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COSI’ LA CASTA E’ DIVENTATA RICCA: MEZZO SECOLO DI PRIVILEGI

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

NEL 1946 I PARLAMENTARI PERCEPIVANO POCO PIU’ DI UN OPERAIO… POI BALZI IN AVANTI COI GOVERNI MORO, CRAXI E DINI..LA LEGA IN TRE ANNI HA VOTATO SETTE VOLTE NO ALLA RIDUZIONE DEGLI STIPENDI

Furono i deputati dell’assemblea costituente, in particolare Pietro Longo, Luigi Einaudi, Pietro Calamandrei, ma anche Alcide De Gasperi, a volere che il loro stipendio fosse di poco superiore a quello di un operaio e di un impiegato.
“In questo momento la gente ha sfiducia nella politica e nello svolgere il nostro mandato non possiamo lasciare che qualcuno sospetti che ci sia un interesse personale nostro”. Parole sentite più volte.
Eravamo nel 1946, l’Italia usciva da un ventennio mussoliniano e malconcia per la guerra.
Fu così che i più autorevoli deputati decisero che lo stipendio non poteva superare quelli che, al netto della rivalutazione e del cambio in euro, sarebbero oggi 1300 euro.
Un operaio allora ne guadagnava 420 e un impiegato 480.
C’era sì una differenza, ma del doppio rispetto a uno stipendio normale, non di 14 volte superiore come è oggi.
Ma, seppur mossi da buona fede, anche i deputati di allora non fecero passare troppi anni prima di diventare casta,come poi sarebbero rimasti.
Alcuni, soprattutto i comunisti, furono intransigenti. Non volevano l’aumento e fu così che iniziarono la consuetudine di lasciare i soldi al partito.
Tenevano per sè quello che era sufficiente per vivere a Roma,non un centesimo in più. All’inizio quasi il 75 per cento finiva nelle casse di via delle Botteghe Oscure. Tutto meno che casta.
Volevano dimostrare che la loro posizione non aveva niente di vantaggioso.Lavoravano alla costruzione di una Repubblica e di uno Stato che si lasciasse alle spalle tutto quello che era stato il fascismo.
Passarono gli anni, intanto, e i governi si superarono e si ripetono.
La Democrazia Cristiana era il primo partito ed era lei a dettare legge. Ma anche allora fu un governo di centrosinistra, uno dei pochi, guidato da Aldo Moro e Pietro Nenni, a volere che lo stipendio dei parlamentari fosse notevolmente superiore a quello di un impiegato.
Il 4 dicembre 1963 giurò quello che era già  il diciannovesimo governo (sarebbe rimasto in carica 7 mesi e 18 giorni) formato da democristiani, socialisti, socialdemocratici e repubblicani.
Presidente del consiglio era Moro, il primo di una serie di governi che sarà  chiamato a presiedere. Qualche anno prima la casta qualche privilegio se lo era già  regalato, come i viaggi gratis per i parlamentari, i ministri e tutti quelli che lo erano stati.
Le prime autostrade, il carburante, ma soprattutto il treno per tutti, i wagon lits, soprattutto. Prima classe.
Il provvedimento venne sostenuto e voluto dall’allora presidente del consiglio, Antonino Segni, destinato a portare lo sfarzo anche al Quirinale dove arrivò nel 1962 per dimettersi due anni dopo.
Ma la casta fece uno scatto decisamente in avanti con il secondo governo Moro e Nenni, nel 1965: lo stipendio di un parlamentare venne equiparato a quello di un giudice presidente di corte di Cassazione.
Niente male per una classe dirigente che era entrata con l’obiettivo di mantenere un salario molto vicino a quello di un impiegato e un operaio.
In un solo giorno e per decreto gli stipendi diventarono cinque volte superiori a quello degli statali e otto volte rispetto agli italiani che lavorano in fabbrica a un già  indebolito boom economico.
Da quel momento fu un continuo crescere.
Le spese telefoniche , gli assistenti, i voli di linea gratis. La casta si blindò anche per il futuro: i privilegi furono garantiti anche al termine del mandato.
Venne aperto anche uno sportello bancario del Banco di Napoli, attivo ancora oggi, alla Camera dei deputati, che offriva condizioni molto vantaggiose rispetto a un qualsiasi altro istituto di credito.
Per garantirsi la non troppa pubblicità  la stessa banca diede il diritto anche ad alcuni esterni, per esempio i giornalisti, che anche oggi possono godere di tassi d’interessi identici a quelli dei deputati.
Come se non bastasse il resto arrivarono anche gli anni di Bettino Craxi, il segretario del Psi divenuto leader indiscusso del Caf, l’alleanza tra lui, Andreotti e Forlani, dove il privilegio personale dei politici era ormai smaccato e la puzza delle tangenti si sentiva lontano chilometri.
Ben prima del 1992 e dell’inchiesta Mani Pulite. L’Italia era già  un Paese consapevolmente corrotto: per un imprenditore lavorare voleva dire pagare tangenti Ma se i soldi andavano ai partiti col sistema poi smascherato dai magistrati di Milano, è nel 1995, quando presidente del consiglio è Lamberto Dini, tra la prima crisi del governo Berlusconi e un non ancora eletto Romano Prodi, che i parlamentari arrivarono a guadagnare 16.686 euro al mese.
In quell’anno gli operai guadagnano in media 1180 euro al mese e gli impiegati non arrivano a 1400.
La casta è assolutamente blindata e la discesa a Roma dei leghisti serve a poco: gridano Roma ladrona, ma quando si affacciano i aula i primi provvedimenti per la riduzione degli stipendi loro votano no.
Per sette volte nell’arco di tre anni.
Poco ha potuto la sbandierata spending review voluta da Mario Monti: gli stipendi sono scesi dopo oltre mezzo secolo di crescita, ma siamo sempre a un divario rispetto all’italiano medio incolmabile. Nonostante tutte le buone intenzioni che avevano mosso i padri costituenti.

Emiliano Liuzzi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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INTERVISTA AL PRESIDENTE DEI GEOLOGI GRAZIANO: “DISSESTO IDROGEOLOGICO: IL PROBLEMA NON SONO I SOLDI, MANCANO I PROGETTI”

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

“I CANTIERI ATTIVI? 642 DAL 2014″… “NON ESISTE UNA STRUTTURA DI CONTROLLO DELLA QUALITA’ DEI LAVORI”

L’80% dei Comuni in Italia ha case, scuole, ospedali in zone a rischio idrogeologico, franose o tra letti e rive dei canali.
Fosse solo questo: un terzo è stato costruito negli ultimi dieci anni, cioè quando erano già  in vigore i vincoli dettati dal Piano per l’assetto idrogeologico, cioè lo strumento che le Regioni utilizzano per la programmazione degli interventi per la difesa del territorio.
Strumento, a quanto pare, inutile.
Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente infatti sono 186 i Comuni in cui si è edificato in aree a rischio nell’ultimo decennio.
Nel 79% dei casi si tratta di abitazioni, nel 17% di interi quartieri. E peggio ancora: meno del 5% dei Comuni con zone abitate a rischio ha iniziato delocalizzazioni.
Così la “missione prevenzione” del governo Renzi è già  una corsa contro il tempo. Italia Sicura, il programma di Palazzo Chigi, prevede 7100 interventi in tutta Italia, per un totale di 21 miliardi di euro, di cui, per il momento, disponibili poco più di due, dice Gian Vito Graziano, presidente del consiglio nazionale dei geologi e membro della cabina di regia di Italia Sicura.
Un piano che parte però con un handicap: quello di non avere una struttura di controllo della qualità  dei progetti presentati dalle Regioni. Il rischio quindi, spiega Graziano, è che “diventi un distributore di soldi senza risolvere il problema”.
Graziano, in Italia lo stato di dissesto si è sempre scontrato con una forte carenza pianificatoria. Lei crede che Italia Sicura sia un efficace strumento di prevenzione?
Credo che uno Stato serio dovrebbe saper far funzionare la propria macchina amministrativa senza il bisogno di creare strutture di missione come questa, che comunque agisce in maniera emergenziale. Ma purtroppo queste sono le condizioni in cui ci siamo trovati e dovevamo intervenire. Come struttura, con tutti i limiti di una struttura piccola, come personale intendo, sta funzionando bene per tutta una serie di risultati che è già  riuscita a ottenere. E non parlo solo di reperimento di fondi, ma anche quello di aver creato un unico database con le diverse necessità  delle venti regioni sotto un unico standard di lavoro. Quando abbiamo iniziato a chiedere le carte del rischio idrogeologico ai vari enti per capire quale fosse la situazione in Italia, abbiamo trovato il caos; c’erano carte una diversa dall’altra e alcune completamente in contrasto con la realtà : zone a alto rischio idraulico, ad esempio, risultavano non a rischio. Da questa attività  è emerso tuttavia che i famosi 44 miliardi di euro che si diceva fossero necessari, perlomeno dal ministro Prestigiacomo in poi, per mettere in sicurezza l’Italia non hanno senso, perchè siamo complessivamente davanti a una spesa di 21 miliardi di euro.
E quanti ce ne sono a disposizione?
Per il momento abbiamo reperito quasi 2,2 miliardi di euro delle risorse non spese dal 1998. In più ci sono i 654 milioni di euro già  stanziati dal Cipe per il piano delle aree metropolitane, che è un piano più piccolo ma estremamente importante perchè stiamo parlando di Genova, Milano, Torino, Firenze, Roma, Catania e via dicendo, ossia le aree più densamente popolate.
Quindi mancano finanziamenti?
Per il momento il problema è un altro: i soldi ci sono ma i progetti no. La maggior parte delle Regioni, che sono quelle incaricate di presentare il piano delle opere di mitigazione del rischio, è alla fase dei progetti preliminari, che, detta in maniera un po’ volgare, sono quattro fogli con delle linee generali. Per poter sbloccare finanziamenti servono progetti esecutivi che non stanno arrivando. In Italia in questo momento non abbiamo la capacità  di progettare. In parte per incuria delle pubbliche amministrazioni, in parte per limiti burocratici: oggi, per le procedure di legge per le opere pubbliche, se un Comune non ha la copertura finanziaria non può incaricare la progettazione. Di fatto non abbiamo più progetti e quando ci sono la qualità  è spesso bassa, proprio perchè non ci sono i finanziamenti che permettono al progettista di fare le dovute analisi. E succede che alcuni progetti, non solo non hanno raggiunto l’obiettivo, ma hanno anche creato grossi problemi.
Un esempio?
Olbia: una zona dove storicamente c’erano tutti questi corsi d’acqua che però non davano problemi, nemmeno in caso di piogge abbondanti. Ora ci sono alluvioni ogni anno. C’è sicuramente il cambiamento climatico da tenere in considerazione, ma il punto è che hanno realizzato una serie di opere dentro gli alvei che sono state dannose.
Italia Sicura non ha una struttura di controllo dei progetti che vengono presentati dalle Regioni; non si rischia di finanziarne altri dannosi?
Sì, il rischio c’è. Da geologo, questo è l’aspetto per me più interessante, tanto che quando sono arrivato nella cabina di regia ho posto subito il problema, chiedendo appunto “ma sappiamo cosa finanziamo?”, “non si rischia di diventare distributori di soldi, senza risolvere il problema?”. Oltretutto se arriva un progetto cantierabile, dobbiamo sbloccare subito i finanziamenti per non rallentare il progetto. Quindi abbiamo pensato di intervenire a monte cercando di creare delle linee guida per i progettisti in modo che sappiano che se il progetto non ha tutti i requisiti non può essere finanziato. Il documento con le linee guida dovrebbe essere pronto entro fino ottobre e a quel sta al presidente del consiglio trasformarlo in un’ordinanza.
Quanti cantieri sono stati aperti ad oggi e riuscirà  Italia Sicura a terminare la sua “missione” entro i sette anni come da progetto?
Da giugno 2014 sono partiti 642 cantieri per una somma complessiva di 1,49 miliardi di euro, ma il piano nazionale è ancora in fase di redazione proprio perchè non arrivano i progetti. Non so quanto tempo ci vorrà  per chiuderli tutti, se 7 o 17 anni. Tutto dipende dalla volontà  politica e dalla priorità  che i governi danno al tema. Questo governo sembra aver dato attenzione, ma anche perchè non era possibile girarsi dall’altra parte. Certo, per la buona riuscita del piano, conta anche l’informazione. Se infatti si costruisce un’opera che riduce il rischio del 60 per cento, perchè non potrà  mai eliminarlo del tutto, il restante lo deve mettere il cittadino. C’è l’abusivismo sì, ma anche il comportamento. Cito spesso Fukushima: quando c’è stato il terremoto le persone sono andate tutte sul tetto perchè sapevano che sarebbe arrivato lo tsunami. Da noi succede il contrario: la gente va negli scantinati.

Melania Carnevali
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LA SICILIA SI SBRICIOLA, LA POLITICA STA A GUARDARE

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

LA SICILIA E’ DIVISA IN TRE: DOPO IL CROLLO DEL VIADOTTO SULLA PALERMO CATANIA, ORA UNA FRANA INTERROMPE PURE LA CATANIA-MESSINA

Dopo il crollo del viadotto Himera sull’autostrada Messina-Catania, ora è una frana a mettere in ginocchio la viabilità  tra Catania e Messina.
La Sicilia è divisa in tre parti, con tutti i mezzi pesanti fermi perchè lungo la statale 114, sulla quale viene deviata la circolazione, c’è un angusto sottopasso che rende arduo il transito ai camion.
Il percorso alternativo varato dalla Prefettura è infatti impraticabile per i mezzi pesanti. “Da oggi tutte le derrate alimentari saranno portate al macero – dice l’Ance Sicilia, l’associazione dei costruttori edili – e quasi tutte le province dell’Isola soffriranno per la difficoltà  di approvvigionamento di merci e generi di prima necessità , di materie prime e semilavorati per l’industria manifatturiera e di materiali per il settore delle costruzioni”.
Stamane nel corso di una riunione del Comitato Operativo Viabilità , si è convenuto di deviare provvisoriamente il traffico veicolare in transito sulla SS 185 di Sella Mandrazzi che collega Barcellona P.G. a Giardini-Naxos.
“Dopo approfondito esame della situazione – si legge in una nota della Prefettura di Messina – nelle more di conoscere gli esiti di un accertamento tecnico in corso, volto a stabilire l’eventuale possibilità  di apertura della carreggiata autostradale a valle, si è convenuto di deviare provvisoriamente il traffico veicolare in transito sulla strada statale 185 di Sella Mandrazzi che collega Barcellona Pozzo di Gotto a Giardini-Naxos, con ingresso a Giardini per i mezzi provenienti da Catania e con ingresso a Barcellona Pozzo di Gotto per i mezzi che provenendo da Messina e da Palermo siano diretti a Catania”.
Per Leoluca Orlando e Mario Emanuele Alvano (Anci Sicilia), “la Sicilia si sta sbriciolando e assistiamo a continui attentati alla sicurezza dei siciliani e a continue minacce ad un’economia che, oltre alla crisi, deve fare i conti con queste emergenze che la penalizzano ulteriormente. L’inadeguatezza del sistema viario rappresenta, infatti, un colpo mortale all’economia degli enti locali e una dimostrazione dell’incapacità  della Regione di fronteggiare con azioni mirate una situazione insostenibile che va a sovrapporsi ad altri problemi irrisolti”.
“I trasporti in Sicilia – concludono – stanno attraversando un periodo nero, prova ne sia l’ulteriore sciopero che domattina coinvolgerà  i lavoratori impegnati nel trasporto pubblico locale. A loro, che protestano contro l’immobilismo regionale e contro i tagli dei trasferimenti ai comuni e alle aziende, esprimiamo la solidarietà  dell’associazione”.
Per l’Ance, la situazione “mette a nudo la gravissima responsabilità  dei governi centrale e regionale e della deputazione nazionale e dell’Ars, che hanno tutti sottovalutato l’importanza di completare l’anello autostradale siciliano e di investire in maniera efficace sulla prevenzione del dissesto idrogeologico”.
E ancora: “Proprio adesso la giunta regionale per pagare spese correnti e assistenziali ha sottratto risorse al completamento della Nord-Sud, mentre il governo nazionale ha appena sfiorato la Sicilia col piano “#Italia Sicura” e la stessa Regione ha previsto pochissime risorse nella scheda sul dissesto idrogeologico presentata a Bruxelles per la nuova programmazione dei fondi europei”.
“Cosa dovrà  accadere ancora – si chiede Santo Cutrone, presidente facente funzioni di Ance Sicilia – perchè l’intera classe politica capisca che la situazione del territorio siciliano non può essere più presa sottogamba? Dobbiamo sperare ancora una volta in interventi ‘fai da te’ dei cittadini e dei Comuni che evidenziano tutta la sfiducia nella politica? Non possiamo e non dobbiamo”.

(da “Huffingtonpost”)

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“IO, MALATA DI CANCRO, LASCIATA A CASA DAL DATORE DI LAVORO”

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

“GUARDARE SOLO AL PROFITTO E’ UN CEFFONE ALLA VOGLIA DI VIVERE”… LA STORIA DI LEONORA

Leonora Longhin ha affidato a Facebook il suo sfogo. Un racconto dettagliato, soprattutto di quel 30 settembre quando, cinque minuti prima di timbrare, le hanno comunicato che non le rinnovavano il contratto.
Dal primo dicembre 2014 lavorava per un’importante catena di dentisti low cost a Vittorio Veneto.
«Mi hanno detto che per loro ero un costo», racconta la giovane, «ora sono senza lavoro». Leonora era entusiasta di quel lavoro, aveva un ottimo rapporto con le colleghe e trovava stimolante l’ambiente lavorativo.
La decisione è arrivata dall’alto, dai vertici della società .
«Il direttore sanitario di Vittorio Veneto, una persona correttissima», aggiunge l’ex igienista, «ha avuto il compito infausto oltre che ingrato di comunicarmi la decisione. Il lavoro è dignità . Io sarei in grado di lavorare nei giorni in cui sto bene. Ho voglia di vivere e lavorare».
Leonora Longhin era stata assunta attraverso un’agenzia di lavoro interinale.
Aveva poi proseguito con contratti a tempo determinato, di tre mesi in tre mesi.
La scorsa primavera la ragazza ha scoperto di avere un nodulo al seno, asportato dieci giorni dopo l’ecografia perchè di grandi dimensioni. Dalle analisi era risultato un carcinoma maligno aggressivo.
Il 15 maggio Leonora è stata operata. Il 30 giugno, a seguito dell’esame istologico, ha subìto un secondo intervento di asportazione parziale del seno.
L’azienda intanto le ha rinnovato il contratto per altri tre mesi, fino al 30 settembre.
«Dopo un mese e mezzo di malattia, sono rientrata il 17 agosto», racconta.
«Dopo pochi giorni ho iniziato la chemioterapia. Sono rimasta a casa dieci giorni, poi sono rientrata al lavoro. Ero contentissima perchè riuscivo a lavorare e dare un senso di normalità  a un periodo che non è normale».
L’11 settembre ha subito il secondo ciclo di chemio che l’ha costretta altri dieci giorni a casa. È rientrata al lavoro solo per pochi giorni, perchè con il 30 settembre il suo contratto è scaduto. «Penso che guardare esclusivamente al profitto», riflette Leonora, «abbia ben poco a che fare con la civiltà  in cui crediamo di far parte. È un ceffone alla voglia di vivere. Il team di Vittorio Veneto funziona bene, c’è un tessuto umano straordinario. Penso che un’azienda sia fatta dalle persone e non solo dai numeri».
L’ex assistente alla poltrona ha provato a contattare i vertici aziendali cercando di spiegare la sua situazione e la sua voglia di investire nel lavoro per superare questo passaggio così difficile della sua vita.
«Non c’è stato niente da fare», dice con la voce velata di delusione, «non mi hanno fatto altre proposte per venirmi incontro».

(da “La Tribuna di Treviso“)

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“TEMPO SCADUTO, TOTI SI DIA UNA MOSSA”: I PRIMI CENTO GIORNI DEL GOVERNATORE DELLA LIGURIA

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

L’EDITORIALE DEL DIRETTORE DEL SECOLO XIX: “LA SVOLTA NON SI VEDE”

In una scanzonata poesia di Murilo Mendes, la squadra della Marina brasiliana non riesce mai a salpare: prima c’è da festeggiare il carnevale, poi i marinai sono troppo ubriachi e infine, quando tutto sembra pronto, arriva l’ambasciatore inglese con due milioni di scudi e la storia ricomincia da capo.
A esquadra nà£o pà’de seguir. La flotta non può partire.
Non sono certo mulatte, cachaà§a o samba a trattenere agli ormeggi la nuova squadra della Regione Liguria, ma dopo i festeggiamenti increduli della vittoria, il mese passato a mettere insieme la giunta, i cento giorni a studiare la macchina di piazza De Ferrari, ci saremmo aspettati un provvedimento importante e concreto per ridare slancio a una terra tramortita da anni di crisi e di amministrazione infelice.
E invece no, si prega di attendere.
Giovanni Toti è un uomo di buon senso che non ama gli effetti speciali, e questo è un bene. Ma ora deve inventarsi qualcosa di straordinario per realizzare «entro novembre» due delle novità  promesse come l’uovo di Colombo in campagna elettorale: ambulatori aperti fino a sera e il sabato; incentivi alle imprese che investono e assumono in Liguria.
Non c’è più tempo per altri annunci, nemmeno i suoi elettori possono accontentarsi del ritornello brasiliano: A esquadra nà£o pà’de seguir.

Alessandro Cassinis
(da “il Secolo XIX”)

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LA SENTENZA RIDICOLA: BARANI E D’ANNA SOSPESI PER 5 GIORNI DAL SENATO

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

UN COMUNE CITTADINO AVREBBE RISCHIATO UNA CONDANNA BEN PIU’ SEVERA… SE POI AVESSERO TROVATO UNO CON LE PALLE I 5 GIORNI SE LI FACEVANO AL PRONTO SOCCORSO

Aver mimato con un gesto il sesso orale e aver indicato i propri genitali rivolti ai banchi dei grillini è costato ai senatori verdiniani Lucio Barani e Vincenzo D’Anna 5 giorni di sospensione da Palazzo Madama.
Fuori per un giorno invece il collega M5S Alberto Airola, accusato di aver insultato alcuni esponenti del governo e della segreteria d’Aula.
I parlamentari rischiavano al massimo 10 giorni di squalifica.
“Gli episodi accaduti”, ha detto il presidente Pietro Grasso, “sono stati di tale gravità  che hanno offeso persone e senatori e hanno minato la credibilità  delle istituzioni”.
Il consiglio ha deciso anche una censura nei confronti del capogruppo M5S Gianluca Castaldi per essersi avvicinato con forza verso i banchi del governo e per il gruppo della Lega Nord per aver sventolato in aula dei soldi per denunciare la “compravendita dei senatori verdiniani” che ci sarebbe stata, secondo loro, per il ddl Boschi.
L’Ufficio di presidenza del Senato, a tre giorni di distanza dal dibattito che ha imbarazzato il Parlamento, ha fatto un processo con video, resoconti e testimonianze per decidere le sanzioni ai parlamentari.
Il Movimento 5 Stelle aveva chiesto che fosse comminata la pena massima:
“Spero”, aveva scritto su Facebook il vicepresidente M5S della Camera Luigi Di Maio, “che li sospendano per il massimo dei giorni previsti dal regolamento, ma soprattutto con decorrenza immediata. Non è accettabile che gli si consenta di scontare le sanzioni tra un mese, permettendogli intanto di modificare indisturbati la Costituzione”.
Tra i precedenti c’è quello di Massimo De Rosa, deputato grillino che a inizio 2014 disse alle parlamentari Pd: “Siete qui solo perchè siete brave a fare dei pompini”.
In quel caso l’ufficio di presidenza aveva deciso di sospenderlo per 3 giorni e di inviargli una lettera di biasimo.
L’incontro, iniziato alle 13, è stato interrotto per alcuni minuti perchè non erano presenti tutti i rappresentanti dei gruppi.
All’appello mancava il referente dei fittiani (Conservatori e riformisti) e i verdiniani (Ala), di cui fa parte proprio Barani.
Dopo alcune telefonate, sono arrivati Ciro Falanga per Ala e per i Conservatori e riformisti Cinzia Bonfrisco.
La seduta d’aula di Palazzo Madama, convocata per le ore 15, è stata rinviata per due volte a causa del protrarsi della discussione dell’ufficio di presidenza.

(da agenzie)

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INTERVISTA A KOUCHNER, IL FONDATORE DI MEDICI SENZA FRONTIERE: “NON C’E’ PIU’ RISPETTO PER GLI OPERATORI UMANITARI”

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

“QUESTO MASSACRO E’ UN CRIMINE DI GUERRA, GLI USA DICANO LA VERITA’ PER SALVARE IL LORO ONORE”

«Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà  accertare le responsabilità ».
Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong.
«Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 197
L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».
Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
«Non so se fosse possibile fermare il raid in diretta. Sarebbe stato necessario risalire la catena di comando. Il problema è chi ha preparato e ordinato quel bombardamento».
Le autorità  afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».
È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro. Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».
Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».
La neutralità  delle ong non viene riconosciuta?
« Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità  di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliaziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale».
Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà  possibile avere la verità  sul bombardamento di Kunduz?
«La verità  è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo»
L’esercito americano lascerà  l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà ?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni. E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».

Anais Ginori
(da “La Repubblica”)

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PORTE APERTE DELL’EUROPA AI MIGRANTI (SE SONO RICCHI)

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

CON UN MILIONE DI EURO PUOI COMPRARE UN PASSAPORTO

Una delle distinzioni più discusse e causa di polemica nella vicenda dei migranti è quella tra profughi (persone in fuga da guerre e atroci dittature) e immigrati economici, disperati in fuga dalla miseria e in cerca di una nuova opportunità  di vita.
I primi, secondo la narrativa dominante, vanno accolti come impongono le convenzioni internazionali, i secondi andrebbero rimpatriati, come se la prospettiva della fame o della carestia non sia motivo degno per affrontare i nuovi cammini della speranza.
Eppure non tutti i migranti economici sono così indesiderati.
Alcuni sono più uguali di altri. E molti Paesi fanno a gara per accaparrarseli.
Collezionisti di passaporti
È la nuova èlite globale, parte di quell’1% della popolazione del pianeta nelle cui mani si concentra una fetta sempre più cospicua e smisurata della ricchezza mondiale.
Da sempre votati all’acquisto di proprietà  immobiliari, opere d’arte, gioielli – talismani della loro sicurezza economica – i moderni paperoni hanno scoperto una nuova forma di bene rifugio: dimenticate ville, quadri e diamanti, adesso collezionano passaporti.
Una corsia preferenziale da 2 miliardi
È in crescita esponenziale il numero di ricchi investitori, disposti a spendere diversi milioni di euro per mettersi in sicurezza da situazioni politiche o economiche instabili nei loro Paesi d’origine.
Sono in gran parte milionari e miliardari delle economie emergenti, Cina, Russia, Paesi mediorientali, nazioni asiatiche o sudamericane, ansiosi di trovare usbergo per se e i propri familiari in luoghi stabili, dove i sistemi giuridici, economici ed educativi mettono al riparo da sorprese.
Con meno disdegno dei loro emuli più poveri, tecnicamente vengono definiti «cittadini economici».
Nel 2014 hanno speso più di 2 miliardi di dollari per assicurarsi un secondo o terzo passaporto e la domanda è così alta da aver innescato un vera e propria corsa tra i Paesi che offrono corsie preferenziali per ottenere visti di lunga durata o la cittadinanza tout court a prezzi sempre più alti.
Le tariffe
All’inizio, trent’anni fa, fu l’isola caraibica di St.Kitts a lanciare per prima il Citizen Investment Program, in base al quale ancora oggi per avere il passaporto basta acquistare una proprietà  da 400 mila dollari.
Molto più contese sono le offerte di cittadinanza di Paesi dell’Unione europea, come Malta, Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro, privilegiate porte di accesso allo spazio di Schengen e ai suoi vantaggi.
Vediamo alcune tariffe: per avere la cittadinanza maltese, bisogna pagare 650 mila euro, oltre ad acquistare proprietà  immobiliari per almeno 350 mila e titoli pubblici per 150 mila, senza nessun vincolo di residenza.
Un successone: nei primi sei mesi del programma, 200 persone hanno sottoscritto il programma, con un incasso di oltre 200 milioni di euro per il governo di La Valletta.
A Cipro, la cifra dell’investimento complessivo sale di molto, 5 milioni di euro per un passaporto, ma non c’è alcun obbligo.
Spagna, Portogallo e Regno Unito
Le condizioni cambiano nella penisola iberica: in Portogallo, dove l’investimento immobiliare richiesto è di 500 mila euro, si può richiedere la cittadinanza solo dopo 6 anni e occorre avere anche una conoscenza colloquiale della lingua.
La Spagna ha lanciato un anno fa il programma «Golden Visa» per cittadini extracomunitari: anche qui occorrono almeno 500 mila euro di investimento, ma c’è in più il vincolo di passare almeno 183 giorni l’anno dentro i confini spagnoli.
Nell’Unione europea, ma fuori da Schengen, anche il Regno Unito partecipa alla gara: occorrono infatti 2 milioni di sterline per ottenere, dopo 5 anni, il permesso di residenza illimitato.
Ma di recente il governo di Sua Maestà  ha inaugurato una corsia veloce, dove per 5 milioni di pound il permesso ve lo danno in 3 anni e per 10 milioni in appena 2: un affare. Interessante notare che la metà  dei «visti Vip» del governo britannico sono andati fin qui a ricconi russi e cinesi.
«La cittadinanza non può essere in vendita»
«Avere più passaporti è un modo per i ricchi di diversificare ulteriormente il rischio», spiega Christian H. Kalin, presidente di Henley&Partners, società  di consulenza londinese specializzata nel settore.
Ma la pratica del passport-shopping solleva anche molte obiezioni, non ultimo perchè ha un forte lato negativo: quello di essere un potenziale porto sicuro per chi ha costruito la propria fortuna sulla corruzione o su attività  illegali.
Nel 2013, l’allora Commissario europeo responsabile per la giustizia, Viviane Reading, fu molto esplicita in proposito: «La cittadinanza non può essere in vendita».
«Li paghiamo perchè arrivino»
Secondo i fautori del programma, invece, i visti permanenti per i miliardari globali portano molti benefici ai Paesi ospiti: gli «economic citizens» infatti investono in nuove aziende, comprano nuove case, spendono in ristoranti, moda, scuole e personale.
«In più portano competenze e talento», dice Nadine Goldfoot, avvocato del gruppo Fragoment. Ma secondo David Metcalf, docente della London School of Econimics e membro del Migration Advisory Committee, questi vantaggi sono annullati dall’aumento dei prezzi delle case e dei servizi, prodotto dall’arrivo di investitori che non badano a spese.
Inoltre, spiega Metcalf, gli interessi versati dallo Stato sui titoli pubblici, che sono parte dell’investimento richiesto per avere il visto permanente, significano «pagare di fatto gli oligarchi perchè vengano nel Regno Unito».

Paolo Valentino
(da “il Corriere della Sera”)

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TAGLIANO LA SANITA’ PUBBLICA, TANTO LORO SI GODONO QUELLA PRIVATA

Ottobre 5th, 2015 Riccardo Fucile

ECCO I PRIVILEGI MEDICI PER DEPUTATI, SENATORI, EX ONOREVOLI, PARENTI E CONVIVENTI (ANCHE OMOSESSUALI)…. 17 MILIONI DI RIMBORSI L’ANNO

Non abbiamo bisogno di dare altre garanzie ai parlamentari, ma di farli diventare sempre più normali”. Firmato Matteo Renzi, il 14 febbraio 2013: era ancora rottamatore (e sindaco di Firenze).
È passata un po’ di acqua sotto i ponti: il giovane rampante che contestava i privilegi di deputati e senatori si è fatto largo a spallate fino a Palazzo Chigi.
Ma i parlamentari, nel frattempo, non sono diventati “più normali” di prima.
Nei giorni in cui lo stesso Renzi,da presidente del Consiglio, annuncia altri due miliardi di tagli al servizio sanitario nazionale, da aggiungere ai 2,3 pattuiti a luglio, può essere utile ricordare quanto sia profonda la differenza tra l’accesso alle cure di un cittadino comune e quello di un onorevole.
A votare sulla dieta della sanità  pubblica, infatti, sono le stesse persone che godono di un sistema di assistenza sanitaria integrativa.
Una sorta di “mutua privata”, costosa, efficiente e molto distante dalle esperienze di chi frequenta gli ospedali pubblici.
A scanso di equivoci: il discorso potrebbe essere esteso a diverse categorie professionali che godono dello stesso beneficio, a cominciare dai giornalisti.
Un privilegio resta un privilegio. Diventa meno sopportabile, però, quando riguarda le persone che decidono le politiche pubbliche.
Cure per tutti: anche conviventi gay
Funziona così: una parte del corposo stipendio dei parlamentari serve a coprire l’iscrizione all’Asi. La quota è proporzionale all’indennità  degli onorevoli.
È molto alta, quindi: 526,66 euro al mese per i deputati e 540,27 per i senatori. In compenso, il piccolo sacrificio — rispetto alla busta paga, che tra le varie voci è vicina agli 11 mila euro     — consente di farsi rimborsare quasi per intero (il 90 per cento) qualsiasi tipo di prestazione, dal ricovero ospedaliero fino alle lenti a contatto.     Deputati e senatori sono iscritti d’ufficio al fondo integrativo (per rinunciare devono fare richiesta) e possono estendere la copertura a coniugi, figli e semplici conviventi con un sovrapprezzo di 50 euro al mese.
La legge sulle unioni civili viene rimandata di continuo, le coppie gay per lo Stato italiano non esistono, ma in Parlamento — e solo in Parlamento — quest’ingiustizia è sanata: dal 2013 gli onorevoli omosessuali possono mettere al riparo i propri compagni dalle incertezze della sanità  pubblica.
Il fondo riguarda anche e soprattutto gli ex parlamentari: quelli cessati dal mandato (insieme ai familiari), fanno come al solito la parte del leone.
Oltre a loro, la sanità  integrativa spetta a giudici della Corte costituzionale, giudici emeriti e famiglie a carico.
A differenza dei costi delle prestazioni sanitarie, che continuano a crescere, la quota associativa è la stessa da quasi 10 anni, come si legge nel rendiconto della Camera per l’anno 2014: “Il calcolo delle quote di contribuzione è basato sulla misura dell’indennità  parlamentare vigente nell’anno 2006 e non più aggiornato”.
I rimborsi, nel 2014, sono costati 11 milioni e 150 mila euro per la Camera e 6 milioni e 100 mila euro per il Senato. Intutto fanno oltre 17 milioni di euro di prestazioni sanitarie in un solo anno, da dividere per circa 5.600 iscritti, tra parlamentari ed ex.
Le casse delle Asi, in ogni caso, sono in equilibrio: le quote versate coprono i costi per intero.
L’assistenza integrativa copre davvero qualsiasi tipo di intervento medico: ricovero, parto, prestazioni odontoiatriche , protesi e apparecchiature, accertamenti diagnostici, sedute psicoterapeutiche e persino cure termali (che però, almeno, sono rimborsate solo a chi soffre di cardiopatia o ha subito lesioni fisiche o cerebrali).
Gesso, lenti, elettroshock Il tariffario è completo
Ogni voce ha una tariffa rimborsabile: occhiali da vista e lenti a contatto arrivano fino a 350 euro l’anno, per l’impianto di un dente si ha diritto a 387,34 euro, per l’ “ablazione del tartaro” fino a 51,65.
Il deputato che non chiude occhio può farsi rimborsare una “cura del sonno” da 516 euro e addirittura l’“elettroshock con narcosi”, fino a 154 euro.
Per farsi togliere il gesso, si possono riavere indietro 51,65 euro.
Le spese per le cure, oltre ad essere rimborsate, a fine anno possono essere portate in detrazione sui redditi.

Tommaso Rodano
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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