Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
ALLA FINE SARA’ BEN POCA COSA, MA ABBIAMO PUNTATO SUL CAVALLLO SBAGLIATO, SARRAJ
Libia, ovvero l’insostenibile leggerezza di una missione. La missione navale italiana. Dove l’insostenibile leggerezza non è tanto nel suo aspetto militare quanto su quello politico.
Stando alle ultime indiscrezioni, che saranno sciolte martedì in Parlamento dai ministri della Difesa e degli Esteri, Roberta Pinotti e Angelino Alfano, l’Italia risponderà alla richiesta del Governo di accordo nazionale libico inviando una nave e rafforzando l’addestramento della Guardia Costiera di Tripoli.
Pensare che una nave militare, a supporto di una Guardia non proprio super professionale, possa contribuire ad una svolta significativa nel contrasto ai trafficanti di esseri umani, più che una speranza è una illusione.
Se resterà questo il livello del nostro impegno, faremo un buco nell’acqua. Ma il punto nodale non è neanche questo.
Perchè, sul piano operativo, l’Italia ha tutte le risorse, di mezzi e di preparazione, per poter accettare la sfida degli scafisti. Il punto vero, la sostanza di questa leggerezza insostenibile, va ricercata sul piano politico.
Roma ha puntato sul “cavallo” perdente: il premier Fayez al-Serray.
Uno dei più autorevoli studiosi di Libia italiani, Angelo Del Boca, ha definito l’ex architetto elevato a premier, come un “Signor nessuno”. Nessuno rispetto alla realtà libica, alle tribù che contano, alle milizie meglio armate e ancor più addestrate.
Un “Signor nessuno” che proprio perchè tale, era il ragionamento dei diplomatici che hanno negoziato in Marocco l’accordo tra le innumerevoli fazioni libiche, era quello che, forse, non avrebbe fatto troppa ombra a quelli che sul campo contano davvero.
E poi c’è dell’altro.
E’ che l’Italia, confidano all’Huffington Post fonti diplomatiche che hanno lavorato per l’affermazione del Governo di accordo nazionale, più di altri partner europei e occidentali, aveva puntato non solo alla stabilizzazione del Paese nordafricano ma allo sviluppo di un vero processo di democratizzazione che, come tale, non poteva fondarsi su personaggi che con una tale ambizione non avevano nulla a che spartire. Un nome fra tutti, il generale Khalifa Haftar.
Membro della tribù Firjan, Haftar nasce come uno degli uomini che aiutarono Gheddafi ad impadronirsi del potere.
Dopo aver giocato un ruolo chiave nella Guerra in Ciad negli anni 80, il suo rapporto col Raìs si deteriorò irrimediabilmente, tanto da dover fuggire negli Stati Uniti (pare con l’aiuto della Cia), dove rimase quasi 20 anni prima di rientrare in Libia, nel 2011, come uno dei leader delle forze ribelli.
L’esercito di Haftar, composto, verosimilmente, da circa 35.000 unità , si basa prevalentemente su ex membri dell’Esercito gheddafiano reintegrati in quello che avrebbe dovuto essere il nuovo apparato di sicurezza libico, ma caratterizzati da una profonda avversione per i nuovi commilitoni provenienti dalle milizie rivoluzionarie
Serraj al massimo controlla alcuni quartieri di Tripoli, non conta nulla in Cirenaica. Quanto alle rotte dei barconi, direzione Italia, i punti di partenza sulla costa ad ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur.
Alle porte della capitale gli imbarchi avvengono a Tagiura e verso Misurata a Tarabuli. Tutte zone che sfuggono al controllo dell’improbabile esercito del governo Serraj.
I clan criminali che si occupano materialmente della tratta pagano il pizzo alle milizie che controllano il territorio.
A Zuara, lo snodo più importante, ogni viaggio genera un giro d’affari medio di 150mila euro. Il pizzo ai miliziani è di 18mila euro, poco più del 10%.
Se è vero, come è vero, dunque, la maggior parte dei migranti prendono il mare dalla Tripolitania (dunque dalla fascia di costa formalmente controllata da Serraj), è altrettanto vero che solo un sistema di difesa libico unificato può garantire un contenimento efficace dei flussi.
Il che rimanda per forza di cose al generale Haftar e al Libyan National Army ai suoi ordini. L’Italia non può mollare Serraj ma deve fare i conti con Haftar.
Sotto dettatura del generale, il premier torna a chiarire i termini della richiesta di assistenza fatta all’Italia, smentendo che abbia autorizzato le navi italiane a entrare nelle acque territoriali libiche.
“L’assistenza che ho chiesto all’Italia – ha precisato ancora una volta Serraj, citato dall’agenzia di stampa Lana, al suo arrivo all’aeroporto di Tripoli – è di tipo logistico e per l’addestramento della Guardia costiera, inclusi equipaggiamento e armi moderne per salvare le vite dei migranti e per affrontare le bande criminali dedite al traffico di migranti, che sono armate meglio dello Stato”.
Puntualizzazione che arriva il giorno dopo la nuova minaccia indirizzata all’Italia dal portavoce dell'”Operazione dignità ” che fa capo al generale Haftar. “La risposta all’intervento italiano nelle acque libiche sarà forte”, ha avvertito Ahmed Al-Mismari.
Ma se Roma piange, Parigi non può ridere.
Perchè il proclamato accordo sbandierato da Macron tra Serraj e Haftar sul campo, solo pochi giorni dopo la stretta tra i due rivali, che si detestano anche personalmente, già mostra tutta la sua “leggerezza”.
E non poteva essere altrimenti, visto che, vendere come ha fatto il giovane e ambizioso presidente francese, quello di Parigi come un “punto di svolta per stabilizzare la Libia”, più che uno statista definisce un “piazzista”, visto che parlare di stabilizzazione della Libia tagliando fuori le decine di milizie che ancora oggi quando non vi hanno partecipato le decine di milizie che ancora oggi controllano importanti porzioni del territorio, è qualcosa che sfugge completamente al principio di realtà .
E a farlo intendere chiaramente è proprio uno dei due “pattisti”, il generale Haftar che, forte del sostegno dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti ha così bollato Serraj: “Non controlla la città , se non a parole. Tripoli è la capitale di tutti i libici — ha spiegato Haftar a Frane 24 – , e non appartiene a nessuno. Serraj a Tripoli non ha alcuna autorità . È un ingegnere. Farebbe meglio a dire cose concrete e attinenti ai fatti e a lasciar perdere le fanfaronate”. Alla faccia dell’intesa.
I fatti sembrano dar ragione al potente generale.
Perchè ogni giorno che passa, il Governo Serraj, riconosciuto internazionalmente ma senza peso in Libia, perde qualche pezzo: tre dei nove membri del Consiglio nazionale si sono dimessi subito o hanno boicottato il nuovo organismo.
E quelli che dovrebbero essergli rimasti fedeli, in conversazioni neanche troppo private definiscono sprezzantemente il premier come “il sindaco di Tripoli, se non di alcuni quartieri di Tripoli”.
Ma la perdita più pesante per Serraj è quella delle tribù. La tribù libica dei Gharyan, tra le più importanti della Tripolitania e composta dai Berberi delle montagne di Nafusa, a sud di Tripoli, si è alleata con il governo di Tobruk (in Cirenaica) e con l’Esercito Nazionale Libico di Haftar, facendo così venire meno il suo sostegno al governo di al-Sarraj.
La nuova alleanza sarebbe stata ufficializzata con il rilascio da parte delle milizie Gharyan di Sasi al-Ghani al-Tarhouni, ex colonnello nell’ENL e già fedelissimo di Gheddafi prigioniero della tribù da quasi cinque anni. Al-Tarhouni è stato riconsegnato agli uomini di Haftar nell’ambito dell’accordo di cooperazione.
Quella dei Gharyan non è certo la prima defezione di tribù dal sostegno al governo di al-Sarraj. Le tribù Mshait, Obeid, Fwakher, Drasa ma soprattutto Warfalla – la più numerosa e potente della Libia, hanno abbandonato il premier inconcludente di Abu Sittah per sostenere Haftar.
“Nel frattempo — rimarca una fonte indipendente a Tripoli – le condizioni di vita peggiorano: per 16 ore al giorno non c’è luce, Serraj è sempre più solo, anche i suoi uomini più fedeli lo stanno abbandonando con Haftar che guadagna forza e legittimità tra i libici che hanno bisogno di un punto di riferimento forte”.
Ai problemi della sicurezza si aggiungono quelli economici. La Libia è colpita da frequenti blackout, oltre che dalla crisi economica (il Pil è in caduta libera) e dalla scarsità di contante che molti attribuiscono all’incapacità dell’attuale governo.
Su un punto, e che punto, analisti militari e geopolitici concordano: delle due, l’una, o le grandi tribù libiche puntellano il Governo Seraj, altrimenti per “stabilizzarlo” occorrerebbe un contingente internazionale (formato da quali Paesi, sotto quale egida?) di almeno 50mila soldati.
Le milizie più rilevanti sono almeno 5: Zintan, Misurata, Lybian Shield, la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio e la milizia/Esercito del Generale Haftar. Il Consiglio Militare di Zintan, dal nome della città , appunto, dove è basato, conta circa 4.000/5.000 uomini armati di tutto punto – armi leggere, sistemi di supporto del fuoco ed armi pesanti. Quanto alla milizia di Misurata (appoggiata da elementi del Lybian Shield), si tratta di un altro degli attori forti di questa crisi. Di tendenze islamiste, la milizia conta qualche migliaio di uomini e da tempo ha ormai imposto un regime di sostanziale autonomia alla città costiera di Misurata dalla quale prende il nome.
E come se non bastasse, c’è la minaccia Isis.
Un rapporto del capo delegazione italiano, Andrea Manciulli, all’Assemblea della Nato mette l’accento sull’ “espansione della minaccia di Daesh (Isis) in Libia e nel Mediterraneo Occidentale”.
“La Libia è il perfetto epicentro di instabilità per l’intero contesto regionale e assume una valenza strategica per la penetrazione di Daesh nel Mediterraneo, fornendo accesso a porti, ampi depositi di armi e lucrose rotte del contrabbando. L’anima del Daesh in Libia è intrinsecamente legata ai flussi clandestini che transitano sul suo territorio”. Ed è soprattutto a sud, nel Fezzan, il deserto che confina con la fascia dell’Africa, dall’Egitto al Ciad, al Niger, la situazione sta diventando sempre più esplosiva.
Gli islamisti di Misurata da tempo hanno mandato centinaia e centinaia di uomini, la cosiddetta “Terza Forza”, a controllare il Fezzan dove si sono ritirati militanti del Daesh dopo aver lasciato Sirte.
In questa situazione sono arrivati dal Ciad, dal Niger, dal Mali altri nomadi della tribù Tabu. Uno scenario inquietante, quello che si sta delineando, e che attualizza quanto affermato dal coordinatore europeo antiterrorismo, Gilles De Kerchove, in audizione, il 26 settembre 2016, davanti alla commissione Libertà civili del Parlamento europeo. La situazione in Libia, secondo il coordinatore antiterrorismo Ue, si farà ancora più complicata “quando il califfato collasserà ” in Siria e Iraq e ci sarà un “esodo dei foreign fighters”: a quel punto, ci saranno “non centinaia ma migliaia di combattenti” che si muoveranno verso un altro luogo e “la Libia è il più ovvio”.
Ci si troverà dunque a gestire un “numero elevato di persone di diversi profili: chi era in prima linea nella lotta, chi stava nella cabina di regia, ma anche le moglie e i figli dei combattenti e sappiamo che più di cinquecento bambini sono nati là “, aveva spiegato ancora il responsabile antiterrorismo Ue, avvertendo che “nonostante il successo a Sirte, Daesh è ancora presente in Libia e la preoccupazione è vedere sempre di più il Paese diventare un trampolino per Daesh e il luogo in cui possono essere pianificati gli attacchi verso l’Europa”. Allarme rosso, dunque. Alle “porte” dell’Italia.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
“L’UNICA ALLEANZA E’ CON BERLUSCONI, I GRILLINI NON SONO SERI”
Per due giorni, la capitale estiva della Lega è «l’altra» Milano: Milano Marittima.
Alla festa della Lega romagnola, in piazza, nel capoluogo Cervia, sono attesi tutti i papaveri del partito, compresi il leader attuale, Matteo Salvini, che ci ha comiziato ieri sera, e quello storico, Umberto Bossi, che parlerà stasera.
Bossi anticipa quel che dirà in questa intervista, la prima dopo la condanna in primo grado per la vicenda del «cerchio magico». «Ma ci piacerebbe parlare di politica», fanno sapere dall’entourage del Senatur.
Va benissimo. Bossi, allora, in tutto questo tira e molla sulle alleanze in vista delle elezioni, con chi dovrebbe farla la Lega?
«Io credo che la Lega debba ripartire dall’alleanza con Berlusconi. Per una ragione molto semplice: anche se ha avuto i suoi problemi, Berlusconi è comunque un uomo che mantiene la parola. E se vogliamo vincere le elezioni e governare, l’accordo lo dobbiamo fare con qualcuno di cui ci possiamo fidare. Non si può certo pensare di mettersi insieme con i Cinque Stelle, che non sono seri. Quindi l’unica coalizione che può davvero vincere passa dall’accordo fra la Lega e Berlusconi».
Cita sempre Berlusconi e mai Forza Italia.
«Infatti. Io parlo di Berlusconi».
L’alleanza, però, ha bisogno di un candidato premier. Di nomi appunto Berlusconi ne ha fatti molti, e l’ultimo è quello di Maroni. Che ne pensa?
«Penso che in questo momento Maroni abbia una responsabilità enorme, che è quella di portare a casa l’autonomia della Lombardia al referendum del 22 ottobre. Vinto quello, tutto diventa possibile».
Quindi Maroni candidato primo ministro le andrebbe bene?
«Sì, potrebbe andare bene».
Altro nome di cui si parla molto in questi giorni è quello di Giovanni Toti, che del resto di tutti gli uomini di Forza Italia è il più vicino alla Lega…
«È una brava persona ma al momento non penso che abbia le spalle abbastanza larghe per fare il candidato premier».
Altro problema: i confini della coalizione. Alfano lo riporterebbe dentro?
«Secondo me, lo ripeto, l’asse della coalizione è l’accordo fra Lega e Berlusconi. Alfano non è un problema nostro, è un problema di Berlusconi. La scelta di riprenderlo con sè deve farla lui. Noi non c’entriamo».
C’è anche l’ex sindaco di Verona ed ex leghista Flavio Tosi, che Berlusconi, pare, sta cercando di arruolare. Crede che per la Lega sarebbe accettabile?
«Sappiamo tutti com’è stato sbattuto fuori. Ma se è stato sbattuto fuori così lui, allora chissà quanta gente avremmo dovuto cacciare dalla Lega. Per me, non sarebbe un problema se entrasse nell’eventuale coalizione. Anche perchè in ogni caso ci sono stati dei momenti in cui una figura come la sua è mancata».
Lei continua a parlare di coalizione. Alla fine con quale legge elettorale crede che si andrà a votare?
«Credo che alla fine ci si metterà d’accordo, magari all’ultimo momento, su una legge elettorale maggioritaria. Con un premio alla coalizione, appunto».
In questi giorni girano dentro la Lega dei simboli dove sparisce la parola «Nord». Il partito smentisce che si voglia toglierla, però sembra assodato che la questione settentrionale non sia più la priorità . Immagino che non sia d’accordo.
«Cancellare la parola Nord dal nome e dal simbolo della Lega significherebbe tradire un progetto politico. Sono convinto che la questione settentrionale esista sempre e sia tuttora attuale per la Lega e per la nostra gente. Così attuale che l’obiettivo immediato dev’essere la vittoria al referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto».
Dentro la Lega, lei è ormai all’opposizione. In sintesi, cosa rimprovera a Matteo Salvini?
«Per il momento nulla, perchè la Lega in questo momento ha bisogno di essere compatta per portare a casa il risultato del referendum. Una volta vinto il referendum, parleremo di quello che non va».
Ultima domanda. Dopo le ultime vicende giudiziarie, è pentito di essersi fidato di Belsito?
«Sì».
(da “La Stampa”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
LE DIFFERENZE TRA RETRIBUTIVO E CONTRIBUTIVO E LE CATEGORIE PIU’ FORTUNATE
Due infografiche a corredo di un articolo di Marco Ruffolo su Repubblica oggi ci aiutano a comprendere a che punto sono i due sistemi, retributivo e contributivo, nell’erogazione dei ritiri: tra il 2000 e il 2010 ben tre milioni di lavoratori hanno potuto lasciare all’età di 58 anni con una pensione media di quasi 2 mila euro lordi al mese.
I due terzi hanno una pensione superiore a 1.500 euro. Prendiamo allora uno di questi pensionati-tipo: uno dei primi baby-boomers figli del dopoguerra, classe 1951, assunto ventenne da un’impresa privata, in pensione nel 2009 a 58 anni dopo 38 di lavoro.
Oggi riceve un assegno di 2.120 euro lordi al mese. Quando nel 1996 Lamberto Dini introdusse il sistema contributivo, lui aveva già più di diciotto anni di lavoro alle spalle, e dunque resta immune dalla riforma: gli si continuerà ad applicare il vecchio calcolo retributivo per tutta la sua carriera.
Se la sua pensione fosse calcolata con il sistema contributivo, spiegano diversi studi di esperti previdenziali, dovrebbe prendere non 2.120 euro ma 1.520.
Seicento euro in meno, una differenza del 28%.
Ed è proprio questo il divario medio in Italia tra quanto riceve e quanto ha versato chi è andato in pensione anticipata con il retributivo.
E la forbice si allarga quando l’importo totale della pensione aumenta: “Chi è andato in pensione con 4.100 euro mensili non avendo neppure compiuto 60 anni, oggi riceve ogni mese 1.400 euro in più di quanto avrebbe se gli si applicasse il sistema contributivo, il 34% in più”.
(da “NexrQuotidiano”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
“CRIMINALIZZANO LA SOLIDARIETA’, MA NON CI FERMEREMO”… OTTENUTA LA CONDANNA DEL PREFETTO FRANCESE DELLE ALPI MARITTIME SUI RESPINGIMENTI COLLETTIVI
Dopo mesi di distribuzione di cibo ai migranti bloccati a Ventimiglia con l’associazione Roya Citoyenne, vedendo sempre più giovanissimi profughi cercare un varco per proseguire il loro viaggio verso la Francia, risalendo dalla città di frontiera verso la Val Roja, Elisabetta Pannelli e Simon Tapsell hanno deciso di aprire le porte della loro casa e ospitare i migranti per sostenerli attivamente nel loro viaggio.
Lei italo-americana, 57 anni, ex direttrice di una scuola di lingue a Sanremo, lui 60 anni, inglese della city di Londra ma nativo dell’Isola di White, ex dirigente della British Telecom.
Si sono conosciuti a Saorge, villaggio abbarbicato sulle Alpi Marittime francesi, dove hanno deciso di sposarsi e restare a vivere in una casa a quindici minuti di sentiero dal borgo, in mezzo ai monti
“Ci ha unito una comune visione della vita e la decisione di vivere con meno, in modo più essenziale — sottolinea Simon — cercavamo la libertà da una società che ritengo corrotta dal consumismo. Come possiamo pensare di essere felici, finchè ci saranno persone che fuggono dalle situazioni più drammatiche che si possano immaginare, a cui viene impedito di scegliere dove vivere?”.
Così, da gennaio, la coppia italo-inglese trapiantata in Val Roja, insieme a un manipolo di una trentina di solidali appartenenti a Roya Citoyenne, la rete di militanti francesi, ha trasformato il suo impegno che in un primo momento era stato unicamente umanitario.
“Dall’esterno ovviamente, con pochissime illusioni rispetto alla politica istituzionale — spiega Elisabetta — ma impegnati a fare pressioni per denunciare la disumanità del Trattato di Dublino, per il suo cambiamento e per il rispetto dei diritti umani di questi ragazzi”
Da quando, dopo diversi arresti, il contadino Cèdric Herrou ha deciso di rivendicare mediaticamente il trasporto di centinaia di migranti a Nizza e la ferma intenzione di continuare a farlo, la Val Roja è blindata e militarizzata giorno e notte, con controlli delle auto e posti di blocco a tutti i valichi.
A chi critica l’opportunità “strategica” di pubblicizzare questo impegno, Elisabetta risponde che “è importante sollevare il caso anche politicamente, rivendicare quello che facciamo, perchè pensiamo che il Prefetto non rispetti la legge, che prevede la valutazione dei singoli casi e non respingimenti collettivi, e inoltre ha il dovere di accogliere i minori”.
Così, in questi mesi, i solidali di Roya Citoyenne sono riusciti a far condannare dal Tribunale di Nizza il Prefetto delle Alpi Marittime per “non aver rispettato l’iter di riconoscimento della richiesta di asilo”, e “se prima dovevamo farli passare clandestinamente, ora li accompagniamo alla luce del sole a Nizza e, grazie a una rete di solidali e ad alcuni avvocati, garantiamo che le loro richieste vengano accolte singolarmente”.
Inoltre, una maggiore mediatizzazione delle attività dell’associazione francese permette di raccogliere i fondi necessari a continuare le loro attività , compresa la distribuzione del cibo a Ventimiglia, per la quale, a febbraio, Simon aveva anche preso una multa per aver violato l’ordinanza del sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano (Pd) che vietava la somministrazione del cibo ai migranti: “In Italia come in Francia cercano di criminalizzare la solidarietà diretta, ma non ci fermeremo” promette Simon.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
OBIETTIVO DELLA PAUSA DI RIFLESSIONE USARE TRATTE ESISTENTI PER RISPARMIARE
Con l’arrivo di Emmanuel Macron all’Eliseo, anche il dossier Torino-Lione è motivo di timori e potenziali attriti tra Italia e Francia.
Anche se lo stop dei cantieri già avviati non è in discussione, la pausa di riflessione sulle grandi opere annunciata dalla ministra dei Trasporti, Elisabeth Borne, rischia di paralizzare per un quasi un anno l’avvio di nuovi cantieri e l’attribuzione di appalti sulla tratta francese.
Bisognerà attendere la nuova legge programmatica sulle infrastrutture entro la fine del primo semestre 2018.
I ruoli si sono invertiti: finora era l’Italia a essere considerata l’anello debole, per via dei conti traballanti e dei movimenti che da vent’anni contestano l’alta velocità .
Ora è la nuova Francia macronista a voler riflettere sul da farsi.
Ricalcolare le spese anche per evitare di avviare opere che non è in grado di finanziare. E adesso è l’Italia (e con lei l’Europa) a chiedere spiegazioni, garanzie e rassicurazioni.
«Non possiamo promettere aeroporti e linee ad alta velocità alla Francia intera – recita un tweet pubblicato a metà luglio dal presidente – La legge assocerà ad ogni progetto il suo finanziamento».
Un po’ quel che mesi fa ha chiesto la Corte dei Conti francese, inchiodando l’Agenzia di finanziamento delle infrastrutture di trasporto (Afitf), accusata di avviare opere largamente insostenibili dal punto di vista economico.
La Francia ha un piano di infrastrutture che vale tra 70 e 80 miliardi nei prossimi anni. Tre progetti sono di rilevanza internazionale: il Canal Seine-Nord, 4,5 miliardi per collegare il porto di Le Havre e il Benelux; il nuovo aeroporto di Parigi; e la Torino-Lione.
Venerdì a Roma la ministra delle Infrastrutture Elisabeth Borne ha rassicurato il collega italiano Graziano Delrio: per la Torino-Lione i lavori proseguono e sono confermati gli «impegni internazionali».
I lavori del tunnel di base non si fermano, anche perchè l’Unione europea finanzia il 40% degli 8,3 miliardi necessari (all’Italia tocca pagare il 35%, alla Francia il 25). Entro gennaio la Francia si impegna a rivedere la tratta di sua competenza.
E lo farà prendendo spunto dall’Italia che ha già avviato e concluso la ricognizione delle proprie infrastrutture.
Il processo ha coinvolto anche la tratta italiana della Tav: il governo e la struttura tecnica guidata dal commissario Paolo Foietta hanno rivisto il progetto, deciso di sfruttare parte della linea già esistente, abbassando il costo da 4,3 a 1,9 miliardi.
Lo stesso farà adesso la Francia, la cui tratta di Torino-Lione vale sulla carta 7,5 miliardi ma – eliminando alcuni tunnel previsti e sfruttando la tratta storica che devia verso Chambery – potrebbe passare a 3,5-4 miliardi.
Il progetto non sembra dunque essere in discussione. Lo stesso Macron, in campagna elettorale, è stato categorico: «C’è un trattato internazionale, ci sono finanziamenti europei disponibili, ci sono gli operai che hanno incominciato a scavare. A questo punto non abbiamo più scelta: bisogna andare fino in fondo».
Quel che verrà valutato, oltre al tracciato, sono le modalità di finanziamento.
«Per ora vengono valutate su base annua – spiega Stèphane Guggino, delegato generale di Transalpine -. Entrare in una legge di finanziamento pluriannuale (come vuole fare Parigi entro il primo semestre 2018, ndr) permetterebbe di mettere in sicurezza il progetto sul lungo periodo».
Anche a costo di perdere altro tempo, che tuttavia si pensa di compensare.
Gli accordi internazionali fissano la fine dei lavori al 2030: un progetto low cost, che sfrutti in parte infrastrutture già esistenti, potrebbe accorciare i tempi di realizzazione. «Non è più un progetto, è un cantiere», spiega Guggino. «Un miliardo e mezzo è già stato speso, 20 chilometri di gallerie scavati e 400 persone lavorano sul lato francese del tunnel».
(da “La Stampa”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
DOPO LA DENUNCIA DEL PERSONALE SANITARIO DELLE ASL GENOVESI, ESPLODE IL CASO POLITICO
Tutto è nato dal ritrovamento, nel camice di un dipendente dell’ospedale Galliera, di un microchip inserito tra le cuciture dell’abbigliamento da lavoro.
Il dipendente ha denunciato il caso e il direttore sanitario della Asl ( bergamasco, in quota Lega tanto per cambiare) è finito nell’occhio del ciclone.
La motivazione della direzione sanitaria sarebbe l’esigenza di controllare la localizzazione degli abiti da lavoro così da evitarne lo smarrimento, come previsto dalla gara d’appalto.
È però evidente come questa strumentazione si presti anche al controllo continuo della posizione degli addetti, venendosi così a configurare a pieno titolo come mezzo di controllo a distanza dei lavoratori.
Questo significa che la sua introduzione sarebbe dovuta passare da un accordo con il sindacato o in alternativa da un’autorizzazione del ministero del Lavoro, come previsto dello Statuto dei Lavoratori.
Non risulta che si sia scelta la via dell’accordo sindacale, quindi si deve supporre che esista un’autorizzazione ministeriale, o che l’atto sia illegittimo.
In questo caso potrebbe definirsi anche il danno erariale, dato che si dovrebbe provvedere a sostituire capi in uso a 22mila persone».
Oggi interviene (come spesso a sproposito) il governatore Toti in difesa della assessora leghista Viale, sostenendo “di cosa hanno paura i dipendenti e i sindacati?”, come se il problema fossero i lavoratori posti sotto controllo in modo illecito e non il manacato rispetto delle norme previste.
In ogni caso se per Toti non è un problema, gli consigliamo di apporlo a loro insaputa a certi suoi assessori, magari si sarebbe evitato lo scandalo dei rimborsi truffa, quando qualcuno andava al ristorante o in alberghi di località turistiche il fine settimana e poi metteva le spese in conto alla Regione.
Non a caso il processo per peculato è in corso.
Il microchip sarebbe almeno servito a localizzare i furbetti dello scontrino.
(da agenzie)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
MENTRE L’ASSESSORE LEGHISTA ALLA (IN)SICUREZZA FA SOLO SPOT CON FOTOGRAFI AL SEGUITO, NELLA DELEGAZIONE AUMENTA IL DEGRADO
«Dicono che il problema di Sampierdarena sono i profughi, per di più ospitati nella mia chiesa. Non è vero. Il degrado della zona dipende prima di tutto dall’abbandono, dall’incuria, dall’immondizia che alimenta un esercito di topi, tra i bambini e gli alunni delle scuole del quartiere di ogni ordine e grado»
Don Mario Colella, parroco della chiesa di Santa Maria delle Grazie, non si arrende di fronte al silenzio delle istituzioni: «Abbiamo segnalato il problema dei topi più volte, al Comune e ad Amiu. Accanto alla chiesa sono stati posizionati ben 12 cassonetti della rumenta. Dodici. Devono essere tolti dalla strada, ma nessuno si prende la briga di risolvere la questione. Giusto una settimana fa, abbiamo ricevuto una comunicazione da Amiu tramite la direzione Ambiente di Tursi: loro si arrendono. Allora io dico: se questi dirigenti non riescono a trovare soluzioni allora è bene che si facciano da parte».
La storia della lunga fila di cassonetti dell’immondizia in via privata Chiesa delle Grazie, angolo via Dottesio, si trascina da lungo tempo.
A poche decine di metri da quell’eco punto, esposto alle intemperie e al sole come tanti altri nella zona, c’è il portone di ingresso della scuola materna comunale Mazzini.
In un raggio di 100 metri, c’è il liceo Gobetti e poco più avanti l’istituto comprensivo di Sampierdarena.
«Gli alunni praticamente convivono con piccioni, topi, gabbiani – dice il parroco – Lo stesso disagio che hanno anche tutti i parrocchiani che frequentano la chiesa. La situazione è insostenibile».
Mentre l’umoristico assessore alla (IN) sicurezza leghista fa spot serali con fotografi al seguito (che da solo si perda?) il degrado delle periferie genovesi cresce.
(da “il Secolo XIX”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
TUTTE LE ONG CHE SALVANO VITE UMANE RIFIUTANO IL RIDICOLO CODICE DI CONDOTTA DEL VIMINALE DOVE SI PARLA DI OSPITARE POLIZIOTTI A BORDO E VIETARE I TRASBORDI… UN CODICE FATTO SOLO PER AUMENTARE I MORTI IN MARE, ALMENO ORA SARA’ CHIARO CHI SONO GLI ASSASSINI
Non è un muro contro muro, nè una rivendicazione aprioristica di un ruolo “salvifico” che come tale non può essere messo in discussione o regolato.
Lo sforzo è di quelli sinceri, importanti, nella ricerca di un equilibrio sostenibile tra sicurezza e legalità , contrasto agli scafisti e difesa della vita di quanti fuggono, sulla perigliosa rotta mediterranea, dall’inferno di guerre, regimi sanguinari, povertà assoluta e disastri ambientali.
Discutere nel merito, va bene, cercare un compromesso su tutti i punti in discussione, è possibile, ma una cosa deve essere chiara, è il messaggio comune, cambiano i toni ma non la sostanza, lanciato dalle Ong al Viminale e ai palazzi della politica, a Roma come a Bruxelles: “le nostre navi non sono uffici di polizia”.
Il confronto è al suo rush finale. “Se le nostre richieste verranno accolte, lunedì firmeremo l’accordo”, afferma Gabriele Eminente, direttore generale di Medici Senza Frontiere e al termine dell’incontro tra Ong e Ministero dell’Interno in merito al codice di condotta che riguarderà le organizzazioni non governative che si occupano di soccorso in mare.
“Sul tema dei trasbordi ci pare di intendere un’apertura da parte del Viminale — puntualizza – mentre sulla questione della polizia giudiziaria ci sono molti dettagli da discutere, il ministero ci sta lavorando con maggiore attenzione. Noi, nel modo più collaborativo possibile, abbiamo cercato di limitare le nostre richieste a quelle indispensabili.”
Tra i punti fondamentali dell’accordo i trasbordi, la possibilità cioè di trasferire i migranti da una nave ad un’altra, e il tema della polizia a bordo che – come chiedono le organizzazioni – non deve essere armata.
Medici senza frontiere, ad esempio, ha spiegato che i membri del suo staff “sono operatori umanitari, non uffici di polizia e, per motivi di indipendenza, faranno ciò che è strettamente richiesto dalla legge, ma non di più”.
Msf ha criticato punto per punto i dettami inseriti nel codice.
Quando si parla di “attestare l’idoneità tecnica (su equipaggiamento della nave e personale) per l’attività di soccorso”, la Ong chiede “garanzie che le richieste del codice non abbiano un peso sproporzionato sulle operazioni di soccorso e non portino a una riduzione della capacità si soccorso in mare».
Il prossimo e ultimo incontro tra Ong e Viminale è stato fissato per lunedì 31 luglio. Sulla stessa lunghezza d’onda è Rafaella Milano di Save the Children, che fa parte del tavolo “negoziale” allestito dal ministro dell’Interno, Marco Minniti.
“Ci sono chiarimenti da fare, ma aspettiamo il testo definitivo sperando di poter arrivare a una firma”, ribadisce Milano.
Il nodo sul divieto di trasbordo resta da sciogliere: “Rimane uno degli elementi su cui abbiamo chiesto approfondimenti, nel senso di garantire sì il massimo rispetto delle regole ma potenziando sempre l’attività di soccorso”.
Se anche gli ultimi problemi saranno superati, ragiona la rappresentante dell’Ong, “siamo orientati a firmare». Save the Children — spiega l’Ong in un dettagliato promemoria – – ha ricevuto il testo e la convocazione da parte del Ministero dell’Interno per un confronto sulla bozza di Codice di Condotta delle Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio in mare dei migranti. Le attività di ricerca e soccorso svolte dall’Organizzazione con la nave Vos Hestia a partire dal 2016 sono già corrispondenti alla maggior parte delle indicazioni contenute nel testo in discussione e sono quindi in linea con le modalità operative con cui è stata sempre svolta l’attività di Save the Children, che sin dall’inizio ha operato in stretto contatto con le autorità e sotto il coordinamento della Guardia Costiera. Per una più completa valutazione del nuovo Codice di Condotta proposto sono tuttavia necessari maggiori approfondimenti su alcuni punti e che riguardano in particolare gli aspetti tecnici legati all’impegno di non effettuare trasbordi e a ricevere a bordo, su richiesta, funzionari di polizia giudiziaria. Sulle modalità operative che riguardano questi punti chiederemo ulteriori spiegazioni e dettagli nel corso dell’incontro della prossima settimana.
“È senz’altro importante chiedere che vengano rispettate delle regole e Save the Children è da sempre in prima linea nel combattere il traffico degli esseri umani e la speculazione sulla pelle dei migranti. Per questo motivo ribadiamo la disponibilità a collaborare e a confrontarci con le istituzioni, seppur nel rispetto dei principi umanitari che guidano le nostre missioni in tutto il mondo e senza che queste regole possano diventare un ostacolo al salvataggio delle vite umane. Auspichiamo inoltre un reale impegno dell’Europa nella gestione della crisi migratoria, nel soccorso e nella protezione delle persone. Nella consapevolezza che la vita di ogni essere umano — a partire dai più indifesi, i bambini — è troppo preziosa per poter essere messa in palio, la lotta ai trafficanti deve essere dura e inflessibile, ma va condotta a terra, nei Paesi di origine, sulle coste libiche e su quelle di sbarco e non può essere combattuta in mare, mentre è in gioco il salvataggio di vite umane” .
In particolare per le grandi organizzazioni come Medici senza frontiere e Save the Children questo punto potrebbe rappresentare un ostacolo: infatti, nello statuto di queste organizzazioni, c’è il divieto di cooperare con le forze armate in qualsiasi parte del mondo per garantire la neutralità degli spazi umanitari in qualunque tipo di situazione.
“Rispettiamo tutte le norme internazionali in merito ai salvataggi in mare, il fatto di imporci un codice di condotta implica che noi stiamo facendo qualcosa di sbagliato”, rimarca Marcella Kraay di Medici senza frontiere. Quello che facciamo qui è salvare vite umane e sulle nostre imbarcazioni ospitiamo persone molto provate e vulnerabili che possono essere interrogate dalla polizia una volta arrivate in Italia, perchè mentre sono sulla nave non rischiano di scappare”.
“Due sono i punti più problematici — sottolinea Nino Sergi, presidente emerito di Intersos – l’impegno a non effettuare trasbordi su altre navi, disposizione assurda e unicamente punitiva delle Ong più piccole e l’impegno a ricevere a bordo funzionari di polizia giudiziaria, che, se permanenti, trasformerebbero le ong umanitarie e i loro spazi in agenti di polizia e sedi investigative”.
Per Sandra Hammany di Sea-Watch (Ong tedesca impegnata nel Mediterraneo), presente al tavolo del Viminale, i punti critici del Codice da modificare sono diversi: si va dal divieto di trasbordo (cioè “l’impegno a non trasferire le persone soccorse su altre navi”) agli obblighi relativi ai “flag states” (ossia l’impegno a tenere informate le autorità dello Stato di bandiera della nave) o ancora “i certificati” sull’idoneità tecnica a operare e “i contatti con la Guardia costiera libica” (il Codice chiede di non interferire con le operazioni delle vedette locali).
Ma il nodo cruciale ancora da sciogliere, resta quello su cui tutte le Ong hanno protestato: “Non è un nostro obiettivo avere la polizia a bordo durante le operazioni di salvataggio – ribadisce Hammamy – . Su questo, non vediamo un approccio comune. Il loro punto di vista (del Viminale, ndr) è che la polizia non è autorizzata a lasciare le armi al capitano. Ma se su questo punto non ci saranno modifiche – conclude la rappresentante di Sea watch -, non firmeremo”.
“Qualunque codice di condotta – commenta Amnesty International – se necessario, dovrebbe avere l’obiettivo di rendere le operazioni di ricerca e soccorso più efficaci”. Ma così com’è oggi, sottolinea l’organizzazione internazionale, “potrebbe invece in alcuni casi ostacolare le operazioni e ritardare gli sbarchi”.
“Per assurdo — osserva Iverna McGowan, direttore dell’ufficio europeo di Amnesty – il tentativo di impedire alle navi delle Ong di operare nelle pericolose acque vicino alla Libia rischia di mettere in pericolo migliaia di vite”.
Esperti di diritto internazionale e del mare, rimarcano che i principi umanitari impongono, in primis per ragioni di sicurezza, di non schierarsi con istituzioni politiche e militari durante una crisi per non attirare ripercussioni dalla parte avversa, in questo caso i trafficanti.
Se Msf chiedesse ai militari della Nato di difendere un proprio ospedale in Afghanistan, lo trasformerebbe in un sito sensibile per gli attacchi talebani.
Quel tratto di mare è pattugliato dalla flotta europea Eunavfor Med-Sophia (Enfm), proprio perchè non è considerato sicuro per i normali corpi di polizia.
La presenza di uomini in divisa a bordo di una nave civile darebbe adito a tentativi di sequestro o crisi diplomatiche.
“Non mi sembra che siano tante le Ong che abbiano accettato la presenza di un ufficiale di polizia giudiziaria a bordo: in primis per il Codice etico che ci impone la neutralità , ci sentiamo vincolati da questo; inoltre a bordo abbiamo persone traumatizzate, molte persone sono state violentate, torturate o sono in fuga: immaginatevi se la prima persona che trovano a bordo è una persona armata. Eppoi perchè dovremmo avere un poliziotto a bordo? Noi salviamo rifugiati, non scafisti”, sostiene deciso il direttore della di Sea-Watch, Axel Grafmanns, ascoltato recentemente dalla Commissione Schengen della Camera.
Per Asgi, l’associazione studi giuridici sull’immigrazione , l’Italia non può imporre a navi di altri Paesi il codice di condotta. Non solo.
Nel caso le navi di Ong straniere non accettino di sottoscrivere il codice di condotta, l’Italia non potrà con tanta facilità impedire loro di attraccare nei nostri porti. “Identificare gli scafisti non fa parte del nostro compito, siamo un’unità umanitaria. Pensate veramente che un poliziotto su una nave Ong possa fare la differenza, quando un’intera missione militare non è mai riuscita a coglierli sul fatto?”, gli fa eco Lena Waldhoff, vicepresidente di Jugend Rettet (Gioventù Salva), reduce dall’audizione della Ong tedesca in Commissione Difesa del Senato. L’imbarcazione dell’organizzazione, la “Iuventa”, nel 2016 ha salvato oltre 6mila persone nel Canale di Sicilia e da marzo 2017 ne ha già soccorse circa 3mila.
Il responsabile dell’area sanitaria di Rainbow for Africa, la onlus di medici volontari che opera a bordo della “Iuventa”, Stefano Spinelli, ribadisce il concetto. “Siamo medici e non poliziotti – precisa Spinelli -. A chi ci chiede di far salire a bordo la polizia giudiziaria, rispondiamo che esiste un’agenzia di frontiera, una polizia europea che è Frontex. Se facesse il lavoro che stiamo svolgendo noi ora saremmo anche disponibili a lasciare il mare. Fino a che siamo qui, però, ci saremo come organizzazione umanitaria sulla base dei principi di neutralità , indipendenza e imparzialità del nostro operato. Potete chiedere ai poliziotti di fare anche i salvataggi, ma non a noi di fare i poliziotti”.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 30th, 2017 Riccardo Fucile
FUOCO DI ACCUSE ED ESPOSTI IN PROCURA CONTRO RAGGI E STEFANO
Parole pesanti, accuse precise ed esposti in Procura che fanno traballare sempre di più la compagine romana Ms5.
Virginia Raggi e il presidente della commissione Trasporti di Roma, Enrico Stefà no, sono sotto il fuoco di accuse da parte delle opposizioni (Pd in testa) dopo l’intervista rilasciata da Bruno Rota, ormai ex direttore generale di Atac, ora dimissionario dopo soltanto tre mesi in azienda.
Accuse che non fanno che alimentare i malumori interni al Movimento, tanto che la stessa Raggi in serata precisa con un post su Facebook: “Stiamo tutti lavorando per questa città , dal sindaco fino al consigliere municipale. A tutti i componenti della mia squadra di consiglieri e di giunta dico infatti di non distrarsi dal lavoro alimentando sterili polemiche. Chi preferisce polemizzare si mette da solo fuori dalla squadra”.
Rota non si limita a denunciare una situazione finanziaria ormai “insostenibile” e senza risposte concrete da parte della giunta grillina, ma avanza anche accuse contro esponenti cinque stelle.
Si leggono, fra i passaggi delle dichiarazioni fatte da Rota, diverse frasi riferite al giro di “amici di amici” degli M5s, di appalti dubbi e questioni spinose in cui spesso viene tirato in mezzo Stefà no, che aveva attaccato lo stesso ex direttore, chiedendo delle scuse.
“A Stefano converrebbe continuare a stare zitto, faccia silenzio. Deve piantarla lì. Perchè sennò…” dice Rota con tono minaccioso. “A me per un mese ha chiesto come mai non mi occupassi della bigliettazione. Ma lo sappiamo bene perchè rompe le scatole sulla bigliettazione. La domanda dovreste farla voi: è normale che un politico tenga rapporti con società di bigliettazione?”.
Queste parole e altre riferite a “nuovi bus a metano” hanno scatenato le opposizioni che ora sono pronte, con esposti in Procura, a chiedere alla magistratura di far luce sulla situazione dell’Atac, azienda con quasi 12mila dipendenti, 49 dirigenti ed un debito che supera il miliardo di euro.
“I contenuti dell’intervista di Rota, ex Dg Atac, sono esplosivi. Il sindaco Raggi o smentisce tutto tutelandosi, se in grado, anche nelle sedi competenti, oppure ci troviamo di fronte ad uno scenario gravissimo.
In buona sostanza il Sindaco e la sua giunta avrebbero ignorato la situazione e i piani di recupero dell’azienda per oltre un anno” attacca il senatore Pd Stefano Esposito. “In pratica, da quanto si arguisce dalle parole di Rota, si tratterebbe di una scelta disastrosa per l’azienda e per la Capitale causata da pura incapacità e da interessi spartitori. Un contesto allucinante. In questo quadro catastrofico, su cui il Sindaco deve dare risposte chiare, manca un tassello: ovvero se vi sia stato un ruolo della Casaleggio, e nel caso quale”.
Gli fa eco Roberto Giachetti: “Deve essere chiaro che questa città sta andando a fondo. Il movimento 5 stelle e Raggi governano da un anno e non hanno combinato nulla” dice il vicepresidente della Camera. “Hanno messo gli amici loro che stanno producendo i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Stefà no dice che Rota si deve scusare. Se Rota ha detto una menzogna e l’ha ripetuta anche oggi allora Stefà no lo deve querelare. Non può aspettare o reclamare delle scuse”
Anche Matteo Renzi rincara la dose: “Nell’azienda dei trasporti di Roma i grillini, che dovevano fare la rivoluzione, invece fanno come gli altri, anzi peggio: raccomandando gli amici degli amici. Noi non prendiamo lezioni di moralità da quelli che hanno due morali”.
A Renzi risponde a stretto giro Virginia, che annuncia querele. “La situazione in cui si trova Atac era ed è grave, ma non ci siamo fatti spaventare dalle difficoltà e siamo andati avanti. Abbiamo selezionato e portato a Roma qualche mese fa Bruno Rota, un grande manager che si era occupato con successo dell’Atm a Milano… Nessuno del MoVimento 5 Stelle ha mai fatto raccomandazioni per amici, amici degli amici o parenti. Stefà no si è sentito diffamato dalle affermazioni di Rota, riprese poi dal Pd, e lo ha querelato. L’unico messaggio che Stefano ci ha detto di aver mandato all’ex Dg riguarda la segnalazione di una azienda di bigliettazione con tecnologie innovative. Nient’altro, e per la massima trasparenza lo pubblicherà sulla sua pagina Facebook”. Poi la Raggi aggiunge: “Se a qualcuno risultano altre circostanze come raccomandazioni, pressioni o richieste gradiremmo che fossero pubblicate immediatamente per poter prendere immediati provvedimenti. Qui non facciamo sconti a nessuno. Come sempre andremo avanti. Le polemiche create dai giornali sono l’ultimo dei nostri interessi, ma se il segretario del Pd ci diffama è un’altra storia: Renzi sarà querelato e dovrà rendere conto delle sue parole. Adesso andremo avanti con Atac per garantire alla città un sistema di trasporti degno di una capitale europea. Sarà dura, ma ce la faremo – conclude – stateci vicino”
A spostare la faccenda verso la Procura è invece il componente Pd della commissione Trasporti della Camera, Michele Anzaldi.
“La Procura di Roma avrebbe tutti gli elementi per valutare l’apertura d’ufficio di un fascicolo di indagine. Rota non soltanto conferma la grave denuncia di aver subito richieste di raccomandazioni dal presidente della commissione Mobilità del Campidoglio ed esponente del M5s, Enrico Stefà no, consigliere molto vicino alla sindaca Raggi, ma addirittura rincara pesantemente e parla di pressioni su appalti, segnalazione di aziende che gli sarebbe stato chiesto di ricevere, input precisi su autobus a metano. Perchè un politico riceve e parla con potenziali fornitori Atac e perchè Stefà no avesse tanto a cuore chi avrebbe dovuto gestire la bigliettazione di Atac. Peraltro non parliamo di un semplice consigliere comunale, ma del presidente della commissione consiliare competente.
A proposito dei mezzi a metano, proprio Stefà no mesi fa aveva annunciato l’acquisto da parte di Atac di mezzi di questo tipo. Ce ne sarebbe abbastanza per avviare una profonda indagine. Se la prima denuncia di Rota poteva essere derubricata all’illegale malcostume delle segnalazioni di dipendenti e richieste di scatti di carriera da parte dei politici, in un remake di Parentopoli in salsa grillina, ora siamo di fronte a qualcosa di più grosso. A conferma della sospetta posizione di Stefà no, peraltro, c’è anche la sua debole difesa: ha replicato a Rota ben 24 ore dopo la sua dichiarazione, postata in un commento proprio sul profilo Facebook dell’esponente cinquestelle, e semplicemente chiedendo le scuse. Se Rota dice il falso, perchè Stefà no invece delle scuse non lo ha ancora querelato?”.
Il coro di accuse contro il duo Raggi-Stefà no è univoco, tanto che anche il centrodestra chiede alla Raggi di “andarsene. Non solo ha portato Roma al disastro con l’emergenza idrica e il fallimento dell’Atac, ma ha aggiunto bugie a bugie” dice il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Fi). Il senatore di Idea Andrea Augello va oltre e spiega “che io e Vincenzo Piso abbiamo appena depositato un esposto alla Procura di Roma chiedendo che si svolgano approfondite indagini sulle dichiarazione rese dal dottor Bruno Rota in merito a presunte segnalazioni indebite ricevute dal presidente della commissione trasporti di Enrico Stefano”.
Augello chiede che nello specifico che “vengano approfonditi i rapporti tra il Movimento 5 Stelle e la società “Conduent”, esplicitamente citata nelle esternazioni del dottor Rota”. In attesa di una contromossa da parte di Stefà no (querelerà Rota?) i cinque stelle si chiudono a far scudo attorno al sindaco e al grillino stesso.
“Nessuno e dico nessuno si deve permettere di mettere in dubbio l’onestà e la correttezza di Enrico Stefà no. #iostoconEnricoStefà no” scrive ad esempio la consigliera comunale del M5S Alessandra Agnello. Il collega del Movimento, Giuliano Pacetti, ha rilanciato il post fatto ieri dal presidente della commissione Trasporti di Roma, in cui Stefà no affermava di non aver mai sollecitato promozioni, scrivendo: “Enrico Stefà no un collega che stimo, trasparente e onesto che lavora senza sosta per migliorare la vita dei cittadini romani”.
(da agenzie)
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