’è la guerra ma tanti aumenti dei prezzi sono ingiustificati”.
I nuovi avventori del bar rimangono spesso sbalorditi al momento di pagare i 70 centesimi quando altrove un caffè può costare anche il doppio: “In tangenziale l’ho pagato 1,70” ci racconta un corriere che si è fermato per un caffè al bar di Cossato.
“L’importante è non rimetterci”
“Guadagniamo meno ma l’importante è non rimetterci, il caffè è buono e fa piacere vedere le persone soddisfatte” ci racconta Orlando Paldino che ha il bar dal 1995. Rosina Furiati è rimasta stupita dall’attenzione che si è concentrata sul loro bar nelle ultime settimane: “Non mi aspettavo tutto questo clamore, per noi è la normalità, è una vita a che lo facciamo a 70 centesimi”.
“Con l’entrata dell’euro – continua Furiati – c’è stato il cambio, all’inizio era 77 centesimi, abbiamo fatto poi 70 perché gli anziani tribolavano con i centesimi”.
Così mentre l’inflazione morde e la situazione in Ucraina non dà segni di svolta, nel bar di Cossato il prezzo di un caffè è rimasto inalterato. L’unica tentazione di ritoccare il prezzo è stata durante la pandemia, quando con l’asporto, tra consegna e tazzine di carta il prezzo stava per diventare 80 centesimi, ma i titolari non se la sono sentita. I coniugi di Cossato hanno una figlia che però non vuole occuparsi del bar e allora chiediamo cosa succederà quando chiuderanno o venderanno l’attività: “Ci farebbe piacere vendere l’attività e riposarci, non ci sono persone che vogliono subentrare, nel caso chiederemo di mantenere il prezzo del caffè invariato” per mantenere in vita questa tradizione che resiste da più di vent’anni.
(da Fanpage)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
L’OBIETTIVO È INTIMIDIRE IL DITTATORE DI MINSK, E SPINGERLO A ORDINARE ALLE SUE TRUPPE DI IMPEGNARSI DIRETTAMENTE NELLA GUERRA IN UCRAINA
Il Cremlino ha preso una decisione su una “soluzione” radicale al problema di trascinare la Bielorussia nella guerra in Ucraina: eliminare il presidente Alexander Lukashenko, o comunque costringerlo a collaborare con un fallito attentato: lo scrive il centro studi statunitense Robert Lansing Institute, che cita fonti nella leadership militare russa.
“Su istruzioni del presidente russo Vladimir Putin al suo ritorno dall’ultimo vertice CSTO (l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, ndr), l’intelligence militare russa potrebbe tentare nei prossimi giorni di perseguire uno scenario che preveda un attentato al presidente bielorusso Alexander Lukashenko, o una sua imitazione con l’obiettivo di intimidirlo e spingerlo a ordinare finalmente alle sue truppe di impegnarsi direttamente nella guerra contro l’Ucraina, al fianco delle truppe russe”, afferma l’istituto in un articolo pubblicato sul suo sito web.
L’intelligence militare russa (GRU) sta esaminando lo scenario che prevede l’uccisione di Lukashenko, a seguito della quale le sue funzioni sarebbero affidate al Segretario Generale del CSTO, Sanislav Zas, uomo fedele alla Russia e sotto il controllo del GRU. Secondo il complotto, Zas dichiarerebbe poi l’adesione della Bielorussia alla Russia come entità autonoma, presumibilmente per prevenire la minaccia militare dell’Ucraina e della Polonia.
Verrebbe quindi “riproposta una narrazione propagandistica secondo cui l’attentato a Lukashenko è stato architettato da Washington”, sottolinea l’istituto. In entrambi gli scenari – sia che si tratti di un attentato, sia di un fallito attentato a Lukashenko – verrebbero presentate “prove” inventate del “coinvolgimento dell’Ucraina e della Polonia sotto la guida dell’intelligence della Nato”, che offrirebbero un pretesto formale per la partecipazione delle truppe bielorusse alle operazioni di combattimento sul territorio ucraino.
(da agenzie)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
LA LEGA PERDE ANCORA TERRENO E SCENDE AL 7,3%. FORZA ITALIA E TERZO POLO APPAIATI AL 6,8%
Il consueto aggiornamento mensile dello scenario politico evidenzia l’aumento del consenso per la premier Giorgia Meloni e il governo, un risultato tutt’ altro che scontato tenuto conto sia delle difficoltà incontrate dall’esecutivo nel mese di novembre, sia dell’inevitabile confronto con il predecessore Mario Draghi che è uscito di scena con l’indice di gradimento più elevato di tutti i presidenti del Consiglio che sono succeduti alla guida del Paese negli ultimi 30 anni.
Oggi quasi un italiano su due (49%) esprime un giudizio positivo su Giorgia Meloni e il 46% sul governo, mentre le valutazioni negative sono pari rispettivamente a 35% e 38%.
Rispetto al mese scorso l’indice di gradimento (rapporto tra positivi e negativi escludendo coloro che non esprimono un giudizio) sale di quattro punti sia per l’esecutivo (da 51 a 55) sia per la premier (da 54 a 58).
Il consenso è quindi decisamente più ampio rispetto al bacino elettorale dei partiti della maggioranza (26,7% sul totale degli elettori) e mostra un’apertura di credito da parte dei cittadini; indubbiamente i giudizi riflettono positive reazioni ai principali provvedimenti contenuti nella legge di Bilancio, tra cui le modifiche al reddito di cittadinanza (con la prospettiva di una sua abolizione dal 2024), l’innalzamento del limite di utilizzo dei contanti, l’introduzione della quota 103 per le pensioni, l’estensione della flat tax, oltre alla conferma di alcuni dei bonus sociali già in vigore integrati da altre misure, come la riduzione del cuneo fiscale per i redditi più bassi e l’aumento dell’assegno unico per i primi anni di vita dei figli.
Ne consegue che il consenso per la premier è quasi plebiscitario tra gli elettori di Fratelli d’Italia (indice 95), della Lega (93) e di Forza Italia insieme a Noi moderati (85) e risulta più marcato tra le persone di condizione economica elevata (indice 65), tra gli imprenditori, i dirigenti e i liberi professionisti (66), tra i lavoratori autonomi (64), nei ceti impiegatizi (63) e operai (62), mentre è decisamente al di sotto della media tra i ceti più in difficoltà (disoccupati 46 e persone di condizione economica bassa 46), tra gli studenti (35), oltre agli elettori del Partito democratico (28) e del Movimento 5 Stelle (31).
Anche i consensi per i partiti mostrano variazioni di rilievo, soprattutto rispetto al risultato elettorale di due mesi fa. FdI consolida il primato raggiungendo il 31,4% delle intenzioni di voto, in aumento di 1,6% rispetto ad ottobre e di ben 5,4% rispetto alle politiche. Al secondo posto il M5S con il 17,5% (+1,5%) scavalca il Pd che scende al 17,2% (-1,6%).
A seguire la Lega che perde ulteriormente terreno (-0,7%) attestandosi al 7,3%, quindi Forza Italia, in ripresa (+0,7%), appaiata ad Azione-Italia viva al 6,8%.
Da segnalare il trend positivo (+0,5%) dell’alleanza Verdi-Sinistra-Reti civiche che fa registrare il 4,2%. Nel complesso il centrodestra, trainato dal partito di Giorgia Meloni, raggiunge il 46,7% dei consensi, guadagnando terreno (+5,5%) sul centrosinistra (23,5%), in ulteriore calo rispetto al risultato delle urne.
Anche l’area del non voto risulta in aumento e tocca il 40%. Cumulando tutti i dati raccolti con i sondaggi realizzati nel mese di novembre (oltre 4.000 casi) è possibile analizzare con un buon livello di affidabilità i flussi elettorali rispetto al voto espresso il 25 settembre.
Ebbene, emergono soprattutto due elementi: l’ulteriore perdita di elettorato della Lega e di FI a favore di FdI (che, inoltre, beneficia del tasso di fedeltà più elevato) e il flusso in uscita degli elettori del Pd maggiormente rivolto verso il M5S e le forze alla sua sinistra (oltre che verso l’astensione) rispetto al Terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi.
Da ultimo il gradimento dei leader: Giuseppe Conte con un indice pari a 33 fa segnare un aumento di tre punti rispetto a fine ottobre, guida la graduatoria e si riporta sui valori antecedenti la fine del governo Draghi (quando fece registrare un brusco calo di 7 punti). Matteo Salvini si conferma al secondo posto (26), seguito da Silvio Berlusconi (23), Maurizio Lupi e Carlo Calenda (appaiati a 20).
Retrocede ulteriormente Enrico Letta che perde 5 punti (17). In aumento Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli nonostante la vicenda Aboubakar Soumahoro. Il governo e Giorgia Meloni (e, di riflesso, FdI) appaiono in salute grazie al consenso per le principali misure della legge di Bilancio e beneficiano delle divisioni all’interno dell’opposizione; nel complesso non sembrano risentire più di tanto delle polemiche suscitate da alcuni «provvedimenti simbolo» e da qualche «inciampo», come le tensioni con la Francia a seguito della vicenda della nave Ocean Viking e i provvedimenti modificati nel breve volgere di pochi giorni, come la legge sui rave party o il bonus per i matrimoni in Chiesa.
Tuttavia, archiviata la stagione della (quasi) unità nazionale, sta affiorando la radicalizzazione delle posizioni sui temi più caldi, di cui al momento beneficiano il M5S e le forze politiche di sinistra con i rispettivi leader, mentre il Pd dopo la sconfitta elettorale è alle prese con una complessa fase precongressuale e con la forte competizione con le altre forze dell’opposizione.
Inoltre, deve fare i conti con le forti tensioni interne che hanno fatto ritornare d’attualità la famosa definizione che tempo fa Massimo D’Alema diede del Pd: «Un amalgama mal riuscito». È una definizione che rinvia alla questione irrisolta dell’identità e del posizionamento («riformista» o «di sinistra») che rischia di logorare un partito che in 15 anni di vita ha avuto 7 segretari e 2 reggenti, e di fargli fare la fine dell’asino di Buridano.
Nando Pagnoncelli
(da il “Corriere della Sera”)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
“IL SUO PARTITO PER LA PRIMA SETTIMANA NON AVANZA NELLE INTENZIONI DI VOTO, MA SI ARRESTA AL 28,3% (-0,2%). ANCHE LA LEGA ARRETRA
Come si poteva facilmente immaginare l’esposizione della manovra finanziaria ha diviso l’opinione pubblica nelle percezioni tra coloro che la promuovono (40,4%) e quelli che invece la bocciano (41,2%) “a caldo”, dopo un paio di giorni dalla conferenza stampa ufficiale del presidente del Consiglio.
Una promozione praticamente totale da parte dell’elettorato di centrodestra (86,8%) e una bocciatura altrettanto piena per i sostenitori del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle (79,8%). Si può sottolineare un atteggiamento più dialogante e morbido nel dibattito tra gli elettori di + Europa, Azione e Italia Viva dove, anche se prevale il dissenso, l’apertura su alcune proposte è più che buona.
Ad esempio, entrando nel dettaglio, il provvedimento “per le mamme”, che prevede l’Iva ridotta per i prodotti per l’infanzia e un mese in più all’80% di stipendio durante il congedo parentale, piace al 66,7% del totale del campione intervistato. Tra questi il 78.2% degli elettori di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Proprio tra le mamme – come peraltro era da immaginare – si registra un successo a pieni voti.
Interessanti i dati riguardanti il pacchetto dei provvedimenti per i lavoratori dipendenti che risulta ben accolto dal 65,8% della popolazione e dal 60,1% dei diretti interessati.
Le indicazioni date sulla tregua fiscale mostrano un sostanziale pareggio a livello nazionale (43% contro 44,7%) come quelle per i lavoratori autonomi (38,4% a fronte del 42,3%), che tuttavia riscuotono una discreta popolarità proprio nel target direttamente interessato, con il 51% dei soggetti favorevoli.
Infine i provvedimenti sul tema carburanti vengono bocciati anche se non in maniera netta (38,2% contro 50,4%). A questo punto si evidenzia ancora un po’ di incertezza e di attesa nel vivo desiderio di comprendere e approfondire i temi della manovra messa a punto dall’esecutivo.
Non si può dire che non ci sia stato un impatto sul consenso di Giorgia Meloni e del suo partito, Fratelli d’Italia. Piccolo ma significativo con qualche conseguenza sull’indice di fiducia del presidente del Consiglio, che pur restando al di sopra della soglia del 40%, cede qualche punto percentuale passando dal 43,6% al 40,6%: una differenza di oltre due punti percentuali (-3,2%) nell’arco di una settimana.
Il suo partito per la prima settimana non avanza nelle intenzioni di voto, ma si arresta al 28,3% (-0,2%). Anche la Lega di Matteo Salvini arretra di uno 0,7%,
Per il resto non si registrano importanti variazioni, tuttavia si conferma il solito testa a testa, nel centrosinistra, tra il Partito Democratico (17,2%) e il Movimento 5 Stelle (16,8%).
(da La Stampa)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
ECCO LA RAGIONE PER CUI HA AVOCATO A SÈ LA QUESTIONE DELLE DELEGHE. TRE ESEMPI: URSO MANTERRÀ IL CONTROLLO DELLE TELECOMUNICAZIONI, DELEGA NEVRALGICA PER BERLUSCONI; LA RETE UNICA SARÀ AFFIDATA A BUTTI; E I BALNEARI PASSERANNO DALLA MINISTRA DEL TURISMO SANTANCHÉ A QUELLO DEL SUD MUSUMECI
La scelta di Meloni di concentrare su ministri e sottosegretari di Fratelli d’Italia le deleghe di governo più importanti e i dossier più spinosi segnala da parte della premier un cambiamento di strategia.
Dopo aver mostrato una generosità inattesa nella distribuzione di collegi sicuri o quasi all’atto della costruzione della coalizione e delle candidature, la presidente del Consiglio, giorno dopo giorno, sta edificando dentro e attorno a Palazzo Chigi una specie di fortino, per difendersi quando le tensioni, al momento sommerse, nella maggioranza cominceranno a emergere.
Ecco dunque, dopo la nomina nei ministeri e nei posti chiave di uomini e donne del suo partito e della cerchia ristretta delle persone a lei più vicine, dai ministri Lollobrigida all’Agricoltura, Crosetto alla Difesa e Fitto gli Affari europei e al Pnrr, ai sottosegretari Mantovano (presidenza del Consiglio e servizi segreti) e Fazzolari (attuazione del programma), la ragione per cui Meloni ha avocato a sè la questione delle deleghe, che sta valutando una ad una, con particolare attenzione al potenziale pericolo di scontro sociale, nella fucina di un autunno che già s’ annuncia caldo e affollato di manifestazioni di piazza dell’opposizione e dei sindacati.
Tre esempi chiari: Urso, ministro delle politiche industriali, manterrà il controllo delle telecomunicazioni, delega nevralgica per Forza Italia e per Berlusconi, cui dovrà rinunciare; la complessa questione della rete unica sarà affidata a Butti, altro sottosegretario FdI alla presidenza; e i balneari, categoria a rischio esplosione, passeranno dalla ministra del Turismo Santanché a quello del Sud Musumeci.
Su questi temi Meloni non vuole sorprese. Non era andata così a luglio. Lo stato dei rapporti interni della coalizione, collocata per due terzi al governo e un terzo all’opposizione, non era ideale. Meloni sapeva di dover svolgere il ruolo di traino dei due alleati fiaccati dall’appoggio a Draghi. Accettando di riconoscere a Salvini percentuali di seggi basate su sondaggi generosi, poi smentite dai risultati del 25 settembre, aveva accontentato l’alleato più riottoso, premiandolo con un centinaio di eletti. E un occhio di riguardo c’era stato anche per il Cav. Ma ora la musica è cambiata.
(da La Stampa)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
“È STRUMENTALE EVOCARE OMBRE, 007, COMPLOTTI E SEGRETI. ALLA FINE, L’UNICO SEGRETO RIMANE QUELLO CHE RENZI NON HA MI RIVELATO: COSA SI SONO DETTI CON MANCINI?”
“Ma quale complotto. La verità dopo questo gran polverone è che c’è una semplice cittadina, un’insegnante, che ha osato filmare un politico in un luogo pubblico ed è stata per questo indagata per non si sa bene quale reato.
L’altra certezza è che quel personaggio politico, ossia Matteo Renzi, alla fine non ha mai rivelato cosa si siano detti con l’ex 007 Marco Mancini in quell’incontro in autogrill filmato da quella signora”.
Sigfrido Ranucci di Report non si capacita dopo che Matteo Renzi nella nuova versione data alle stampe del suo libro (Il Mostro) è tornato a evocare il complotto ai suoi danni. Mettendo da ultimo sulla graticola l’attuale capo del Dis, Elisabetta Belloni, e tornando ad alludere al ruolo dei Servizi rispetto al materiale che era servito a Report per rivelare quell’incontro in autostrada.
Intanto quell’insegnante, fonte per un giorno, rischia il processo. “Siamo di fronte a un continuo assedio alle fonti. Così è a rischio la libertà di informazione”.
Sì, certo è più affascinante sostenere di essere braccato dai servizi che ammettere di essere stato pizzicato da un’insegnante mentre si incontrava con Mancini. Ma non mi stupisco.
Perché?
Perché ha pure lasciato intendere che la Belloni (sempre a sentire Renzi ce l’avrebbe con lui, ndr) si sia trincerata dietro il segreto di Stato per non rivelare la presenza in quell’area di sosta di agenti dei servizi.
Quando invece semplicemente lo ha opposto alle domande dei legali di Mancini sulle dinamiche interne al Dis, che peraltro non dirigeva lei all’epoca dei fatti dell’autogrill, e che tra l’altro avevano portato al prepensionamento del loro assistito.
A quel tempo, infatti, era segretaria generale alla Farnesina. Poi era spuntata l’ipotesi di eleggerla al Colle, tramontata per mano renziana.
Infatti sono cose totalmente scollegate da un punto di vista anche temporale con la faccenda dell’autogrill. Per questo è strumentale evocare ombre, 007, complotti e segreti.
Alla fine, l’unico segreto rimane quello che Renzi non ha mi rivelato, a parte il regalo dei babbi di cioccolata: cosa si sono detti con Mancini?
Ma torniamo ai guai della professoressa: ora rischia 4 anni di galera.
Io ho fiducia nella giustizia e non posso nemmeno pensare che per essere stata nostra fonte le sia stato contestato un reato. Anche chi non è iscritto all’albo dei giornalisti può partecipare al diritto di cronaca.
Però mi vorrei soffermate sugli effetti nocivi di tutto questo: intanto questa signora è costretta a pagarsi le spese legali e per questo io spero che Renzi rifletta su questo.
Però c’è qualcosa addirittura di più nocivo in tutta questa storia.
Sì, certo ed è un effetto micidiale perché è come se si dicesse ai cittadini ‘fatevi i fatti vostri’. Come era successo anche altre volte. Cito quanto successo dopo la messa in onda di un servizio sulla Lega e qualcuno che si era sentito danneggiato aveva preteso di acquisire il materiale che era servito per la puntata.
Cosa che ovviamente avrebbe significato identificare le nostre fonti. Ma che tipo di informazione vogliono quelli che braccano le fonti dei giornalisti? Preferiscono un giornalismo che non fa domande?
Allora diciamola una volta per tutte: c’è chi preferirebbe un’informazione fatta solo dei loro monologhi.
È a rischio il diritto di cronaca?
Direi se si pensa a quello che sta passando la signora del filmato dell’autogrill che è una fonte perfetta: ha dato una informazione a giornalisti accreditati in modo che potessero verificare i contenuti e la portata del materiale che aveva raccolto come abbiamo fatto con un lavoro scrupolosissimo. Ma cosa si può chiedere di più?
(da il Fatto Quotidiano)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL MOTIVO È SEMPLICE: DA UN LATO HA PAURA DI LETIZIA MORATTI. DALL’ALTRO, TEME UN CAPPOTTO DELLA MELONI… C’È POI UN’ALTRA RAGIONE. AL MINISTERO DELL’ECONOMIA PREVEDONO CHE A MARZO FINIRANNO I SOLDI PER LE MISURE SUL CARO-ENERGIA MENTRE L’ECONOMIA RALLENTERÀ. E IN UNA REGIONE COME LA LOMBARDIA NON SAREBBE LA SPINTA ELETTORALE GIUSTA
Non è ancora cominciato l’iter della legge di bilancio che i partiti si muovono già sul prossimo appuntamento elettorale. E c’è chi si muove per affrettare i tempi. Salvini per esempio.
Ieri, in una giornata molto triste segnata dai funerali di Stato per Roberto Maroni, il leader leghista ha riunito il consiglio federale del partito proponendo l’election day per le regionali di Lazio e Lombardia il 12 febbraio.
In pratica, appena una settimana dopo la finestra temporale che si apre per andare al voto e che si chiude i primi di maggio. Non c’è dubbio che è una spinta ad accelerare i tempi ma la domanda è il motivo di tanta fretta.
È vero che in quelle stesse settimane il Pd sarà alle battute finali del congresso per l’elezione del nuovo segretario, dunque, sarebbe come fare una corsa in cui l’altro zoppica ma i Dem non hanno mai vinto e non sono mai stati una minaccia. Probabilmente non lo saranno nemmeno se riusciranno a fare un accordo con i 5 Stelle, come filtrava ieri dalle ultime riunioni tra i rispettivi partiti.
Più convincente è la preoccupazione di dover gareggiare con Letizia Moratti e dunque si accelera per non concedere tempo alla campagna elettorale della candidata di Calenda. Anche se nei sondaggi parte indietro, tuttavia, è in grado di rubare voti in quel campo di destra e impoverirlo. Perfino nel Carroccio lo ammettono a mezza bocca.
Dalle parti di Fontana sono convinti che lui ce la farà e che, tuttavia, il problema resta il partito. Si teme, cioè, un’altra batosta dopo il 25 settembre, con il partito della Meloni che supera sia Salvini che Berlusconi e finisce per governare di fatto la Regione comprimendo la gestione leghista.
A quel punto diventerebbe concreta la prospettiva che FdI cominci a chiedere di mettere i “suoi” candidati anche in quelle Regioni finora dominate dal Carroccio. Basta chiedere a chi sta in Piemonte – dove Fratelli d’Italia ha una robusta rappresentanza anche parlamentare – in Veneto, Friuli o Trentino dove già si mette in conto un riequilibrio dei rapporti di forza che da Roma si estenderebbe in quella che una volta era la Padania.
C’è poi un’altra ragione di preoccupazione, forse la principale. Chi è più accorto racconta dei timori che si respirano al ministero dell’Economia (ma pure a Palazzo Chigi) dove prevedono che a marzo finiranno i soldi per le misure sul caro-energia mentre l’economia rallenterà. E in una Regione come la Lombardia, ad alta densità di imprese, non sarebbe la spinta elettorale giusta. Soprattutto se gli avversari avessero più tempo per fare campagna. Meglio anticipare a febbraio.
(da il Sole 24 Ore)
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Novembre 26th, 2022 Riccardo Fucile
“MOLTE MISURE NON SONO STRUTTURALI”
Il Documento Programmatico di Bilancio (DPB) illustra le principali linee di intervento della manovra di finanza pubblica che verranno inserite nella legge di bilancio per il 2023.
Si tratta di un documento importante perché è quello su cui si basa il giudizio della Commissione Europea. Il documento ribadisce il quadro macroeconomico e gli obiettivi di finanza pubblica della Nadef.
Si tratta di stime e obiettivi prudenti che già abbiamo valutato positivamente. Le osservazione aggiuntive che emergono dalla lettura del DPB sono: a) non sono esplicitate le coperture di tutta la parte della manovra che non è finanziata in deficit; b) gran parte delle misure che sono state al centro del dibattito pubblico nei giorni scorsi non sono strutturali, ossia si applicano solo per uno o due anni; c) la pressione fiscale si riduce di un modesto 0,2 per cento del Pil, dal 43,4 al 43,2.
Il 24 novembre è stato pubblicato il Documento Programmatico di Bilancio (DPB) che è il documento chiave che viene trasmesso per una valutazione alla Commissione Europea.
In questa nota, spieghiamo cosa contiene il documento, alla luce del fatto che esso è di difficilissima lettura in assenza di una chiave interpretativa. Nelle grandi linee il documento riprende le valutazioni sul quadro macroeconomico e sugli obiettivi di bilancio contenuti nella Nadef, su cui l’Osservatorio si è già espresso. In estrema sintesi:
Si apprezza la prudenza sia nella valutazione del quadro macroeconomico (crescita del Pil allo 0,6% nel 2023) sia nella fissazione dell’obiettivo di bilancio (al 4,5 per cento, in riduzione rispetto al 5,6 per cento del preconsuntivo 2022).
Si fa notare che questo obiettivo comporta un orientamento notevolmente restrittivo della finanza pubblica, in quanto il deficit primario, ossia al netto degli interessi, si riduce di oltre un punto di pil rispetto al 2022. Ancora più restrittivo (-1,3 per cento) risulta essere il bilancio primario strutturale, ossia al netto degli effetti dovuti ad un andamento economico in forte rallentamento.
Si apprezza il fatto che quasi tutto l’extra deficit rispetto all’andamento tendenziale (22 miliardi circa) sia utilizzato per far fronte ai rincari energetici, con una larga parte di misure che – correttamente – non sono erga omnes, ma sono mirate ai soggetti più colpiti dalla crisi energetica.
Si osserva che su un manovra lorda di 35 miliardi ben 13 miliardi siano dispersi in tanti rivoli corrispondenti ad altrettante promesse elettorali. Quelle risorse potrebbero rivelarsi preziose per usi alternativi alla luce di due considerazioni. La prima è che gli aiuti a fronte dei rincari coprono solo il primo trimestre del 2023, nella speranza che poi la situazione si normalizzi, cosa che è del tutto incerta. La seconda è che alcuni comparti (in particolare sanità, scuola e, in generale, pubblico impiego) potrebbero trovarsi in notevole sofferenza dato che gli stanziamenti previsti sono di molto inferiori all’inflazione prevista.
Le principali voci del DPB
Cosa ci dice in più il DPB? Richiamiamo l’attenzione sulle Tavole 1 e 2 che riorganizzano la tabella II.1-12 (pag 25 e 26) del documento secondo uno schema che ci pare più comprensibile. Sulla destra della tabella ci sono le misure espansive, ossia quelle che generano maggior deficit. Alcune misure sono espansive in un certo anno e restrittive in un altro; il criterio utilizzato qui prende a riferimento il 2023. Le misure espansive sono suddivise in Minori Entrate e Maggiori Uscite. Nella parte sinistra della tabella ci sono le coperture e a saldo, in fondo alla tabella, si ottiene l’effetto della manovra sull’indebitamento netto dell’aggregato delle pubbliche amministrazioni. La tabella è presentata in due versioni: con i rapporti al Pil (programmatico), che è il modo in cui i dati sono pubblicati nel documento, e in milioni di euro.
Guardando la Tav. 1 (in milioni di euro) saltano all’occhio le considerazioni seguenti:
Fra le coperture ci sono due voci, per un totale di ben 13,3 miliardi, che sono classificate semplicemente come “altre entrate” (per 6,3 miliardi) e “altre spese” (per 7,0 miliardi). Ciò significa che per ora non sono esplicitate le coperture per tutta la parte di manovra che non è finanziata in deficit, anche se sono fatte fatti degli annunci relativi ad una maggiorazione della tassa sugli extra profitti. È facile immaginare che questa sarà la prima cosa che chiederà la Commissione Europea. Si comprende bene la tecnica di marketing politico che consiste nel presentare alcune voci come interventi e altre, semi nascoste, come coperture. Ma la mission dell’Osservatorio è fare educazione finanziaria in materia di conti pubblici e dunque non possiamo esimerci dal dire che le cosiddette coperture sono importanti e impattanti tanto quanto i cosiddetti interventi.
La voce di gran lunga più importante fra gli interventi riguarda le misure contro il caro energia: 19,4 miliardi, cui vanno aggiunte una parte degli interventi a favore di scuole, famiglie ed enti locali.
La seconda misura in ordine di importanza riguarda il taglio del cuneo fiscale. Come si vede l’effetto importante è solo sull’anno 2023 (4,8 miliardi). La ragione è che l’esonero del 2 per cento dei contributi a carico del dipendente con redditi fino a 35 mila euro e del 3 per cento per i dipendenti con reddito fino a 20 mila euro vale solo per i “periodi di paga del 2023”. La tabella evidenzia che nel 2025 l’effetto dell’insieme di misure che vanno sotto il titolo di “riduzione de cuneo fiscale” si riduce attorno ai 600 milioni.
Anche i provvedimenti a favore della famiglia (che contengono ad esempio la proroga al solo 2023 di alcune misure) e quelli a favore delle imprese (proroga entrata in vigore di plastic e sugar tax + ricapitalizzazione del Fondo PMI) hanno una componente strutturale contenuta: 937 milioni per la famiglia (la metà dell’effetto sul 2023) e zero per le imprese.
È interessante notare che a quella che è stata definita “tregua fiscale” si attribuisca un effetto negativo (per ben 1,117 miliardi) sul deficit del 2023. E che nel triennio 2023-2025, l’effetto netto del provvedimento è zero: le maggiori entrate del 2024 e 2025 (dovute al fatto che si consentono rateizzazioni quinquennali) compensano le minori entrate del 2023. Bisogna aspettare la Relazione Tecnica per capire se viene presa in considerazione la riduzione di fedeltà fiscale che provvedimenti di questo genere generano nei contribuenti, specie se vengono ripetuti molto spesso, come è accaduto negli ultimi anni in Italia. Va anche considerata la perdita per lo stato derivante dalla riduzione degli oneri per sanzioni e interessi.
Anche la “flat tax” sembrerebbe avere un’importanza molto limitata a regime. Nel 2025, il costo per lo stato scende a 339 milioni di euro. Anche qui attendiamo la Relazione Tecnica per capire se si è tenuto in considerazione la possibilità di comportamenti strategici da parte dei contribuenti, data l’enorme vantaggio di avere una partita IVA, stando al di sotto della soglia.
Alla voce pensioni si vede un segno meno, il che significa che la deindicizzazione delle pensioni medie e alte vale di più dell’insieme delle misure che sono state annunciate come importanti risultati di questa manovra: l’aumento (per il solo biennio 2023-2024) delle pensioni minime, la cosiddetta quota 103 e la proroga con modifiche di “opzione donna”.
Come cambia il bilancio pubblico
Alla luce di queste considerazioni, possiamo vedere come cambia la composizione del bilancio pubblico per effetto della manovra. La Tavola 4 riporta i valori del bilancio pre e post manovra, ossia il tendenziale e il programmatico. Come si vede, nel 2023 il totale della spesa pubblica (tendenziale) è di 1,053 miliardi di euro. La manovra cambia pochissimo il totale e la composizione del bilancio. La spesa aumenta di 17,97 miliardi che sono quasi per intero spiegati dalla voce “sussidi”, ossia gli aiuti contro i rincari energetici, cui si aggiungono 2,2 miliardi per i consumi intermedi (in gran parte, acquisti della sanità) e 2,1 miliardi di maggiori trasferimenti in conto capitale.
Dal lato delle entrate, si ha una riduzione di 2,1 miliardi, per lo più spiegate dalla riduzione dei contributi sociali. La pressione fiscale scende di 2,3 miliardi; in rapporto la Pil scende da 43,4 per cento a 43,2. Si tratta di variazioni minime, che però si giustificano alla luce della considerazione che non sarebbe prudente andare oltre il deficit di 4,5 per cento.
Malgrado tanto si sia detto negli ultimi anni contro questo dato di fatto, la realtà è che le risorse sono scarse.
(da La Repubblica)
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