Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
“MA LA COSTITUZIONE E’ COSA DI TUTTI”
La trimurti governativa – premierato, autonomia, giustizia – rischia molto: le firme per il referendum contro la legge Calderoli sono state raccolte in dieci giorni. Un tempo record, un messaggio al governo. Con Gustavo Zagrebelsky ragioniamo di un’ansia riformatrice che può trasformarsi in un boomerang per il governo.
Professore, è colpito dal numero di firme contro l’autonomia in un tempo così rapido?
Sì. Mi pare che non sia mai successo qualcosa di simile. Non è questione di schieramenti politici. È che la Costituzione travalica i partiti quando si mettono d’accordo trattandola come merce di scambio. Un pezzo a te e un altro a me. Ma la Costituzione non è “cosa loro”, è “cosa di tutti”. La sollecitudine dei cittadini nel segno di questo sentimento costituzionale fondamentale è un segnale di maturità democratica.
I difensori dell’autonomia differenziata dicono che semplicemente la loro proposta attua la Carta.
Attuare significa mettere in atto, eseguire qualcosa che già è decisa. La Costituzione non obbliga, consente, a Regioni con caratteristiche proprie di chiedere maggiori poteri in rapporto alle loro specificità. Qui è diverso. È un abuso per dividere. Tra le materie in discussione ve ne sono alcune che richiedono uniformità, soprattutto quando si tratta di diritti fondamentali come la sicurezza, la salute, o l’uguale libertà nell’istruzione e nella cultura; oppure altre, come i trasporti e i rapporti internazionali che condizionano l’economia di tutto il Paese, dunque il lavoro e l’iniziativa economica. Solo pochi anni fa, al tempo del covid, si deplorava l’eccesso di poteri delle Regioni; oggi se ne vogliono dare ancora di più. C’è una coerenza? Purtroppo sì, e sta in un disegno di divisione dell’Italia che risale indietro nel tempo, quando si teorizzava l’esigenza di svincolare i territori ricchi e dinamici dal fardello di quelli arretrati, per consentire ai primi di correre più velocemente dei secondi. Ricchi e poveri, gli uni ancora più distanti dagli altri.
Si parla continuamente di Nazione: non la stupisce che chi tanto la invoca abbia sostenuto una norma contraria al principio di solidarietà nazionale?
Solidarietà è parola costituzionale: doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il responsabile in solido con un altro è tenuto ad assumere su di sé un onere, rinunciando a qualcosa di proprio per aiutarlo. Così una parola un poco melensa e sentimentale, diventa piena di contenuto politico. L’autonomia differenziata è il contrario. I lep (i livelli essenziali di prestazioni validi su tutto il territorio) – posto che si riesca a definirli, il che è dubbio – non parlano affatto di solidarietà, ma di limiti minimi all’indifferenza, alla noncuranza dei forti nei confronti dei bisogni dei deboli.
Veniamo al premierato: qualche suo autorevole collega dice che la forma di governo deve essere messa in discussione per superare un sistema che ai vincitori delle elezioni non permette di governare. Sarebbe stato pensato dall’Assemblea costituente per la “paura del tiranno”. Quindi, per questo abbiamo una Costituzione che non fa vincere nessuno.
Perché? Le elezioni devono necessariamente servire a “far vincere” qualcuno?
Domanda sorprendente.
Le rappresentazioni della democrazia come guerra politica dovrebbero fare paura soprattutto in questo momento storico.
Paura?
Si guardi intorno. La democrazia come regime della concordia è in crisi. Se non c’è un minimo di concordanza sulle cose essenziali, non c’è da avere paura?
L’essenziale non lo troviamo nella Costituzione?
Dovremmo trovarlo. Ma, per l’appunto, si vuole cambiarla e, così, da ragione d’intesa diventa terreno di scontro. C’è una logica in ciò che accade e, a mio parere, è una logica perversa, per l’appunto pericolosa. Ogni riforma della Costituzione deve essere vista nel suo tempo. Viviamo un tempo di contrapposizioni radicali, irrimediabili, difficilmente gestibili. I problemi sono tanti, mai così ardui quanto oggi. Di fronte alle difficoltà, la democrazia come regime della pacificazione è in crisi. Non è vero che i pericoli uniscono. Piuttosto dividono. Guardi gli Usa, il sud-America, la Francia, l’est dell’Europa, eccetera. Perfino gli esiti elettorali, se non piacciono, si contestano: “Se perdiamo ci sarà la guerra civile”, s’è detto in attesa delle elezioni presidenziali americane. Anche da noi, in un passato recente, c’è stato un tentativo di disconoscere la legittimità delle elezioni. Nel momento in cui se ne mette in discussione la validità inizia la guerra civile, la guerra dell’odio che si combatte con ogni mezzo, non necessariamente con le armi. Le macchine del fango, le notizie infamanti inventate, i servizi segreti deviati, i dossier, i ricatti. Un clima d’odio è denunciato da ogni parte. L’Italia sotto una crosta pacioccona è un Paese tragico: dimentichiamo, non osiamo evocare l’epoca degli attentati, delle stragi di Stato, dei tentati golpe. Eppure sono lì e i responsabili maggiori stanno ancora nell’ombra.
Perché queste fosche idee le vengono in mente a proposito di “premierato”?
La riforma, per quanto sgangherata, ha però il suo perno e lì trova la sua essenza. È l’elezione diretta. Non importa di chi. All’inizio, del presidente della Repubblica. Poi, data l’indiscussa popolarità di Sergio Mattarella che è di ostacolo, si è ripiegato sul presidente del Consiglio. Dal “presidenzialismo” si è passati al “premierato” elettivo. Due cose diverse. La seconda, un ibrido, è un ripiego. Ma ciò che importa ai riformatori è che ci sia un’elezione diretta, cioè la chiamata degli elettori a schierarsi o di qua o di là, in due fronti contrapposti. Siccome chi propone una riforma non lo fa certo per gli altri e contro di sé, al fondo della riforma c’è la speranza e la previsione di trarne vantaggio, cioè di “vincere”. Per di più: di “vincere tutto”. “Ora prendiamo tutto”, versione attuale del non dimenticato “non ci saranno prigionieri”. Questo ho udito all’esito delle ultime elezioni. Lo stanno già facendo e ancor meglio lo potrebbero fare con la Costituzione che hanno in mente. La posta in gioco è alta e, più cresce più aumenta l’intensità del conflitto politico. Se è “tutto”, a tutto si è disposti. Non le pare che sia così?
Quale idea oppone alla “democrazia dei vincitori”?
Al di là delle formule, lo scontro sul premierato è giustificato da due visioni della politica, l’una autoritaria, l’altra partecipata. Con due immagini, si può dire così: la politica è la conquista del potere e il potere di chi ha “vinto” scende dall’alto e si stende sulla società, sugli individui e i loro diritti, le loro diverse articolazioni, economiche e culturali, associazioni, partiti, sindacati. Insomma, un potere conformativo, per non dire repressivo, a cascata, dall’alto verso il basso. La politica partecipata, all’opposto, si muove dal basso e procede verso l’alto; è come una corrente alimentata da tante bolle sorgive che confluiscono e producono energia, ciascuna secondo la propria consistenza. La legge è la risultante; la politica è l’arte non del comando, ma della sintesi. La democrazia del vincitore è bella perché è semplice; la democrazia della sintesi è ancor più bella perché è difficile, complicata, faticosa. E chi teme l’arrivo dei vincitori – quali che siano le loro bandiere – per nulla paradossalmente la preferisce proprio per questo.
Tuttavia, la forma di governo attuale è criticata proprio perché complicata.
Una cosa è l’abolizione delle complicazioni inutili. Un parlamento autonomo e rappresentativo, non appiattito sul premier come sua propaggine, nella politica del vincitore è un orpello inutile, ma non lo è affatto nella democrazia partecipata.
Dicono che i governi in Italia sono deboli, durano troppo poco e, così, vivono nel giorno per giorno, senza prospettive di lunga durata. Non è vero?
Se è così, e non sempre è così, ciò non dipende dalle regole giuridiche. Di fatto, il governo in Italia dispone di strumenti che gli consentirebbero quasi quello che vuole. Vogliamo ricordare i decreti legge e la questione di fiducia che si pone a tutto spiano azzerando le discussioni? Le ragioni dell’instabilità del governo sono intrinseche all’eterogeneità e alle contraddizioni delle coalizioni che lo sostengono. A ben vedere, il premierato non mira affatto a umiliare le opposizioni. Non ce n’è bisogno, è già così. Mira invece a esaltare il capo e umiliare i partiti diversi da quello del premier che stanno nella maggioranza. Sembra che non se ne accorgano e vadano giocondamente al macello.
Che cosa pensa della costituzionalizzazione del premio di maggioranza?
A essere precisi dovremmo dire che il premio di maggioranza è un premio di minoranza: si vuol dare un regalo a una minoranza che non è riuscita a diventare maggioranza con le sue forze. Poiché il numero dei deputati e dei senatori è fisso, il premio di maggioranza – quale che sia- non è solo un’aggiunta, ma è anche una sottrazione. I seggi dei deputati sono 400: se ne assegni 50 in più a una parte, li devi sottrarre alle altre. Sarà anche vero che qualcosa di simile esiste altrove, però come premio senza sottrazioni, ma è comunque una profonda ingiustizia, oltre che un incentivo a salire sul carro del probabile beneficiario, per partecipare alla festa.
Ai trucchi elettorali dobbiamo aggiungere il tasso di astensionismo sempre più alto: una catastrofe democratica.
È così. Vediamo che, a parte qualche deplorazione nell’immediato, non ci si preoccupa. Non si vuol vedere che cosa c’è in questa massa magmatica. Potrebbe essere una brutta sorpresa venire a saperlo. Con parole d’ordine rozze, violente e pericolose qualche demagogo potrebbe mobilitarla. Sotto questo aspetto, per paradosso, l’astensionismo è perfino una fortuna. Però, non si pensi di combatterlo con riforme elettorali. Chi non vota ha le sue ragioni o non-ragioni che dipendono non dalle regole elettorali, ma dalla speranza che gli uomini e le donne della politica sanno o non sanno dare agli elettori ai quali si propongono. Gli elettori distinguono chi fa della politica una professione nel proprio interesse e chi fa politica (almeno anche) nell’interesse di coloro ai quali chiedono il voto.
Come tanti astenuti, anche lei è perplesso, professore?
Certo che sì. Amiamo i perplessi. Solo che le perplessità devono essere momenti di passaggio alle convinzioni, devono cioè essere stimoli positivi. Altrimenti sono astenie, pericoli mortali per la democrazia.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
SPESE ALTE E POCO TRAFFICO (UN TERZO DEL PREVISTO) PER UN’OPERA INUTILE
Nei giorni scorsi la Brebemi, l’autostrata Brescia-Bergamo-Milano, ha reso noto i numeri contenuti nella chiusura del bilancio 2023. A fronte del tono enfatico del concessionario che ha parlato di ripartenza e di boom di Tir i dati confermano una pesante situazione finanziaria. Nel 2023 l’azienda chiude per il dodicesimo anno consecutivo in perdita con un passivo di 66,1 milioni. Complessivamente dal 2012 ad oggi ha maturato 560,7 milioni di euro di passivo.
Le tariffe della Brebemi sono più che doppie rispetto agli altri concessionari autostradali. Brebemi è l’unica autostrada che le ha sempre aumentate negli ultimi anni. Sarebbe invece opportuno ridurle per aumentare il traffico ed evitare così che questa autostrada resti una grande opera inutile per diventare un’opera di utilità pubblica dopo aver consumato 900 ettari di suolo agricolo e attivato un mutuo con risorse pubbliche (Bei e Cdp) di 2,4 miliardi di euro che è ancora tutto da pagare.
A 10 anni dalla sua apertura i risultati di traffico sono ancora deludenti e la situazione finanziaria della concessionaria resta vicina al fallimento. Brebemi si è costruita su un presupposto falso: l’autostrada si sarebbe dovuta fare in project financing, cioè con finanziamenti privati, e si sarebbe dovuta ripagare coi proventi dei pedaggi. Il traffico della A35 è però di 45mila veicoli giornalieri, come una strada provinciale: secondo le previsioni del Piano economico finanziario doveva essere di 120 mila mila veicoli giornalieri a regime. La Brebemi doveva decongestionare la vicina A4 Milano-Brescia, che invece continua a crescere: vi transitano quasi 120 mila veicoli giornalieri. Il suo costo era stimato in 800 milioni che sono raddoppiati a 1,6 miliardi durante la costruzione e diventati 2,4 miliardi con il costo degli interessi del mutuo contratto da banche pubbliche, la Bei e la Cassa depositi e prestiti, visto che sul mercato finanziario privato nessuno ha messo un euro.
Per giustificare l’A35 – ora in mano alla Regione Lombardia attraverso Apl (75%) e partecipata al 25% dagli spagnoli di Aleatica – gli enti locali del territorio tra Milano, Bergamo e Brescia avevano fatto previsioni di costi sottostimate e più che ottimistiche previsioni di traffico. Partita con 20 anni di concessione, a 4 anni dalla sua apertura, nonostante gli aiuti pubblici di 320 milioni scattati nel 2015, per salvarla dal fallimento la Regione Lombardia chiese ed ottenne il prolungamento della concessione di 6 anni (da 19,5 a a 25,5) e una nuova opera non prevista dal progetto (l’interconnessione con l’A4 vicino a Brescia) col solo risultato di portare da 900 a 960 gli ettari di suolo agricolo consumato e di aumentare i costi di altri 60 milioni.
Oggi, nonostante le recenti dichiarazioni del direttore di Brebemi, la situazione finanziaria resta fallimentare nonostante il Pef 2023, approvato dall’Autorità di settore, preveda quale principale misura di riequilibrio una nuova estensione della durata della concessione di sette anni, fino al 31 dicembre 2046. È la stessa Deloitte, che certifica il bilancio 2023, a scrivere un “richiamo di informativa” da portare all’attenzione dei destinatari del bilancio. In sintesi Deloitte ricorda agli amministratori che la riserva negativa per coprire i flussi finanziari attesi, 184 milioni, non deve essere considerata nel computo del patrimonio. E che l’effetto della perdita d’esercizio di 69 milioni milioni comporta il superamento del limite stabilito dal codice civile: siccome la società è tenuta a mantenere il patrimonio netto non sotto i 100 milioni ricorrerà a nuovo debito per 69 milioni per adempiere a quanto disposto dalla legge.
Nel 2022 si era conclusa la gestione dell’ex democristiano Francesco Bettoni, ideatore, realizzatore e gestore della lunga e costosa storia della Brebemi. Ora la concessionaria, pur rimanendo sotto il controllo della Regione Lombardia, è garantita da risorse pubbliche sia regionali che statali: è questo il decentramento che piace agli autonomisti, “io sbaglio e tu Stato paghi”. Con la partecipazione in mano ad Aleatica controllata del Fondo investimenti (Ifm) gli spagnoli entrano nel mercato italiano con un investimento a lungo termine, con le perdite garantite dal pubblico, ma non privo di prospettive diverse dal business autostradale. Dato che i tradizionali extraprofitti derivanti dalle rendite di posizione delle concessioni autostradali si sono rivelati impossibili per Brebemi, ad Aleatica interessa entrare nel cuore del mercato (selvaggio) della logistica italiana, cavalcare sia la prospettiva immobiliare che le piattaforme logistiche.
(da agenzie)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
CON LA RICETTA SEGRETA INVENTATA DA SUO NONNO, HA PORTATO AL SUCCESSO NEL MONDO L’IMPRESA DI FAMIGLIA, NOTA CON BRAND COME FELCE AZZURRA … ALL’AVANGUARDIA NEI DIRITTI DELLE LAVORATRICI: DA DECENNI UN ASILO NIDO IN AZIENDA
Era il profumo dei boomer da piccoli, la bianca nuvola di talco che circondava mamma come un’aureola: Felce Azzurra Paglieri, “basta la parola”, come il confetto Falqui o la Brillantina Linetti. Ma dietro quell’aroma c’era un naso, e dietro quel naso un uomo, Mario Paglieri il profumiere. Se n’è andato a 91 anni: era il patriarca, ma soprattutto il custode di segreti che durano da un secolo e mezzo, in particolare della misteriosa ricetta inventata da nonno Ludovico, trascritta da papà Luigi e protetta da lui, Mario.
Nella cassaforte di famiglia c’è ancora il vecchio quaderno dove Luigi Paglieri aveva copiato in bella scrittura l’intuizione del padre, e che per una settantina d’anni ha guidato Mario Paglieri, che aveva fiuto non solo per i profumi.
Classe 1933, laurea in chimica a Genova, apprendistato a Ginevra, poi quel dono messo a disposizione degli affari di famiglia, nella fabbrica alessandrina diventata leader mondiale con oltre 200 milioni di fatturato, all’avanguardia per i servizi alle madri lavoratrici, per decenni la stragrande maggioranza del personale: un asilo nido direttamente in azienda, dove deporre i pargoli prima di andare al lavoro, naturalmente dopo una bella passata di borotalco.
Mario Paglieri si vantava di distinguere con una sola sniffata la lavanda dal “lavandino”, che è la parte meno nobile dell’essenza. «Vado tutti i giorni in laboratorio, annuso, seleziono, doso gli ingredienti ed è come ricominciare ogni volta da capo» raccontava, orgoglioso
La storia del formidabile naso di Mario, all’opera dagli anni Cinquanta al 2020, non è soltanto una gloriosa epopea familiare (la ditta venne fondata nel 1876, la magica ricetta risale al 1926), ma un piccolo riassunto del costume nazionale.
Felce Azzurra fu infatti tra i protagonisti di Carosello, piccoli spot con Ornella Vanoni, Mina e il Quartetto Cetra. Tutto ruotava attorno alla cura del corpo, a quel tempo solo femminile: un malizioso manifesto del disegnatore Gino Bocassile, che ritraeva un seno prosperoso, nel 1946 venne prontamente ritirato da un giudice bacchettone, e questa fu la prima e più clamorosa “réclame” per la felce color del cielo.
E poi il bucato: saponi, saponette, bagnoschiuma, detersivi, ammorbidenti, tutti i prodotti nati nella scia del talco, purissimo e proveniente dalle miniere della Val Chisone, il capostipite di una gigantesca fortuna. Ne sanno qualcosa intere generazioni di sederini di bimbi impanati come sogliole dopo il bagnetto, e sempre quell’aura dolciastra a impregnare l’aria: dal naso direttamente al cervello, perché è così che odori e profumi ci trafiggono come frecce, percorrendo la stessa strada del respiro e dell’aria, dunque della vita.
(da la Repubblica)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
SONO 25 ANNI CHE IL REGIME SUBISCE IL DISCREDITO DEGLI USA PER INTERESSI ECONOMICI
Ci risiamo con Nicolás Maduro. Il presidente venezuelano è stato riconfermato nelle recentissime elezioni con il 51% dei voti a favore. Naturalmente si è scatenata la solita ridda di reciproche disinformatie: gli oppositori di Maduro contestano la regolarità delle elezioni, non solo quelli interni ma in pratica quasi tutti i media occidentali. Per l’Occidente Maduro è un dittatore, punto e basta. Devo dire che ho parecchi dubbi su questa narrazione occidentale fortemente influenzata dagli Stati Uniti che vedono di cattivissimo occhio il tentativo di impiantare in Centro e Sud America il cosiddetto “socialismo bolivariano”.
E qui bisogna fare un lungo passo indietro. Il “socialismo bolivariano” si richiama al venezuelano Simón Bolívar, che alla fine del Settecento aveva avuto l’idea di creare una “Grande Colombia” che radunasse la maggior parte dei Paesi latinoamericani. Dal punto di vista sociale l’idea era semplice quanto complessa: cercare di tagliare le unghie alle classi dominanti che detenevano il potere economico e politico e puntare verso una più ragionevole uguaglianza sociale. Insomma un programma socialista come dice la parola stessa. Nel frattempo però erano avvenuti grandi cambiamenti a livello geopolitico ed economico. Il Venezuela se la cavava abbastanza bene perché nell’Ottocento era, insieme ad Argentina e Brasile, uno dei maggiori esportatori di carne del mondo. Ma nel frattempo la base della ricchezza non era più nell’esportazione di carni ma nel petrolio di cui il sottosuolo è ricco. Col petrolio si scatenarono sul Venezuela gli appetiti di tutti i Paesi industrializzati. Il Venezuela fu travolto da questa nuova situazione e del “socialismo bolivariano” non si parlò più. L’idea fu ripresa nel 1999 da Hugo Chávez, da qui il termine “chavismo”, un militare che godeva in Venezuela di grande prestigio. Morto Chávez per tumore il potere passò a Maduro, ex autista di autobus e sindacalista. Poiché Maduro non aveva il prestigio di Chávez gli americani pensarono di servirsi di un certo Juan Guaidò, chiamato dalla stampa occidentale “il giovane e bell’ingegnere” per contrapporlo alla rozzezza di Maduro. Tentarono, attraverso Guaidò, un colpo di Stato che fallì miseramente perché Guaidò non aveva una base sufficiente né fra le élite né tanto meno fra il popolo. Guaidò fu incarcerato e quasi subito liberato rifugiandosi in Nicaragua. Ora voglio vedere in quale Paese, anche dell’Europa democratica, uno che ha tentato un colpo di Stato può cavarsela così facilmente. In Spagna gli indipendentisti catalani, a cominciare dal loro leader Puigdemont, per avere dichiarato l’indipendenza della Catalogna, sono stati arrestati e incarcerati per 7 anni mentre Puigdemont è tuttora esule in Belgio. Proprio negli ultimi mesi in Spagna, sotto la presidenza del socialista Pedro Sánchez, si sta cercando di risolvere l’antichissima questione catalana.
Affermare perciò che Maduro è un dittatore tout court mi sembra difficile. Il fatto è che ha l’ostilità di tutti i Paesi, e i media al loro servizio, legati ai gringos come chiamano da quelle parti gli americani. Maduro ha l’appoggio di Cuba e soprattutto del Brasile governato da Lula da Silva che fu estromesso dal potere con accuse di corruzione poi rivelatesi del tutto infondate. In occasione della sua rielezione Maduro ha affermato che è in atto un complotto della destra mondiale per fare piazza pulita di ciò che rimane del socialismo in Centro e Sud America. In questo senso va il successo in Argentina di Javier Milei, un iperliberista che vuole fare piazza pulita di qualsiasi welfare e ha definito il socialismo parente stretto del demonio includendo nell’anatema Papa Bergoglio.
Il problema adesso è vedere se Lula, Maduro, e i pochi alleati che hanno in Sud America, compresa la Cuba castrista, riusciranno a resistere a questo ritorno in forze delle destre internazionali. In un articolo del 30.07, tutto di parte, Il Giornale riusciva a mettere tra “i maledetti” l’incolpevole Che Guevara. La storia del Che la conosciamo benissimo: medico argentino andò a combattere a Cuba unendosi ai castristi. Quando si rese conto che il castrismo deviava verso la dittatura lasciò il Paese per andare a combattere una disperata battaglia di libertà in Bolivia, dove venne ammazzato. Ma prima di dare addosso a Castro e al castrismo, bisognerebbe ricordare cosa era Cuba prima della vittoria della Rivoluzione. Governava Batista che aveva fatto di Cuba una sorta di casinò a uso e consumo dei ricchi americani. Certo a Cuba c’è oggi una dittatura, ma a chi altri potrebbe appoggiarsi il “socialismo bolivariano” che ha l’ostilità dell’intero mondo occidentale, compresa la democratica Europa?
Nel recente forum economico mondiale di Davos Milei è stato ricevuto con tutti gli onori esprimendo le sue idee iperliberiste a anti-socialiste, definendo il socialismo una sorta di “Male Assoluto”. Né bisogna dimenticare che durante la recente pandemia una cinquantina di medici cubani venne in Italia per darci una mano. Insomma la solidarietà per i cubani non è solo un’idea astratta. A Cuba la scuola è gratuita e la sanità anche. Conosco un ragazzo cubano, Ramiro, che è venuto via da Cuba non a causa del regime ma per ragioni personali e che oggi gestisce un locale abbastanza elegante a Milano: ha una cultura di prim’ordine e con lui si può parlare di tutto perché è una persona open-minded. Naturalmente il regime castrista soffre le deficienze di tutti i regimi dittatoriali, case sfasciate, territorio abbandonato a se stesso, desolazione, un po’ come era ai tempi dell’Urss che ho fatto in tempo a vedere. Ma per me che sono un socialista libertario da sempre – ed è bene ricordare che il socialismo si differenzia dal comunismo perché cerca di raggiungere una ragionevole uguaglianza sociale senza comprimere i diritti civili –, se devo scegliere fra il pur imperfetto “socialismo bolivariano” di Lula o di Maduro e l’Impero del Capitale, non ho dubbi.
Massimo Fini
(da ilfattoquotidiano.it)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
I DUE CARABINIERI LE REGALANO UNA NOTTE IN ALBERGO, UN GESTO CHE ONORA L’ARMA, PORTATORI DI VALORI IN UN PAESE DOVE VENGONO TUTELATI SOLO GLI EVASORI FISCALI
Voleva tornare nei luoghi in cui andava in vacanza da bambina la donna di 74 anni trovata dai carabinieri di Monfalcone mentre dormiva su un lettino da spiaggia. Di più lei però non poteva permettersi, come ha spiegato agli stessi carabinieri che l’hanno trovata all’una di notte dello scorso 3 agosto.
L’anziana aveva deciso di usare un lettino da spiaggia come letto per trascorrere la notte. Aveva trovato riparo nel porticato di un bar, ormai chiuso a quell’ora, vicino alla spiaggia di Marina Julia, località del Comune di Monfalcone.
Ai militari la donna ha raccontato di essere arrivata dalla provincia di Udine. Nella vita dice di essere stata poetessa e scrittrice. A Monfalcone era voluta andare perché da ragazza frequentava la zona per le vacanze. Lì l’anziana aveva lasciato bellissimi ricordi, che avrebbe voluto rivivere. Ma le sue condizioni economiche non gli permettevano più di quel lettino da spiaggia, come sistemazione di fortuna.
La 74enne ha raccontato ai carabinieri di percepire solo la pensione minima. Troppo poco per riuscire a pagarsi un alloggio per quella vacanza nostalgica, seppur di un solo giorno. Un maresciallo dell’Arma e un carabiniere a quel punto hanno deciso di togliere quella anziana dal lettino da spiaggia. I due l’hanno accompagnata presso un albergo del centro, pagando di tasca loro. Così la donna ha potuto trascorrere la notte con un tetto sopra la testa, per poi tornare a casa sua il giorno dopo.
(da agenzie)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
“DALLA RUSSIA UN TENTATIVO DI DESTABILIZZARE LE OLIMPIADI CON LA DIFFUSIONE DI NOTIZIE FALSE”… MULE’, MA TI SEI ACCORTO CHE GOVERNI CON DEI SERVI DI PUTIN?
Giorgio Mulè è tra i primi a prendere le difese di Imane Khelif tra le fila della maggioranza di centrodestra. Il deputato di Forza Italia a Repubblica in parte si smarca dalla posizione di Giorgia Meloni, che aveva definito l‘incontro con Angela Carini «non alla pari» alle Olimpiadi di Parigi.
Secondo Mulè è sbagliato innanzitutto accanirsi contro la pugile algerina: «Imane Khelif non è Frankenstein, si deve rispetto a una donna e a un’atleta. Piuttosto quanto successo alle Olimpiadi deve farci riflettere e intervenire nel mondo dello sport che è rimasto indietro».
Dalla premier era arrivata la condanna per aver permesso lo svolgimento del match. Secondo Mulè sarebbe un altro errore usare su quella vicenda le lenti della politica e parlare senza informarsi: «La corsa a schierarsi è sbagliata. Meloni non ha detto nulla di scorretto. In questa circostanza è venuta fuori l’ignoranza, si è confuso il transgender con l’intersessualità e nessuno di noi ha dimestichezza con l’intersessualità»,
Mulè risponde: «La corsa a guadagnare un tweet si è portata dietro giudizi che sono infondati. Vannacci ha detto che la pugile algerina ha più cromosomi di un uomo? E quindi? Va lapidata? Khelif non ha barato, è una che sta nelle regola e ha un cromosoma che non è dipeso dal voler falsare le regole del gioco».
A proposito invece della corsa di diversi esponenti politici a schierarsi a favore di Angela Carini, Mulè commenta: «Ha mille ragioni sportive e forse questa storia può convincere tutti a ragionare sul mondo dello sport, che è in ritardo. Bisogna governare gli eventi e i cambiamenti». Quindi lancia una proposta: «Possiamo ragionare su una commissione o su un gruppo di esperti nominato dal Parlamento, qualsiasi cosa purché non siano leggi divisive. Propongo una sorta di codice dei diritti che dia il riconoscimento a chiunque vive una sessualità diversa o per natura è costretto a guardarsi dai pregiudizi».
Le fake news russe
Anche Mulè è convinto che la Russia stia cercando di destabilizzare le Olimpiadi con la diffusione di notizie false o distorte: «I russi ci provano sempre con le fake news, con l’inquinamento e anche in questo caso hanno provato a truccare le carte. Carini e la Federazione hanno fatto bene a rifiutare qualsiasi tipo di riconoscenza, sarebbero stati strumentalizzati e così non sarebbe dovuto essere».
(da Open)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
CLAIRE MICHEL AVREBBE AVUTO UN MALORE DOPO LA NUOTATA NELLA SENNA
Si riaccende la polemica sulla qualità dell’acqua della Senna alle Olimpiadi di Parigi, dopo che il Belgio ha deciso di ritirarsi dalla gara di staffetta mista di triathlon prevista per oggi 5 agosto. Gara ancora a rischio rinvio, dopo che il Comitato organizzatore ha deciso di annullare gli allenamenti, visto che le piogge avevano fatto risalire i livelli di batteri nel fiume. La prima vittima dei batteri è arrivata: si tratta di Claire Michel, atleta belga che ha partecipato alla gara di triathlon femminile lo scorso mercoledì.
Il ricovero e il ritiro
Secondo i media francesi, l’atleta belga è stata ricoverata dopo aver lamentato problemi addominali. Il sospetto è che sia stata infettata dal batterio dell’Escherichia coli, che persiste a livelli alti nelle acque della Senna soprattutto dopo le piogge. Dura la protesta del Comitato olimpico belga (Coib), che non fornisce dettagli sul malore che ha colpito Michel. In una nota, il Comitato olimpiaco belga spiega che tutti i loro atleti non parteciperanno alle gare di staffetta mistra di triathlon.
La protesta belga contro i francesi
Dai belgi arriva poi una frecciata agli organizzatori francesi: «Il Coib e il Triathlon belga sperano che si possano imparare lezioni per le future gare di triathlon. Pensiamo a giornate di allenamento che possano essere garantite, giornate di gara e forma chiari in anticipo e circostanze che non causino incertezze tra atleti, entourage e tifosi».
(da Open)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
UN ALTRO RIFIUTO UMANO FINITO IN GALERA QUATTRO VOLTE CHE ISTIGA ALLA VIOLENZA
E’ nato Stephen Christopher Yaxley-Lennon a Luton, il 27 novembre 1982, ma è noto anche con il nome di Andrew McMaster, Paul Harris, Wayne King, Stephen Lennon e Tommy Robinson. Un volto, diverse identità, la stessa foga anti islamica e razzista, in Gran Bretagna, dove è stato in prigione quattro volte tra il 2005 e il 2019, in Europa, negli Usa. Se c’è un responsabile dei disordini che in questi giorni stanno macchiando di sangue e odio le strade del Regno Unito, è quest’uomo dalle mille vite, padre di tre figli che in passato è stato proprietario di un salone di bellezza e ingegnere presso l’aeroporto di Luton, a emergere come uno degli attori principali.
Nel 2018, Robinson era stato bandito a vita da Twitter per aver violato le regole sull’incitamento all’odio. Con l’acquisto della piattarma da parte di Elon Musk, è stato riammesso e adesso sembra operare indisturbato, anche perché ha imparato cosa scrivere e cosa no.
Dopo il caso di Southport — dove lunedì scorso un giovane uomo con problemi psichici ha ucciso a pugnalate tre bambine ferendone altre otto — ha riproposto un post che indicava erroneamente che l’assassino non fosse britannico, che era «di un’etnia diversa, e forse anche musulmano».
Poco dopo ha preso l’iniziativa, sottolineando ai suoi 900 mila followers che «i britannici sono stati provocati troppo. Una volta che inizi a infierire contro i loro figli, e a togliere la loro sicurezza, cosa vi aspettate che succeda?». Poi ancora i filmati delle proteste, le immagini della violenza, le notifiche di nuovi assembramenti.
Il giorno prima del truce episodio di Southport, Robinson — il nome è quello di un noto hooligan della squadra di calcio Luton Town — aveva radunato a Londra più di 20.000 persone per un documentario contro i profughi — da allora è presente solo sui social.
È partito assieme ai figli, saltando anche un’udienza in tribunale: sarebbe andato in vacanza in Spagna. Nessuno sa in realtà dove sia, anche se dalle attività online sembra aver raggiunto Vienna e poi la Grecia.
«L’ estremismo oggi è così», ha spiegato il premio Nobel per la pace Maria Ressa all’Observer. «C’è sempre stata la propaganda, c’è sempre stata la violenza. Sono i social ad aver portato la violenza alle masse, sdoganandola». Il caso dell’assalto del 6 gennaio al Campidoglio di Washington è l’esempio perfetto, precisa. «La gente non avrebbe saputo come coordinarsi o cosa fare senza i social».
Se nel 2004 aveva fatto parte del British National Party, se nel 2012 era stato vice presidente del British Freedom Party e aveva fondato e diretto l’English Defence League, organizzazione di estrema destra, negli ultimi anni Robinson è diventato un agente libero.
Lotta da solo nascondendosi dietro i tasti del cellulare o del computer, incoraggiando chi la pensa come lui a fare altrettanto. Twitter e Facebook ma anche Telegram, Bitchute, Parler, Gab: l’ecosistema dell’informazione alternativa che, stando agli esperti, è terreno fertile per ideologie estremiste.
Al quinto giorno di violenza, il premier Keir Starmer ha assicurato con un intervento da Downing Street che «chi ha partecipato ai disordini se ne pentirà». Il braccio della legge, ha sottolineato, sarà fermo e severo, ma gli scontri continuano.
(da agenzie)
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Agosto 5th, 2024 Riccardo Fucile
LA PUGILE SI ALLENA IN GRAN BRETAGNA E NON PUO’ TORNARE NEL SUO PAESE D’ORIGINE: “MI CHIUDEREBBERO IN PRIGIONE, ESSERE OMOSESSUALE LI’ E FUORILEGGE”
Cindy Ngamba ha 25 anni, è nata in Camerun, ha lasciato il suo Paese 7 anni fa quando si è dichiarata omossessuale. Cindy è una pugile e partecipa alle Olimpiadi nella squadra dei rifugiati.
Il destino le ha riservato una medaglia davvero inaspettata, è in semifinale del torneo femminile sotto i 75 kg, ed è almeno bronzo. La 25enne risiede in Gran Bretagna, che l’ha accolta nel momento più difficile della sua vita, da quando aveva 10 anni e dopo aver battuto la francese Davina Michel con verdetto unanime al termine delle otto riprese, ha abbracciato gli allenatori del Gb Team, poi ha sventolato la bandiera della squadra dei rifugiati, di cui è stata anche la portabandiera.
In semifinale, giovedì prossimo, affronterà la vincente tra Atheyna Bylon di Panama e la polacca Elzbieta Wojcik. Cindy, come dicevamo, non può rientrare in Camerun perché a 18 anni ha fatto coming out, ma non ne ha alcuna intenzione. Piuttosto ha paura di ritrovarsi di nuovo lì («In Camerun mi aspetterebbero carcere e sevizie, lì è considerato fuorilegge qualsiasi tipo di orientamento sessuale che non sia etero. Il rischio che corri è di essere messo in prigione e ti può accadere anche di peggio») ha detto.
Negli ultimi due anni si è allenata con la squadra di boxe inglese a Sheffield, non ha fatto in tempo a ottenere il passaporto britannico ma nel 2028 a Los Angeles potrebbe gareggiare con il Team Gb. Sperava di rappresentare la Gran Bretagna Ma ha dovuto mettere da parte senso di riconoscenza, ambizione e orgoglio perché non è riuscita a ottenere in tempo il passaporto britannico. Magari a Los Angeles (nell’edizione 2028) farà parte della squadra d’Oltremanica, per adesso si è già assicurata il bronzo a Parigi.
La squadra olimpica dei rifugiati esordì ai Giochi di Rio del 2016 e finora aveva ottenuto al massimo due quinti posti a Tokyo con Hamoon Derafshipour nel karate e Kimia Alizadeh nel taekwondo.
A Parigi è presente con 37 atleti, ospitati da 15 Comitati Olimpici Nazionali: Austria, Canada, Francia, Germania, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Messico, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti
(da agenzie)
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