Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
L’EX VICE DI ZAIA, GIANLUCA FORCOLIN TUONA: “A CAUSA DI SALVINI, LA LEGA NON È PIÙ IL SINDACATO DELLA PICCOLA E MEDIA IMPRESA”… “BISOGNA CAMBIARE L’ALLENATORE, IN POLITICA SI CHIAMA CONGRESSO. DA CHI RIPARTIRE? ZAIA È IL MIGLIOR PREMIER POSSIBILE. FEDRIGA IL MIGLIORE SEGRETARIO POSSIBILE”
Veneto, Veneto, Veneto. Ma perché tutto questo Veneto? Perché la Lega o si spegne qui o riparte da qui.
Dice Gianluca Forcolin, ex vice di Luca Zaia, oggi presidente del Casinò di Venezia, che a “causa di Matteo Salvini, la Lega non è più il sindacato della piccola e media impresa. Giorgia Meloni si è presa il nostro patrimonio. FdI sta svuotando la nostra cassaforte”.
Cosa bisogna fare?
“Cambiare l’allenatore. Occorre liberarsi dei pappagalli e dei lecchini. Si può usare questo termine?”.
Lo usava anche lo scrittore Robert Musil, dunque perché no? Chi sono oggi i lecchini della Lega?
“Quelli che applaudono Salvini in pubblico, ma che dietro, nelle chat, quelle che lui non legge, scrivono che è tutta colpa sua. Serve un’analisi. In economia si chiama bilancio, in politica si chiama congresso. Salvini deve fare un passo di lato”. FdI sta per “occupare” il Veneto, la “villa palladiana” della Lega.
In Veneto, FdI, nei sondaggi, ha già doppiato la Lega. E’ al 30,5 per cento (+23,7 per cento rispetto alle europee) mentre la Lega al 14,4. Forcolin, lei quando ha preso la prima tessera della Carroccio?
“29 anni fa. Sono stato deputato, vice di Zaia e suo assessore al Bilancio. Resto un leghista”.
In Veneto si dice che serve un Gorbaciov e si sono già formate due cordate: “corsari” (fanno riferimento a Riccardo Molinari) e “duchi” (che guardano a Fedriga). Nessun leghista in pubblico critica Salvini, perché? “Perché ha coltivato ‘l’esercito del selfie’. Non ti è amico chi ti dice sempre ‘bravo’ anche quando sbagli, quello si chiama fan. Nessuno dimenticherà che Salvini ha portato il partito al 30 per cento. Nessuno. Ma quando tutto finisce sono gli amici veri che ti possono aiutare a rialzarti, non i fan”.
Lei è stato cercato da FdI?
“Lo sono stato, ma ho rifiutato. La mia casa è la Lega. Resterà”.
La Lega da chi riparte?
“Zaia è il miglior premier possibile. Fedriga il migliore segretario possibile”.
(da Il Foglio)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
MA GLI INDECISI SONO ANCORA IL 35%
Ultimo giorno di sondaggi. Da domani i partiti saranno nudi. Per due settimane, fino al voto del 25 settembre, non sarà possibile pubblicare le rilevazioni.
Per due settimane i numeri dei partiti resteranno congelati in questa fotografia finale degli istituti demoscopici.
Euromedia Research per Porta Porta conferma Fratelli d’Italia come primo partito, al 24,7, tre punti sopra il Pd al 21,8.
Il partito guidato da Enrico Letta conferma il trend negativo segnalato anche da altri sondaggisti ed è la forza politica che perde di più in una settimana: dal 30 agosto al 7 settembre 1,7% degli elettori lo ha abbandonato nelle intenzioni di voto.
A favore di chi? Qualcosa potrebbe aver rosicchiato il M5S che secondo l’istituto guidato da Alessandra Ghisleri sale dello 0,7, in maniera speculare e opposta alla Lega che invece scende di 0,7.
Stesso identico aumento percentuale, 0,7, per Verdi-Sinistra italiana, alleata in coalizione con il Pd: a dimostrazione che i dem potrebbero subire un’erosione nell’elettorato più a sinistra.
Il Movimento di Giuseppe Conte continua la sua ascesa ed è al 13%, al terzo posto, sopra Matteo Salvini fermo all’11,8.
Segue il tandem Azione-Italia Viva al 7,8%, confermando lo scenario di un sorpasso su Forza Italia: una sfida nella sfida per la competizione nel campo del cosiddetto voto moderato.
Calcolato sulle coalizioni, le intenzioni di voto premiano il centrodestra al 45,3%, che stacca e di tanto il centrosinistra al 28,3%. Sembrerebbero quindi esserci poche speranze di una rimonta. La scelta di separarsi dal M5S, compiuta da Letta all’indomani della caduta del governo Draghi, non premia la strategia del voto utile su cui contavano i dem per marginalizzare Conte e Carlo Calenda.
A quattordici giorni dal voto è molto interessante soffermarsi sul dato degli indecisi, elettori che potrebbero scegliere all’ultimo su chi mettere la propria crocetta. Sono ancora il 35%, secondo Ghisleri. Sono più donne (64,3%), nella fascia di età 25-44 anni (42,9%) e sono localizzati soprattutto nelle aree del Nord-Ovest (26,8%) e del Nord-Est (25,7%). Per i partiti alle prese con gli ultimi giorni di campagna elettorale è molto significativa la composizione per provenienza politica: tolta l’area del non voto, che è il 39,1% di quel 35%, gli indecisi sono soprattutto tra gli elettori del M5S, 20,4% (ed è abbastanza ovvio perché è il partito che nel 2018 trionfò con il 32%). Segue la Lega al 14,1% e il Pd 12,8%.
È un bacino di possibili voti da recuperare che potrebbero fare comodo ai leader e su cui Conte, a detta di tutti i sondaggisti, ha lavorato molto. È la sua scommessa per avvicinarsi agli ex alleati del Pd: riportare alle urne chi era rimasto deluso in generale dai partiti, compreso il Movimento, ripresentandosi come forza contro lo status quo, nonostante i quasi cinque anni di governo ininterrotto con tutte le forze politiche tranne Fdi e Sinistra italiana.
A questo proposito, Euromedia Research segnala un ultimo dato: alla domanda rivolta agli indecisi “Lei è interessato ai fatti della politica?”, ben il 41,4 per cento (siamo a quasi uno su due degli intervistati) risponde “No, mi ha stancato”. Una risposta che dovrebbe inquietare i capi dei partiti.
(da La Stampa)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
ECCO I MOTIVI PER CUI IL 25 SETTEMBRE UN ITALIANO SU TRE NON ANDRA’ A VOTARE …. LE CORPORAZIONI CHE HANNO INTERESSI DA TUTELARE VOTANO CENTRODESTRA E VANNO A VOTARE
Ci saranno partiti vincitori e vinti, i candidati eletti e quelli esclusi, i brindisi trionfali e le analisi della sconfitta, le sorprese, le delusioni, i veleni, i retroscena. Ma per un italiano su tre, il 25 settembre, qualsiasi sia il risultato delle elezioni, non farà molta differenza.
Chi per disinteresse, chi per protesta, chi per rassegnazione, qualcosa come 15/16 milioni di elettori a votare non ci andrà. S
ignifica un terzo del Paese maggiorenne, significa una marea di cittadini che non si sente rappresentata da alcuna forza politica, significa un fallimento collettivo.
È in questo dato – riportato da tutti i sondaggi – che si misura la distanza siderale che separa oggi gli eletti dagli elettori: il popolo dimenticato degli astenuti oscilla fra il 30 e il 35% degli aventi diritto, un record assoluto nella storia repubblicana.
O meglio: un nuovo record, l’ennesimo, perché è da trent’anni ormai che in Italia l’affluenza alle urne è in caduta libera.
Fino al 1992 votava ancora quasi il 90% dei cittadini; all’alba del nuovo secolo eravamo scesi poco sopra l’80; l’ultima volta, nel 2018, non si è arrivati nemmeno al 73%; e fra due settimane con ogni probabilità andrà anche peggio. Il fenomeno, insomma, ha radici profonde.
La “Casta”
L’inizio di questo collasso partecipativo coincide – almeno a livello temporale – con la caduta della Prima Repubblica sotto le macerie di Tangentopoli e del Muro di Berlino, quando i partiti tradizionali novecenteschi vengono mandati in pensione per fare largo ai loro eredi “liquidi” due-punto-zero: meno ideologia, meno radicamento territoriale, più personalismi e salotti tv.
Così la politica è progressivamente uscita dalla vita quotidiana dei cittadini. Al resto hanno contribuito le ruberie varie di qualche rappresentante disonesto e i privilegi garantiti alla «casta» degli eletti, mentre il mondo là fuori (dal Palazzo) patisce i danni della crisi economica e delle disuguaglianze crescenti.
Secondo una recente rilevazione dell’istituto Ipsos per il Corriere della Sera, il 51% degli italiani finora ha seguito poco o per nulla la campagna elettorale, con picchi di “disinteresse” in particolare fra operai, disoccupati, lavoratori autonomi, donne casalinghe e persone meno istruite: cittadini poveri o precari, cioè, che si sentono abbandonati dalla politica e che nelle proposte dei partiti non vedono possibili soluzioni ai loro problemi molto concreti.
Non a caso, come abbiamo visto alle ultime amministrative, nelle grandi città sono soprattutto le periferie a disertare le urne. Anche tra i più giovani la sfiducia verso la politica è tangibile con mano: nonostante i maldestri tentativi dei vari leader di far breccia attraverso TikTok, un sondaggio di Swg per la Repubblica ha evidenziato che l’80% degli elettori fra i 18 e i 24 anni ritiene che «con la classe dirigente che abbiamo in Italia le cose non cambieranno mai».
Fattore Rosatellum
Ma la questione è anche di meccanismo elettorale. «Colpa di ambedue gli schieramenti», come ha ricordato qualche settimana fa su TPI il costituzionalista Michele Ainis: «Il Mattarellum fu peggiorato dalla destra, brevettando il Porcellum, e quest’ultimo congegno venne peggiorato poi dalla sinistra con il Rosatellum».
Osserva sempre Ainis: «Non puoi scegliere i candidati alle elezioni, giacché le primarie sono un fantasma del passato; non puoi nemmeno scegliere fra i candidati decisi dai partiti, dato che i loro nomi figurano su un listino bloccato; non hai voce in capitolo sulle alleanze, sugli apparentamenti fra una lista e l’altra, forse neppure sugli esiti del voto. Altrimenti perché tutto questo pietire e sgomitare dei politici per infilarsi in un “collegio sicuro”? Se lorsignori sono già certi del tuo voto, tu elettore cosa sei, un soldato, un burattino?».
In effetti, con l’attuale sistema elettorale il potere di scelta del cittadino votante è ridotto all’osso. Con i listini bloccati decide tutto il leader di partito, i candidati da blindare vengono “paracadutati” nei collegi sicuri, e pazienza se in quella circoscrizione non hanno mai messo piede.
Il sistema favorisce poi alleanze improvvisate, con il risultato che, ad esempio, gli elettori bolognesi del Pd si ritroveranno (di nuovo) a votare automaticamente per Casini o quelli di Napoli-Fuorigrotta per Di Maio. Per non dire dei complessi algoritmi che provocano il cosiddetto “effetto flipper”, in base al quale ad esempio – come raccontato anche su questo giornale dal professor Emanuele Bracco, associato di Economia politica all’Università di Verona – un travaso di 15mila voti a Milano dalla Lega a Fratelli d’Italia farà scattare un seggio in più per la Meloni non sotto la Madonnina bensì in Sardegna, e a scapito non del Carroccio ma di Forza Italia, che sarà a sua volta “rimborsata” con un posto in più in Basilicata, sottratto – questa volta sì – alla Lega. Un meccanismo cervellotico che sminuisce ancor più il potere di scelta dei territori e trasforma le elezioni in certi casi in una vera e propria lotteria.
I disgregati
Osserva la politologa Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, che «dobbiamo preoccuparci non tanto perché siamo un Paese ad alto tasso di astensionismo, quanto perché lo siamo diventati».
«La scarsa affluenza alle urne – spiega a TPI la professoressa – è un fenomeno consueto nelle democrazie elettorali: negli Stati Uniti ad esempio lo è fin dai tempi della dichiarazione d’indipendenza nel XVIII secolo, ma anche nel Regno Unito lo è sempre stato, nonostante le lotte cruente per il suffragio a partire dalla prima metà dell’Ottocento… Tuttavia nelle democrazie che hanno conosciuto il fascismo e la dittatura di massa, come la nostra, l’affluenza al voto per decenni è stata molto elevata, spinta da un diffuso attivismo e dalla disciplina tenuta da partiti ben strutturati: c’era un’élite di intellettuali che dettava la linea e una massa di elettori che venivano “disciplinati” attraverso le sezioni di partito o le parrocchie.
Finita quell’epoca, ciascun elettore ha preso ad andare “dove lo porta il cuore”, in taluni casi scegliendo di non votare».
Perché? «Oggi – risponde Urbinati – c’è una concezione estetica della scelta politica: se mi piaci ti voto, se non mi piaci non ti voto». Dove la componente estetica conta meno è in quelle fasce sociali in cui forte è la valutazione delle scelte elettorali rispetto ai propri interessi, più spesso di categoria: «Ci sono corporazioni, come gli industriali, i commercianti, i liberi professionisti, i tassisti, i bagnini, che sanno di avere privilegi acquisiti da perdere e quindi da difendere (ecco perché il tema delle tasse è centrale). Queste corporazioni – prosegue la politologa – tendenzialmente vanno a votare, perché sanno che c’è qualcuno da eleggere che sarà pronto a tutelarle. Poi ci sono i molti altri, i cittadini e basta, i disgregati, coloro che votano se c’è qualcuno che fa loro delle promesse o che come loro si mostra aggressivo-critico, o se sentono di poter confidare in qualcuno sul territorio. Altrimenti non votano. Il voto è potere: chi sa di averlo lo usa, chi sente di non averlo non lo usa».
Cosa possono fare i partiti per riavvicinare chi oggi non si sente rappresentato? «Per conquistare questa cittadinanza “sola” – spiega Urbinati – bisogna conoscere i territori e le appartenenze sociali. La questione riguarda gli interessi che possono essere soddisfatti oppure no. Cosa diciamo ai disoccupati, ai precari, a quelle donne costrette a stare in casa a fare le mamme? È rispondendo a queste domande che si può colmare la distanza fra elettori ed eletti».
Quel che sembra certo, comunque, è che il prossimo 25 settembre una percentuale elevata di astenuti dovrebbe favorire la coalizione di centrodestra.
«In questo momento è così», chiosa la politologa. Perché «questa destra è rappresentativa di interessi organizzatissimi. È diversa da quella di qualche anno fa, con il populista Salvini, che mobilitava le masse». «Questa – conclude Urbinati – è una destra in doppiopetto, una destra dura, che si appoggia alle classi forti, una destra d’ordine, repressiva, che farà gli interessi di coloro che hanno molto da proteggere e vogliono dare poco o nulla alla Repubblica. È una destra classista, non nel senso marxista del termine ma in senso corporativista, rappresentativa di una società divisa in corporazioni. E le corporazioni votano a destra, non a sinistra». Soprattutto, loro votano.
(da true-news.it)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
LA STORIA DELLA GIOVANE DONNA NATA IN MOLDAVIA MA CHE HA STUDIATO IN ITALIA FIN DALLE ELEMENTARI E CHE A 26 ANNI, LAUREATA IN LETTERE, ASPETTA ANCORA LA CITTADINANZA ITALIANA
Quando si dice “no” a prescindere, si rischia mostrare a tutti i cittadini una non approfondita conoscenza di come funzionino alcune norme e procedure attualmente in vigore in Italia.
In particolare quelle relative alla possibilità di richiedere e ottenere la cittadinanza italiana.
Una serie di paradossi (culturali e tecnici) che sono stati spiegati su TikTok da Mihaela Marian, una giovane donna nata in Moldavia ma che ha studiato (fin dalle elementari) nelle scuole nostrane dopo aver raggiungo la madre.
E lei, a quasi 26 anni, ha ancora difficoltà nell’ottenere quel certificato che le consentirebbe – come previsto dalla normativa vigente – anche di partecipare a concorsi pubblici.
Mentre i politici sono sbarcati su TikTok nel tentativo di “affascinare” i più giovani, molti di questi giovani rispondono per le rime alle varie esibizioni comparse su questa vetrina social. Molti di loro, inoltre, dimostrano di avere molta più contezza della realtà rispetto agli esponenti dei vari partiti.
E una delle espressioni principali di tutto ciò è rappresentato proprio da Mihaela Marian. Lei ha quasi 26 anni, è nata in Moldavia da genitori moldavi e si è trasferita in Italia quando aveva 10 anni.
Quindi ha completato la scuola elementare nel nostro Paese, ha frequentato le medie e le superiori qui. E si è laureata in Italia. In lettere. Sogna di fare l’insegnante e parla, ovviamente, un italiano da madrelingua (come si evince dalla certificazione C2 ottenuta nella nostra lingua). Ma non è “italiana” per la legge e i tempi per richiedere quel documento sono talmente tanto dilatati dal scoraggiare qualsiasi tentativo.
“Io vengo in Italia a 10 anni e studio per 15 anni: elementari, medie, superiori e laurea in Lettere. Mi viene certificato un livello di italiano C2, quindi madrelingua. Io in Moldavia non ho più nessuno, amici, parenti, famigliari. Solo pochi ricordi che vorrei dimenticare. Per fare domanda per la cittadinanza in Italia devo versare 250 euro come bollo, poi altri 400 euro, chiedere all’ambasciata la fedina penale e farla tradurre. E poi inoltrare la domanda che verrà presa in considerazione tra 4 anni. Immaginate quanto tempo e quanti soldi. Lo Stato italiano mi chiede di fare un esame B1 per dimostrare la mia capacità linguistica. Io ho già un C2 e dovrò comunque fare un B1, o almeno lo sostiene la Prefettura. Fatte queste premesse, se avrò la cittadinanza avrò 30 anni inoltrati. Nel frattempo non posso partecipare ai concorsi pubblici perché non ho la cittadinanza. Però ho studiato in Italia come insegnante, lo Stato mi dà il titolo, l’idoneità di insegnamento, ma non posso insegnare. O meglio posso fare la supplente, ma non di ruolo. Quando i miei figli nasceranno in Italia non saranno italiani, anche se cresceranno tutta la vita qui, studiando qui. Se io non sono italiana dopo essere cresciuta qui tutta la vita, ma non sono neanche moldava: Giorgia Meloni, cosa sono io?”.
Quattro anni e la sua domanda di cittadinanza italiana sarà “presa in considerazione”. Non approvata con certezza, dunque. Tempi elevatissimi mentre gli anni passano, così come i concorsi. E a questo paradosso se ne aggiunge un altro: non avendo la cittadinanza, non può partecipare a concorsi pubblici per ottenere una cattedra (questo è uno dei requisiti indicati nei bandi). Ma può fare la supplente. Quindi non può avere una “cattedra”, ma può supplire in caso di assenza di una “titolare”. A tutto ciò si aggiungono contorni amaramente comici: i costi per presentare la documentazione alla Prefettura e il dover sostenere un esame per confermare un livello di padronanza della lingua italiana (il B1) inferiore alla certificazione (C2, la più avanzata) che ha già. Per questo, di fatto, Mihaela Marian ha la sensazione di essere apolide: non può essere moldava in quanto non ha ricordi del suo Paese natìo essendo andata via di lì quando era molto piccola, ma non può essere considerata italiana. Ma Giorgia Meloni quando dice “no” a ius soli e ius scholae, è a conoscenza di tutto ciò?
(da NextQuotidiano)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
LE TENDENZE: IN AUMENTO FDI, PD E M5S… IN CALO LEGA E FORZA ITALIA…CENTRODESTRA SI FERMA AL 44%
Centrodestra avanti, Movimento 5 Stelle sopra la Lega e Terzo Polo vicino al 7%. Gli ultimi sondaggi di Demos sulle elezioni del 25 settembre prima dello stop imposto dalla par condicio dicono che la coalizione di Meloni, Salvini e Berlusconi è stabilmente in testa con il 44%. Mentre il centrosinistra è accreditato del 28%.
Le proiezioni elettorali di Ilvo Diamanti illustrate oggi da Repubblica dicono che Fratelli d’Italia ha raggiunto il 24,6%, in crescita dell’1,2% rispetto ad agosto. Anche il Partito Democratico è in crescita dell’1,3% e raggiunge il 22,4%.
Ma l’incremento più importante è quello del M5s, che guadagna due punti e mezzo in un mese e arriva al 13,8%. Superando la Lega (12%), mentre Forza Italia è al 7,7%. La coalizione composta da Azione e Italia Viva è al 6,8%.
Quella composta da Verdi e Sinistra Italiana è invece al 3,4% mentre +Europa è al 2,2%. Tra i piccoli la sola Italexit di Gianluigi Paragone è stimata al 2% (la soglia è lontana un punto).
Significativa anche la classifica del gradimento dei leader: sopra a tutti c’è Mario Draghi con il 67%, seguito da Giuseppe Conte al 43%, in calo di due punti ma ancora più popolare di Giorgia Meloni (41%).
Seguono Paolo Gentiloni, Emma Bonino ed Enrico Letta.
Da segnalare infine il crollo di popolarità di Luigi Di Maio: dopo la scissione e la caduta del governo Draghi cala dal 36 al 28%. Mentre il suo partito, Impegno Civico, non è neppure rilevato.
(da agenzie)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
LE TENDENZE: FDI SALE A SCAPITO DI LEGA E FORZA ITALIA, IL M5S A DANNO DEL PD
Ultimi sondaggi prima del silenzio demoscopico previsto dalla legge nei quindici giorni antecedenti al voto. L’effetto polarizzante sul quale Enrico Letta ha puntato nelle ultime settimane non sta dando effetti. E se li da, sono negativi per il Pd che, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos a cura di Nando Pagnoncelli pubblicato dal Corriere della Sera, dal 23 cala al 20,5%, perdendo in soli sette giorni ben due punti e mezzo, sempre più vicino alla soglia psicologica del venti per cento.
Un calo che va tutto a vantaggio delle forze politiche più prossime ai dem: a sinistra il Movimento 5 Stelle, che sale ancora toccando quota 14,5%, un punto guadagnato rispetto a fine agosto. Al centro la lista Calenda-Renzi che raggiunge il 6,7% conquistando quasi due punti nell’ultima settimana.
Continuano a redistribuirsi le preferenze anche all’interno dell’alleanza di centrodestra, dove secondo Pagnoncelli Fratelli d’Italia continua a guadagnare voti a danno della Lega. Il Carroccio infatti perde ancora terreno, al 12,5%, mentre il partito guidato da Giorgia Meloni risulta essere sostenuto da più di un italiano su quattro, toccando quota 25,1%. In calo Forza Italia, con i berlusconiani all’8%, in discesa di un punto. Se il trend dovesse essere confermato, presto potrebbero essere tallonati dai centristi di Calenda.
Perdono quasi un punto gli alleati del Pd di Sinistra Italiana-Verdi, che riescono a mantenersi al di sopra della soglia di sbarramento con un 3,4%.
Non dovrebbe riuscire ad entrare in Parlamento – questo per quanto riguarda i collegi plurinominali – +Europa di Emma Bonino, che non va oltre il 2,5%.
Stesso destino per Luigi Di Maio e il suo Impegno Civico, con un fragile 0,8%. Stabile al 3% Paragone con Italexit. Mentre la “quarta gamba” del centrodestra, cioè Noi Moderati, è appena sopra il punto percentuale. Reduce dal comizio congiunto con il leader della sinistra francese Melenchon, Luigi De Magistris non riesce a sfondare: è stabile all’1%.
(da agenzie)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
I SERVIZI ITALIANI TEMONO CHE MOSCA POSSA SFRUTTARE L’OCCASIONE PER UN RICATTO, PROPRIO A RIDOSSO DELLE ELEZIONI
Un italiano ferito è in mano russa, nella città più delicata del fronte e nel momento peggiore. Perché lì, a Kherson, è in corso la controffensiva ucraina per strappare la città alle forze che l’hanno invasa.
Perché qui, in Italia, si è nel pieno di una campagna elettorale che ha nella postura da tenere con Mosca e con il suo zar Vladimir Putin uno degli argomenti più divisivi. E perché nella campagna è coinvolto personalmente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, al quale piomba sul tavolo una grana diplomatica internazionale a pochi giorni dal voto.
Il ministro Di Maio ha però un’insospettabile carta da giocare: il console onorario di Krasnodar, in Russia. Si chiama Pierpaolo Lodigiani e ha amici e buoni contatti proprio all’interno dell’ospedale di Kherson che, nelle prime ore, accettano di fare da intermediari.
L’idea iniziale è organizzare un’esfiltrazione per motivi sanitari: del resto Sorbi non è un soldato quindi non è un prigioniero di guerra. Si potrebbe fare, se non fosse che è ferito gravemente e non può affrontare i 606 chilometri che lo separano da Rostov sul Don, da dove puntare su Mosca e da lì prendere un aereo per Roma, né è in condizioni di riattraversare il fronte. Non è trasportabile via terra. Passano le ore, le ore diventano giorni, e i russi capiscono che l’italiano ferito alla gamba può essere un’inaspettata merce di scambio.
La notizia della sua scomparsa comincia a circolare sui social network nella serata di mercoledì. Nella mattinata di ieri sulla stampa italiana compaiono i dettagli: è vivo ma il suo autista è deceduto.
A quel punto, esplode la propaganda del Cremlino. Sul canale telegram del ministero della Difesa postano il filmato girato da una tv filorussa in cui si vede Sordi raccontare, per sommi capi e con un filo di voce, quel che è accaduto. Attribuisce il ferimento allo scoppio di una mina.
La ricostruzione, priva di riscontri, è accompagnata dalle parole della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zacharova: «Dall’Italia nessuno ci ha contattati». E non sono parole a caso. Di solito quando un cittadino italiano ha bisogno di assistenza in uno Stato estero la Farnesina invia al governo di quello Stato una nota verbale.
Che, per Sorbi, Roma non ha mandato e Mosca non ha ricevuto. Se si rivolgesse al Cremlino per un italiano ferito a Kherson, infatti, riconoscerebbe di fatto alla Federazione russa la sovranità su quella regione d’Ucraina occupata.
«Temiamo però che la cosa diventi oggetto di negoziato nella campagna elettorale», dicono a Repubblica autorevoli fonti di governo. Per Di Maio, che non ha mai nascosto il supporto a Zelensky e che ancora in queste ore rivendica la propria distanza da Mosca, è come giocare una mano di poker sul tavolo del baro. Riportare Sorbi a casa senza piegarsi ai ricatti di Putin.
(da agenzie)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
ELISABREXIT: UN GIOCO DI PAROLE FUORI LUOGO DI FRONTE A UN EVENTO FUNEBRE
La “sensibilità” non è la virtù principale del quotidiano fondato da Vittorio Feltri. Lo ha dimostrato in tantissime occasioni (con tanto di condanne, come nel caso della prima pagina dedicata a Virginia Raggi) e gli archivi storici di questa testata sono infarciti di esempi simili. E questa lunga collezione si arricchisce, oggi, con il titolo di Libero sulla morte della Regina Elisabetta. Un gioco di parole del tutto fuori luogo, visto l’evento funebre.
“Elisabrexit”. Una crasi per cercare di fare della mera ironia titolistica per dare la notizia della morte della Regina Elisabetta: il suo nome unito al concetto di “Brexit”, quel programma che negli scorsi anni ha portato la Gran Bretagna a lasciare l’Unione Europea. E questa scelta, ovviamente, sta già provocando moltissime reazioni e le inevitabili polemiche.
E a corredo di tutto ciò c’è anche un editoriale, sempre in prima pagina sotto il titolo Libero Regina Elisabetta, firmato dal fondatore del quotidiano, Vittorio Feltri, in cui sostiene che le “femministe” debbano imparare dalla monarca appena deceduta.
E la sua “analisi” su questo tema parte dalla capacità della monarca britannica di saper abbinare i colori dei suoi vestiti (e dei suoi cappelli) nel corso delle sue apparizioni pubbliche.
Insomma, la prima pagina di Libero di oggi è uno spaccato di banalità e tentativi di ironia (neanche malcelata) del tutto fuori luogo visto l’evento. Una bella differenza rispetto a tutte le altre testate che, a prescindere da cosa si pensi di una monarchia, hanno scelto di omaggiare in modo sobrio e più consono la memoria di una donna appena scomparsa che ha fatto la storia dell’Occidente.
(da agenzie)
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Settembre 9th, 2022 Riccardo Fucile
ELISABETTA E’ STATA LA ROCCIA DEL REGNO UNITO PRIMA DI DIVENTARE NONNA DEL MONDO
Il 21 aprile 1947 Elizabeth Alexandra Mary Windsor compì ventun anni, all’epoca la maggior età. Dal Sudafrica, dov’ era in visita, pronunciò un discorso radiofonico nel quale giurò di servire «la grande famiglia imperiale» per tutta la sua vita, «lunga o corta che fosse». Oggi che lei non c’è più, e nemmeno l’Impero britannico, si può serenamente riconoscere che ha mantenuto la promessa per i suoi settanta anni di regno, il più lungo della storia britannica. In Europa, solo il Re Sole è durato di più: settantadue anni (ma era salito al trono a cinque).
L’infanzia fu felice. Papà Albert, duca di York, secondogenito di Giorgio V, era un padre affettuoso; sua madre, Elizabeth come la figlia, una scozzese dal sorriso contagioso («the smiling Duchess», la duchessa sorridente, la chiamavano i giornali popolari) e dal carattere forte. Elisabetta non avrebbe dovuto regnare: l’erede al trono era lo zio David, sportivo, anticonformista, adorato dalle masse. Ma successe l’inconcepibile: diventato Edoardo VII, lo zio decise che non avrebbe potuto regnare senza l’affetto della donna che amava, disgraziatamente un’americana bidivorziata, Wallis Simpson.
Dopo una drammatica crisi costituzionale, lo spiegò al suo popolo con un discorso radiofonico che fu la prima occasione in cui un sovrano britannico usò la parola “love” non in senso astratto ma con riferimento a una persona in carne e ossa, e abdicò.
A Elisabetta, dieci anni, la notizia venne portata dalla governante scozzese Marion Crawford detta “Crowfie”. «Questo vuol dire che un giorno sarai Regina?», le chiese la vispa sorella minore Margaret. Lei, impassibile: «Suppongo di sì».
Commento della sorellina: «Poverina». In effetti, Elisabetta non avrebbe dovuto regnare, e soprattutto non avrebbe voluto. La sua vera vocazione era vivere in campagna insieme agli esseri che predilige, cavalli e cani, che oltretutto non hanno la sconveniente abitudine di sbagliare matrimoni, divorziare e dare scandalo. La prima volta che Crawfie la incontrò, era sul suo lettino intenta a tirare le redini di un cavallo inesistente.
La famiglia era unita e affettuosa, «us four», noi quattro, diceva daddy, diventato Giorgio VI. Elisabetta detta “Lilibet” ebbe l’educazione che si aspettava da una regina: provvide soprattutto la nonna Mary, che nessuno aveva mai visto sorridere in pubblico. Ma il vero esempio glielo diedero i genitori negli anni della guerra, quando restarono a Londra a prendersi le bombe tedesche come i loro sudditi. Nell’ora più buia, quando ci si aspettava lo sbarco tedesco, proposero alla mamma Elisabetta, che Hitler considerava «la donna più pericolosa d’Europa», di spedire in Canada almeno le due giovani principesse. Risposta: «Le principesse non partono senza di me, io non parto senza il re e il re, naturalmente, non partirà mai». Infatti «The king is still in London», il re resta a Londra, diceva il ritornello di una canzonetta in voga. Elisabetta figlia partecipò allo sforzo bellico arruolandosi nelle ausiliarie. Imparò a guidare. Molti anni dopo, scarrozzò a Windsor il principe ereditario di un’Arabia Saudita che ancora vietava alle donne di mettersi al volante.
Non si sa se il messaggio sia stato recepito; pare però che l’illustre ospite le abbia chiesto di andare più piano. La sera del Victory Day, eccezionalmente autorizzata a mischiarsi alla folla per festeggiare, la giovane Elisabetta si ritrovò sotto il balcone di Buckingham Palace ad acclamare i suoi genitori.
Nel frattempo, era arrivato l’amore. L’unico uomo che Elisabetta abbia amato era un lontano cugino di origini danesi, membro della famiglia reale greca, eroe di guerra inglese, bello e senza un soldo. Filippo, poi duca di Edimburgo, non era esattamente un buon partito. Ma lei se n’era innamorata a tredici anni e tenne duro, sebbene sua madre, che lo detestava, l’avesse ribattezzato “l’Unno”.
Si sposarono nel 1947. Il matrimonio fu fastoso ma non ricco. Il Regno aveva vinto la guerra ma perso la pace, tutto era razionato, anche il tessuto, e per realizzare l’abito da sposa di Elisabetta, griffato Norman Hartnell, migliaia di ragazze inglesi spedirono a Palazzo i tagliandi delle loro tessere annonarie. Lilibet e Phil vissero anche felici e contenti?
Tutto sommato, sì. Forse lei lo amava più di quanto lui amasse lei, ma restarono insieme finché nel 2021 non li separò la morte di lui, a 99 anni. In mezzo, quattro figli e una divisione dei compiti molto rigida: lei in pubblico sempre un passo avanti, lui pater familias nel privato; lei sempre impeccabile e controllata, lui impetuoso e gaffeur. Secondo i gossip, ci sarebbe stata qualche scappatella da entrambe le parti: molto improbabili quelle attribuite a Elisabetta, possibili quelle di Filippo, chissà.
L’ora della gloria arrivò nella notte fra il 5 e il 6 febbraio 1952, quando Giorgio VI morì stroncato dai sei anni di guerra e da sessanta sigarette quotidiane. Lei era in Kenya e aveva passato la notte a Treetops, una casetta di legno su un enorme baobab. Ci salì da principessa e ne scese Regina del Regno Unito, Capo del Commonwealth, Difensore della Fede.
Al suo arrivo a Londra, trovò ad attenderla davanti alla scaletta dell’aereo il suo primo primo ministro, sir Winston Churchill. Per preparare l’incoronazione ci volle un anno. Fu celebrata il 2 giugno 1953 nell’abbazia di Westminster, con tutta la pompa millenaria dettata dalla storia ma già con quell’accorto compromesso fra tradizione e innovazione che sarebbe diventato la cifra del regno di Elisabetta. La cerimonia, sei ore, fu trasmessa in diretta dalla Bbc, ma a telecamere spente nei due momenti più sacri, l’Unzione e la Comunione.
All’ingresso in chiesa, una delle damigelle che le reggevano il pesantissimo strascico chiese sottovoce a Elisabetta se fosse nervosa: “Certamente, lo sono”, rispose lei. E aggiunse: «Anche se penso che Aureole vincerà il Derby». Ancora e sempre, i cavalli.
Se il suo Regno sia stato “happy and glorious”, come si augurano i sudditi chiedendo a Dio di salvarla, è controverso. Suo nonno vinse la Prima guerra mondiale, suo padre la seconda, lei al massimo quella delle Falklands. I suoi genitori decoravano ammiragli vittoriosi, lei i Beatles, e con questa motivazione: «Per il contributo dato alle esportazioni britanniche». In settant’ anni, la Gran Bretagna è cambiata più che nei sette secoli precedenti.
Lei però è rimasta sempre quella, impeccabile, inossidabile, infinita. Ha cambiato quindici premier, da Churchill e Lis Truss. È andata a cena soltanto da due, Churchill e Harold Wilson, un laburista che le stava particolarmente simpatico, e ha partecipato ai funerali di altri due, ancora Churchill e Margaret Thatcher. Ha lavorato con tutti, con alcuni meglio, con altri peggio, sempre senza dirlo, ma magari facendolo sapere.
Come quando lei e la Thatcher intervennero allo stesso evento con un vestito simile. Da Downing Street arrivò a Palazzo la proposta di coordinarsi. Risposta: «È inutile. Sua Maestà non nota mai come sono vestite le altre signore». Rapporti cattivi anche con Tony Blair, con crisi sfiorata dopo la morte di Diana. In quell’occasione Elisabetta, che era sempre stata accusata di aver anteposto il suo ruolo pubblico ai suoi affetti privati, fu linciata per la ragione opposta, cioè perché voleva preservare i nipoti rimasti orfani dalla curiosità cannibalesca di un’opinione pubblica isteria.
Ma alla fine, Regina costituzionale che regna ma non governa, fece quello che voleva il suo primo ministro. A proposito di Diana: a differenza di quel che si pensa, la Regina non è mai intervenuta nelle faccende sentimentali dei suoi figli, se non per limitare i danni quando sono andate a finire male (nel caso dei suoi figli, in tre casi su quattro). Forse perché ha trovato il suo, ha sempre creduto nell’amore.
È stata la roccia su cui poggiava la Nazione, poi è diventata la nonna del mondo. Sempre uguale, con il suo sorrido freddo, i suoi incredibili tailleur in tutte le sfumature del pantone («Se mi vestissi di beige, nessuno mi riconoscerebbe», pare che abbia detto una volta), i cappellini, i cavalli, i corgie, le sessioni parlamentari aperte con la corona in testa, le sfilate in divisa da colonnello e montando all’amazzone, gli innumerevoli nastri tagliati, le infinite strette di mano, le conversazioni surreali.
Come nel 2004, quando decorò tre rockstar ignorando ovviamente chi fossero. «Lei che lavoro fa?», chiese a Brian May dei Queen. E lui: «Suono la chitarra». «Anche lei?», proseguì rivolgendosi a Jimmy Page dei Led Zeppellin. «Sì, anch’ io». Al terzo della fila, variò la domanda: «Anche lei suona la chitarra?». Ed Eric Clapton, serafico: «Da quarantacinque anni, vostra maestà». In privato, invece, era spiritosa e ironica, felice quando poteva mettersi un foulard in testa e gli stivaloni ai piedi e andare a spasso sotto la pioggia, con i corgie intorno.
Nessuno in pubblico l’ha mai vista in una posa sconveniente, uno sbadiglio, le gonne più alte del ginocchio (cucivano dei pesi nell’orlo perché il vento non le sollevasse). Però è stata un’incredibile Bond girl per Daniel Craig nel video girato per l’inaugurazione delle Olimpiadi di Londra, e ha duettato con l’orso Paddington per celebrare il suo Giubileo di platino.
Diventata un’icona gobale, durante la pandemia, in uno dei rarissimi discorsi alla Nazione, quattro in tutto a parte quelli di Natale, citò il ritornello di una canzone del tempo di guerra, «We will meet again», ci rivedremo ancora, e ci sentimmo tutti rassicurati, come quando la nonna ci diceva che avremmo passato l’esame. Eravamo talmente abituati a lei che ci sembrerà strano non vederla più. Come le ha detto anche l’orsetto Paddington: «Grazie di tutto, Ma’ am».
(da La Stampa)
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