Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
LE PERPLESSITA’ DEL CONSIGLIO SUPERIORE DEI LAVORI PUBBLICI E DI ALTRI ESPERTI SU RAGGI DI CURVATURA, SICUREZZA E ASPETTI IDRAULICI
Raggi di curvatura, sicurezza, carattere idraulico dell’opera.
Sono di diverso ordine le perplessità sollevate dal parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici che, lo scorso marzo, si è espresso sul progetto del Ponte sul Polcevera, firmato Renzo Piano e affidato alla cordata Salini Impregilo con Fincantieri e Italferr per 202 milioni di euro.
Il Consiglio ha reso noto il dettaglio del parere lo scorso 11 giugno. Un parere non vincolante, richiesto dal Commissario per la ricostruzione Marco Bucci; esso non rilascia semafori verdi e prescrizioni da seguire, visto il quadro giuridico entro cui la struttura commissariale nominata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri agisce, ovvero lo spazio di manovra di deroga rispetto ai comuni iter delle grandi opere pubbliche.
Tuttavia, le 86 pagine sollevano più di un problematica sul progetto della ricostruzione del Morandi.
“In primis devo dire che vi è un vincolo che forse viene sottovalutato- dice Alberto Prestininzi, professore di geologia e rischio idrogeologico all’Università La Sapienza e membro del Consiglio superiore dei lavori pubblici- ovvero che la nuova opera, per come nasce giuridicamente, deve seguire il vincolo dell’ex Ponte Morandi e si configura al netto di una variante. Questo ha una serie di ricadute e conseguenze: innanzitutto le limitazioni geometriche sconfigurano in un adeguamento di una strada esistente. Per esempio, il Consiglio ha fatto notare che, per la carreggiata est della nuova opera, i raggi di curvatura non rispettano le nuove norme e potrebbero portare conseguenze sulla sicurezza. Anche nella carreggiata ovest si sono notati dei numeri che non rispettano la normativa. Le osservazioni del Consiglio devono essere inquadrate alla luce del vincolo giuridico della variante, quindi, in realtà , il vero tema è come adeguare le nuove norme, ad un’opera che rientra nel quadro della variante. Uno dei rimedi può essere la riduzione della velocità che attenuerebbe il pericolo derivante da questi raggi di curvatura”.
Secondo il nuovo progetto, infatti, il Ponte sul Polcevera nascerà con delle limitazioni di velocità in origine, proprio per questi aspetti che riguardano sicurezza e visibilità .
“Altro punto- continua Prestininzi- è il carattere idraulico dell’opera. La posizione dei piloni per bypassare il Polcevera non risponde a quello che chiede la normativa e c’è un rischio allagamento che abbiamo segnalato nella nostra relazione. In genere, per il consiglio, la possibilità di esprimere un parere arriva prima delle gare e dei contratti d’appalto per il consiglio; in questo caso è stato chiesto a contratti già firmati, quindi non c’era alcun reale spazio di suggerimento. Con il decreto legge e la legge successiva il Governo ha “ingessato” questa operazione nelle modalità ”.
Anche per altri esperti che hanno letto il parere, si evincono criticità .
“Ho letto la relazione- spiega all’Huffpost Enzo Siviero docente di Teoria e progetto di ponti all’Università di Venezia- e devo dire che il problema delle carreggiate e dei raggi di curvatura, rende una delle criticità più rilevanti: un ponte che nasce con delle limitazioni di velocità . Questo significa, banalmente, che un ipotetico incidente, nel tratto non a norma, verrebbe giudicato dai magistrati non certo considerando le deroga che ha permesso questo. Non solo. Riscontro un’altra considerazione interessante nel parere, quella sulle luci delle campate del futuro Ponte sul Polcevera. Il Consiglio Superiore ha suggerito di attenersi alla distanza di 100 metri, l’una dall’altra. Si è scelto di porle distanti 50 metri, una motivazione ben più architettonica che ingegneristica. La scelta dei 50 metri pone problemi di durabilità dell’opera e costi aggiuntivi e significativi di manutenzione”.
Altro parere negativo sulla relazione è quello dell’ingegnere strutturista Vito Segantini, ingegnere civile e consulente in ambito pubblico e privato per le grandi opere che, in una relazione sul parere del Consiglio, commenta così il documento, soffermandosi in particolare sui i problemi di sistema a cassone che il nuovo ponte avrebbe sul nascere: “Sono molte e numerose non conformità alle disposizioni legislative vigenti in materia, prima fra tutte la non congruità delle caratteristiche geometriche della sezione viaria, variabile da un punto all’altro del viadotto per potersi omogeneizzare con i rimanenti tratti autostradali realizzati negli anni ’60 e rispondenti alle normative all’epoca vigenti. Il progetto degli impianti tecnologici viene, sostanzialmente, bocciato, in quanto carente di molti documenti ed elaborati progettuali. Gli elaborati sugli impianti elettrici appaiono insufficienti ed è quindi necessaria una revisione ed integrazione per un adeguamento a livello definitivo della documentazione di progetto. In aggiunta, la macchina di deumidificazione degli ambienti siti all’interno delle travi a cassone appare dimensionata insufficientemente, tanto da sollevare dubbi circa l’effettivo smaltimento dell’umidità degli ambienti durante la stagione invernale”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
ORA TONINELLI PARLA DI “PRIMAVERA 2020” MA SE VA BENE NON SARA’ PRONTO PRIMA DI LUGLIO
Oggi il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli era a Genova per presenziare alla prima colata di cemento del nuovo viadotto sul Polcevera che andrà a sostituire il Ponte Morandi crollato il 14 agosto 2018.
Nell’occasione il ministro ha fatto sapere che si tratta di una giornata importante «perchè il lavoro che abbiamo fatto nei mesi scorsi finalmente inizia a essere tangibile».
Toninelli ha anche fatto alcune previsioni sulla realizzazione dell’opera «penso che per la fine dell’anno il nuovo ponte sarà in piedi e, nella primavera del 2020, lo si possa inaugurare».
Manca ancora poco meno di un anno (secondo le stime del ministro) all’inaugurazione del nuovo viadotto sul Polcevera.
Il 14 agosto prossimo ci sarà il primo anniversario della tragedia del Ponte Morandi. Secondo Toninelli «la prima colata di calcestruzzo significa che stiamo finalmente ricostruendo: il simbolo del fallimento della gestione della cosa pubblica data ai privati sarà un brutto ricordo».
Per la verità i ricordi sono ancora tutti lì, davanti agli occhi di tutti. Il ponte deve essere ancora demolito completamente, le due torri strallate saranno abbattute con l’esplosivo venerdì a quasi undici mesi dal disastro.
Era il 4 settembre 2019, a meno di un mese dal crollo dei Ponte Morandi quando il governo Conte firmava un impegno solenne, una risoluzione con cui si prometteva che i tempi di ricostruzione on sarebbero stati superiori ad un anno.
Ovviamente nè Conte, nè Toninelli avevano pensato che prima di procedere alla demolizione era necessario attendere i tempi tecnici delle indagini e il dissequestro delle macerie e della struttura rimasta in piedi. Dettagli.
Come è un dettaglio il fatto che il famoso Decreto Genova sia stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo il 28 settembre, a più di un mese dalla tragedia nella quale hanno perso la vita 43 persone.
E nel Decreto così tanto faticosamente elaborato, mancavano i soldi per il Ponte. Per nominare il Commissario per la ricostruzione invece il Governo ci ha impiegato ben 51 giorni.
Per l’avvio dei lavoro di demolizioni invece si dovette aspettare 129 giorni (21 dicembre 2018) mentre la ricostruzione iniziò solo il 15 aprile 2019 (dopo 244 giorni).
A dicembre del 2018 Toninelli dichiarava a Radio Anch’io che il nuovo ponte (su progetto di Renzo Piano) «sarà in piedi a fine 2019 e all’inizio del 2020 al massimo verrà inaugurato, magari addirittura a fine dicembre».
Oggi quella data è già slittata di tre mesi, si parla della primavera quindi come minimo a marzo dell’anno prossimo.
E non era nemmeno la prima volta che Toninelli cambiava previsione, appena quindici giorni prima, il 7 dicembre, il ministro a Rai 3 annunciava che il ponte sarebbe stato pronto «entro la fine dell’anno prossimo» ovvero a dicembre 2019.
Allo stato attuale possiamo scommettere che il ponte non sarà pronto prima di luglio 2020.
(da agenzie)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
L’ITER DELLA PROCEDURA D’INFRAZIONE SENZA FATTI NUOVI SARA’ CONFERMATA IL 9 LUGLIO
Il clima di festa per la vittoria dell’Italia contro la Svezia nella ‘gara’ per ospitare le Olimpiadi invernali 2026 non arriva fino a Bruxelles. Fa bene alla reputazione del Belpaese, ma non cambia di una virgola quel dossier che tanto preoccupa l’esecutivo: la procedura per deficit legata al debito eccessivo.
Oggi la Commissione europea ne ha discusso: i preparativi vanno avanti. Tempo per decidere: esattamente tra una settimana.
“Il 5 giugno la Commissione ha redatto un report le cui conclusioni dicevano che la procedura per debito eccessivo è giustificata. La Commissione prosegue i lavori preparatori in linea con le indicazioni della procedura. La Commissione ha avuto una discussione sulla situazione attuale e si è concordato di tornare sulla questione la prossima settimana”, spiega il portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas nel briefing con la stampa dopo la riunione dei commissari.
A bocce ferme, se il governo italiano non fornirà garanzie vere sulla riduzione del deficit e del debito, la procedura — percorso obbligato di controllo della spesa per almeno 5 anni — sarà confermata nella riunione dei commissari la settimana prossima a Strasburgo, in concomitanza con la prima plenaria del nuovo Europarlamento eletto a maggio.
Significa che il quella sede la Commissione approverà un documento nel quale si dirà che l’Italia non ha prodotto nessuna iniziativa rilevante sul fronte deficit/debito, per cui si chiederà l’apertura formale della procedura, che gli Stati dovranno approvare all’eurogruppo/Ecofin dell′8 e 9 luglio.
A questo punto, per bloccare procedura servirà il voto contrario del 55% degli Stati membri in rappresentanza del 65% della popolazione.
La Commissione prevede che il deficit italiano possa arrivare al 2,5 per cento del pil quest’anno e sforare il 3 l’anno prossimo, mentre per il debito prevede un pericoloso aumento fino al 135,2 per cento del pil.
Il punto è che Bruxelles chiede garanzie. Non si fida perchè dal governo italiano arrivano voci diverse. Un conto è Tria — con lui anche il premier Giuseppe Conte.
Altra cosa è il vicepremier Matteo Salvini che vuole usare i risparmi per permettersi la flat tax. E’ per questo che anche oggi da Palazzo Berlaymont trapela un’impostazione rigida.
(da “Huffintonpost”)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
SPRECHI, PREVISIONI SBALLATE E COSTI LIEVITATI ANCHE DEL 700%… I PRECEDENTI, COMPRESO TORINO
L’Italia si è aggiudicata i Giochi invernali del 2026, le Olimpiadi della retorica invece le ha già vinte.
La sbornia post Losanna è destinata a durare ancora per molti mesi dopo che la delegazione italiana ha avuto la meglio sui diretti concorrenti svedesi.
Una partita ristretta visti i ritiri di tutti i Paesi che avevano manifestato interesse come Austria, Giappone, Svizzera, Canada e l’esclusione della Turchia. Anche la sindaca di Barcellona Ada Colau, quando si discuteva di una possibile candidatura, spense sul nascere i sogni di gloria della sua città .
E persino Stoccolma ha pensato al ritiro a causa dei forti dubbi del governo locale. La proposta italiana ha ottenuto 47 voti contro 34, l’amministrazione di Stoccolma tira così un sospiro di sollievo.
In Lombardia e Veneto la gioia è invece incontenibile, e da lì si propaga in tutto il Paese. Perchè, dicono i promotori, è certo che si tratterà di Giochi “sostenibili”, senza sprechi e anzi con un lauto guadagno per le casse dello Stato in termini di investimenti, entrate fiscali e di benefici sul fronte occupazionale.
I numeri ex ante sono più che positivi, e si basano su numerosi studi che stimano un impatto sul Pil notevole: 2,3 miliardi di Pil cumulato aggiuntivo secondo l’Università la Sapienza, per la Bocconi un impatto sulla produzione di circa 2,8 miliardi solo per la Lombardia, 1,5 miliardi invece per il Veneto e le province di Trento e Bolzano secondo la Ca’ Foscari. In totale, l’impatto economico della manifestazione sulla produzione raggiungerebbe 4,3 miliardi di euro, con un valore aggiunto di poco meno di 2 miliardi di euro e con oltre 35 mila nuovi posti.
Il costo totale dell’evento, secondo i promotori, si aggira intorno al miliardo e mezzo. Circa 840 milioni di euro arriveranno direttamente dal Comitato Olimpico internazionale, lo Stato dovrà sborsare “solo” 415 milioni, grazie soprattutto al fatto che gran parte degli impianti esiste già .
Su 14 sedi di gara, quattro saranno ristrutturate. Tra queste il PalaSharp di Milano, oggi zona franca del degrado e della tossicodipendenza, dovrà essere rimesso completamente a nuovo.
Discorso simile per la pista da bob di Cortina, abbandonata da tempo a se stessa. Altre tre strutture saranno poi temporanee, mentre solo un impianto sarà costruito da zero: il PalaItalia Santa Giulia a Milano (capienza 15mila spettatori) per l’hockey, destinato dopo i Giochi a diventare spazio polifunzionale.
Gli investimenti previsti sono pari a circa 346 milioni per la realizzazione dei villaggi olimpici e dei media center e per gli impianti. I costi di gestione previsti per la realizzazione dell’evento sono pari a 1.170 milioni. A questi vanno sommati 415 milioni a carico dell’amministrazione centrale, di cui 402 milioni per le spese in materia di sicurezza.
Il costo contabilizzato per le Olimpiadi invernali organizzate a Torino nel 2006 era stato di 1.229 milioni. Quei Giochi costarono invece più di quattro miliardi.
Il paragone con Torino, che ha rinunciato alla candidatura in triade con Milano e Cortina, è il più immediato.
Perchè se le stime raccontano l’opportunità di organizzare davvero dei Giochi low cost, l’esperienza insegna che mai le previsioni sono state azzeccate, con costi lievitati e sprechi di denaro pubblico in opere poi inutilizzate.
Come la pista da bob di Cesana, costata 140 milioni e oggi una delle tante cattedrali nel deserto. O lo sky jump di Pragelato, costato 34 milioni e di cui ancora oggi si discetta se smantellarlo o riqualificarlo.
A fronte delle stime che le stesse università che le hanno prodotte invitano a prendere con cautela – dal momento che non si tratta di vere analisi costi-benefici – ci sono anche diversi studi che spiegano come i Giochi raramente si siano rivelati un affare per i Paesi ospitanti.
Tant’è che lo stesso Cio ha varato un nuovo regolamento per l’organizzazione dei Giochi, la cosiddetta Agenda 2020, che impone ai Paesi zero sprechi e spese oculate, attraverso strutture temporanee e progetti a basso impatto economico, con una chiara idea della destinazione futura a evento concluso. Il Comitato internazionale ha quindi assistito i Paesi candidati nella stesura dei dossier.
Secondo le elaborazioni di Statista, in nessun Paese organizzatore di giochi estivi o invernali le stime iniziali si sono rivelate corrette, anzi.
Nel caso di Rio, la spesa per gli impianti e le infrastrutture è stata di 4,58 miliardi di dollari, sforando del 51% il budget inizialmente stanziato.
Chi ha esagerato è stata Sochi, che ha speso il 289% in più dalle previsioni, circa 21 miliardi. A Lillehammer c’è stato uno sforamento del budget inizialmente previsto del 277%, a Barcellona del 266%.
A Torino l’incremento fu dell′80%. Guido Crosetto, all’epoca in Forza Italia, chiese di istituire una commissione parlamentare sugli sprechi dei Giochi. Nel 2011 Torino guidava la classifica dei Comuni più indebitati, con circa 3400 euro di debito per abitante rispetto alla media di allora di 1600 euro, in parte dovuto alle spese sostenute per l’organizzazione dei Giochi di cinque anni prima.
Per non parlare di Londra 2012, dove i costi complessivi hanno superato per il 179% le previsioni, circa 6,5 miliardi in più secondo uno studio dell’Istituto Bruno Leoni. Il Governo di allora, per bocca del ministro Hugh Robertson, sostenne che le spese erano state inferiori, grazie a una sapiente omissione di interventi e misure non contabilizzate. Com’è noto, l’insuccesso più clamoroso è rappresentato dai giochi di Montreal del 1976, con una lievitazione dei costi +720% e un buco ripianato in ben trent’anni. Secondo lo studio di Bent Flyvjerg e Allison Stewart, citato dal Bruno Leoni nel suo report del 2014, tutte le edizioni delle Olimpiadi analizzate dal 1960 al 2012 hanno registrato perdite significative.
Come la Grecia, che spese per l’edizione del 2004 circa 9 miliardi contro la metà preventivata: in quell’anno il deficit di Atene si attestò al 6,1% e secondo molti esperti le Olimpiadi diedero un decisivo contributo nell’innescare la crisi finanziaria di cui ancora oggi paga le conseguenze.
La letteratura scientifica è concorde nel riconoscere come l’impatto dei grandi eventi sportivi che si legge nei dossier ex ante sia notevolmente sovrastimato, così come sono sottovalutati i costi finanziari.
Si fa spesso confusione, scriveva nel 2014 il Bruno Leoni, tra analisi di impatto e analisi costi-benefici: “Mentre le prime si limitano a stimare l’effetto della spesa connessa all’organizzazione dei Giochi sull’economia nel suo complesso, le seconde considerano più realisticamente che ogni decisione di spesa ne impedisce altre, cosicchè appare necessario procedere a una valutazione che consideri il differenziale anzichè l’impatto assoluto”.
Un altro studio del 2016 della Said Business School dell’Università di Oxford, citato dalla sindaca di Roma Virginia Raggi per dire no ai Giochi nel 2024, giunse alle stesse conclusioni. Il 47% dei giochi ha avuto un costo superiore del 100 per cento rispetto alle previsioni. Insomma, si tratta di maxi-eventi tra i più rischiosi, soprattutto per le casse dello Stato. Gli studi suggeriscono che i Paesi che si trovano in una congiuntura economica sfavorevole o con uno spazio fiscale ristretto sarebbe meglio si tenessero alla larga. Poi ci sono le eccezioni, ma resta la certezza che al momento della aggiudicazione le Olimpiadi sono “un assegno in bianco”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
E’ L’EREDITA’ DI MINNITI CHE HA PORTATO IL PD ALLO SFASCIO… ORFINI E ALTRI NON CI STANNO, ZINGARETTI TACE, NESSUNO SI VERGOGNA
Se domani il Partito democratico non si spaccherà nell’Aula di Montecitorio, sarà solo per una questione regolamentare. Sul rinnovo della missione italiana in Libia i dem arrivano alla discussione alla Camera con una risoluzione ufficiale, che ha l’appoggio della quasi totalità del gruppo, e un’altra trasversale, che vede come primo firmatario Erasmo Palazzotto (Sinistra italiana-Leu), seguito dai compagni di gruppo Laura Boldrini, Nicola Fratoianni e Roberto Speranza, ma anche da Riccardo Magi (+Europa), dall’ex cinquestelle Silvia Benedetti e soprattutto dai democratici Matteo Orfini, Vincenza Bruno Bossio, Gennaro Migliore, Giuditta Pini, Fausto Raciti e Luca Rizzo Nervo.
Ciò che la minoranza mette in discussione è la prosecuzione dell’impegno italiano nel Paese africano, superando gli accordi precedenti che “furono sottoscritti dal Governo Gentiloni”, ricorda Orfini, da sempre critico sull’azione dell’ex Ministro Minniti in Libia.
E prosegue: “Secondo alcuni, nonostante oggi in quel Paese sia scoppiata una guerra, vanno difesi a oltranza. Una posizione per me incomprensibile e proprio per questo avrei voluto discuterla, per capirne le motivazioni”. Per l’ex presidente dem, la mozione ufficiale del gruppo dem è “invotabile”, perchè “continuare a fingere di non vedere i lager, le torture, le morti nel Mediterraneo davvero non si può”.
Quella che alla fine risulterà ufficialmente invotabile, invece, sarà molto probabilmente la loro risoluzione: infatti, una volta approvato il testo della maggioranza gialloverde, che comprende la prosecuzione della missione libica, i documenti che confliggono nel contenuto con quanto già votato dall’Aula saranno fatti decadere automaticamente dalla Presidenza della Camera.
I dissidenti, comunque, puntano il dito sul filo rosso che collega la guerra civile in Libia, i campi che ospitano in condizioni disumane gli immigrati in quel Paese e le navi che Salvini tiene a girovagare, pur di non farle attraccare nei nostri porti.
“La nostra intenzione non è di criticare retrospettivamente il Governo Gentiloni”, prova a ridimensionare lo scontro Fausto Raciti. “La guerra ha cambiato la situazione in Libia e non ce la sentiamo più di girarci dall’altra parte. Se chiediamo al Governo di far sbarcare la Sea Watch in Italia, perchè sarebbe disumano rispedire quelle persone in Libia, allo stesso modo dobbiamo riconoscere che le condizioni che giustificavano gli accordi precedenti oggi non ci sono più”.
Una spiegazione che, però, non soddisfa il capogruppo Graziano Delrio, che infatti ribadisce: “La risoluzione del gruppo è quella, qualcuno chiede di rivederla, ci può stare. Ma la risoluzione è depositata e rimane quella”.
Il testo ufficiale del gruppo dem chiede al Governo di vigilare sul fatto che le motovedette cedute alla Libia per vigilare sul traffico di esseri umani non diventino strumenti militari da utilizzare a scopi bellici, oltre a sostenere con più forza la ricerca di una soluzione democratica al conflitto interno in quel Paese.
Dal Nazareno, nè Nicola Zingaretti nè il responsabile Esteri della nuova segreteria, Enzo Amendola, preferiscono intervenire.
Ufficialmente, per evitare di rinfocolare lo scontro interno e mantenerlo al livello del gruppo parlamentare. Ma in questo modo si vuole evitare al contempo di prendere una posizione ufficiale, che sconfessi la linea dei dissidenti e, con essa, anche i dubbi di un’area di elettori di sinistra, tradizionalmente critici verso l’azione del duo Gentiloni-Minniti. Tanto vale far rientrare rapidamente il caso.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
I DATI DI OGGI CONFERMANO CHE IL PULL FACTOR ESISTE SOLO NELLA FANTASIA CRIMINALE DEI RAZZISTI: NEGLI ULTIMI 50 GIORNI PARTITE 3.962 PERSONE E SOLO 431 SOCCORSE DALLE NAVI UMANITARIE
Quasi 4mila persone in neanche due mesi. E con le Ong oramai fuori dalle rotte.
La smentita alla teoria del “pull factor”, cioè delle navi umanitarie che attirerebbero i migranti, arriva proprio dalla Libia. Tra l’1 maggio e il 21 giugno sono partite almeno 3.926 persone, quelle soccorse dalle navi umanitarie sono state 431.
Le medie giornaliere forniscono una lettura ancora più precisa.
Dal 1° al 21 giugno sono partiti dalle coste libiche 94 migranti al giorno quando le navi delle organizzazioni di soccorso non erano in navigazione; 26 al giorno quando invece le Ong si trovavano nell’area di ricerca e soccorso libica.
Complessivamente, nel periodo dall’1 maggio al 21 giugno, sono salpate dalle spiagge controllate dai trafficanti di uomini 62 persone al giorno in presenza delle navi umanitarie e 76 in loro assenza.
I dati sono stati esaminati da Matteo Villa, ricercatore dell’Istituto di studi politici internazionali di Milano (Ispi), che ha elaborato le informazioni ufficiali dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) e dell’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim).
Le agenzie Onu riassumono quotidianamente gli arrivi in Europa che sui migranti intercettati dalla cosiddetta Guardia costiera libica e riportati a terra
Che cosa significhi venire respinti lo spiega l’inviato Onu in Libia, del quale è stato divulgato nei giorni scorsi il contenuto del suo ultimo intervento al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
«Le condizioni per migranti e rifugiati in Libia erano già terribili prima del conflitto, queste condizioni sono andate di male in peggio», ha scritto Ghassam Salamè che ricorda come richiedenti asilo, rifugiati e altri migranti «sono intrappolati in centri di detenzione esposti o in prossimità dei combattimenti».
L’Acnur nel suo ultimo aggiornamento sulla Libia «ha notato un aumento degli eventi di sbarco dal maggio 2019 rispetto ai dati raccolti nei mesi precedenti», segnala l’agenzia delle Nazioni Unite.
In particolare viene segnalata la moltiplicazione dei porti da cui salpano i barconi, a distanza di oltre 300 chilometri l’uno dall’altro, proprio come avveniva in passato.
La riprova che i trafficanti non sono stati fermati nè sconfitti, e che sono ancora in grado di mobilitare risorse in tutto il Paese. In particolare gli operatori dell’alto commissariato hanno segnalato il riaccompagnamento di stranieri intercettati in mare, nella base navale di Tripoli, Al Khums e Zawyah e l’area di Zuara.
Proprio qui sarebbero operative due figure controverse.
Il primo è “Bija”, il capo della polizia marittima di Zawyah, indagato dalle Nazioni Unite ma ancora attivo e sostenuto, finanziariamente e con equipaggiamenti, dal governo di Tripoli.
E poi Ayman al-Kafaz, tra i capi della polizia di Zuara che secondo alcuni testimoni, come riporta anche una recente sentenza del Tribunale di Trapani, è anche tra i capi dei clan di scafisti. Al-Kafaz è a capo di una milizia che «si poneva quasi fosse una forza di polizia».
(da “Avvenire”)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
CI VORRA’ TEMPO, MA SOTTO PROCESSO CI FINIRA’ SALVINI (E I SUOI SERVI) E NON CAROLA
La Corte europea dei diritti dell’uomo non interverrà per applicare quelle misure che consentirebbero ai migranti ancora a bordo della Sea Watch di sbarcare. Ora rimane tutto nelle mani della comandante Carola Rackete, che già in mattinata si era detta pronta a sfidare il divieto di Matteo Salvini che le impedisce di entrare in acque italiane.
Ecco spiegato perchè stiamo dalla sua parte.
Ogni governo appartenente ad uno Stato sovrano può decidere di negare l’approdo ad un’imbarcazione presso i propri porti. Ma è un divieto che va motivato.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay nel 1982 e ratificata dall’Italia nel 1994, specifica che l’attracco ad una nave può essere impedito solo in casi particolari, fra cui il “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”.
Proprio a questo trattato fa riferimento il Decreto sicurezza bis, nel nome del quale Matteo Salvini ha firmato la proibizione di entrare, transitare e sostare in acque italiane alla nave Sea Watch, che rimane da ormai 13 giorni in balia del mare a largo di Lampedusa.
Tuttavia, non è chiaro a quali motivi stia facendo riferimento il Viminale fra i pericoli sopra citati: per quali ragioni le 53 persone inizialmente a bordo (di cui 11, fra donne incinte, bambini e malati sono poi sbarcate per questioni sanitarie) rappresentano a priori una minaccia per la pace, l’ordine o la sicurezza dell’Italia
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso di respingere il ricorso chiesto dalla Sea Watch e non applicare quelle misure che avrebbero permesso ai migranti che rimangono a bordo della nave di sbarcare.
La Cedu “conta sulle autorità italiane affinchè continuino a fornire l’assistenza necessaria alle persone a bordo di Sea Watch 3, che sono vulnerabili a causa della loro età o delle loro condizioni di salute”, ma il leader leghista ha sempre affermato che per quanto lo riguarda l’imbarcazione della Ong “può restare lì fino a Natale”.
Uno sblocco della situazione rimane ora nelle mani della capitana Carola Rackete, che già in mattinata aveva affermato di essere pronta a forzare il blocco, nonostante le conseguenze che la potrebbero colpire. In questa eventualità , la sua azione sarebbe sì in contrasto con quando ratificato dal ministro Salvini, ma starebbe dalla parte dei diritti umani.
L’incostituzionalità dei porti chiusi
Il Decreto sicurezza bis conferisce al ministero dell’Interno, “di concerto con il ministro della Difesa e con il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il presidente del Consiglio”, il potere di emanare provvedimenti che vietino l’attracco a quelle navi (“salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale”) che intendono sbarcare illegalmente “persone in violazione delle leggi di immigrazione”.
Un altro riferimento ad un’indicazione contenuta nel trattato sul diritto del mare e strumentalizzata ai fini della politica dei porti chiusi. La Convenzione di Montego Bay infatti, così come il resto della normativa internazionale in materia, in primis sottolinea sempre l’obbligo di soccorrere la vita umana in mare.
Dovere a cui non può essere anteposta nessuna delle clausole sopra citate. Il diritto alla vita, all’integrità e alla dignità della persona, che viene protetto da tutti quegli attori che salvano persone vulnerabili nel Mediterraneo, non può in alcun modo venire subordinato dalle azioni politiche dei singoli Stati.
La direttiva nazionale italiana e le ordinanze di un ministero non possono risultare incompatibili con i doveri affermati dal diritto internazionale marittimo: non possono quindi essere in contrasto con le Convenzioni Unclos, Solas e Sar, i principali trattati che nel dettare la normativa internazionale da seguire in mare mettono al primo posto l’obbligo di prestare soccorso e portare i naufraghi in un porto sicuro.
Non solo, le delibere di un governo non possono contrastare la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati e il principio di non respingimento.
Intimando alla Sea Watch di riportare i migranti soccorsi in Libia, Matteo Salvini ha contraddetto quanto affermato dalla comunità internazionale, che ha spesso documentato le atrocità a cui vanno incontro i migranti che vengono intercettati dalla Guardia costiera di Tripoli. La Libia non è un porto sicuro non solo a causa della guerra civile che ormai da mesi ha investito il Paese, ma anche in quanto non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951.
Non assicura quindi la protezione internazionale a cui potrebbero aver diritto le persone al momento a bordo della Sea Watch.
Il ministro dell’Interno, decretando un diniego di attracco e incalzando per un ritorno verso la Libia, di fatto, sta violando l’articolo 33 della Convenzione, in cui si afferma il principio di non respingimento
Una pioggia di critiche per il Decreto sicurezza bis
È per questo motivo che il Decreto di Salvini è stato bocciato da Unhcr, Onu e Consiglio d’Europa, organizzazioni internazionali che hanno criticato le delibere del Viminale, prendendo invece le parti di chi ogni giorno si opera per garantire la salvaguardia delle vite umane in mare.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha sottolineato che le disposizioni del Decreto sicurezza “potrebbero penalizzare i soccorsi in mare di rifugiati e migranti nel Mediterraneo centrale, compresa l’introduzione di sanzioni finanziarie per le navi delle Ong ed altre navi private impegnate nel soccorso in mare. Salvare vite umane costituisce un imperativo umanitario consolidato ed è anche un obbligo derivante dal diritto internazionale. Nessuna nave o nessun comandante dovrebbe essere esposto a sanzioni per aver soccorso imbarcazioni in difficoltà “.
Le Nazioni Unite, quando il testo era ancora in fase di discussione, aveva richiamato l’Italia: “Esortiamo le autorità a smettere di mettere in pericolo la vita dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime della tratta di persone, invocando la lotta contro i trafficanti. Questo approccio è fuorviante e non è in linea con il diritto internazionale generale e il diritto internazionale dei diritti umani”. Era poi stata la volta del Consiglio d’Europa, che si era detto fortemente preoccupato per “l’atteggiamento del governo italiano nei confronti delle Ong che conducono operazioni di salvataggio nel Mediterraneo”, chiedendo agli Stati membri di interrompere qualsiasi collaborazione con la Libia, un luogo che non può essere considerato un Paese sicuro.
Non si può multare chi salva vite in mare
La capitana della Sea Watch, Carola Rackete, ha affermato di essere cosciente di quanto succederà se deciderà comunque di entrare nel porto di Lampedusa. Verrà accusata di favorire l’immigrazione clandestina. La sua nave verrà confiscata e arriverà una multa salata.
Infatti, il Decreto sicurezza afferma: “In caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane, notificato al comandante e, ove possibile, all’armatore e al proprietario della nave, si applica a ciascuno di essi, salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000. In caso di reiterazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, si applica altresì la sanzione accessoria della confisca della nave, procedendo immediatamente a sequestro cautelare”.
Tuttavia, al tempo stesso la normativa italiana in materia di sanzioni specifica che non risponde della violazione chi sta adempiendo ad un dovere.
E il dovere di prestare soccorso rimane comunque in cima alla lista degli obblighi per qualsiasi natante.
In primis viene stabilito dall’Articolo 98 della Convenzione Unclos, firmata a Montego Bay, e dall’Articolo 10 della Sar, firmata invece ad Amburgo, che impongono al comandante della nave a salvare le persone che si trovano in mare in condizioni di pericolo, e condurle presso un place of safety, dove siano garantiti i loro diritti. Nemmeno l’accusa di operare a fianco dei trafficanti può far valere una sanzione, in quanto secondo il testo non sta commettendo infrazione “chi ha commesso il fatto nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in stato di necessità “: ammettendo anche il fatto che i migranti siano stati messi in condizioni di vulnerabilità in mare da parte di scafisti, come ha documentato un video dell’Agenzia Frontex appena qualche giorno fa, la necessità di salvare delle vite in pericolo deve essere riconosciuta prima di qualsiasi accusa di favoreggiamento di immigrazione clandestina.
(da FanPage)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
GIUDICI IPOCRITI E CON LA PANCIA PIENA HANNO MESSO IL SIGILLO ALL’INFAMIA
La sentenza di oggi è uno spartiacque, una data che segna un confine, un giudizio che pesa come un fardello, gravido di responsabilità morali.
Adesso anche la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo mette il suo sigillo all’infamia, rifiutando il ricorso della SeaWatch
Dal 12 giugno i profughi salvati dalle acque stanno in mezzo al mare. Da tredici giorni una mano lava l’altra e a nessuno importa nulla.
Da sei giorni un solo uomo, Don Carmelo La Magra, 38 anni, insieme ai suoi parrocchiani dorme sul sagrato di una chiesa per condividere in mondo solidale la condizione delle 42 persone — uomini e donne — che la vigliaccheria degli eurogoverni, e l’arroganza del nostro, hanno trasformato in carne da macello, lasciata a marcire sulle punte di una nave.
Che Salvini si danni l’anima per impedire a questi naufraghi di mettere piede a terra è fin troppo chiaro. Ma che adesso gioisca, perchè considera questa sentenza una avallo della sua politica, è una piccola infamia aggiuntiva per le belle animelle che pretendono di difendere i diritti umani, ma lo fanno con un moto di trasporto emotivo da impiegati del catasto che si applicano alle visite di una planimetria.
Perchè, poi, alla fine, il punto è sempre questo: in una scatola di latta in mezzo al mare, ci sono 42 persone senza approdo e senza prospettiva: molti sono giovani, molte sono donne, e tutte queste persone, che hanno rischiato la vita, non possono sbarcare.
Stanno al largo, sotto il sole dell’estate che picchia, e non è una bella vita. Dicono: non rischiano di morire, però. Si, certo, per ora, però sono in una condizione umana drammatica, e forse non ce ne accorgeremmo nemmeno, forse ce ne dimenticheremmo molto facilmente, se non ci fossero questi corpi che si mettono di mezzo bloccando l’ingranaggio dell’indifferenza.
Il corpo di un parroco e dei suoi fedeli, che hanno deciso di mettersi in parallelo con quelli di chi sta con la vita sospesa al largo. I colori di coloro che dicono: “Finchè non scendono loro, noi resteremo qui”.
Poi ci sono il coraggio di una donna — un giovane capitano donna di trent’anni, Carola Rakete — e del suo equipaggio. E poi, da stasera, c’è il nulla. O meglio: ci sono le pance piene e le coscienze belle dei politici a pancia piena che fanno la morale ma non muovono un dito.
Ma, da stasera, al corteo degli ignavi si è aggiunto anche il piccolo collegio di legulei che hanno voltato la testa da un lato.
Lo so, lo so, che il sentimento di opinione che apparentemente prevale nel nostro Paese è un altro: so che l’umore collettivo è quello di chi tende a dire chi se ne frega. So che adesso questo giudizio diventerà l’alibi di molti: come se scappare dalle carceri libiche non fosse una motivazione sufficiente per ottenere il diritto di asilo, riconosciuto da tutte le convenzioni internazionali.
Viviamo in un tempo barbaro in cui pietà l’è morta. Questa sentenza di oggi è uno spartiacque, una data che segna un confine, un giudizio che pesa come un fardello.
Ed è per questo che stasera stiamo con i cuori al fianco del vite sospese e al fianco di chi resiste: Don Franco, Carola — che minaccia di forzare il blocco e probabilmente lo farà domani -, i fedeli che si impongono le notti sul sagrato.
Perchè ci sono momenti in cui chi vince ha la forza, ma non la forza della ragione. I momenti bui, il tempo delle deportazioni, dei golpe e dei desaparecidos.
Eppure alla Corte europea dei sette nani bisognerebbe ricordare proprio questo. Che i diritti non possono essere cancellati.
E che le coscienza non possono essere spente a maggioranza semplice. Almeno finchè qualcuno troverà la forza di mettersi con il corpo dalla parte dei più deboli, anche senza sapere se si vince o si perde.
Luca Telese
(da TPI)
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Giugno 25th, 2019 Riccardo Fucile
IN PRATICA BISOGNA ASPETTARE CHE ENTRINO IN COMA O SI BUTTINO IN MARE, FORSE ALLORA I GOVERNI CRIMINALI NE RISPONDERANNO… IL GARANTE DEI DETENUTI PRESENTA ESPOSTO ALLA PROCURA DI ROMA PER “VERIFICARE SE CI SONO ASPETTI PENALI RILEVANTI NEL COMPORTAMENTO DEL GOVERNO ITALIANO”
La Corte europea per i diritti umani di Strasburgo, pur avendo respinto la richiesta delle persone a bordo della Sea Watch 3, ha comunque “indicato al governo italiano che conta sulle autorità del Paese affinchè continuino a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità a causa dell’età o dello stato di salute che si trovano a bordo della nave”. L’ha reso noto in un comunicato stampa la stessa Corte.
I ricorrenti, cioè il capitano della Sea Watch 3 e una quarantina di migranti, avevano invocato gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione, chiedendo di essere sbarcati subito con un provvedimento provvisorio d’urgenza per poter presentare una richiesta di protezione internazionale. La Corte ha rivolto alcune domande alle parti e ha chiesto loro di rispondere lunedì 24 giugno. Al Governo è stato chiesto quante persone erano state già sbarcate dalla nave, il loro possibile stato di vulnerabilità , le misure previste dal Governo, nonchè la situazione attuale a bordo della nave.
Le domande rivolte ai richiedenti riguardavano le loro condizioni fisiche e mentali il loro possibile stato di vulnerabilità .
Oggi, dopo aver esaminato le risposte ricevute, la Corte ha deciso che non c’erano sufficienti motivazioni per chiedere al Governo italiano di applicare un provvedimento provvisorio di sbarco.
Tale provvedimento viene infatti concesso, precisa la Corte, “nei casi eccezionali in cui i richiedenti sarebbero esposti – in assenza di tali misure – a un vero e proprio rischio di danni irreparabili”.
L’esposto del Garante dei detenuti
I migranti a bordo in un video hanno parlato delle loro condizioni allo stremo, e hanno paragonato la loro permanenza a bordo della nave come una “prigione”.
Il Garante dei detenuti, che in un esposto alla Procura di Roma chiede una verifica su “eventuali aspetti penalmente rilevanti” nell’attuale blocco della nave. Il Garante, spiega una nota, “non può nè intende intervenire su scelte politiche che esulano dalla propria stretta competenza. Tuttavia, è suo dovere agire per fare cessare eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale“.
In particolare, l’Autorità ribadisce che “le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati. Ritiene inoltre che la situazione in essere richieda la necessità di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue Autorità competenti, stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave”.
(da agenzie)
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