Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
TRA IL 54% E IL 58% I FAVOREVOLI ALLA CONTINUITA’, MAGARI CON QUALCHE RIMPASTO
Quella del voto anticipato è una suggestione che si è diffusa parecchio nei primi giorni successivi al voto
Ma il ritorno alle urne sarebbe, per gli italiani, uno scenario auspicabile? Diversi istituti demoscopici, sia pure in modi diversi, hanno provato a rispondere: e la risposta, nel complesso, è più “no” che “sì”.
La maggioranza assoluta degli intervistati, secondo ben 4 diversi sondaggi, non vuole le elezioni anticipate. Le esclude esplicitamente il 54% degli intervistati dall’istituto Noto, mentre il 58% degli intervistati da EMG dichiara di preferire che il Governo vada avanti (in quest’ultimo sondaggio è significativo che la pensi così anche la netta maggioranza — il 76% — degli elettori della Lega).
Demopolis e Tecnè hanno offerto due opzioni di risposta diverse per i contrari al voto anticipato: nel complesso, gli italiani che vorrebbero che il Governo andasse avanti senza modifiche sono leggermente più numerosi di quelli che invece auspicano una “redifinizione della squadra” (Demopolis) o un “maggiore spazio alle posizioni della Lega” (Tecnè).
In entrambi i casi, la somma dei “continuisti” è superiore alla percentuale di chi è favorevole ad elezioni anticipate.
Senza arrivare a ipotizzare una crisi, alcuni osservatori hanno però descritto come “inevitabile” un riequilibrio nel Governo: sicuramente nei temi da affrontare, ma anche — si dice — nella composizione stessa dell’esecutivo (uno dei più citati quando si parla di “sacrificabili” è il Ministro dei Trasporti del M5s, Danilo Toninelli.
Il sondaggio EMG più recente mostra come la netta maggioranza degli italiani (quasi 8 su 10) sia d’accordo con l’idea che il Governo debba cambiare alcuni ministri. È d’accordo con questa idea il 74% degli elettori della Lega e — dato non da sottovalutare — il 52% di quelli del M5s.
I giorni del post-elezioni sono stati anche quelli in cui sono state messe — più o meno esplicitamente — in discussione due leadership: quella di Luigi Di Maio (capo politico del M5s, oltre che vicepremier e ministro) e quella dello stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Il primo ha sottoposto la sua posizione al voto degli iscritti alla piattaforma online Rousseau. La votazione ha confermato la fiducia a Di Maio (nonostante il M5s abbia perso ben 6 milioni di voti rispetto alle Politiche 2018) con circa l’80% dei voti espressi.
Non si tratta di un risultato poco rappresentativo della base elettorale del Movimento: secondo un sondaggio di EMG svolto pochi giorni dopo le Europee, il 69% degli elettori del M5s pensava che Di Maio non doveva dimettersi da capo politico. Secondo un sondaggio di Tecnè, più recente, solo l’8% di chi ha votato M5s alle Europee ritiene necessario un cambiamento di leadership, anche se complessivamente più di metà (53%) chiede di “tornare ai valori fondanti” del Movimento creato da Beppe Grillo.
Il dato però non tiene conto della metà degli ex elettori grillini che non votano più M5S.
E Conte? Il 48% degli italiani — secondo un sondaggio Demopolis — dichiara di aver apprezzato il suo discorso in conferenza stampa di lunedì scorso, contro un 33% che ne dà invece un giudizio negativo.
Se questo si riveli sufficiente a far prolungare la sua esperienza a Palazzo Chigi e — soprattutto — a superare indenne le prove che attendono l’esecutivo, è ancora da vedersi.
(da “Globalist”)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
CON IL M5S FA QUELLO CHE VUOLE E PUO’ SPACCIARSI COME “ANTISISTEMA”, CON FDI E FORZA ITALIA NO… E PUO’ SEMPRE IMPUTARE AL M5S QUELLO CHE NON VA SENZA ASSUMERSI RESPONSABILITA’
Deve aver ricevuto parecchi messaggi oggi Stefano Buffagni, perchè così accade a quelli che avevano capito tutto. Uno dei pochi, tra tanti professionisti dell’Apocalisse e altrettanti parlamentari terrorizzati su come pagare il mutuo al Banco di Napoli della Camera, in caso di ritorno al voto. E di prevedibile perdita dello scranno e del lauto bonifico mensile.
Per settimane ha ripetuto: “Tranquilli, non si vota. Voi non conoscete Salvini”. Adesso che la Cassandra ci ha preso, un parlamentare che si è affidato ai suoi vaticini ci rivela il ragionamento di Buffagni, proprio nei momenti in cui nel suo partito erano convinti che saltasse tutto: “Loro, i leghisti, quando decidono di alzare la tensione sono così, la alzano ovunque, creano l’onda di panico, perchè così fanno virare la barca dove vogliono loro, ma Salvini a votare non ci vuole andare perchè pensa che non gli conviene”.
Il cronista non può che constatare che è andata così. Perchè è ormai chiaro che la prospettiva su cui si è creata una psicosi in queste settimane, semmai c’è stata, non c’è più: la crisi, i comizi balneari, il voto a settembre…
Anche al Quirinale l’aria è più tranquilla, per ora. L’onda ha prodotto la virata. Che ha lasciato stupiti anche parecchi leghisti di rango, da Giorgetti giù pe’ di rami. Perchè per il grosso della Lega è inconcepibile tirare in dietro il piede con la palla così vicina alla porta.
Bastava vedere le simulazioni che circolano a via Bellerio o quelle Youtrend andate in onda in parecchi talk mattutini: con Fratelli d’Italia la maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato, con Forza Italia poi non ci sarebbe partita.
E invece Matteo ha alimentato la suggestione, ma al dunque si è tirato indietro, rinunciando all’assalto al cielo sovranista: “È chiaro — spiegano tutti i leghisti di peso — che quel comunicato di Salvini e Di Maio significa che il governo va avanti, non si vota. Adesso si apre tutta la partita della manovra, ma si va avanti”.
E ci avevano creduto anche ad Arcore, al ritorno al voto, perchè il leader della Lega e quello di Forza Italia si sono sentiti più volte in queste settimana. Anzi, proprio la certezza di un ritorno al voto ha spinto Berlusconi a cedere sul congresso del suo partito, convocandolo proprio il 28 settembre, nella certezza di non celebrarlo, spiaggiando novelli delfini e aspiranti successori in gonnella che si sono un po’ montate la testa.
C’entrano tante cose, in questa virata.
C’entra il Quirinale, c’entra l’“ispirata” mossa di Conte, la pressione dei mercati, la paura del “partito del mutuo” pronto a votare qualunque cosa, ma, parlando con fonti leghiste degne di questo nome, c’è qualcosa che va oltre questo o quel legittimo e razionale ragionamento.
Si chiama indole. E chissà che abbia ragione quella vecchia volpe di Denis Verdini, il suocero o quasi. In parecchi gli sono andati a porre la fatidica domanda cosa passi per la testa del suo promesso genero: “Che volete che vi dica. Matteo è innamorato di Di Maio”.
Nella battuta c’è un punto politico che non c’entra col cuore. Ed è quello che ha spiegato Salvini a chi, in questi giorni, ha perorato la causa della rottura, perchè “questi sono incapaci”, “ci odiano”, “ci considerano una banda di corrotti”: “Gran parte del nostro consenso — ha spiegato il Capitano — nasce dall’accordo con loro, da questo schema”.
Dal condividere lo stesso universo populista, la stessa cultura del primato della comunicazione sulla politica, dell’annuncio a prescindere dalle realizzazioni come le navi che continuano a sbarcare o i rimpatri che calano.
Vuoi mettere avere a che fare con la Meloni o Tajani al posto di Di Maio e Toninelli che ti consentono di fare e dire di tutto. Insomma vuoi mettere come, per uno che si presenta come un eterno ragazzotto, come sono più belli gli alibi che la responsabilità .
Gli alibi di non riuscire a fare le cose per colpa degli altri piuttosto che assumersi la responsabilità su di sè. Perchè, per gli amanti del genere, è questo che accadrà nei prossimi mesi su terreno della manovra.
Ieri, prima dell’incontro con Di Maio, il Capitano ha riunito al Viminale tutto il suo gabinetto di guerra economico. C’erano proprio tutti: Durigon, Bitonci, Garavaglia, Bagnai, e Borghi. Il quale poi, a Piazza Pulita, ci è andato giù particolarmente duro con l’Europa. E ha invocato una finanziaria in deficit, sforando i vincoli.
Insomma l’opposto di quel che vogliono Conte e Mattarella. Si capisce già quel che accadrà nelle prossime settimane, col leader della Lega che reciterà il suo vorrei ma non posso, eccitando le aspettative del suo elettorato: “Dirà : io volevo fare questo e quello, ma solo loro, l’Europa, i Cinque stelle che non ce lo fanno fare”.
La verità è che dentro la Lega non sono molto convinti dall’idea di un altro autunno con Di Maio. Però ha ragione Guido Crosetto, che ha spiegato a quelli del suo partito: “Ormai una cosa è Salvini, una cosa è la Lega. Nella Lega la pensano tutti come Giorgetti che questi li manderebbero al diavolo, ma Salvini è un’altra cosa. E nessuno può dirgli nulla perchè le elezioni le ha vinte lui”.
E infatti nessuno parla, ma nei sussurri c’è parecchia amarezza. Perchè chi mastica la politica sa che l’attimo da cogliere era ora e del domani non v’è certezza: “Ma quale prossimo anno — dice un leghista di rango — qui rischiamo di andare avanti tutta la legislatura, perchè è difficile votare dopo una finanziaria non espansiva, poi ci sarà il tema dell’elezione del successore di Mattarella”.
Salvini scommette, finora ha avuto ragione lui, che a fine percorso saranno prosciugati gli altri, Berlusconi da un lato, Di Maio dall’altro.
Qualcuno teme che, arrivato alla meta, arriverà prosciugato lui.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
NESSUN BLOCCO ALL’ACCESSO DEL RIMORCHIATORE, NESSUNA POLEMICA CON MALTA, NESSUN ATTACCO ALL’EUROPA… QUALCUNO AL VIMINALE COMINCIA AD AVERE PAURA DI METTERE LA FIRMA AD ATTI PER CUI POTREBBE FINIRE IN GALERA, VISTO CHE TRE PROCURE STANNO INDAGANDO SU SALVINI E I SUOI REGGICODA
Oggi a Pozzallo sono sbarcate 62 persone. Si tratta di migranti che sono stati soccorsi in acque SAR Maltesi dal rimorchiatore italiano Asso 25. Si tratta di una situazione che si è ripetuta decine di volte da quando Matteo Salvini è ministro dell’Interno.
Oggi però il titolare del Viminale non ha mandato lettere al governo di Malta, non ha minacciato la chiusura dei porti e non ha impedito lo sbarco. Come mai?
I porti sono aperti, scrive su Twitter la Ong Sea Watch che in questi ultimi dodici mesi è stata uno dei bersagli preferiti della propaganda salviniana.
«Il nostro porto non è mai stato chiuso, così come quelli del resto d’Italia, semplicemente perchè i porti non si possono chiudere» ha detto il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna.
Eppure anche i contorni del salvataggio sono di quelli che qualche giorno fa avrebbero fatto scendere Salvini sul piede di guerra. Il coordinamento dei soccorsi infatti è stato della Guardia Costiera maltese, una cosa che il governo italiano ha sempre utilizzato per dire che i migranti salvati in mare dovevano andare a La Valletta.
Salvini su Facebook scrive che «quelli di oggi saranno accolti a spese del Vaticano e dei vescovi italiani, che ringrazio. Così ognuno fa la sua parte».
Non dice che oltre ai 62 che sbarcheranno oggi secondo i dati del Viminale ne sono sbarcati 192 il 2 giugno (ma forse Salvini era impegnato a litigare con Fico) e 117 il 3 giugno.
Non dice nemmeno che a fronte di circa mille sbarchi in Italia tra maggio e giugno dalla Libia sono partite 3.092 persone. Alcune sono state catturate dalla guardia costiera libiche, altre soccorse da Malta e molte purtroppo sono morte.
Al Capitano e ai suoi elettori ricordiamo però che gli immigrati saranno (forse) anche ospitati in strutture della CEI ma che queste strutture si trovano in territorio italiano. Insomma i migranti “invaderanno” l’Italia perchè la rete ecclesiale è parte integrante del sistema Sprar.
Insomma i migranti e i richiedenti asilo verranno ospitati là dove già vengono ospitati altre migliaia di rifugiati.
E sarà proprio l’Italia a farsi carico delle procedure relative alle domande di asilo politico o di protezione internazionale. Nulla è cambiato da quando Salvini mandava i migranti della Diciotti a Rocca di Papa dicendo che “se li sarebbe presi il Vaticano”.
Anche in questo caso i patridioti scopriranno tra qualche giorno il trucchetto di Salvini. Ma la domanda è un’altra: come mai Salvini questa volta non ha chiuso i porti?
Di sicuro ha pesato il fatto che a soccorrere i migranti non sia stata una nave dei “vicescafisti” delle ONG ma un rimorchiatore battente bandiera italiana.
Ma già la settimana scorsa la Marina Militare era intervenuta a salvare un’ottantina di migranti in difficoltà in acque SAR libiche. Non dopo essere rimasta per quasi 24 a meno di nove miglia di distanza dal barcone in attesa che si facesse viva la Guardia Costiera Libica.
La vera ragione è quella che scriveva ieri Nello Scavo su Avvenire (ovvero il quotidiano dei Vescovi italiani). A quanto pare infatti sono tre le indagini aperte a carico del Viminale per altrettanti casi in cui il Ministero avrebbe ostacolato le operazioni di soccorso e di sbarco dei migranti.
L’indagine viene menzionata in risposta ad una richiesta di accesso agli atti dal Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto che spiega di non poter fornire gli atti relativi all’arrivo della Sea Watch a Lampedusa il 15 maggio perchè quell’evento «è oggetto di indagine da parte della procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo».
Per quello Salvini ha deciso che non era il caso di dare battaglia sui porti chiusi?
Salvini non ha nemmeno cercato l’incidente con l’Unione Europea minacciando di tenere i migranti al largo finchè gli altri Stati membri non si fossero fatti avanti per prendersi le loro “quote”. Ma il motivo di questo secondo silenzio lo sappiamo.
Proprio oggi i colleghi europei di Salvini si trovano per discutere di migranti e rimpatri. Il nostro superministro invece è impegnatissimo a tirare la volata ai sindaci di tre paesi dell’hinterland milanese.
Quando si dice avere ben chiare le priorità .
(da “NextQuotidiano”)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
CHIAMATI AL VOTO DOMENICA 136 COMUNI, 15 CAPOLUOGHI, 3 MILIONI E MEZZO DI ELETTORI
Il derby tutto interno al centrodestra ad Ascoli Piceno, l’unica sfida per il M5S a Campobasso, il tentativo di riprendersi Livorno per il Pd dopo l’esperienza grillina.
Sono 136 i Comuni interessati al ballottaggio di domenica 9 giugno.
Tra questi, sono 15 i capoluoghi: Potenza, Avellino, Ferrara, Forlì, Reggio nell’Emilia, Cremona, Ascoli Piceno, Campobasso, Biella, Verbania, Vercelli, Foggia, Livorno, Prato, Rovigo.
In totale torneranno al voto per il secondo turno delle amministrative 124 Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, compresi i 15 capoluoghi, e 12 con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti. Sono chiamati alle urne complessivamente 3.648.485 elettori in 4.431 sezioni.
Ascoli: duello tutto a destra tra Forza Italia e Fratelli d’Italia
La sfida di cartello è ad Ascoli Piceno, dove si cerca il successore di Guido Castelli. Ed è una sfida tutta all’interno del centrodestra, che si è presentato spaccato: da una parte Marco Fioravanti (38% al primo turno), candidato di FdI, sostenuto dalla Lega e da otto liste civiche, dall’altra Piero Celani (che si è fermato al 21%), candidato da FI e sostenuto da altre sei civiche, già sindaco della città per due mandati, ex presidente della Provincia e attuale consigliere regionale.
Fortini rossi in bilico in Emilia Romagna
Fortini rossi in bilico in vista dei ballottaggi in Emilia Romagna, in una regione che si era svegliata il giorno dopo le elezioni europee con la Lega primo partito ed il Pd in affanno ad inseguire. E’ stato proprio il voto nei Comuni, tuttavia, ad iniettare ossigeno al centrosinistra con Modena ancorata alla sua storia come roccaforte ‘rossa’, già al primo turno.
Sulla scia di questo risultato il Pd stringe le maglie e auspica di resistere agli assalti del Carroccio anche nelle altre grandi città ‘rosse’, Reggio Emilia, Ferrara, Forlì, Cesena che andranno al ballottaggio sebbene schierate, ai blocchi di partenza, in posizioni diverse.
Ad unirle, comunque, sono le forze in campo: centrodestra contro centrosinistra con un Movimento 5 stelle fuori dai giochi ma possibile ago della bilancia, insieme ad alcune liste civiche ‘indipendenti’, per far convogliare voti all’uno o all’altro dei due blocchi.
Le urne di domenica saranno anche una cartina tornasole in vista delle elezioni regionali, la prossima grande partita tra i due fronti con un centrodestra combattivo e determinato a ribaltare oltre 70 anni di amministrazione di sinistra.
Parte da favorito, a Reggio Emilia, il sindaco uscente del Pd Luca Vecchi, che il 26 maggio si è fermato ad un soffio dalla riconferma incassando il 49,13 per cento delle preferenze. Sfiderà Roberto Salati, fotografo di matrimoni, moda e pubblicità al suo esordio in politica e candidato del centrodestra.
Recentemente, gli è stato regalato da alcune elettrici, forse come ‘portafortuna’, un rosario del venerabile padre Daniele da Torricella, sacerdote per cui è in corso il processo di beatificazione. Miracoli a parte, comunque, i giochi sembrano fatti a patto, però, che il sindaco dem uscente riesca a riportare alle urne gli elettori che lo hanno scelto al primo turno.
Situazione opposta a Ferrara dove Alan Fabbri, uomo forte della Lega, è arrivato ad un passo dal traguardo ottenendo, al primo turno, il 48,44% dei consensi. Già sindaco di Bondeno e candidato governatore nel 2014 è un appassionato di storia (organizza il Bundan Celtic Festival) ed è attualmente capogruppo del Carroccio in Regione.
A tentare il ‘ribaltone’ sarà Aldo Modonesi, candidato nel centrosinistra già vicepresidente regionale delle Acli (dal 1999 al 2004) ed assessore uscente alle attività economiche della giunta Tagliani.
Il centrodestra parte in vantaggio, seppur meno marcato, anche a Forlì con Gian Luca Zattini, medico chirurgo odontoiatra già sindaco di Meldola piccolo paese della provincia, che ha preso il 45,8 per cento delle preferenze al primo turno. Andrà al ballottaggio contro Giorgio Calderoni, rappresentante del centrosinistra, ex giudice del Consiglio di Stato e professore associato di diritto amministrativo alla Spisa di Bologna. In questo caso gli elettori dei 5 Stelle (hanno ottenuto il 10,8% al primo turno) potrebbero fare la differenza.
Infine, partita aperta anche a Cesena con il rappresentante del centrosinistra, l’ex parlamentare Pd, Enzo Lattuca, 31 anni, (nel 2013 fu il deputato più giovane della storia Repubblicana) che con un ‘bonus’ potenziale di nove punti di vantaggio (42,83% contro il 33,81%) affronterà il civico di centrodestra Andrea Rossi, imprenditore ed ‘esordiente’ nella politica attiva. In questo caso a sparigliare le carte potrebbe essere una lista civica “Cesena Siamo Noi” che ha ottenuto, il 26 maggio, il 9,5 per cento delle preferenze.
Al momento, comunque, predomina la linea ‘mani libere’ poichè i civici non hanno indicato una preferenza tra i due candidati.
In Emilia Romagna sono complessivamente 13 i Comuni che andranno al ballottaggio domenica 9 giugno. Oltre alle quattro grandi città Reggio Emilia, Ferrara, Forlì e Cesena, urne aperte anche a Copparo e Argenta, nel Ferrarese; Casalgrande (Reggio Emilia); Molinella (Bologna); Savignano (Forlì-Cesena); Carpi, Castel Franco Emilia, Mirandola e Maranello, nel Modenese.
Proprio nel ‘quartier generale’ della Ferrari, a Maranello, il candidato del centrosinistra, l’assessore uscente Luigi Zironi, è stato ‘costretto’ al secondo turno per una manciata di voti avendo incassato il 49,99% delle preferenze. Il suo avversario, Luca Barbolini, sostenuto da un centrodestra a ‘tandem’, Lega e Forza Italia, cercherà di attrarre i voti raccolti nella prima tornata delle amministrative dal candidato di Fratelli d’Italia anche se ufficialmente manca ancora una dichiarazione ufficiale di apparentamento.
Toscana: la sinistra prova a riprendersi Livorno (ex M5S). Battaglia a Prato
Ci hanno provato fino all’ultimo sia nel centrodestra che nel centrosinistra. Ma a Livorno e a Prato di apparentamenti con le liste rimaste fuori dal ballottaggio di domenica 9 giugno non ce ne saranno.
Le sfide fra Matteo Biffoni e Daniele Spada (a Prato) e fra Luca Salvetti e Andrea Romiti (a Livorno) – i due capoluoghi di provincia ancora da assegnare in Toscana dopo la vittoria al primo turno di Dario Nardella a Firenze – non vedranno altri nuovi protagonisti sulla scena dopo che nessuno dei candidati è riuscito a stringere alleanze formali.
A Livorno, dove in palio c’è la poltrona di sindaco lasciata libera da M5s dopo cinque anni di amministrazione Nogarin, si sfideranno dunque Luca Salvetti (centrosinistra) e Andrea Romiti (centrodestra). In vantaggio, dopo il primo turno, è il candidato dem che al primo turno ha raccolto il 34,2% contro il 26,6% dell’esponente di Fratelli d’Italia.
E proprio Salvetti, per aumentare il proprio vantaggio, ha provato a “corteggiare” la lista di sinistra Buongiorno Livorno che il 26 maggio aveva raccolto un ragguardevole 14,3%, ma alla fine il matrimonio non si è consumato e il candidato del centrosinistra è riuscito a strappare soltanto una indicazione di voto a suo favore.
Nessun appoggio supplementare anche per Andrea Romiti che in settimana ha contattato la pentastellata Stella Sorgente (candidata M5s e vice di Nogarin) ma senza riuscire ad ottenere risultati.
Situazione analoga, ma a campi invertiti, anche a Prato. Qui ad arrivare vicinissimo ad un apparentamento formale era stato il candidato del centrodestra Daniele Spada che in settimana aveva stretto un accordo con le liste civiche che hanno sostenuto al primo turno Marilena Garnier e Aldo Milone per cercare di recuperare il ritardo accumulato al primo turno (35% contro il 47% del sindaco uscente Matteo Biffoni, che invece fin dal giorno successivo ha dichiarato di non cercare alleanze con nessun altro schieramento).
Proprio in dirittura d’arrivo, però, l’apparentamento ufficiale è saltato e si è arrivati ad un meno impegnativo appoggio esterno.
A Campobasso l’unico ballottaggio per M5S
Nessun accordo politico e elettorale, al momento, per il ballottaggio di Campobasso. Domenica prossima si contenderanno la carica di sindaco, Maria Domenica D’Alessandro per il centrodestra (39,7%) e il pentastellato, Roberto Gravina (29,4%), entrambi avvocati.
Il M5s, anche su espressa indicazione dei responsabili nazionali ha dichiarato di essere disposto a “dialogare con tutti” e, nel contempo, ha ribadito che non ci sono le condizioni di apparentamenti al ballottaggio.
“Si può ripartire dai punti di convergenza che vi sono con altre liste – ha spiegato Roberto Gravina, fratello dell’ex pallavolista – ma i percorsi politici devono restare distinti”. In casa del centrodestra, Maria Domenica D’Alessandro non chiude la porta ad eventuali accordi e, per il momento, lancia l’appello “a tutti i cittadini che vogliono il cambiamento”.
Ago della bilancia potrebbero essere in primo luogo le tre liste di centrosinistra che hanno sostenuto il sindaco uscente del Pd, Antonio Battista, giunto terzo con il 25,9% dei consensi. I dem decideranno la linea nella direzione di domani, anche se alcuni esponenti si sono già schierati per il ‘no’ secco al centrodestra e al candidato sindaco della Lega.
La lista civica Io amo Campobasso (4,7%), invece, ha già annunciato libertà di voto per i propri elettori.
A Potenza la sfida tra Lega e Possibile, fuori il centrosinistra
Ultimi giorni di campagna elettorale anche a Potenza in vista del ballottaggio per l’elezione del nuovo sindaco: la sfida, domenica, sarà fra il candidato del centrodestra, Mario Guarente (Lega) che ha ottenuto il 44,73 per cento dei voti, e il docente universitario Valerio Tramutoli (Basilicata Possibile) al quale sono andati il 27,41 per cento dei consensi.
Fuori dai giochi il centrosinistra, per anni alla guida del Comune, arrivato terzo al primo turo. Sarà una corsa solitaria dei due candidati che hanno detto no ad alleanze ed accordi pre elettorali, in vista appunto del ballottaggio.
Guarente, 35 anni, consigliere comunale uscente, è alla guida di una coalizione di centrodestra formata da sei liste. Diplomato al liceo classico Flacco del capoluogo, sposato, mediatore assicurativo, un paio di anni ha aderito alla Lega. In precedenza aveva ricoperto ruoli all’interno del Movimento per le autonomie e in numerose associazioni potentine. A suo sostegno nei giorni scorsi è tornato a Potenza il leader del Carroccio, Matteo Salvini.
Insegna da oltre 20 anni telerilevamento ambientale all’ateneo lucano, invece, Valerio Tramutoli, 61 anni, decimo di 12 figli. E’ sostenuto da “Basilicata possibile” e “Potenza Città guardino”. Spostato, due figlie, il suo impegno politico è iniziato nel 2003 con la lotta contro il progetto di realizzare in Basilicata il deposito unico nazionale delle scorie nucleari a Scanzano Jonico (Matera). E’ stato il candidato governatore di “Basilicata possibile”, alle scorse regionali del 24 marzo.
Ad Avellino la sfida tutta interna al centrosinistra
Scatto finale in vista dei ballottaggi in 17 comuni della Campania chiamati a eleggere i sindaci. Domenica prossima la resa dei conti soprattutto ad Avellino, unico capoluogo di provincia coinvolto nelle amministrative di questo anno in regione.
Qui, dopo pochi mesi di amministrazione del Movimento 5 stelle, finita in un commissariamento per mancanza di voto sul bilancio, i grillini sono stati penalizzati dall’elettorato e sono rimasti fuori dal secondo turno.
In un contesto di forti divisioni interne tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra, è quest’ultima area politica a portare al secondo turno due suoi esponenti, Gianluca Festa e Luca Cipriano, che hanno raccolto rispettivamente il 28,67 e il 32,43 dei consensi.
Quattro punti di scarto che potrebbero essere colmati con un accordo con i pentastellati al quale sembra propenso Festa.
Sempre il centrosinistra, con il candidato Enrico Franza e il suo circa 20% delle preferenze, ad Ariano Irpino proverà a spodestare Domenico Gambacorta, primo cittadino uscente del centrodestra forte di un 48% dei consensi.
La vicina Castel Baronia completa il quadro dei ballottaggi in Irpinia con la sfida Felice Martone, sindaco uscente, e Fabio Montalbetti.
La provincia di Benevento ha archiviato la competizione elettorale già con il voto del 26 maggio. Si vota anche ad Aversa, Capua, Casal di Principe e Castel Volturno, nel Casertano; e nel Napoletano ballottaggi a Bacoli, Casavatore, Casoria, Grumo Nevano e Nola. Infine in provincia di Salerno, le urne riapriranno a Baronissi, Capaccio Paestum, Pagani, Sarno e Scafati.
Ballottaggi: Piemonte, partite chiave a Biella, Verbania e Vercelli
Dopo la vittoria alle regionali del centrodestra che con Alberto Cirio ha sconfitto il governatore Pd uscente, Sergio Chiamparino, in Piemonte si torna al voto per il ballottaggio in tutti e tre i capoluoghi di provincia piemontesi, Biella, Verbania e Vercelli. A Biella è rimasto escluso dal secondo turno il sindaco uscente Marco Cavicchioli, del centrosinistra, e si sfideranno Claudio Corradino, del centrodestra, che ha ottenuto il 39,95% e Donato Gentile, rappresentante delle liste civiche, che ha avuto il 27,5%.
A Vercelli la sindaca uscente del centrosinistra Maura Forte ha ottenuto il 24,6% per cento rispetto al rappresentante del centrodestra Andrea Corsaro, che si è attestato al 41,8%
Anche a Verbania la sindaca uscente, Silvia Marchionini, del centrosinistra insegue con il 36% lo sfidante del centro destra Giandomenico Albertella, che ha raggiunto il 45 per cento. Risultati che confermano la ‘virata’ verso il centrodestra registrata un pò in tutto il Piemonte, a cominciare appunto dalle Regionali.
Una tendenza confermata anche dal voto nei Comuni del Torinese, in passato roccaforte del centro-sinistra, in cui ora crescono anche se non ovunque i candidati del centro-destra. Non così a Settimo Torinese, dove l’ex vicesindaca Elena Piastra, sostenuta da Pd, Verdi, Settimo al centro, Piastra Sindaca, +Europa e Settimo Futura ha quasi sfiorato la vittoria al primo turno, attestandosi al 44% . Al ballottaggio sfiderà il candidato del centrodestra Antonio Mencobello, sostenuto da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Ballottaggi: Lombardia, a Cremona la partita più importante tra C.destra-C.sinistra
Occhi puntati su Cremona, in Lombardia, per la sfida tra il sindaco uscente Gianluca Galimberti e il candidato del centrodestra Carlo Malvezzi. Domenica prossima, al ballottaggio, Malvezzi dovrà colmare il gap di cinque punti percentuali in favore del primo cittadino uscente in una complicata rincorsa (al primo round Galimberti con il centrosinistra ha raccolto il 46,65 per cento dei consensi, e Malvezzi, appoggiato da Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, il 41,18%).
A tirargli la volata, il 3 giugno in città è arrivato anche il leader della Lega, Matteo Salvini. Nelle stesse ore Anonymous ha hackerato il sito internet della Lega provinciale cremonese postando un messaggio contro le politiche migratorie del ministro dell’Interno. A fare la differenza al ballottaggio potrebbero essere anche quel 33% di elettori che non sono andate a votare al primo turno.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
NESSUNA MANOVRA E NESSUN MIRACOLO POTRA’ SALVARLI PER QUESTE RAGIONI
Da parecchi giorni molti si stanno prodigando in consigli al M5S su come invertire la rotta che in un anno ha portato sei milioni di italiani (sei milioni!, un salasso permanente, praticamente un elettore ogni cinque secondi) a ritirare il consenso appena dato, e rivolgersi alla Lega oppure disertare le urne.
Attenzione sacrosanta, poichè solo il M5S sembra ancora costituire un freno al dilagare di Salvini. Prodigarsi che trascura però il più pesante e palese dato di realtà : il M5S è finito. Purtroppo.
Il risultato delle europee per il M5S non è una rotta. Quello che sta vivendo il M5S è invece l’avvitamento, che in aeronautica indica quando il precipitare di un aereo raggiunge il punto di non ritorno, e nessuna manovra e nessun miracolo potrà più salvare il veicolo. Qualsiasi linea scelgano infatti Di Maio e/o Casaleggio jr., il M5S continuerà nel suo precipitare.
Se rompe con Salvini e si va a elezioni anticipate l’emorragia di consensi continuerà .
Se rompe con Salvini e si forma una coalizione di centro destra con tanti “responsabili” transfughi dal M5S che non vogliono perdere il seggio, la catastrofe sarà ancora più rapida.
Se rompe con Salvini e nasce un “governo del Presidente” per fare una finanziaria con il solito “lacrime e sangue” (che tradotto vuol dire, paga chi ha meno, s’impingua chi ha di più), dimostrerà la sua impotenza e irresponsabilità (se va all’opposizione) o la sua impotenza e acquiescenza verso i poteri forti (se vota il governo).
Se non rompe con Salvini ma continua a governarci insieme, dovrà inchinarsi a una dieta di rospi quotidiani che delle promesse elettorali faranno strame fino in fondo.
Comunque si muova, il M5S è nella condizione del dilemma siberiano: “Qualora il ghiaccio si rompa e tu cada nell’acqua ghiacciata, se in quattro minuti non ti tirano fuori sei morto, ma se ti tirano fuori, nell’aria ghiacciata, sei morto comunque in due minuti”.
Il 24 aprile 2018, prima che nascesse il governo Salvini (Conte), scrivevamo: “In Siberia il M5S di Di Maio ci si è messo da solo”.
L’avvitamento è iniziato allora, quando il M5S ha scelto di andare al governo con un partito che aveva programmi, passato, radici, valori, opposti ai propri.
E ha finto che si potesse stabilire invece un programma comune. Il famoso “contratto”, che Salvini ha considerato carta straccia da subito, facendo del governo Conte il suo governo, dell’odio per il migrante lo specchietto per le allodole, dell’odio per i magistrati e dell’amore per i padroni del cemento e degli appalti la stella polare della continuità con Berlusconi, e della spartizione in Rai e in ogni carica dove il governo ha voce l’unico terreno effettivo di accordo tra i due partiti.
In un sabba di oscenità (tranne rarissime nomine di meritevoli).
Salvini è ormai l’uomo di Confindustria e di tutti i poteri che non vogliono il controllo di legalità come orizzonte ineludibile di una democrazia.
A questa quintessenza del berlusconismo aggiunge il “libera tutti!” rispetto agli spurghi psichici indotti dalla paura in tanta parte dell’elettorato.
La politica della paura ha infatti lo scopo di spostare il bersaglio della sacrosanta rabbia popolare dall’establishment al capro espiatorio.
Il M5S ha fatto lo stuoino di Salvini, puntando tutto sul salario di cittadinanza, che ha dovuto però rimpicciolire ed edulcorare fino a farne poco più di una elargizione di emergenza per alcune delle fasce più deboli (sempre meglio che niente, sia chiaro).
E ha invece rinunciata a fare le battaglie qualificanti sbandierate nella campagna elettorale e unificate nel ritmato “onestà , onestà !”.
Che in effetti sarebbe — eccome! — un programma di governo, implicando guerra senza quartiere alle mafie, al loro brodo di coltura, grande evasione, riciclaggio, segreto bancario, corruzione, e poi fine di ogni lottizzazione in Rai e in ogni funzione pubblica, rigorosa politica ecologica, valorizzazione (l’opposto della mercificazione!) dei beni culturali, e via articolando.
E invece ingoieranno anche la Tav, la seconda per inutilità delle grandi opere (la prima è il ponte sullo stretto di Messina, la cui società ancora non è stata azzerata). E hanno ingoiato il go-go di condoni, liberi subappalti e ogni altra nefandezza di berlusconiana origine e memoria.
Ovvio che polemizzare con Salvini nelle ultime settimane di campagna elettorale è servito solo ad accrescere il discredito: nessuno ti prende sul serio con l’antifascismo in zona Cesarini, o con quattro ciance sull’eguaglianza, mentre continui ad accettare che si discuta di flat tax, cioè del più gigantesco regalo che si possa fare ai ceti abbienti (la Costituzione, non a caso, esige una fiscalità progressiva, per trasferire danaro dai più ricchi ai meno fortunati).
Ora Di Maio, insieme al suo “fratello” Di Battista (evitiamo blague sui fratelli coltelli), pensa di rimediare con una Grande Riorganizzazione. Che aggira le due questioni cruciali.
La prima: la contrapposizione destra/sinistra è superata. È vero il contrario. Vale infatti solo se per destra e sinistra si intendono i partiti che tradizionalmente si sono dichiarati o si dichiarano tali
In chiave di valori e interessi, invece, l’opposizione è sempre più significativa e anzi spinge alla polarizzazione.
Salvini ha così trasformato una Lega settentrionale in un partito iper-lepenista su scala nazionale, inverando il berlusconismo in salsa razzista e di finto anti-establishment (la volgarità o l’odio per le èlite quale calderone indistinto sono l’opposto della lotta contro l’establishment, cioè il privilegio dei veri ricchi-e-potenti e la sua hybris).
Il M5S ha un futuro solo se sapesse incarnare l’alternativa a questo potere dei poteri forti occultato dai modi plebei e dal furore contro i capri espiatori.
I valori giustizia-e-libertà intransigenti e praticati coerentemente. Ma il M5S non è nato con questa cultura, e se ne ha assunto qualche spezzone (anche qui: meglio che niente), lo ha fatto in un quadro ideologico di penoso ciarpame antiscientifico, complottismo puerile, con annesso anti intellettualismo e ibridazione con ogni opportunismo democristiano o sbandamenti
La seconda questione cruciale è intrecciata alla prima, in una debilitante sinergia al peggio: le modalità della selezione dei quadri dirigenti e la democrazia interna. Una forza anti-establishment, cioè giustizia-e-libertà , dovrebbe selezionare i suoi quadri e dirigenti attraverso la partecipazione alle lotte, il contributo di impegno pratico e culturale, la credibilità e coerenza dei propri tragitti in questi ambiti.
I meet-up potevano essere l’embrione delle istanze di base di un tale progetto. Le “parlamentarie” sono invece delle specie di provini per mini-reality o uomini/donne stile De Filippi (che rispetto alle “parlamentarie” è cinema da oscar), o spot per aspiranti influencer, in cui con qualche decina di like, cioè di amici facebook, si diventa candidati (bloccati) per essere eletti sindaco o parlamentare.
Un terno al lotto, una cuccagna, che con la caratura dell’impegno politico non hanno parentela alcuna. Naturalmente viene fuori anche qualcuno (rara avis, comunque) di valore. Ma accadrebbe anche estraendo i candidati a sorte.
Quanto alla democrazia interna, l’impermeabilità alle critiche, e anzi il riflesso pavloviano per cui chi non si allinea perinde ac cadaver è un nemico o un traditore, hanno fatto il resto. Un deserto di elaborazione e confronto collettivo.
I risultati si sono visti, e hanno mortificato, avvilito e infine distrutto, alcune intuizioni sacrosante che hanno fatto la fortuna del movimento: il rifiuto della partitocrazia e della politica come mestiere, per trasformarla invece in alcuni anni, non ripetibili, di “servizio civile costituzionale” nelle istituzioni.
Con il loro fallimento i 5S gettano il discredito su misure antipartitocratiche che invece restano più che mai attuali.
L’avvitamento del M5S potrà durare più o meno a lungo (fino a che non nascerà un’alternativa possibile, e continuerà a ingrossarsi il partito del non voto).
La possibilità che sia un protagonista della vita politica e soprattutto della sua urgentissima ri-democratizzazione è invece definitivamente tramontata. A meno di credere ai miracoli, stile apertura del mar Rosso, ma non c’è nessun Mosè alle viste.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
L’IDEOLOGO DI PUTIN E IL CICLO DI CONFERENZE ORGANIZZATO DA GRUPPI NEONAZISTI… NELLA LOCANDINA INDICATO ANCHE IL DIRETTORE DEL TG2 (CHE ORA SMENTISCE)
Porte spalancate in Italia per l’ideologo del nazionalismo russo Aleksandr Dugin.
Undici conferenze in dieci giorni, un tour inaugurato martedì sera con un flash mob nel quartiere dell’Eur
La tappa più importante è prevista per il 14 giugno nel centrale palazzo dell’informazione dell’Adnkronos a Roma, dove secondo gli organizzatori il filosofo russo doveva essere accolto dal direttore Gian Marco Chiocci.
Al suo fianco sul palco, inseriti in programma, anche i vertici della Rai, dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano al vicepresidente del consiglio di amministrazione Giampaolo Rossi.
L’organizzazione e la promozione degli incontri sono curate dall’associazione REuropa, sigla utilizzata da un gruppo legato, da almeno quarant’anni, al mondo del neofascismo italiano.
In prima fila c’è Maurizio Murelli, condannato a 14 anni di reclusione per aver fornito la bomba a mano che uccise a Milano l’agente di Polizia Antonio Marino il 12 aprile 1973. Fondatore e animatore della rivista Orion è uno dei punti di riferimento per la destra radicale italiana fin dagli anni ’80. La sua carriera di editore era iniziata all’interno della rivista Quex, foglio nato nel 1978 e animato, tra gli altri, dal terrorista nero pluriomicida Mario Tuti.
Accanto a lui, nell’organizzazione delle conferenze del pensatore vicino a Putin, c’è Rainaldo Graziani, figlio di Clemente
Gli incontri sono presentati nelle locandine come «Università d’estate, strade di Eurasia». Il sito dell’associazione REuropa che cura l’organizzazione per ora è una pagina bianca.
I domini (.org, .info e .com) sono di proprietà della Cooperativa sociale Arnia, di cui è socio Rainaldo Graziani e presidente la moglie Ines Pedretti.
La stessa cooperativa nel 2017 ha registrato i domini «centrostudiordinenuovo.org» e «ordinenuovo.org». Nel maggio dello scorso anno Rainaldo Graziani, durante un incontro romano organizzato con la sigla «Centro studi Ordine nuovo», ha annunciato la riapertura dell’organizzazione neofascista fondata dal padre, nominando come futuro presidente un altro socio della cooperativa Arnia, Daniele Bertello, indicato come responsabile della associazione REuropa nelle locandine del tour del filosofo russo.
In quell’incontro — documentato da un video rimosso nei mesi scorsi dall’account Youtube dell’organizzazione, ma recuperato da La Stampa — partecipò anche la figlia di Dugin, Daria Dugina, e vennero distribuite ai partecipanti alcune brochure con lo stemma dell’ascia bipenne, simbolo di Ordine Nuovo fin dalla sua fondazione negli anni 50.
Alla fine di giugno 2018, pochi giorni dopo l’incontro di Ordine nuovo, Aleksandr Dugin viene ospitato nella cascina di Groppello di Gavirate (Varese) «Corte dei brut», ristorante gestito dalla Cooperativa Arnia.
A tavola c’erano un centinaio di persone e la discussione era animata da Rainaldo Graziani e Maurizio Murelli. Tra gli ospiti c’era anche Gianluca Savoini, consigliere di Salvini per i rapporti con Mosca e presidente dell’associazione Lombardia-Russia.
Il momento clou dell’incontro — documentato da una serie di foto — è arrivato alla fine del pranzo, quando i padroni di casa hanno offerto a Dugin la Julleuchter, ovvero la lanterna di Yule. Simbolo rituale delle SS, la lampada che segnava il solstizio d’inverno — da festeggiare il 21 dicembre, in contrapposizione al Natale — era la decorazione preferita sulle tavole dei seguaci di Heinrich Himmler.
Rainaldo Graziani e la presidente della Arnia, Ines Pedretti, nel 2007 erano stati denunciati per alcuni cori antisemiti, cantati in una birreria di Buguggiate (Varese) durante una festa per l’anniversario della nascita di Hitler.
Se la sono cavata con la prescrizione, ma l’accusa era pesante: «Propagandavano idee fondate sull’odio razziale nei confronti di persone di razza ebraica e di nazionalità extracomunitaria e istigavano i presenti a commettere atti di discriminazione e di violenza, per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, nei confronti di persone di razza ebraica e di nazionalità extracomunitaria».
Nel locale la Digos aveva piazzato delle cimici, ma il processo di primo grado è arrivato a conclusione troppo tardi.
Prescritto, anche se i fatti non sono stati contestati dai legali degli imputati: «Dagli atti non emergono elementi per una pronuncia assolutoria di merito, che infatti non è stata sollecitata dalle difese», hanno annotato i giudici nella sentenza del 9 dicembre 2014.
Successivamente alla pubblicazione dell’articolo sulla versione cartacea, il direttore dell’Adnkronos Gianmarco Chiocci ha smentito l’utilizzo della sala del palazzo dell’informazione per l’incontro con Dugin previsto – secondo la programmazione divulgata da REuropa -per il 14 giugno prossimo e la partecipazione dei vertici Rai: «Nessun convegno con Dugin è previsto per il 15 giugno (e nemmeno in altra data) nella sala conferenze del palazzo dell’informazione dell’Andkronos, sala che peraltro dal 10 al 15 giugno sarà occupata da un convegno di Federprivacy organizzato nei mesi scorsi. Il resto degli interlocutori citati nell’articolo (gli unici che conosco, ovvero Sangiuliano, Rossi, e un altro che conosco solo per sms, Savoini) da me contattati sono cascati dal pero spiegando di saperne meno del sottoscritto».
L’indicazione della data, del luogo (la sede dell’Adnkronos) e l’elenco dei partecipanti (il consigliere di amministrazione della Rai Rossi e il direttore del Tg2 Sangennaro, tra gli altri) sono contenuti in due locandine divulgate su diversi social e su alcune testate online dagli organizzatori dell’evento.
La Stampa ha contattato Rainaldo Graziani, socio della cooperativa Arnia, animatore del flash mob all’Eur – documentato da un video diffuso in rete – con Dugin, prima tappa del tour italiano del filosofo russo: «Non mi sono occupato di questo evento – ha dichiarato – Chiocci e Sangennaro si assumono la responsabilità delle loro dichiarazioni».
Graziani non ha voluto fornire i contatti degli organizzatori. Il numero telefonico di Daniele Bertello – indicato come coordinatore degli eventi – reperito sui database dei domini registrati dalla cooperativa dove risulta socio (Arnia) – ha squillato a vuoto.
Nella programmazione era prevista la moderazione di Paolo Corsini, caporedattore di Rai parlamento e responsabile dell’associazione Lettera 22 – indicata nella locandina come co-organizzatrice – che ha confermato i contatti preliminari con il filosofo russo: «Io ho parlato con Dugin, dovevamo fare una cosa con lui, ma poi non abbiamo fatto nulla. Io la locandina non l’ho vista».
(da “La Stampa”)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
PREPARATEVI, PRESTO IN ITALIA I SOVRANISTI AL SERVIZIO DI PUTIN USERANNO GLI STESSI METODI BREVETTATI DAL KGB
Arrestato dalla polizia di Mosca con l’accusa di traffico di stupefacenti. È successo giovedì 6 giugno a Ivan Golunov, un giornalista del quotidiano online Meduza, famoso per le sue numerose inchieste sulla corruzione tra i funzionari della città russa.
Il reporter è stato fermato dalla polizia mentre si recava a un incontro con una fonte.
Secondo quanto dichiarato dal suo avvocato Dmitri Dzhulai, gli agenti lo avrebbero arrestato perchè in possesso di uno zaino, al cui interno vi sarebbero state delle sostanze stupefacenti.
La polizia, poi, avrebbe perquisito il suo appartamento, dove avrebbe trovato un’altra borsa con della droga.
Il giornalista ha smentito di essere il proprietario dei due zainetti e si dice vittima di un complotto, ordito per metterlo a tacere.
Secondo quanto riferito dal legale del reporter, inoltre, i poliziotti si sono rifiutati di sottoporre il suo assistito ai test per verificare se fosse entrato in contatto con la droga e avrebbero anche usato violenza sul giornalista.
Il reporter, che rischia una pena detentiva da 10 a 20 anni, è noto per le sue inchieste, che spesso hanno riguardato gli uomini del sindaco di Mosca Sergei Sobyanin, uno stretto alleato del presidente della Russia Vladimir Putin.
(da agenzie)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
PERCHE’, GLI ALTRI SI POSSONO PICCHIARE?… EMERGE LA RESPONSABILITA’ DELLE ISTITUZIONI: “LA DIGOS AVEVA CHIESTO A CASAPOUND DI SCEGLIERE UN ALTRO LUOGO”… MA CONVENIVA A QUALCUNO GENERARE INCIDENTI QUANDO SI POTEVANO EVITARE
“Rammarico, i cronisti non erano riconoscibili. I fotografi o i videoperatori sì, dall’attrezzatura”, il governo risponde così all’interpellanza urgente della deputata ligure, Raffaella Paita, Pd, sui fatti di piazza Corvetto del 23 maggio e sul pestaggio del giornalista di Repubblica, Stefano Origone, manganellato dalla polizia.
Che ha replicato: “Quanto accaduto è un fatto grave e inaccettabile non è un incidente. Continua il silenzio del ministro dell’Interno”
A rispondere, per conto del governo, per la prima volta, sugli scontri e sul pestaggio di Origone, Luigi Gaetti, sottosegretario dell’interno che, dopo aver ripercorso le vicende di quel giorno, ha dichiarato: “Erano stati fermati due attivisti più esagitati e violenti, il cui arresto peraltro poi è stato convalidato dall’autorità giudiziaria, e altri si sono avvicinati con l’intento di sottrarre all’arresto queste persone, con atteggiamento aggressivo e violento verso il personale di polizia – ha spiegato – per cui la polizia è intervenuto con l’uso dello sfollagente, Origone dunque è stato colpito da alcune manganellate e cadendo a terra il cronista ha riportato la frattura di due falangi, una costa e diverse contusioni”. Gaetti sottolinea che: “I cronisti non erano riconoscibili, mentre fotografi e operatori erano più distinguibili per le macchine fotografiche o le telecamere”.
Il sottosegretario Gaetti ha poi ricordato che: “E’ il Comune a individuare le piazze in cui si svolgono i comizi elettorali” e comunque “la Digos aveva comunque chiesto al referente di CasaPound di scegliere, invece di piazza Marsala, per il comizio elettorale, un luogo più decentrato, ma egli era rimasto fermo nella sua decisione”.
Come se non fosse nel potere del prefetto, d’intesa con Questore e Comune, spostare d’autorità il comizio in altra sede.
Durissima la replica di Paita: “Questa risposta, la prima, ufficiale, del governo sui fatti di Genova non è soddisfacente – ha detto – anzi è preoccupante. Origone è stato colpito dalla manganellata mentre svolgeva il suo lavoro di cronista: ci attendevamo parole di condanna per i fatti accaduti, avvertiamo invece un sistema di ostilità nnei confronti dell’informazione, forse l’unica cosa che ancora tiene uniti, Lega e Movimento Cinque Stelle. Quello che è accaduto a Genova è stato grave e inaccettabile e nessuno, dal governo, lo ha detto. Ne prendiamo atto”.
(da agenzie)
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Giugno 7th, 2019 Riccardo Fucile
GLI IMPRENDITORI RIUNITI A RAPALLO: “QUOTA 100? UN BOOMERANG” …. “DOPO UN ANNO ANCORA NIENTE PER IMPRESE E GIOVANI, SBAGLIATO SFORARE IL 3%”
Anche i giovani imprenditori bocciano senza appello i minibot. “Pensare che il problema del debito pubblico sia risolvibile con i minibot è come provarci con i soldi del Monopoli”, ha detto il presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria, Alessio Rossi, nelle tesi al 49mo convegno a Rapallo.
Rossi si è sfogato contro la scarsa reattività del governo. “Torniamo per un attimo ad un anno fa: 1 giugno 2018, giuramento del governo Conte. Una settimana dopo, il nostro convegno qui a Rapallo. Allora chiedevamo al Parlamento più giovane della storia repubblicana di saldare un’alleanza con le imprese giovani. Un anno dopo, ancora niente alleanza e niente per i giovani. Solo crescita ingessata”.
Quindi Rossi ha proseguito: “Da anni facciamo proposte, ci siamo rivolti a tutti i governi. Stavolta non c’è più niente da aggiungere. Non è che non abbiamo niente da dire, non sappiamo a chi dirlo, perchè davanti a noi ci sono solo campagne elettorali interminabili e mai un confronto serio”, ha detto agiungenmdo che è “finita la nostra pazienza”. Allora “la nostra proposta al governo è una sola: dobbiamo riattivare una cabina di regia per la crescita, ma stavolta chiamate i protagonisti, non le comparse”.
Rossi ha criticato duramente anche quota 100, spiegando che “ci sta tornando indietro come un boomerang, perchè la Commissione europea l’ha messa all’indice. Ma il problema vero è che questa misura genera un paradosso: in uno dei Paesi più vecchi d’Europa non si può avere un sistema pensionistico insostenibile”.
Dall’assemblea di Federgomma è intervenuto invece il presidente Vincenzo Boccia: “Sui minibot siamo in linea con Draghi, perchè significa debito pubblico”, ha detto. “Il problema è che noi non possiamo più realizzare debito pubblico, salvo che lo facciamo per investimenti nella logica degli eurobond, da concordare con gli altri Paesi”.
Il presidente di Confindustria ha ribadito che il governo non deve sfondare i parametri euroepei sui conti pubblici. “Abbiamo già detto che lo sforamento del 3% è un errore e la procedura di infrazione non è nell’;interesse del Paese e questo è un elemento essenziale”.
“Altra cosa – ha aggiunto – è l’emissione di eurobond per una grande dotazione infrastrutturale transnazionale che va nella direzione dell’interesse dell’Europa e dell’Italia”.Sul clima nella maggioranza di Governo, Boccia ha detto che lo “vedremo nel merito su come sarà affrontata la prossima manovra finanziaria, che non è affatto una questione marginale. Spero che il governo ci ascolti ma il problema è che il governo deve iniziare a fare gli interessi del Paese guardando al medio e lungo termine”.
(da agenzie)
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