Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
I DATI DI ALTROCONSUMO: 117 OPERE NELLE ARTERIE CHIAVE MENTRE CRESCONO I PEDAGGI
Cantieri infiniti, traffico ingolfato, auto incolonnate per chilometri in tratti a corsia unica, incidenti e incendi in galleria. Malgrado le promesse è ancora un’estate di passione per chi viaggia sulla disastrata rete autostradale italiana. È la conseguenza di manutenzioni rinviate per anni, combinata con una rete satura che al primo contrattempo si intasa. I risparmi sugli investimenti in prevenzione e sicurezza hanno fatto fare guadagni stellari alle concessionarie, ma adesso i lavori vanno fatti tutte insieme. C’è da recuperare il tempo perduto e a farne le spese sono automobilisti, camionisti e turisti, costretti a passare ore in coda. L’emergenza è tutta in un dato raccolto da Altroconsumo: chi si mette in strada troverà in media un cantiere ogni 12 chilometri.
Tutto è cominciato con il crollo del Ponte Morandi: il disastro ha portato alla luce le negligenze della principale concessionaria, Autostrade per l’Italia, e a cascata di tutti gli altri gestori. Soprattutto, è stato messo a nudo il sistema dei controlli addomesticati che consentiva alle concessionarie di sottostimare la sicurezza e ritardare gli interventi. Su questo filone la Procura di Genova ha aperto un’inchiesta bis che procede parallela al processo per i 43 morti del viadotto Polcevera, che vede indagati 47 fra ex dirigenti, tecnici e funzionari di Aspi, tra cui il più noto è senza dubbio Giovanni Castellucci. Le accuse sono a vario titolo di falso, attentato alla sicurezza dei trasporti, frode in pubbliche forniture, crollo colposo. Vengono contestate decine di falsificazioni sui report sulla sicurezza dei viadotti, barriere fonoassorbenti da rifare (“sono attaccate con il Vinavil”, si dice nelle intercettazioni) ma sono in realtà le gallerie l’emergenza con più impatto sulla viabilità.
Il tema è tornato d’attualità in modo drammatico il 9 luglio scorso, quando un pullman è andato a fuoco in un tunnel a Recco: 37 persone sono finite in ospedale e per oltre mezza giornata migliaia di automobilisti sono rimasti intrappolati nel traffico. La galleria Monte Giugo, sulla A12, era stata segnalata dal Mit nel 2019 in una lista nera di un centinaio di opere pericolose. Nel 2006, dopo il rogo nel traforo nel Monte Bianco, l’Italia aveva promesso di mettere la rete in sicurezza, ma nei 13 anni successivi poco o niente è cambiato. E adesso l’Europa ha aperto una procedura di infrazione contro l’Italia, accusata di essere stata troppo morbida con le concessionarie.
A scattare una fotografia della situazione è stata Altroconsumo. L’associazione ha mappato a fine maggio buona parte del centro e del Nord Italia, sotto al controllo di varie concessionarie, tra cui Aspi, Autostrade dei Fiori, Salt e Anas (che gestisce le autostrade abruzzesi dopo la revoca della concessione a Strada dei Parchi, oggi in contenzioso con lo Stato), trovando una situazione addirittura in peggioramento: 134 chilometri di cantieri su 1.500 chilometri di autostrade, il 10%. Se nel 2021 c’era un cantiere ogni 18 chilometri, questa distanza nel 2023 si è ridotta a 12. Sulle arterie che collegano Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Abruzzo e Lazio, Altroconsumo ha trovato in tutto 117 cantieri (nel 2021 erano 80). Per questo l’associazione ha lanciato una class action contro Aspi. Il Tribunale di Roma ha fissato la prima udienza a settembre: “Uno studio di Bankitalia, mostra in modo incontrovertibile come negli ultimi dieci anni le manutenzioni siano calate mentre i pedaggi sono aumentati in modo costante – spiega Alessandro Sessa, presidente di Altroconsumo – Fra il 2009 e il 2018 ogni famiglia italiana ha speso in media 88 euro l’anno, dunque ha diritto a un risarcimento da 880 euro”.
Non è la prima iniziativa legale contro Aspi, che nel 2021 aveva ricevuto dall’Antitrust una multa da 5 milioni di euro per non aver ridotto i pedaggi. Nel 2022 un’altra class action – respinta dal Tribunale di Roma – era stata portata avanti dalla lista d’opposizione del consigliere regionale ligure Ferruccio Sansa, assistito dall’avvocato ed ex senatore Mattia Crucioli: chiedevano 3mila euro per ogni ligure. “Avevamo portato avanti questa causa sulla base del fatto che la Liguria era asfissiata e paralizzata dai cantieri, e che questo danno non si ripercuoteva solo sugli automobilisti, ma aveva un impatto sulla vivibilità generale – spiega Sansa – Il tribunale ci ha dato torto, perché le nostre istanze si riferivano a fatti precedenti alla modifica della legge sulla class action. Non avevamo le forze per andare oltre. La situazione della viabilità non è cambiata molto e il governatore della Liguria, Giovanni Toti, non è una vera controparte alle autostrade, come hanno dimostrato le intercettazioni emerse dal processo sul Ponte Morandi”.
La Liguria – che per conformazione geografica ospita molti viadotti e gallerie – resta ancora oggi la maglia nera dei cantieri autostradali. Ecco i risultati del censimento di Altroconsumo: undici cantieri tra Viareggio e Genova, con un’unica corsia per lunghi tratti; una ventina di cantieri tra Milano e Genova in 120 chilometri; quattro anche sulla A26 Genova- Gravellona Toce.
Altro asse molto critico era quello tra Marche e Abruzzo, con 120 chilometri di corsie di emergenza inaccessibili. Sulla A14 Bologna Pescara Altroconsumo segnala 30 cantieri in 360 chilometri, con 17 chilometri a una corsia sola. Autostrade per l’Italia, nei tratti di sua competenza, sulla A14 ha annunciato la sospensione dei lavori tra Pedaso e Vasto. Sulla A24 e sulla A25, autostrada gestita da Anas dopo la revoca della concessione a Strada dei Parchi (oggi contestata dal gruppo Toto), si viaggia per 7 chilometri su una sola corsia. Sulla A1 Milano-Bologna ci sono 13 cantieri su un totale di 180 chilometri, sulla A1, tra Roma e Firenze, 26 cantieri concentrati in soli 24 km.
Il piano straordinario annunciato da Aspi prevede 917 milioni di euro di interventi sulla A26, 300 milioni di euro sulla A7, 568 milioni sulla A10, 729 milioni sulla A12. In alcuni casi le limitazioni non riguardano cantieri in attività, ma le cosiddette “misure compensative”: restrizioni di carreggiata, imposte in modo cautelativo dal Mit.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
IL CAPO DELLA COOPERATIVA 3570 DI ROMA, LORENO BITTARELLI, È STATO CANDIDATO AL SENATO CON IL PDL, IL CONSULENTE DELL’URI, L’AVVOCATO FACCIOTTI, È STATO PARTE DELLA DIRIGENZA DI FRATELLI D’ITALIA
«Essere di destra per i tassisti non è una condizione dell’anima, semmai è una corsia preferenziale». Lo diceva lo scrittore Roberto Cotroneo una decina d’anni fa e il principio vale ancora oggi, con una maggioranza di destra al governo, da sostenere in campagna elettorale, da contrastare se un decreto si permette di mettere il naso nel privilegio delle licenze. Un fuoco amico. Un tentativo che ha spiazzato tutti.
Agli storici barricadieri del tassametro, che vanno dall’Ugl – la sigla vicina al sottosegretario della Lega Claudio Durigon – all’Unione radio taxi, si è aggiunta la virulenza di Unica-Cgil, pronti a minacciare lo sciopero.
Così, nel giro di poche ore, il governo ha fatto una mezza marcia indietro. Ha deciso che se ci saranno nuove licenze, verranno affidate a chi ne ha già, saranno temporanee, in modo da non scalfire il loro valore di mercato, 200 mila euro circa nelle grandi città. Inoltre è stato inserito il raddoppio degli incentivi per l’acquisto di auto e per il rinnovo di quelle vecchie. Gli amici si vedono nel momento del bisogno.
Sul fronte destro sono convinti che otterranno ancora qualche modifica in parlamento: «Potrebbe arrivare un maxi emendamento, o comunque un ritocco. Non credo che porranno la questione di fiducia», dice Leopoldo Facciotti, avvocato, consulente dell’Unione dei radiotaxi d’Italia (Uri).
L’associazione è ancora capeggiata dal leader storico del movimento, Loreno Bittarelli, il capo dello 06-3570 di Roma, con 3.500 tassisti al seguito. «Ci lavora anche la metà dei tassisti di Unica», dice Di Giacobbe. La cifra in questo caso non viene comunicata. Bittarè ha deciso di mandare avanti l’avvocato.
E’ lui che sta trattando a suo nome. Del resto, nel 2013 lo stesso Facciotti è stato parte della dirigenza del partito e nel 2015 promotore di un comitato per Giorgia Meloni assieme a Giuseppe Cossiga, oggi alla presidenza dell’Aiad in sostituzione del ministro Guido Crosetto. Ma non è il solo ad avere una forte connessione con i Fratelli d’Italia.
L’appoggio dichiarato dei tassisti della compagnia a Meloni ha superato i vent’anni. Nel 2007 era stata l’attuale presidente del Consiglio a prendersela con le “lenzuolate” di liberalizzazioni del centrosinistra, con i successivi tentativi di portarle a termine, complice l’allora sindaco del Pd Walter Veltroni: «Stupisce che a pochi mesi di distanza dalle polemiche innescate dal decreto Bersani che ha visto uno sciopero prolungato dei tassisti, il governo decida nuovamente di introdurre provvedimenti senza prima consultarsi con la categoria», diceva all’epoca. In epoca più recente, si è parecchio speso in pubblico anche il first cognato, Francesco Lollobrigida, marito della sorella della premier, ministro dell’Agricoltura.
Era solo l’estate scorsa, quando esultava perché Draghi aveva desistito dall’intervenire, bloccato dalle manifestazioni dei tassisti nelle piazze d’Italia: «Grazie a Fratelli d’Italia e a tutto il centrodestra sarà stralciato l’articolo 10 dal Ddl Concorrenza per tutelare i tassisti», aveva dichiarato da capogruppo alla Camera. Un’attenzione storica che arriva fino ai giorni nostri: nel mese di marzo si erano incontrati Emanuele Raffini, presidente di Confartigianato Taxi, il coordinatore di FdI, Giovanni Donzelli, e il presidente meloniano della commissione Trasporti, Salvatore Deidda.
In passato, gli esponenti di maggior peso della categoria hanno direttamente militato tra le file della squadra oggi al governo. Il primo è proprio Bittarelli, candidato al Senato con il Pdl nel 2008, poi sostenitore del sindaco Gianni Alemanno. Come raccontano le cronache dell’epoca, fu sempre lui, insieme con l’attuale vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, ad affossare il tentativo di liberalizzazione di Mario Monti. Era il 2012. L’anno dopo si meritava un posto in lista con FdI.
Ma è il nome del meno noto avvocato Facciotti che oggi torna con più insistenza. È l’uomo dei tavoli, come si dice. Un giorno è il rappresentante delle imprese, quello dopo veste l’abito dell’organigramma di partito. Oltre a essere consulente di Uri, segue la meno famosa Casartigiani. Nel 2001 è stato candidato a Roma con Alleanza nazionale, poi consulente a titolo gratuito del sindaco Alemanno, quindi responsabile dei rapporti con i sindacati nel 2013, infine promotore del comitato per Meloni nel 2015.
Adesso, dice, «sono solo un consulente e un avvocato, ma la mia storia è nota». Tra gli altri suoi clienti c’è anche Rcs Spa, la società che si è occupata dei trojan di Palamara: «Ma questo non c’entra niente», risponde lui: non lavora più con la società.
Tra i nomi degli oltre 25 partecipanti al confronto con il governo, spicca quello di Massimo Campagnolo, di Federtaxi Cisal. Con il ministro delle Imprese Urso, il vicepremier Salvini e il sottosegretario Rixi ha parlato nella veste di rappresentante di settore. Alle ultime regionali invece si era presentato in una lista in appoggio al presidente leghista Attilio Fontana, portandogli circa 400 voti e gli auguri di tutti i colleghi.
L’autorità di regolamentazione dei trasporti offre una mappa del potere dei taxi, anche se i dati risalgono al 2018. Sul territorio italiano sono presenti oltre 20 mila licenze: Roma è in testa con 7.703, segue Milano con 4.852, a Napoli sono 2.365, via via si scende per arrivare alle tre di Campobasso. I taxi in circolazione sono pochi, rileva l’ultima bozza del decreto varato alla vigilia delle vacanze. Una situazione che rischia di peggiorare, quando in Italia avremo il Giubileo del 2025 e le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina nel 2026 . Solo che i tassisti, riferisce chi ha lavorato al ministero dei Trasporti e li ha frequentati, «spostano voti e possono bloccare le città».
Facciotti nega: «Il nostro è un parere tecnico». Lo ascoltano tutti i partiti. Secondo quanto risulta a Domani, si va dal vicepresidente della commissione Trasporti del Pd, Roberto Morassut ad Andrea Casu, fino alla leghista Elena Maccanti. Anche i rampelliani, raccontano, sono pronti a farsi sentire. E d’altronde lo stesso Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, si è avvalso dell’aiuto legale di Facciotti in passato, per un esposto sulla gestione del Colosseo. Oggi, riferiscono fonti parlamentari, i due continuano a essere molti vicini.
La scelta del governo di far partire la questione licenze, secondo Facciotti, «è conveniente per il rapporto con l’opinione pubblica» e adesso «bisognerà agire in sede di conversione». Bittarelli si dice tranquillo: «Adesso siamo sul pezzo, penso che si possa intervenire in parlamento». La corsia preferenziale continua a portarli verso destra. Con entusiasmo. «Provo un’estrema gioia dal punto di vista personale a vedere Giorgia Meloni presidente del Consiglio. È il massimo che la destra poteva ottenere», commenta l’avvocato. E pure loro.
(da Domani)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
SUCCEDE AL POLICLINICO SAN MARCO DI ZINGONIA, MA CI SONO ALTRI CASI
Al Policlinico di Zingonia in provincia di Bergamo con 149 euro non si fa la fila al Pronto Soccorso. Si viene invece assistiti subito. Anche se si ha un codice bianco o verde.
A scriverlo è il giornale Domani, che indica il Policlinico San Marco di Zingonia. Ma la nuova via era stata aperta solo tre mesi fa in un poliambulatorio di Brescia.
Ad attivarlo a Bergamo è stato invece il gruppo San Donato. Che sul suo sito spiega come funziona. «L’ambulatorio ad accesso diretto di Policlinico San Marco rappresenta un nuovo servizio, offerto in regime di solvenza, per sottoporsi a visite mediche e ad eventuali esami diagnostici senza bisogno di prenotare. In caso di necessità di prestazioni sanitarie che non hanno carattere di urgenza (es. medicazioni di tagli o ferite, riscontro medico dopo un trauma di lieve-media entità, distorsione, rottura di un dente, cistite etc etc.), il paziente può recarsi presso l’ambulatorio per ricevere l’assistenza dei seguenti specialisti: Ortopedico; Chirurgo polispecialistico; Odontoiatra; Urologo».
L’istituto precisa che «per accedere al servizio non è necessario prenotare. L’ambulatorio ad accesso diretto di Policlinico San Marco si trova al piano terra, nell’area degli ambulatori in solvenza.
Una volta fatta l’accettazione e pagato il costo del servizio, il paziente viene indirizzato allo specialista da lui scelto». Il servizio è attivo dal lunedì al venerdì, dalle ore 7:30 alle 18:00.
Il costo del servizio ambulatoriale ad accesso diretto, comprensivo di visita, è appunto di 149 euro. Non sono contati, ovviamente, i costi relativi ad eventuali esami diagnostici di primo e secondo livello.
(da Open)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
LE STORIE, I VOLONTARI, LE CARENZE DELLO STATO
«Dopo il periodo della pandemia da Covid-19 c’è stato un incremento e, soprattutto, un coinvolgimento importante anche di fasce che prima non erano interessate dall’homelessness», spiega a Open Caterina Cortese della Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora
Per Maria e Bayro questa è l’ennesima estate per strada. In un parcheggio di Milano Nord, all’interno di un’auto color blu notte hanno costruito il loro precario «rifugio». Tre coperte, un paio di cuscini; i sedili posteriori ribaltati per «stare più comodi». Bottigliette d’acqua, vestiti sparsi. Trent’anni fa sono scappati dalla città di Banja Luka a seguito della guerra in Bosnia-Erzegovina. Il ritorno qualche anno dopo, poi il nuovo addio alla città natale. «Noi siamo musulmani bosniaci, molti di noi sono fuggiti dal Paese», dice Bayro. Durante il conflitto una «bomba serba» ha distrutto la loro casa. «Bum, bum, bum», gli fa eco sua moglie. «Nell’esplosione sono morti i nostri due figli e mio fratello», continua. «Ora viviamo qui», indica con la mano il sedile sul quale è seduto. «Nostra figlia ha un appartamento a Milano, ma è troppo piccolo per ospitarci», dice. Presto le cose potrebbero però cambiare. «Abbiamo parlato con il Comune e dovrebbero darci una casa», conclude, sorridente, l’ottantenne. «Preparati Bayro, andiamo a fare la doccia», gli urla un volontario dei City Angels, l’associazione che si prende cura degli homeless. Siamo scesi in strada con loro. Un’ambulanza al cui interno è posizionata una doccia e tutto il necessario per l’assistenza, è il loro mezzo di trasporto.
«Quello di stasera è un servizio un po’ particolare», spiega uno degli ideatori del progetto. «Il nostro scopo è quello di occuparci della parte igienica». L’unità primo intervento doccia, questo il suo nome, è l’unica su Milano. «Noi andiamo dalle persone in strada e gli tagliamo barba, capelli, unghie e gli facciamo la doccia», conclude.
I numeri in aumento, soprattutto tra i giovani: la storia di Olga
Da Milano nord fino ai quartieri più a sud della città, tante sono le persone che vivono in strada e quelle che decidono di fare affidamento sui servizi. Si tratta di uomini e donne che accanto a un disagio di tipo abitativo «hanno una serie di problematiche legate alla famiglia, al lavoro, al reddito; ma anche a dipendenze e alla salute mentale», sottolinea a Open Caterina Cortese, responsabile della Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (fio.Psd). Nonostante sui numeri ci sia un «grande interrogativo», spiega l’esperta, gli homeless nel capoluogo lombardo sono circa ottomila per l’Istat (96mila in Italia nel 2021; nel 2015 erano 50mila); quasi tremila per il Comune di Milano (587 in strada; 2.021 in strutture di accoglienza notturna nel 2018).
Sono italiani, molti stranieri e con un’età media di 41 anni. Perlopiù uomini, rispetto alle donne. Un numero, probabilmente sottostimato, che varia di anno in anno. «Definire quantitativamente e qualitativamente il fenomeno è impresa ardua», ci spiega Paolo Moreschi della fio.Psd.
«La cosa certa è che in questo momento tutti quanti nei servizi abbiamo la percezione che il fenomeno stia aumentando», dice. «Dopo il periodo della pandemia da Covid-19 – continua – c’è stato un incremento e, soprattutto, un coinvolgimento importante anche di fasce che prima non erano interessate dall’homelessness».
Tale aumento ha coinvolto, in particolare, i giovani. «Soprattutto a Milano», gli fa eco Cortese. Persone che «escono dalle comunità, dalle case famiglia, da percorsi di adozione fallimentari». Sono giovani, tra i 18 e 25 anni, in cerca di loro stessi, di una loro autonomia. «Non lavorano e non studiano», quelli che Istat definisce Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), «e che utilizzano i servizi in maniera funzionale e intermittente a seconda delle loro esigenze», spiega. Un fenomeno dinamico e che in Europa viene definito «nascosto», difficile da tracciare. All’interno di questa categoria, definita Hidden Homelessness, rientrano anche le donne che «molto spesso si appoggiano ad altre reti informali soprattutto nel caso in cui sono vittime di tratta o violenza domestica», sottolinea la responsabile Osservatorio fio.Psd.
In questo caso, infatti, alla mancanza abitativa si aggiungono tutta una serie di fragilità che vanno affrontate con i servizi specialistici.
Olga, per esempio, viene dalla Moldavia. Avrà una quarantina di anni. Forse più, forse meno. Difficile da decifrare. Vive su una panchina di Corso Buenos Aires, ai piedi delle scintillanti vetrine del centro di Milano. La sera del servizio non si trovava. «Ha problemi di alcool e spesso si piazza fuori dai bar del quartiere», spiegano i volontari. Un suo “amico”, anche lui senza dimora, ci confida che si è allontanata poco prima del nostro arrivo. La troviamo appoggiata a un muro, a pochi isolati dalla stazione metropolitana di Lima. A stento riesce a stare in piedi. I volontari la scortano fino al mezzo dove potrà farsi una doccia, cambiare i vestiti e sistemarsi i capelli color giallo acceso.
«Noi usciamo con un team formato sia da uomini, che da donne», dicono i City Angels. «Questo ci permette di dividere il lavoro: le donne offrono il servizio alle persone dello stesso sesso. Gli uomini, pure», conclude. Dopo un dibattito sulla scelta degli abiti, Olga esce dall’ambulanza. «Sono contenta di aver fatto la doccia, grazie», dice, pettinandosi i corti capelli. Prende una bottiglietta d’acqua, un panino e ritorna sulla panchina. «L’ultima volta che le abbiamo fatto la doccia ci siamo accorti che era completamente bruciata a causa della continua esposizione al sole», affermano i volontari.
«La strada uccide anche d’estate»: la storia di Nur
Colpi di calore, insolazioni, disidratazione. Sono solo alcune della problematiche a cui i senzatetto devono far fronte nei mesi estivi. L’estate, con le alte temperature, gli eventi estremi, l’assenza di volontari e la chiusura dei molti centri di accoglienza, aperti solo nei mesi freddi, può essere ancora più brutale.
«D’estate non si pensa a loro – dice il presidente dei City Angels, Mario Furlan -. È vero che nei mesi estivi non rischiano di morire assiderati per strada. Ma è anche vero che con i cambiamenti climatici e gli eventi estremi sopraggiungono ulteriori problemi».
La notte del nubifragio, tra lunedì 24 luglio e martedì 25, quando tutta Milano si è svegliata alle 4 in punto, Nur (nome di fantasia) si è rifugiato all’interno della stazione di Porta Genova. Sopravvive su una panchina lì di fronte. «Posso tagliare i capelli?», ci chiede. «Ho caldo, vorrei tagliarli tutti». Nur è in Italia da 10 anni; da 7 mesi si trova in strada. La sua famiglia è in Egitto: «Sono solo a Milano», confida. «Ma io nei mesi invernali lavoro, in questo momento sono fermo perché d’estate la ditta è in ferie», precisa. Prima aveva una casa. «Poi il proprietario mi ha mandato via e ora dormo qua», indica con la mano destra l’area circostante la stazione. Durante quella terribile nottata «noi abbiamo operato in diverse zone della città – sottolinea Furlan – e pure le sere dopo. Le persone senza dimora ci chiedevano un ricambio, sacchi a pelo asciutti e degli asciugamani perché erano bagnati fradici. Gli abbiamo detto di non stare vicino agli alberi, di rifugiarsi in posti sicuri».
Il problema “estivo” delle persone senza dimora è accentuato dal fatto che d’inverno ci sono molti più dormitori aperti «e con una capienza più elevata, circa 1500-1600 posti in tutta Milano», spiega il presidente. Per l’ingresso è necessaria «un’intermediazione dell’assistente sociale e del mediatore culturale, poi uno screening sanitario».
Prima, però, bisogna convincere queste persone che è «molto più sicuro dormire in una struttura», conclude Furlan. La cosa triste dei mesi estivi «è che ci sono più morti tra le persone senza fissa dimora», spiega Cortese.
Da inizio 2022, secondo i dati della fio.Psd, ne sono decedute 393 (109 d’estate, 101 in autunno; 97 in primavera e 87 d’inverno). Quasi una al giorno. L’incremento è del 55% rispetto al 2022; dell’83% rispetto a tre anni fa. I servizi migliorano, ma non sono ancora sufficienti. «L’obiettivo – sottolinea l’esperta – è dare un’offerta continuativa, con una responsabilità programmata del Comune che non si può basare solo sul lavoro dei volontari, che giustamente d’estate vanno anche loro in vacanza, perché queste persone hanno bisogno di assistenza tutti i giorni».
Le politiche abitative e l’approccio emergenziale: la storia di Ahmed
Dentro la stazione di Porta Genova, nascosto tra i tralicci dell’alta tensione, vive anche Ahmed (altro nome di fantasia). È disteso, forse sta dormendo. Ha il volto e il corpo coperti da una grande cartone.
«Gli avevamo sistemato tutta quest’area e portato coperte, cuscini e tutto il necessario per rendere questo posto almeno un po’ “vivibile”», dicono i volontari. Ma il nubifragio gli ha portato via tutto. Con fatica, Ahmed si alza e con l’aiuto dei City Angels attraversa i binari chiusi della stazione. Entra nella doccia, ed esce “nuovo”. «Io vengo dal Marocco», dice. Alla domanda se ha fatto richiesta per una casa risponde «No, non so come fare, ma vorrei farla».
A livello pratico, gli homeless hanno diversi punti di accesso al sistema dei servizi. Ma vista la complessità e pure il disagio delle persone in strada «non si può pensare che basti dire: “Là a quell’orario c’è un punto di accesso, vai e iscriviti”», dice Moreschi dell’Osservatorio fio.Psd. Stiamo parlando di persone in alcuni casi «con gravi problemi psico-fisici – continua -, con livelli persecutori in alcuni casi importanti, con problemi di deambulazione».
E molto spesso i numeri delle persone in strada sono così alti da non riuscire a soddisfare tutte le richieste di accesso a una soluzione abitativa e a un percorso personalizzato. Nonostante queste problematiche «il fenomeno degli homeless – ribadisce l’esperto – non è immutabile» perché «le risposte – continua – sarebbero tante: dovremmo innanzitutto pensare che sia possibile garantire il diritto alla casa per tutti».
Eppure, la sfida dell’accoglienza sembra incagliata ancora in una logica di tipo emergenziale «che deve essere superata», dice Moresco. «Il concetto è spostare l’attenzione dall’intervento necessario, che è il dormitorio, a un intervento strutturale che va verso la presenza di soluzioni abitative il tempo necessario per uscire dalla condizione di bisogno». Ecco che allora, il “tetto sopra la testa” diventa così «il punto di partenza per poi integrare all’interno la possibilità di un intervento sociale, sanitario, lavorativo, laddove ci sono le condizioni, e un intervento reddituale che non sia solo quello lavorativo», conclude l’esperto.
Il processo migratorio nel vissuto degli homeless
Maria, Bayro, Olga, Nur e Ahmed sono stranieri. Nei servizi la componente di non-italiani «è molto rilevante», dice Moreschi (il 58% secondo la rilevazione Istat del 2015). Una popolazione che porta con sé «esigenze diverse di tipo sociale, economico o di salute, ma anche legate alla tutela dei diritti umani e internazionali», replica la responsabile fio.Psd.
L’intersezione tra migrazione e homelessness è visibile in occasione di grandi flussi legati a conflitti, pandemia, cambiamenti climatici e in coincidenza con tutte le riforme del sistema di accoglienza migratorio. In particolare, «l’inasprimento del conflitto siriano e l’aumento dei flussi migratori dalle rotte balcaniche, le vulnerabilità emerse nel corso della pandemia e, da ultimo, i profughi della guerra in Ucraina rendono più complesso il quadro», spiega Cortese. Siamo di fronte a persone «vulnerabili» che, oltre alla problematiche di povertà, salute fisica e magari psichica (vissuti post-traumatici), devono far fronte a condizioni giuridiche precarie e instabili.
«New comers (I nuovi arrivati) che non hanno la possibilità di ottenere nel Paese di arrivo regolare permesso di soggiorno che rischiano di alimentare il fenomeno degli overstayers, una collettività di irregolari che, pur avendo perso il titolo di soggiorno, permane nel Paese di arrivo in condizioni di vita precarie e insicure», conclude l’esperta.
La narrazione (sbagliata) degli «invisibili»
Ciò che abbiamo osservato in strada è, però, solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che ha numeri ben più elevati. Lì vediamo la parte più marginale, più isolata, più difficile da agganciare. Ma poi c’è tutta una popolazione che vive nei servizi e che deve essere aiutata a rientrare nel sistema. Ma si tratta, in entrambi i casi, di un fenomeno «invisibile» solo per chi si gira dall’altra parte. La realtà è sotto gli occhi di tutti, i numeri pure. Non è necessario avventurarsi nei quartieri più periferici della grandi città.
La narrazione sintetizzata da Marco Berry nel suo programma televisivo dei primi anni 2000 e dal titolo Invisibili non regge più. «È necessario un superamento del termine che è abbastanza un controsenso e ripropone cliché di lettura del tipo “sono persone che hanno scelto questa vita o non sono meritevoli di un aiuto perché non vogliono andare a lavorare”», dice Moresco. Esiste tutta una narrazione che è necessario superare e, secondo l’esperto, «smontare a colpi di contenuti». Quello che dovremmo rimettere sul tavolo della discussione è «un diritto di cittadinanza che non è legato al merito – conclude -, ma al fatto di essere cittadini anche laddove si è cittadini con problemi».
(da Open)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
I DUE EGO-LEADER COSTRETTI A STARE COMUNQUE INSIEME, PER DI PIU’ IN UNA PATTUGLIA PARLAMENTARE GUIDATA DA GIUSEPPE DE CRISTOFARO, ESPONENTE DI SPICCO DI SINISTRA ITALIANA
È passato appena un anno dal loro sodalizio elettorale e nel frattempo Calenda e Renzi si sono separati e riconciliati almeno cinque, sei volte. La loro intenzione è quella di divorziare: avrebbero dovuto farlo una decina di giorni fa, ma poi il leader di Azione ha anticipato la notizia ai giornali e Renzi, per non dargli soddisfazione, ha tirato il freno a mano e ha disdetto la conferenza stampa che avrebbe dovuto sancire la rottura.
Il dramma, come sempre nei divorzi, è il prezzo da pagare. In questo caso è uno scotto duro per entrambi: alle Europee da soli sia il leader di Azione che quello di Italia viva rischiano di non centrare il quorum. Perciò cercano appoggi altrove. Calenda interroga +Europa, che, però, dopo che il leader di Azione ha rotto con Emma Bonino alle elezioni politiche, ha il dente avvelenato con lui. Renzi guarda al centro (destra) ma Maurizio Lupi, che è più che pronto a stringere un’alleanza elettorale con il leader di Italia viva, è disposto a farlo solo a patto che Renzi dichiari pubblicamente che preferisce stare nel campo della maggioranza piuttosto che in quello dell’opposizione.
Dunque sia per Calenda che per Renzi l’addio non è esattamente a costo zero: il rischio è quello di ritrovarsi senza un partner (politico) e senza una casa (ossia, un gruppo parlamentare) in Italia e all’estero. Già, perché non c’è solo il problema europeo del 2024: al Senato, dove Italia viva ha più parlamentari di Azione, per fare gruppo a sé dovrebbe comunque chiedere una deroga a Ignazio La Russa, onde non finire nel Misto insieme ai calendiani. E questa sarebbe una nemesi per entrambi: Renzi e il leader di Azione costretti a stare comunque insieme e per giunta in una pattuglia parlamentare guidata da Giuseppe De Cristofaro, esponente di spicco di Sinistra italiana, il partito di Nicola Fratoianni.
Ieri i due ex (?) alleati hanno litigato sull’uso del simbolo. Renzi e Calenda litigano su tutto: dai finanziamenti ai gruppi, alla lista comune alle Europee, dal congresso al nome sul simbolo, ai convegni di Renzi in Arabia, alle dimissioni di Daniela Santanchè, dall’elezione diretta del premier al salario minimo. Per il divorzio, però, si attende la prossima puntata. E la prossima lite.
(da il Corriere della Sera)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
DALL’ARMENIA AL KIRGHISTAN, IL BOOM SOSPETTO DELL’EXPORT ITALIANO VERSO I PAESI VICINI ALLA RUSSIA
Quello tra il 2022 e l’inizio del 2023 è stato un periodo d’oro per le esportazioni italiane. Il Made in Italy, complice anche i prezzi in aumento, ha fatto segnare flussi record verso quasi tutti i Paesi del mondo. Alcuni di questi movimenti però, dalle parti di Bruxelles e di Washington, stanno accendendo più di un campanello di allarme. Perché gli aumenti sono molto sopra la media. Perché coinvolgono Paesi che storicamente non sono tra i primi partner commerciali dell’Italia o dell’Europa. E soprattutto perché quei Paesi sono accomunati da una caratteristica sensibile: sono tutti vicini, geograficamente e politicamente, alla Russia sotto sanzioni.
Il caso più eclatante è quello del piccolo Kirghizistan, verso cui le esportazioni italiane sono aumentate del 178% nel 2022 e dal 409% nel primo trimestre di quest’anno.
E aumenti fuori scala, con massimi storici superati di slancio, sono anche verso il Kazakistan (+67% sia l’anno scorso che quest’anno), la Georgia (+57% tra gennaio e marzo) e l’Armenia (+80% lo scorso anno, e ancora raddoppio all’inizio del 2023).
La spiegazione, avvalorata da un aumento paragonabile dei flussi da quei Paesi verso la Russia, è che attraverso queste rotte passino e poi arrivino a destinazione una parte dei container che prima venivano spediti direttamente a Mosca.
E il sospetto di Bruxelles e Washington è che all’interno ci siano anche alcuni beni sottoposti a sanzioni, come l’elettronica avanzata o le tecnologie ad uso duale, civile e militare, o i beni di lusso. Sanzioni che quindi il regime di Mosca starebbe riuscendo ad aggirare, con la connivenza di governi amici e quella, più o meno consapevole ma certo interessata, delle aziende italiane ed europee
Non solo Made in Italy
I dati mostrano infatti che il fenomeno non riguarda solo il Made in Italy, bensì tutte le imprese comunitarie. Prendiamo ancora il Kirghizistan: l’export Ue verso il Paese nel corso del 2022, primo anno del conflitto in Ucraina, si è impennato del 345%, sopra il miliardo di dollari. Quello tedesco, nel confronto tra i primi mesi di quest’anno e lo stesso periodo del 2019 è più che decuplicato. Sono dati che sui tavoli di Bruxelles e del governo americano circolano da qualche tempo e che spiegano perché il regime e i russi più facoltosi abbiano ancora accesso a prodotti internazionali che in teoria dovrebbero essere loro negati.
Nei mesi scorsi l’Europa ha organizzato diverse missioni diplomatiche nelle capitali coinvolte, per mettere pressione ai governi e convincerli ad intensificare i controlli.
Finora senza successo, raccontano gli ultimi dati disponibili: nessuno di quei Paesi vuole rompere con Mosca, principale partner commerciale e alleato, a cui li unisce una unione doganale con libera circolazione dei beni. Anche se ora sono gli Stati Uniti ad agitare il bastone, iniziando a sanzionare le imprese locali che aggirano i blocchi.
La via alternativa
Quanto è consistente questo fenomeno di aggiramento? Per capirlo bisogna passare dalle percentuali ai valori assoluti. Prendiamo solo i dati sull’export italiano: nel 2022 il commercio verso Mosca è sceso da 7,7 a 5,8 miliardi, cioè di un miliardo e 900 milioni di euro, mentre quello verso Armenia, Georgia, Kazakistan e Kirghizistan è salito in totale di mezzo miliardo di euro. Una sostituzione solo parziale quindi, per quanto consistente. Ma che, dato interessante, pare cresciuta nei primi mesi del 2023, come se sempre più aziende scoprissero la via alternativa: a fronte di 204 milioni “persi” verso la Russia, il Made in Italy ne ha guadagnati 260 milioni verso quei quattro Paesi.
Più complesso è dire se lì dentro ci siano o meno beni sottoposti a sanzioni, e in che parte. E’ probabile infatti che una buona parte di quel commercio sia composto da prodotti leciti, ma deviati per necessità o precauzione, magari perché il cliente o l’importatore russo non possono più pagare in dollari e operano quindi attraverso un partner kirghiso o kazako. La prima voce, ed anche quella che aumenta di più, sono in tutti e quattro i Paesi i macchinari, fiore all’occhiello del Made in Italy nel mondo. Una grande famiglia che potrebbe contenere sia tecnologie lecite che altre sanzionate, perché utilizzate in industrie colpite dai blocchi come quella energetica o quella militare. Stesso discorso per la seconda grande voce, l’abbigliamento e la pelletteria, settore per cui la Russia è un mercato importante: è vietato l’export di abiti e scarpe di lusso, non degli altri. E un ragionamento analogo si può fare per altre voci ricche come elettronica, chimica e mezzi di trasporto, che per esempio per la Germania è la principale.
Per le aziende europee e quelle italiane vendere a un compratore kirghiso, kazako o georgiano è ovviamente lecito. In teoria non sono tenute a sapere dove quei prodotti andranno a finire. Ma la situazione potrebbe cambiare se gli Stati Uniti e l’Europa inizieranno a sanzionare anche le imprese di quei Paesi. O se le loro minacce spingeranno i governi dei Paesi centroasiatici a tenere gli occhi più aperti, cosa che per esempio l’Armenia ha detto di voler fare. L’alternativa, per l’Occidente, è lasciare che buona parte del commercio verso la Russia continui ad arrivarci. Per vie traverse.
(da agenzie)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
GLI “HATTERS” SONO TORNATI NELLA PRIMA DIVISIONE A 31 ANNI DALL’ULTIMA VOLTA: LA SQUADRA INCARNA LO SPIRITO DELLA CLASSE OPERAIA BRITANNICA…LO STADIO SI TROVA IN MEZZO ALLE CASE E PER ACCEDERVI BISOGNA PASSARE IN MEZZO ALLA BIANCHERIA STESA DEI RESIDENTI
La classe operaia è appena salita nel paradiso della Premier League, senza petrodollari. Eppure tutti scommettono che il Luton Town Fc finirà ultimo quest’anno per risprofondare nell’inferno della Championship. «Invece vogliamo sconvolgere il mondo», ci dice il capitano gallese Tom Lockyer, 28 anni, che i suoi allenatori si sono azzardati a paragonare a Franco Baresi («ma io non l’ho mai visto giocare! ») e che alla finale spareggio del 28 maggio scorso contro il Coventry a Wembley, Lockyer ha un malore, nella partita più importante della sua vita. Fibrillazione atriale. Intervento chirurgico. Di nuovo arruolabile. «Mi sono sentito con Christian Eriksen», che due anni fa rischiò di morire in campo per un arresto cardiaco, «mi ha dato tanta forza e fiducia parlare con lui».
L’allenatore Rob Edwards, a soli 40 anni, incarna un altro scherzo del destino: fino al settembre 2022 era l’allenatore del Watford, poi l’esonero dopo dieci partite e tre vittorie. Dopo qualche giorno passa agli acerrimi rivali del Luton e terzo posto, playoff, promozione.
«È avvenuto tutto così in fretta che persino i tifosi devono ancora rendersene conto», spiega a Repubblica Rob Hadgraft, giornalista e “storico” del Luton Town, «nove anni fa il club era precipitato nel calcio non professionistico, ora abbiamo scalato la vetta del calcio inglese grazie a un grande spirito di squadra, una gestione societaria sana e acquisti azzeccati. Bastano solo 39 punti per salvarsi, una vittoria al mese. Ce la possiamo fare».
Eppure il Luton, nonostante la storica promozione e circa 100 milioni di incassi di diritti tv, sinora ha ingaggiato carneadi e qualche speranza come i “quinti” di fascia Ryan Giles, Issa Kabore (ottima stagione a Marsiglia) e Ross Barkley, ex Chelsea.
Il Luton è una squadra arcaica e ferale: 5-3-2, solo il 35% di possesso palla l’anno scorso, costruzione dal basso esecrata, ma pressing asfissiante e ben 426 palle rubate nella metà campo avversaria, record in Championship.
Peccato che almeno fino a settembre il Luton, primo club professionistico dell’Inghilterra meridionale nel 1897, non potrà giocare nel suo incredibile e fatiscente stadio di casa, il Kenilworth Road del 1905 da 10 mila posti. Lo stanno ammodernando in fretta e furia per essere omologato per la Premier. Lo stadio è un tetris incastrato tra le case, con i cancelli tra una porta e l’altra dei residenti, in un quartiere a stragrande maggioranza musulmana e asiatica
Per una volta, intorno a uno stadio inglese, non c’è neanche un pub, per chilometri.
«Ma in quel quartiere working- class l’alcol non c’è mai stato », ci spiega Roger Walsh, 71 anni, nato e cresciuto in queste strade e massimo esegeta del Luton. Al Kenilworth le sedie sono troppo piccole per stare seduti, quindi tutti in piedi: «Gli avversari si spaventano», ci racconta David, nato 64 anni fa nel giorno della sconfitta del Luton in finale di FA Cup contro il Nottingham Forest, la più grande delusione del club consolatosi con la Coppa di Lega nel 1988.
«Li voglio proprio vedere i giocatori del City e dell’Arsenal nella nostra bolgia…». Anche per questo, qualcuno bolla i tifosi del Luton tra i più aggressivi d’Inghilterra
Del resto, questo è il club più autentico e anacronistico della Premier. Solo 25 milioni di euro spesi quest’anno, mai un debito negli ultimi decenni, una passione viscerale. Insomma, la nemesi del calcio di oggi dominato da soldi e proposte indecenti. «Forse anche per questo siamo qui», ci dice l’allenatore Edwards, «per dimostrare che nel calcio contano ancora gli esseri umani».
(da La Repubblica)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
GLI SFOLLATI SONO MIGLIAIA, LA CITTÀ DI LAHAINA, NELL’ISOLA DI MAUI, È COMPLETAMENTE RASA AL SUOLO
Il bilancio delle vittime dei devastanti incendi che hanno colpito le Hawaii è destinato ad aumentare “in modo molto significativo”.
Lo ha detto il governatore delle isole, Josh Green, alla Cnn. “Nel 1960, 61 persone sono morte quando una grande onde ha attraversato Big Island. Questa volta, è molto probabile che il totale delle vittime supererà di molto questo numero”, ha detto il funzionario. I morti finora sono 36, tutti nella città di Lahaini che è stata praticamente rasa al suolo.
È salito a 53 il bilancio delle vittime dei devastanti incendi che hanno colpito l’isola di Maui, alle Hawaii.
La maggior parte delle persone morte si trovavano nella storica città di Lahaina che secondo le autorità locali è stata “distrutta”. In tutta l’isola è stato dichiarato lo stato d’emergenza e tutti i viaggi verso questa popolare destinazione turistica sono stati sconsigliati.
Le autorità della contea di Maui hanno registrato “altri 17 morti oggi, il che porta il bilancio delle vittime a 53”. Quanto a Lahaini, circa “l’80%” della città è stato distrutto, “come se fosse stata colpita da una bomba, ha detto il governatore delle Hawaii, Josh Green. Sono oltre 1.770 gli edifici distrutti nella popolare meta turistica.
Bruciano le Hawaii. Le fiamme di tre incendi alimentati dai forti venti dell’uragano Dora hanno trasformato in inferno il paradiso di Maui, la seconda isola più grande dell’arcipelago. Grave è il bilancio provvisorio del disastro […]. Incalcolabili i danni. Inevitabile lo stato di emergenza dichiarato dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.
Lo scrittore americano Mark Twain era solito parlare delle Hawaii come di una terra, emersa «a metà del cielo» dalla pancia di un vulcano sottomarino, «dimenticata dal Giudizio Universale». Lo scenario in cui è piombato l’isolotto dell’Oceano Pacifico, a quasi 4mila chilometri dalla costa californiana, è da fine del mondo. A Maui i roghi sono cominciati martedì: in neppure 24 ore sono diventati indomabili.
La storica cittadina di Lahaina, tra le zone del versante occidentale più colpite, è stata quasi completamente rasa al suolo. Residenti e turisti sono stati evacuati e portati in salvo nei centri di accoglienza allestiti nelle scuole, nelle chiese e nelle sale conferenze dei centri risparmiati dalle fiamme. Tra gli sfollati anche la sindaca di San Francisco, London Breed. Adulti e bambini sono stati visti tuffarsi in mare per sfuggire al fuoco ed essere poi recuperati dalla Guardia Costiera. Paura e distruzione anche a Upcountry e Pulehu. Minori i focolai registrati a Big Island, l’isola più grande dell’arcipelago. Decine di migliaia di persone sono rimaste senza corrente e acqua potabile per i danni procurato agli impianti.
Come è potuto succedere? Gli incendi sono sempre più frequenti nell’ovest degli Stati Uniti perché l’innalzamento delle temperature rende i terreni più aridi quindi più esposti al rischio combustione. Clay Trauernicht, ricercatore in agricoltura tropicale all’Università di Hawaii, ha spiegato al New York Times che il suolo delle isole hawaiane è diventato ancor più stepposo con la scomparsa delle colture di ananas e canna da zucchero. Complice del disastro è stato l’uragano Dora che agitava il Pacifico a più di mille chilometri a sud di Honolulu e che ha accelerato i venti approdati sull’arcipelago a nutrire le fiamme. È così che il paradiso esotico è diventato un inferno. Tra le macerie di Lahaina, ieri, alle prime luci dell’alba, un residente si aggirava disperato: « Abbiamo ancora cadaveri nell’acqua che galleggiano ». Per la comunità locale, è la sintesi di Richard Bissen, sindaco di Maui, è l’ora di un «lutto inconsolabile»
(da agenzie)
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Agosto 11th, 2023 Riccardo Fucile
“IN EUROPA E’ LEGGE IN 22 PAESI SU 27, IN GERMANIA E’ STATA INTRODOTTA DALLA MERKEL”… “HA GENERATO UN AUMENTO DEI SALARI DEL 15% E LA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE”
Schlein spiega che il salario minimo non taglia le retribuzioni: «Al contrario, le livella verso l’alto. Perché allarga a tutti la retribuzione complessiva stabilita dai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi».
Ovvero «Chi oggi guadagna 5 euro l’ora ne guadagnerà almeno 9, ma chi ne prende 12 continuerà a prenderli. E anzi li prenderà anche chi lavora nello stesso settore ma non è coperto dal contratto più rappresentativo. In questo modo, si contrastano anche i contratti pirata».
I contratti pirata
Anche la leader Pd critica i contratti firmati da sigle poco o nulla rappresentative: «E che fanno concorrenza sleale, aiutando imprese che intendono aumentare la produttività sfruttando fino all’osso i lavoratori. Da un’analisi del Cnel, risulta che su un migliaio di contratti collettivi solo il 22 per cento sono firmati da Cgil, Cisl e Uil, cioè i sindacati comparativamente più rappresentativi».
E quando Francesca Schianchi su “La Stampa” le ricorda che Antonio Tajani ha parlato di proposte da Unione Sovietica, replica: «Temo debba ripassare la cartina d’Europa. È presente in 22 Paesi su 27, come la Germania, dove l’ha introdotto, guarda un po’, Angela Merkel. Ha fatto registrare l’immediato innalzamento dei salari di circa il 15 per cento e la crescita dell’occupazione anche tra lavoratori meno qualificati. È necessario anche da noi, per contrastare quel lavoro povero che il governo continua a negare».
(da agenzie)
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