Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
UN CRIMINALE SIMBOLO DELL’ELITE CORROTTA RUSSA, CHE PER ANNI HA INSEGUITO LO STILE DI VITA LUSSUOSO DELL’OVEST, SALVO POI STREPITARE UNA VOLTA TAGLIATO FUORI
«Ci odiano! Odiano la Russia e i russi, tutti gli abitanti! Ci hanno odiati praticamente per tutta la nostra storia». Il grido di rabbia di Dmitry Medvedev verso l’Occidente è stato scritto su Telegram quasi contemporaneamente all’annuncio che suo figlio Ilya è stato privato dalle autorità statunitensi del suo visto di lavoro americano, e che avrebbe dovuto lasciare Miami, dove – secondo gossip moscoviti che per ora nessuno ha smentito – possiederebbe una società.
Intanto il suo megayacht Universe da 74 metri è ormeggiato a Sochi, dopo essere stato portato via da Imperia transitando a Istanbul, al sicuro dalle sanzioni internazionali.
L’altro yacht più piccolo, Fotinia, di appena 32 metri, al momento dello scoppio della guerra era ancora bloccato dai ghiacci in un porto finlandese, e per tutelarlo dal sequestro una delle società che lo possedevano, legata a un compagno di università di Medvedev – uno dei suoi tradizionali prestanome, secondo le indagini di Alexey Navalny – l’ha venduto a un’altra compagnia di oscure origini.
I vigneti toscani dell’ex presidente russo sono anche loro bloccati dalle sanzioni, e il suo iPhone – Medvedev è celebre per la sua passione verso la Apple, ed era andato in pellegrinaggio a Cupertino per incontrare Steve Jobs – non riesce più ad aggiornarsi e scaricare app in Russia.
Attribuire il desiderio di un ex presidente e premier russo di scrivere su Telegram agli occidentali «Li odio, devono sparire!» alle sanzioni contro le sue ricchezze e la sua famiglia è sicuramente troppo semplicistico: l’idea complottistica che l’Europa e gli Stati Uniti «per tutta la storia» non hanno fatto che tramare per annientare la Russia è radicata nel nazionalismo russo da almeno tre secoli, e lo stesso Vladimir Putin l’ha espressa pubblicamente diverse volte, anche se con un vocabolario meno infuocato di Medvedev.
Ma sicuramente quella che il politologo Stanislav Belkovsky chiama con la definizione nietzschiana di “risentimento” è un’emozione molto diffusa tra quelli che, come Medvedev, indossavano vestiti firmati da Brioni e Hugo Boss, riempivano le cantine delle dacie di Sassicaia e Chateau Lafitte, collezionavano Mercedes e Ferrari e mandavano le mogli a vivere a Parigi e i figli a studiare in Inghilterra.
Erano la gioia delle griffe del lusso e delle riviste patinate, davano lavoro a migliaia di stilisti, viticoltori e ristoratori, ma rappresentavano paradossalmente anche una speranza politica.
Quando oggi molti si chiedono come mai il militarismo nazionalista russo sia stato così sottovalutato come pericolo, si potrebbe rispondere che Europa e Stati Uniti avevano seguito il principio del “follow the money”, seguire i soldi: era impossibile immaginare che una élite così innamorata di tutto quello che era occidentale, dai vestiti al cinema, avrebbe mai lanciato una guerra che un ex presidente – cioè un uomo che per quattro anni aveva posseduto la “valigetta nucleare” – dichiara essere una guerra contro l’Occidente che «deve sparire».
La speranza che i pargoli dei ricchi e potenti russi – da Liza Peskova, la figlia del portavoce del Cremlino, che era cresciuta in Francia e aveva lavorato come stagista all’Unione Europea, alle stesse figlie di Putin, che avevano vissuto con i loro compagni nei Paesi Bassi e in Germania – avrebbero rappresentato l’anello di congiunzione tra la nomenclatura ancora sovietica e la classe dirigente occidentale – si è rivelata infondata.
L’Istituto per gli affari internazionali della Polonia nel 2019 aveva dedicato un’intera ricerca ai “figli del Cremlino”, per stabilire che «i valori occidentali come la supremazia della legge e la trasparenza solo raramente vengono abbracciati dalla seconda generazione» dei putiniani.
L’ossessione consumista, la sete di lusso sfrenato, lo snobismo da nuovi ricchi sono una sindrome fin troppo comprensibile per gli ex sovietici cresciuti tra gli scaffali vuoti, in un mondo di povertà e squallore.
Quello che nessuna scuola per pargoli ricchi insegna è che non è una questione di soldi: se sono stati guadagnati con la corruzione, in un Paese che conduce guerre, avvelena oppositori, uccide giornalisti e impoverisce milioni di persone, nemmeno l’acquisto di squadre di calcio, o il finanziamento di musei e teatri, permetterà di acquistare un biglietto d’ingresso nei salotti buoni
I ministri e gli oligarchi russi, e i loro figli, hanno vissuto la stessa cocente delusione che nei decenni precedenti avevano sperimentato molti ricchi arabi al primo incontro con l’Europa: vestire, mangiare, bere e guidare occidentale non fa diventare occidentali.
È una sorta di sindrome di bin Laden, e negli ultimi anni molti russi colti e benestanti avevano cominciato a nutrire verso l’Occidente dal quale si sono sentiti respinti lo stesso odio divorante di Medvedev.
L’opposizione di Navalny si era scelta come slogan quello di una “Russia europea”, nel senso di Stato di diritto, libere elezioni e diritti civili. Molti russi, non solo gli oligarchi, utilizzavano però il prefisso “euro” soltanto per distinguere merci di qualità superiore (dagli “eurosanitari” alle “eurofinestre”).
E oggi, la prontezza con la quale perfino i governi di Paesi come la Gran Bretagna – dove gli oligarchi russi erano stati cruciali per il mercato immobiliare e finanziario, oltre ad aver coltivato importanti amicizie politiche – hanno sequestrato magioni e yacht, non farà che accrescere il numero di quelli che, come l’ex presidente Medvedev, non riescono a capire come funziona il mondo nel quale per anni hanno speso i loro soldi.
(da La Stampa)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
CHE GLIENE FREGA A PUTIN: SE LO PRENDE LUI E LO RIVENDE A PREZZI MAGGIORATI IN AFRICA E ASIA
Medio Oriente Express: il primo treno di grano – grano che fino a poche settimane fa era ucraino e adesso è russo – parte dalla Crimea occupata di buon’ora e se ne va verso Damasco. Poco dopo, semaforo verde per altri dieci vagoni fermi nella stazione invasa di Zaporizhzhia, destinazione Sebastopoli e poi da qualche parte nel Vicino Oriente.
Terzo fischio di giornata a Melitopol: ecco i russi che muovono un altro convoglio, stracolmo di raccolto ucraino, per la Crimea e poi chissà.
Più o meno alla stessa ora, ad Ankara, un giornalista della tv pubblica di Kiev si alza in conferenza stampa, chiede di fare una domanda al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e lo guarda fisso negli occhi: «Signor ministro, a parte il grano, che cos’ altro sta rubando la Russia all’Ucraina?».
La vita, la terra, il futuro. E il grano, of course. Non se ne esce: l’intesa impossibile, che ieri i turchi han cercato di trovare con Lavrov, s’ è rivelato impossibilissima. «Nessun accordo concreto», chiariscono gli ucraini: l’incontro organizzato da Mevlut Cavusoglu, ministro di Erdogan, è durato ancora meno di quelli di marzo, quando cercava di negoziare una specie di pace.
Sarebbe un obbiettivo «ragionevole e fattibile», diceva l’Onu, la proposta di Ankara d’aprire un corridoio da Odessa in mare neutrale, sminato e garantito dagli stessi turchi, con la promessa russa di non approfittarne per attaccare il porto ucraino. Ragionevole, forse. Assai meno fattibile: Mosca vuole che lo sminamento lo faccia Kiev, propone d’aiutare a scortare i carichi di grano salpati da Odessa e domanda nel frattempo che le vengano tolte le sanzioni sull’export; gli ucraini considerano «vuote» le parole di Lavrov, avvertono che per sminare occorreranno mesi (e intanto il grano marcisce) e comunque non si fidano affatto di sguarnire il Mar Nero, levando le mine, solo perché Putin promette di tener ferme le sue artiglierie.
Sono bastati cinque giorni, per capire che lo Zar bluffava ancora: la Russia utilizza il blocco del grano per chiedere d’allentare le sanzioni e a dirlo è Dmitri Peskov, il portavoce del Cremlino, quando esige «una modifica delle sanzioni sull’assicurazione delle nostre navi» e «sull’impossibilità di fare scalo nei porti europei».
E che interesse può avere Putin a un accordo, s’ interroga Kiev, quando può «bloccare le navi del nostro grano, rubarlo ed esportarlo coi treni, venderlo a prezzo maggiorato sui mercati dell’Africa e dell’Asia»?
Questo «genocidio alimentare», come lo chiama il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, preoccupa il mondo: sono 94 i Paesi, per un totale d’un miliardo e 600 milioni di persone, «gravemente esposti» al rischio d’una carestia provocata dal blocco.
«Un accordo è essenziale», invoca il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. «Raramente la scarsità di cibo ha avuto un tale impatto – dice il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio – dalla Russia ci aspettiamo segnali chiari e concreti, perché bloccare le esportazioni di grano significa tenere in ostaggio e condannare a morte milioni di bambini, donne e uomini lontani dal fronte del conflitto».
Acque morte? I turchi hanno troppi interessi sul Mar Nero e continuano a mediare, non solo per il grano. Ma dice molto la stizza di Lavrov, con cui ieri (non) ha risposto al giornalista ucraino e se n’è andato dalla conferenza stampa: «Non c’è alcun ostacolo causato da noi».
(da il Corriere della Sera)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
IL RAGAZZO È STATO CONTATTATO DIRETTAMENTE DALL’ESERCITO: “SONO FELICE PER IL RISULTATO MA TRISTE PER LE VITTIME, SONO INVASORI, MA PUR SEMPRE PERSONE”
Una bicicletta sotto il portico, uno skateboard nel cortile dietro casa. Un’adolescenza come tante fino all’invasione russa, quando la sua passione per i droni ha contribuito a cambiare le sorti della guerra. Andrii Pokrasa ha solo 15 anni è per l’esercito e la popolazione di Kiev è già un eroe.
Il giovane studente, abile pilota di questi dispositivi, è riuscito a identificare le coordinate GPS di un convoglio russo che stava per entrare pericolosamente a Kiev nei primissimi giorni del conflitto. «Era l’unico ad avere esperienza in quella regione ha detto il comandante dell’esercito Yurii Kasjanov è un vero eroe, un eroe dell’Ucraina».
È stato l’esercito, infatti, a rivolgersi a lui: «Mi hanno dato delle informazioni generiche sull’area che i russi stavano attraversando ha raccontato il ragazzo a Global News e io dovevo trovare, con precisione, la posizione per attaccarli». E ci è riuscito una sera tardi, quando mimetizzandosi nel buio della notte, accompagnato dal papà, ha fatto alzare il suo drone e ha avvistato una luce proveniente da uno dei mezzi russi. Ha avuto molta paura perché il convoglio era a soli due chilometri di distanza ma l’ha combattuta, perché non voleva che la sua città venisse conquistata.
Una missione che anche la madre Iryna ha affrontato con grande timore aspettando che rientrassero a casa sani e salvi – e orgoglio. E ne aveva tutte le ragioni: grazie alle foto scattate da suo figlio, le truppe ucraine sono riuscite a neutralizzare il nemico che si stava dirigendo da Zhytomyr alla capitale. Un epilogo che ha lasciato ad Andrii emozioni contrastanti: all’inizio, ha raccontato il giovane, era felice per il risultato raggiunto ma poi ha pensato al fatto che su quella strada erano morte delle persone, «degli invasori, ma pur sempre delle persone».
Andrii ha iniziato a interessarsi di questi apparecchi tecnologici lo scorso anno, quando ha visto su YouTube le riprese di Kiev dall’alto. E ne è rimasto affascinato soprattutto perché ha molta paura dell’altitudine e grazie a un dispositivo telecomandato ha scoperto l’opportunità di guardare il mondo dall’alto, senza l’ansia che ne sarebbe altrimenti derivata.
Così, utilizzando il denaro ricavato col padre dalla compravendita di crypto-valute, la scorsa estate ha comprato il suo primo mini drone e ha iniziato a pilotarlo ogni giorno. Un hobby che si è trasformato in qualcosa di molto più importante a fine febbraio. E che ha continuato anche dopo, visto che Andrii ha messo le sue competenze a disposizione dell’esercito, il quale gli ha fatto pilotare mezzi ancora più potenti per spiare il nemico russo e anticiparne le mosse.
Il giovane Pokrasa non è l’unico pilota ad aver fornito supporto alle truppe ucraine: centinaia di altri esperti hanno messo a disposizione quanto documentato per dimostrare i crimini di guerra attuati da Mosca. Lo ha spiegato Taras Trojak, presidente della Federazione dei proprietari di droni d’Ucraina, che all’indomani dell’invasione ha creato un gruppo su Facebook per spingere i proprietari di questi velivoli a utilizzarli per identificare il nemico, condividendo poi le informazioni raccolte con l’esercito.
Una vera e propria chiamata alle armi alla quale hanno risposto oltre mille piloti, mentre dal resto dell’Europa e dagli Stati Uniti sono arrivati altri dispositivi. Per l’esperto la presenza capillare di questi mezzi è stata decisiva nello sforzo bellico e senza di essa, ha detto a Global News, «Kiev potrebbe essere già stata occupata dalle forze russe». Un altro grande punto di forza della resistenza ucraina che Vladimir Putin non aveva considerato.
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
ALTRO CHE DENAZIFICAZIONE, IL RABBINO CAPO DI MOSCA AVEVA DENUNCIATO COME “QUESTA GUERRA DI PUTIN STIA PORTANDO A UN GRANDE ESODO D’EBREI”
Aveva capito subito. E due settimane dopo l’invasione, silenzioso, aveva fatto le valigie. Via da Mosca. Dopo 33 anni, e prima che arrivasse il peggio. Il rabbino capo Pinchas Goldschmidt non ha preso aerei, se n’è andato in macchina.
Destinazione Ungheria e altre capitali dell’Est Europa, dove per settimane ha aiutato i profughi ucraini. Infine, Gerusalemme. Per quasi tre mesi, la più alta autorità della comunità ebraica russa è riuscita a tenere la notizia nascosta.
Ora che è al sicuro, lo può rivelare dagli Stati Uniti la nuora Avital con un tweet: Pinchas e sua moglie, Dara, «sono in esilio dalla comunità che hanno ama-o e in cui hanno cresciuto i loro figli. Il dolore e la paura della nostra fami-glia, negli ultimi mesi, è al di là delle parole». 2022, fuga da Mosca. Troppe le pressioni da Putin, e da troppo tempo: Pinchas, passaporto anche svizzero, era nel mirino da anni per le sue opinioni e già nel 2005 era intervenuto Peres, allora vicepremier, per chiedere di non limitarne le libertà. Con la guerra, troppi i controlli dell’Fsb, le telefonate mute, le minacce.
Anche perché il rabbino, altro che «denazificazione», aveva denunciato come «questa guerra di Putin stia portando a un grande esodo d’ebrei». È un dato: più della metà della comunità ebraica ucraina, fino a 400 mila persone, è scappata in Polonia, in Romania, in Moldavia, nei Paesi baltici, in Israele, in America. Gli ebrei di Kiev portano sulle spalle una delle pesanti memorie legate alla Shoah: le bombe hanno sfiorato anche il monumento alle 33 mila vittime di Babin Yar, luogo d’uno dei peggiori massa-cri nazisti. E i russi hanno colpito pure le sinagoghe a Kharkiv e a Mariupol. Anche gran parte della comunità russa sta pensando d’imitare gli ucraini: fiutando l’aria grama, molti se ne stanno andando.
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
SABATO DOPO UN INCONTRO IN UNA SCUOLA VICINO A LUCCA, DUE RAGAZZINI RAZZISTELLI L’HANNO AVVICINATA PER REGALARLE UNA FOTO OFFENSIVA: UNA DONNA CON DEI GENITALI MASCHILI DISEGNATI IN FACCIA E UNA SVASTICA SUL BRACCIO
Nessuno meglio di lei può spiegare il valore dell’educazione e dello studio, «che poi sono l’unico antidoto all’ignoranza, da cui deriva il razzismo», dice Clementine Pacmogda. Ha 44 anni, è cresciuta in Burkina Faso, dal 2008 vive nel nostro Paese e dal 2015 è cittadina italiana.
Linguista, scrittrice, insegnante e molto altro. Ma in pochi la conoscevano prima di sabato scorso, quando, dopo un incontro con gli studenti in una scuola di Barga, provincia di Lucca, due ragazzini l’hanno avvicinata per regalarle una foto offensiva: una donna con dei genitali maschili disegnati in faccia e una svastica sul braccio.
«Continuo a chiedermi il perché, vorrei parlare con loro per capire – dice Clementine – ma è la dimostrazione che nelle scuole c’è tanto lavoro da fare».
Torna sempre lì, all’importanza dell’istruzione, al filo conduttore della sua vita. Come l’immigrazione: «Ce l’ho incollata sulla pelle dalla nascita», racconta, perché è venuta al mondo in Costa d’Avorio, dove i suoi genitori erano emigrati dal Burkina Faso. Non è cresciuta con loro, Clementine.
Ha perso il padre da piccola ed è stata allontanata dalla madre a causa di dissidi familiari, poi ospitata dalla zia del padre nella capitale Ouagadougou
«Ero la bimba di tutti e di nessuno – ricorda – buona per lavorare, ma a nessuno importava del mio futuro». Nessuno, infatti, si preoccupa di iscriverla a scuola quando compie 6 anni. «Bisognava mettersi in fila di notte, perché c’erano troppi bambini e pochi posti, ma per me non l’hanno fatto, per due anni sono rimasta a casa».
A 8 anni finalmente riesce a iscriversi, segue le lezioni in un’aula ancora in costruzione, «c’erano solo il tetto e i muri esterni, poi avevo un quaderno, una matita, due gessetti e una lavagnetta di cartone».
Ma i parenti non vogliono versare la tassa scolastica da mille franchi locali, meno di 2 euro: «Così ogni giorno gli insegnanti mi cacciavano dalla classe – prosegue Clementine – io però stavo lì, sotto un albero, e ascoltavo la lezione dalla finestra, così ho fatto tutte le elementari».
I pensieri tornano spesso a quella bambina «sporca, mal vestita, affamata», che sapeva leggere bene, ma alla quale «non hanno mai comprato un libro, per fare i compiti dovevo imparare a memoria i testi a scuola». Ora di libri ne ha scritti due, autobiografici, e sta lavorando a un terzo.
Clementine ha alle spalle un dottorato in Linguistica alla Normale di Pisa ed è insegnante di sostegno alle superiori in un liceo di Borgo Val di Taro, il paese in provincia di Parma dove vive con il marito Dario, medico, sposato nel 2012. E con la figlia Eufrasia, 7 anni, che non può nemmeno immaginare quanto sia preziosa l’opportunità di andare tranquillamente a scuola tutte le mattine.
«Anche alle medie ho perso un anno, perché l’iscrizione costava troppo – continua – poi uno zio mi ha fatto trasferire da lui, faceva l’economo in una scuola e mi ha consentito di andare avanti fino alla maturità».
Si diploma nel 2000, ha quasi 23 anni, ma nessuna intenzione di fermarsi. Torna a Ouagadougou, dove c’è l’unica università del Paese, ma dove nessuno è disposto ad aiutarla: «I parenti mi dicevano che il diploma superiore era già molto per una donna».
Cerca lavoro, inizia a fare le pulizie in una copisteria, mette da parte i soldi, per entrare alla facoltà di Linguistica risparmia su tutto, «anche sul mangiare». Nel 2005 riesce a discutere la sua tesi e a laurearsi, inizia a lavorare in una scuola fuori città, sembra finita lì.
E, invece, i suoi insegnanti la convincono a proseguire con la laurea specialistica, anche se non ha i soldi per arrivare in fondo. Nel 2008 Clementine riesce a concludere il terzo ciclo di studi.
Quello stesso anno arriva la svolta: la candidano, unica della sua università, per una borsa di studio alla Normale di Pisa. Appena mette piede in Toscana, per iniziare il dottorato, Clementine capisce che la sua vita è cambiata, che ora può avere «un letto tutto per me, un computer mio, qualunque libro a disposizione».
C’è una domanda che si è fatta in questi anni e continua a farsi ora che insegna: «Come si fa a non riuscire negli studi in Italia? Mi sembra impossibile». È questo che dice durante gli incontri nelle scuole, dove la invitano spesso per raccontare la sua storia.
La storia della bambina senza libri, che seguiva le lezioni sotto un albero in Burkina Faso ed è diventata professoressa e scrittrice in Italia. Una storia che sarebbe bene conoscessero anche quei due ragazzini di Barga
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
“I RUSSI GIOCANO AL GATTO CON IL TOPO”
La presidente della Georgia Salomé Zourabichvili dice che il suo paese è il prossimo obiettivo di Vladimir Putin. E per scongiurare un’invasione chiede di entrare in Europa il prima possibile.
«Siamo nella stessa situazione dell’Ucraina», sostiene in un’intervista rilasciata a Repubblica. «Abkhazia e Ossezia del Sud, il 20 per cento del nostro paese, sono da tempo sotto controllo russo. Ovvio che la guerra contro Kiev ci mette sotto pressione. Siamo convinti che comunque vada, Mosca tornerà a interessarsi di noi. Se vincono, vorranno di più. Se perdono, potrebbero cercare di salvare la faccia con una preda facile come la Georgia: un paese piccolo, senza grandi risorse militari. I russi già giocano al gatto e al topo con noi, mettendo alla prova i nostri nervi, senza nemmeno dover occupare territori: penso al referendum per “riunirsi” a Mosca che l’Ossezia voleva tenere a metà luglio. Ora l’hanno posticipato. Ma per quanto?».
Per questo la Georgia ha chiesto insieme alla Moldavia l’ingresso nell’Unione Europea. Zourabichvili si augura che l’emergenza geopolitica porti a un’accelerazione delle procedure: «Il vostro premier Mario Draghi ha detto chiaramente che sostiene la nostra integrazione e questo mi fa ripartire fiduciosa.
La reazione europea all’aggressione russa deve necessariamente andare verso un maggior consolidamento: è una risposta pacifica, capace però di garantire sicurezza a paesi come il mio».
Intanto, dice lei nel colloquio con Anna Lombardi, il suo paese ha aperto le porte a dissidenti e profughi: «Negli ultimi mesi sono entrati almeno 35 mila russi, che potranno restare un anno senza bisogno di visto. Hanno pure aperto una tv che trasmette dal nostro paese. Il numero di ucraini è simile, e per loro abbiamo disegnato un percorso di facilitazione scolastica. D’altronde, abbiamo sempre aperto le porte ai perseguitati: abbiamo armeni, azeri, curdi. In altri paesi le politiche d’accoglienza creano tensioni, ma da noi c’è grande accettazione della diversità».
(da agenzie)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
NESSUNA ISTIGAZIONE A DELINQUERE NEL PEZZO DI QUIRICO
Il giudice delle indagini preliminari di Torino Giorgia De Palma ha archiviato il procedimento giudiziario nei confronti del direttore de La Stampa Massimo Giannini e del giornalista Domenico Quirico per l’articolo su Putin da uccidere.
Accogliendo così la richiesta della procura: «L’articolo in esame alla luce del principio costituzionale di necessaria offensività, non turba la sicurezza pubblica né è concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti».
A sollecitare l’intervento era stato l’ambasciatore russo Sergey Razov, che durante una conferenza stampa aveva parlato di istigazione a delinquere e apologia di reato: «In precisa conformità alla legislazione italiana oggi mi sono recato in Procura per presentare una querela con la richiesta alle autorità italiane di esaminare obiettivamente questo caso. Confido della giustizia italiana».
Ma il pezzo di Quirico non diceva quello che sosteneva l’ambasciatore: «A ben leggere l’articolo in esame – precisava la procura nella richiesta di archiviazione – ed in disparte la vis polemica della replica di Domenico Quirico, questo Ufficio ritiene che essa colga nel segno, ovvero che non sussista la condotta materiale integrante i reati». Tanto che l’autore aveva suggerito a Razov di trovarsi «un traduttore di qualità migliore». E «di leggere una migliore traduzione del pezzo, dove io sottolineavo che l’idea ahimè abbastanza corrente che l’unico modo di risolvere il problema sia che qualche russo ammazzi Putin fosse priva di senso e immorale, e questo era scritto bene in evidenza, e in secondo luogo che non porterebbe a niente e anzi porterebbe ad un caos maggiore».
(da NextQuotidiano)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
IL LEADER DEL POPOLO DELLA FAMIGLIA (SI FA PER DIRE) NEGA DI AVER MAI PRONUNCIATO LA FRASE INCRIMINATA: INFATTI L’HA ADDIRITTURA SCRITTA SULLA TESTATA DI CUI E’ RESPONSABILE
La campagna elettorale in vista della Amministrative del prossimo 12 giugno si sta facendo sempre più intensa.
Di questa mattina, infatti, è la notizia di Mario Adinolfi querelato dal Partito Gay per una frase diffamatoria che il leader del Popolo della Famiglia avrebbe pronunciato qualche settimana fa. L’annuncio è arrivato direttamente dal partito nato per difendere i diritti delle comunità LGBTQ+ attraverso i suoi canali social.
La querela è stata depositata oggi alla Procura di Roma e fa riferimento, in particolare, a una frase attribuita al leader del Popolo della Famiglia:
“L’avvocata Sara Franchino, che ringrazio per il supporto, ha depositato presso la Procura di Roma una nostra querela nei confronti di Adinolfi, esponente del Popolo della Famiglia. La querela è avvenuta a seguito delle sue affermazioni false sui nostri candidati e la nostra organizzazione, dove è arrivato anche ad affermare che il Partito Gay LGBT+ sta in politica per “il drenaggio di denaro pubblico”, fatto non corrispondente al vero e dichiarato con il solo intento diffamatorio. Capiamo le difficoltà di Adinolfi e del Popolo della Famiglia nel trovare argomenti validi per farsi votare, in quanto dalle loro interviste emerge solo l’ossessione contro i diritti per le persone LGBT+, nel confronto politico non sono accettabili affermazioni false contro gli avversari”.
Come ha reagito Adinolfi querelato Partito Gay? Il leader del Popolo della Famiglia non ci sta e smentisce fermamente di aver mai pronunciato quella frase oggetto della querela per diffamazione
Ma questa frase, dunque, è mai stata pronunciata da Mario Adinolfi? Lui dice di no. Anzi, sostiene che quella frase sia stata inventata e non esiste. In realtà, quella frase esiste ed è presente su un quotidiano online: La Croce.
Si tratta di un virgolettato che, dunque, viene attribuito proprio a Mario Adinolfi. Ma chi ha scritto questo articolo? La firma non c’è, ma la testata – La Croce quotidiano – è registrata presso il Tribunale di Roma e il direttore responsabile è proprio Mario Adinolfi.
(da NextQuotidiano)
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Giugno 9th, 2022 Riccardo Fucile
UNA FETTA DI FORMAGGIO OMAGGIO CON L’INVITO A VOTARE PER IL CARROCCIO… LA DENUNCIA DEL CONSORZIO GRANA PADANO
La propaganda che, dopo aver scavato, gratta sul fondo. Anzi, gratta il formaggio.
In vista delle prossime elezioni Amministrative, la Lega a Piacenza ha iniziato a distribuire ai cittadini dei pezzi di Grana Padano. Il tutto condito da un bollino con l’invito a votare per il Carroccio il prossimo 12 giugno. Un’iniziativa non autorizzata e che ha portato il Consorzio (di fama mondiale) a dissociarsi da questa iniziativa.
Come riportato dal quotidiano piacentino “Libertà“, il consorzio Grana Padano ha rilasciato una breve dichiarazione – attraverso le parole di Lorenzo Marini, amministratore delegato della Lattegra, componente del Consorzio – in cui ha criticato e condannato il comportamento della Lega Piacenza: “Ci dissociamo dall’utilizzo del nostro formaggio per fare propaganda politica, si tratta di un fatto sgradevole. Il formaggio non è né di destra né di sinistra. È di tutti”.
Una polemica che, però, sembra non aver colpito il Carroccio. Il consigliere provinciale della Lega, Giampaolo Maloberti, ha rivendicato quell’iniziativa (puramente elettorale, sfruttando un marchio senza ottenere prima l’autorizzazione), difendendola: “Tutto è stato regolarmente acquistato da un produttore locale siamo orgogliosi della nostra provincia: è la quarta in Italia per la produzione di Grana Padano che è, assieme a pancetta, coppa e salame, una delle nostre Dop. Noi saremo sempre per la tutela e promozione dei nostri prodotti locali”.
Insomma, spallucce anche di fronte alla reprimenda pubblica arrivata direttamente del Consorzio Grana Padano. E nella storia della Lega ci sono molti altri esempi di questo tipo. Come quando, nell’estate del 2020, i canali social del Carroccio utilizzarono la fotografia simbolo della pubblicità dei biscotti “Ringo” e, nonostante Barilla (il gruppo che produce quei dolciumi) si fosse dissociata spiegando di non aver mai dato l’autorizzazione, quel post è ancora (a due anni di distanza) online.
(da NextQuotidiano)
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