Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
NON HA UNA LEGISLAZIONE SULL’ASILO POLITICO, HA VIOLATO LA CONVENZIONE DI GINEVRA SUL “NON REFOULEMENT” E NON HA CENTRI DI ACCOGLIENZA
Questa volta il fronte è stato aperto dalla barca a vela Alex, che ha recuperato 54 persone che si trovavano su un gommone in difficoltà . L’imbarcazione della piattaforma umanitaria ‘Mediterranea Saving Humans’ è riuscita salvare da un possibile annegamento il gruppo di naufraghi, tra cui c’erano anche 4 bambini e 11 donne, di cui 3 incinte, evitando così che venissero riportati nelle carceri libiche.
“Stiamo richiedendo al centro di coordinamento le disposizioni per il porto sicuro più vicino, che va assegnato in base alle normative e non in base ai desiderata di Matteo Salvini”, ha detto all’Adnkronos Alessandro Metz, armatore e portavoce di Mediterranea. “Matteo Salvini può avere dei desiderata e degli incubi, ma poi ci sta uno Stato di diritto”, ha detto.
Il salvataggio è avvenuto in zona Sar libica, e infatti sul posto è arrivata anche una motovedetta della Guardia costiera libica, che in un primo momento ha intimato l”Alt’ alla Alex, e poi si è allontanata dal luogo del naufragio, quando già le persone salvate si trovavano a bordo della nave italiana, in salvo.
I migranti sono stati medicati e reidratati. Come ha raccontato ‘Repubblica’ gli uomini sono stati sistemati a prua, i bambini e le donne a poppa dell’imbarcazione, lunga 18 metri.
Come hanno segnalato diverso giuristi, nemmeno in Tunisia, vengono tutelati i diritti umani. La Tunisia non può essere una soluzione, perchè non ha una legislazione completa sulla protezione internazionale, e quindi non potrebbe garantire la sicurezza dei migranti, che è precondizione necessaria per essere ritenuta un porto sicuro.
Si ricorderà il caso del rimorchiatore Maridive 601, con a bordo 75 migranti (64 bengalesi, nove egiziani, un marocchino e un sudanese) salvati lo scorso 31 maggio da un naufragio rimasto alla fonda al largo di Zarzis per ben 18 giorni, in attesa dell’autorizzazione ad entrare in porto per sbarcare le persone recuperate.
Nonostante le condizioni sanitarie critiche il governatore di Medenine ha negato lo sbarco. Alla fine i migranti sono stati portati nei centri di detenzione, ma l’autorizzazione allo sbarco è stata concessa soltanto perchè i naufraghi sono stati costretti ad accettare il rimpatrio volontario.
La Tunisia ha violato così ‘principio di non refoulement’, garantito dalla Convenzione di Ginevra.
Il sistema di accoglienza nel Paese è al collasso, non ce la fa a sostenere l’emergenza, che negli ultimi mesi si è intensificata, soprattutto in quella regione, come ha denunciato nelle scorse settimane anche il presidente dell’Osservatorio tunisino per i diritti umani, Mustapha Abdelkebir: “La sistemazione di questi migranti o altre persone che sbarcano o arrivano in Tunisia a seguito di un tentativo di migrazione irregolare dalla Libia verso l’Europa, rimane molto difficile soprattutto nel governatorato di Medenine che ha ospitato centinaia di migranti e rifugiati dal 2011”.
Per questi motivi la Tunisia non può essere un luogo d’approdo. Così come è avvenuto per la Sea Watch 3, che, come è spiegato nell’ordinanza del gip Alessandra Vella, aveva appunto l’obbligo di condurre i migranti in salvo e portarli in un Paese in cui vengono garantiti i diritti, allo stesso modo la Alex dovrà rispettare gli obblighi internazionali
Del resto, come recita l’articolo 117 della Costituzione, un trattato internazionale ratificato e inglobato nell’ordinamento italiano (come la Convenzione di Amburgo citata sopra) prevale sulle leggi nazionali, e non può essere modificato dal legislatore.
Anche secondo Amnesty International la Tunisia non è un porto sicuro.
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, è intervenuto sul caso: “C’è da augurarsi che non sia l’ennesimo capitolo di un cinico braccio di ferro tra le autorità italiane e maltesi, ma soprattutto italiane, sulla pelle dei migranti — ha detto — C’è un dovere di soccorso, garantito da norme internazionali, vorremmo evitare sia un nuovo caso ‘Sea Watch’. C’è un dovere urgente di salvare vite umane e sarebbe bene che, oltre alle ong che fanno ricerca e soccorso in mare, venga osservato anche dalle autorità “.
(da FanPage)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
UN BARCHINO CON 55 PERSONE E LA STESSA MOTOVEDETTA DELLA GDF (PARDON NAVE DA GUERRA) CHE “HA RISCHIATO LA VITA” PER OPPORSI A CAROLA STA A GUARDARE SENZA DIFENDERE I SACRI CONFINI DELLA PATRIA
Mentre Matteo Salvini sta preparando la sua nuova propaganda sui porti chiusi e sui respingimenti dei migranti salvati dalla nave Alex di Mediterranea, a Lampedusa sbarcano decine di migranti.
In un video di poche ore fa, infatti, si possono vedere 55 persone che sono arrivate insisturbate sulle coste dell’isola, in uno dei cosiddetti sbarchi fantasma, senza che nessuno abbia fatto un tweet o un post su Facebook.
Cosa che, ovviamente, sta avvenendo per il salvataggio di 54 persone da parte della ong Mediterranea.
L’imbarcazione è stata intercettata da una motovedetta della Guardia di Finanza e da una della Guardia Costiera solo a circa due miglia da Lampedusa. I profughi, tra i quali 22 donne e un minore, sono stati portati in salvo nel porto in serata.
Salvini è a cena con Vladimir Putin a Roma. Trova il tempo per negare lo sbarco alla nave della non governativa che ha salvato 54 persone, tra cui 11 donne (tre incinte). Mediterranea fa sapere che si sta puntando verso Lampedusa per chiedere all’Italia l’autorizzazione a sbarcare in un porto sicuro. Il braccio di ferro è apparecchiato, con tanto di slogan sulla chiusura dei porti per le ong.
È l’ex sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini a postare il video girato nel pomeriggio di oggi:
Nelle immagini si vede anche la motovedetta della Guardia di Finanza che aveva cercato di impedire la manovra di attracco condotta da Carola Rackete.
In questo caso, invece, la nave non fa una piega e galleggia nel punto dello sbarco, con i migranti già a terra e in fila indiana, pronti a raggiungere il centro di prima accoglienza.
Ma per Salvini — ci possiamo scommettere — il problema sarà rappresentato dai 54 della nave Alex che si sta dirigendo verso l’isola.
(da “Fanpage”)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
UN POST TAROCCATO AD HOC, L’ENNESIMA INFAMIA DEI COMPAGNI DI MERENDE IN OVERDOSE DA MAALOX
Questa mattina si è diffusa, in seguito alla notizia riportata dal Corriere della Sera, l’informazione che il gip che non ha convalidato l’arresto di Carola Rackete ha cancellato i suoi profili social per porre fine a insulti e minacce.
Quasi contestualmente è diventato virale un post che sarebbe datato 27 giugno alle ore 20.44, con una bandiera arcobaleno di sfondo in cui si dice: «Sea Watch. Raccolta fondi del mio amico flFabio Cavallo arrivata a 150.000euroin 24 h».
L’autrice del post — secondo lo screenshot — sarebbe stata una Alessandra Vella che aveva come immagine del profilo il logo di Europa Verde, la forza politica che ha unito i Verdi italiani e Possibile in un cartello comune alle elezioni europee del 26 maggio scorso.
Allo screenshot è stata data particolare risonanza da una esponente della Lega in Sicilia (nella provincia di Siracusa), Patrizia Rametta. Quest’ultima, nella giornata di ieri si chiedeva se il post fosse stato realizzato dalla stessa Alessandra Vella che non aveva convalidato l’arresto della capitana Carola Rackete, in forma dubitativa e — come lei stessa afferma sui social network — «interlocutoria». Ma tanto è bastato per far scattare il complottismo.
Tanti account hanno iniziato a condividere lo screenshot dando per assodato che si trattasse proprio di Alessandra Vella, giudice di Agrigento.
Ma ci sono diverse cose che non tornano in questa storia.
Innanzitutto, l’italiano approssimativo del post e la sciatteria con cui è stato scritto.
In secondo luogo il riferimento a Fabio Cavallo, uno dei promotori della raccolta fondi da record che, all’indomani della vicenda della Sea Watch, aveva già messo da parte una cifra importante per contribuire alle spese legali della ong.
Quest’ultimo dichiara apertamente di non aver mai avuto legami con il giudice Alessandra Vella, annunciando querela nei confronti di chi ha diffuso lo screenshot del post: «Rido da sei ore — ha detto Cavallo a Giornalettismo -: ma secondo voi, la Vella scrive veramente queste cazzate? Io non conosco il giudice Vella, io vivo a Milano e lei in Sicilia. Al massimo nei primi giorni della prossima settimana andrò direttamente in procura per presentare tutto questo materiale. Voglio tutelare la mia persona, la figura di Alessandra Vella e l’immagine della Sea Watch».
(da agenzie)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
UN ALTRO INDEGNO EPISODIO XENOFOBO NELLA PADAGNA DEL MAGNA MAGNA… AZIENDA DENUNCIATA PER DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
“Chiediamo tassativamente, pena interruzione di rapporto di fornitura con la vs Società , che non vengano più effettuate consegne utilizzando trasportatori di colore e/o pakistani, indiani o simili”: è il testo della mail choc inviata da un’azienda di lavorazione di metalli del Bresciano, la Chino Color Srl di Lumezzane, il 21 giugno scorso, a tutti i suoi fornitori, come riporta oggi ‘Il giornale di Brescia’.
Continua la mail, che ha per oggetto ‘comunicazione importante’: “Gli unici di nazionalità estera che saranno accettati saranno quelli dei paesi dell’est, gli altri non saranno fatti entrare nella nostra azienda nè tantomeno saranno scaricati”.
La foto della mail arrivata a una ditta di consegne è stata postata su Facebook anche dall’avvocata esperta in tematiche anti-discriminazione Cathy La Torre e dai Sentinelli di Milano.
Tra i commenti anche la risposta che una delle ditte a cui è arrivata la mail di Chino Color srl ha inviato all’azienda: “Non riusciamo a capire le motivazioni. Garantiamo la corretta assunzione dei nostri collaboratori e la loro regolarità di soggiorno nel nostro Paese”
“Si tratta di un comportamento di gravità inaudita. Oggi nelle società si lavora per valorizzare la diversità dei dipendenti, è incredibile che ci sia ancora chi dice o scrive cose che sarebbero inaccettabili in qualsiasi Paese civile. Non può passare l’idea che ognuno nella sua azienda fa quello che vuole. Esistono delle leggi che proibiscono la discriminazione razziale e devono essere rispettate”, commenta Cathy La Torre, avvocato dello studio legale WildSide, che ha denunciato l’episodio all’Unar, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni.
(da “FanPage”)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
“QUANDO HANNO SAPUTO DELLA LIBERAZIONE DI CAROLA SI SONO RACCOLTI A PREGARE IN LACRIME DAVANTI ALLA CHIESA, LE DEVONO LA VITA”
La vicenda, ormai nota, è quella dei 53 migranti salvati il 12 giugno dai volontari della Sea Watch a 47 miglia da Zawiya. Carola è dunque libera. La Capitana della Sea-Watch 3 ha lasciato Agrigento dopo che il pm ha negato il nullaosta per l’espulsione.
Ma in tutta questa vicenda, in cui l’attenzione mediatica e il dibattito politico si sono focalizzati sullo scontro tra il ministro dell’Interno Matteo Salvini e la Capitana Carola e la conseguente vicenda giudiziaria, abbiamo in parte “dimenticato” la sorte di quelle 53 persone che erano a bordo della Sea Watch e per le quali si è tanto discusso.
Cosa sarà di loro? Dove sono adesso? Come stanno e cosa pensano di questo Paese? Che speranze serbano?
Lo abbiamo chiesto ad Alberdo Mallardo, operatore del programma Mediterranean Hope, della Federazione delle Chiese evangeliche.
Alberto si occupa da sempre di assistenza ai migranti e ha avuto modo di interagire con le persone poi sbarcate dalla Sea Watch.
“Le 40 persone che fino a oggi erano nell’hotspot di Lampedusa, in questi minuti stanno per essere trasferite a Porto Empedocle dove sapranno se verranno dislocate nei 4 paesi europei che si sono resi disponibili ad accoglierli: Lussemburgo, Olanda, Francia e Germania. Dovremmo capire nei prossimi come procederà questo ricollocamento”.
Hanno espresso preferenze per il ricollocamento o vogliono restare in Italia?
Ogni caso è diverso dall’altro. I ragazzi avrebbero il desiderio di essere ricollocati in altri paesi europei, qualora il processo andasse in porto sarebbero felici. Se ci sarà la possibilità di esere trasferiti saranno felici di farlo. In alternativa alcuni di loro vorrebbero andare a Roma, i progetti migratori non sono così definiti. Francia e Germania sono le mete più ambite.
E invece dei 13 fatti sbarcare per i motivi sanitari?
Ora sono in un centro nell’agrigentino in attesa di conoscere il loro futuro.
La vicenda della Sea Watch è durata molto, cosa è arrivato loro di tutto il frastuono?
In generale non hanno piacere a ripercorrere le fasi del viaggio e la permanenza in Libia, da quello che capivo sono stati trattenuti diversi mesi in Libia, alcune hanno lavorato lì e sono stati chiusi nei centri di detenzione dai 3 ai 4 mesi.
Erano coscienti di quello che succedeva sulla nave. Sono informati dei pericoli che corrono quanto intraprendono il viaggio?
Loro sapevano più o meno quello che succedeva in mare, che è sempre più complicato delle aspettative, ma questo non li ferma. Non si immaginavano in Libia il livello di violenza che hanno dovuto subire. Loro sanno che rischiano la vita anche in Libia ma quando poi vivono quelle violenza, i segni che portano sono indelebili.
Come hanno preso la notizia della liberazione di Carola?
Quando siamo andati a informarli della liberazione di Carola siamo stati testimoni di un momento di gioia e commozione importante: decine di ragazzi di fronte la chiesa hanno iniziato a pregare, si sono abbracciati tra loro. Abbiamo mandato un video di ringraziamento anche a Carola per il supporto per quello che ha fatto. Dicevano che le devono la vita.
(da TPI)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
IL DOCUMENTO FIRMATO DA DOCENTI UNIVERSITARIE: “L’ITALIA RISPETTI LA COSTITUZIONE E LE NORME INTERNAZIONALI IN MATERIA DI DIRITTI UMANI”
Siamo un gruppo di giuriste di diverse università italiane: crediamo che, in questo momento, il nostro lavoro debba trasformarsi in impegno vivo da portare al di fuori delle nostre aule.
Desideriamo aggiungere la nostra alle tante voci che rifiutano di essere indifferenti rispetto alla tragedia che si sta compiendo nel nostro mare e sulle sue coste.
Di fronte all’orrore che credevamo non potesse più ripetersi nella storia recente, con questo appello scegliamo di ripudiare l’indifferenza.
Ogni Stato, insieme all’Unione europea e alle istituzioni internazionali, è chiamato a rispettare la dignità umana, divenuta da tempo ormai il nucleo inviolabile di principi giuridici e norme nazionali e internazionali, scritte e consuetudinarie.
Questi stessi principi e norme impongono chiari obblighi: le vite di naufraghi, migranti e rifugiati vanno protette; il loro salvataggio in mare va garantito; la solidarietà verso i più deboli non va criminalizzata.
Voci autorevoli — il Consiglio d’Europa, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, confessioni religiose e molte organizzazioni umanitarie (Medici senza Frontiere, Amnesty International e tante altre) — ci ricordano che il Mediterraneo centrale è popolato da chi fugge dalle violazioni dei più elementari diritti umani.
Violenze feroci vengono compiute anzitutto nei campi di detenzione libici, ai danni di bambini, giovani, donne, uomini, anziani: tutti inermi, tutti dimenticati da chi potrebbe salvarli e proteggerli.
Vogliamo esprimere pubblicamente, in modo pacifico, ma fermo, la nostra contrarietà rispetto a quelle posizioni del nostro Paese che impediscono azioni umanitarie a favore di queste persone. La nostra contrarietà ha radici profonde.
Affondano nella Costituzione italiana, in quelle parole che vogliono dare un significato irrinunciabile alla nostra convivenza, umana e civile: «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo» e «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà ». Oggi, questa solidarietà reclama con forza di non avere confini e di essere obbligo non soltanto nei confronti dei nostri concittadini, ma impegno, anche, verso i soggetti vulnerabili al punto da vedere calpestati la loro dignità e i loro diritti fondamentali come fosse cosa giusta.
Inutile richiamare qui gli innumerevoli obblighi internazionali sui quali si fondano solidarietà e rispetto dei diritti: rispondere a una crisi umanitaria è anzitutto un imperativo morale — ma pur sempre ancorato a regole divenute inviolabili per le società odierne. Per questo, vogliamo che il nostro Paese rispetti le norme costituzionali ed internazionali in materia di tutela dei diritti umani e di protezione della persona migrante; agisca nel segno dei valori di solidarietà a fondamento della nostra Repubblica; garantisca in ogni circostanza i diritti inviolabili della persona umana.
Questa lettera aperta è per noi l’inizio di un impegno che assumiamo: contribuire a scalfire il muro dell’impotenza di fronte alla tragedia che si consuma sotto i nostri occhi. Ci adopereremo per coinvolgere il più elevato numero di persone in questo nostro tentativo, e per rivolgerci alle massime istituzioni della Repubblica italiana e dell’Unione europea.
“Sappiamo”, e non vogliamo tacere.
Agostina Latino (Università di Camerino), Alessandra Algostino (Università di Torino), Alessandra Pera (Università di Palermo), Angela Musumeci (Università di Teramo), Antonella Massaro (Università di Roma3), Arianna Pitino (Università di Genova), Arianna Vedaschi (Università Bocconi di Milano), Auretta Benedetti (Università di Milano-Bicocca), Barbara Pezzini (Università di Bergamo), Carla Gulotta (Università di Milano-Bicocca), Enrica Rigo (Università di Roma3), Cecilia Corsi (Università di Firenze), Clelia Bartoli (Università di Palermo), Cristina Grisolia (Università di Firenze), Elena Malfatti (Università di Pisa), Elena Paparella (Università di Roma La Sapienza), Elisa Cavasino (Università di Palermo), Elisabetta Palici di Suni (Università di Torino), Francesca Angelini (Università di Roma La sapienza), Francesca Rescigno (Università di Bologna), Ilenia Ruggiu (Università di Cagliari), Joelle Long (Università di Torino), Laura Ronchetti (Università del Molise), Laura Lorello (Università di Palermo), Laura Scomparin (Università di Torino), Luciana De Grazia (Università di Palermo), Manuela Consito (Università di Torino), Maria Angela Zumpano (Università di Pisa), Maria Irene Papa (Università di Roma La Sapienza), Maria Rosaria Marella (Università di Perugia), Marta Picchi (Università di Firenze), Monica Bonini (Università di Milano-Bicocca), Tatiana Guarnier (Università di Camerino) Lorenza Carlassare (prof.ssa emerita di diritto costituzionale) Carmela Decaro (prof.ssa di diritto pubblico comparato), Maria Paola Viviani Schlein (prof.ssa di diritto pubblico comp.to f.r.), Francesca Zajczyk (prof.ssa di sociologia f.r.)
(da agenzie)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
ALL’AMICONE DI CONTE E SALVINI NON BASTANO I MILIONI CHE L’ITALIA GLI REGALA PER FARE IL LAVORO SPORCO, ORA VUOLE ANCHE LE ARMI … SEIMILA PROFUGHI PRONTI A SCAPPARE DALLE BOMBE
È l’ultima arma di ricatto verso l’Europa e, vista la vicinanza, soprattutto verso l’Italia. Il Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico del premier Fayez al- Sarraj sta valutando l’ipotesi di rilasciare “tutti i migranti nei centri di detenzione” dopo il massacro di Tajoura “perchè la loro sicurezza non può più essere garantita”.
È quanto ha dichiarato il ministro dell’Interno Fathi Bashagha, come riferisce The Libya Observer. “Il governo di accordo nazionale al momento sta considerando la chiusura dei centri e il rilascio dei migranti illegali per tutelare le loro vite e la loro sicurezza”, si legge anche in un post sulla pagina Facebook del ministero libico che riferisce di un incontro avuto dal ministro dell’Interno con il coordinatore umanitario dell’Onu in Libia, Maria Ribeiro.
Bashagha “ha confermato che il Governo di accordo nazionale è tenuto a proteggere tutti i civili, ma il fatto che vengano presi di mira i centri di accoglienza da aerei F16 e la mancanza di una protezione aerea per i migranti clandestini” nei centri stessi, sono tutte cose “al di fuori della capacità del governo”, continua il post.
Dovrebbe riguardare 6-7000 persone, di cui 3.000 a Tripoli, l’eventuale chiusura dei centri di detenzione: è quanto emerge da fonti informate e da una recente stima fornita dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. “Normalmente ci sono sei-settemila persone nei centri», ha detto all’Ansa una fonte informata a Tripoli riferendosi ai numeri che, “comunemente, vengono forniti per tutta la Libia”.
Inclusi i poco più di 600 fino a ieri rinchiusi Tajoura,, prima della strage, sono “circa 3.000 i migranti e rifugiati detenuti arbitrariamente dentro e intorno a Tripoli” aveva segnalato ieri un comunicato dell’Oim affermando che “questi centri devono essere chiusi”.
La cifra globale e relativamente aggiornata fornita dalla fonte è in linea con i “4.900 rifugiati e migranti» che erano «rinchiusi in centri di detenzione in Libia” segnalata nel dicembre scorso da un comunicato dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati.
“Come Unhcr auspichiamo da tempo il rilascio dalla detenzione dei migranti nei centri in Libia. A queste misure va affiancata una presa di responsabilità dei Paesi europei, affinchè supportino dei piani di evacuazione dei rifugiati che si trovano in Libia.
Ma di “umanitario” nelle parole del ministro di Tripoli c’è poco o nulla.
Perchè in quel “stiamo valutando” c’è un messaggio che sa di ultimatum. Rivolto soprattutto a Roma: la vostra solidarietà politica non basta a sconfiggere l’autoproclamato esercito nazionale libico (LNA) del generale Khalifa Haftar — che può contare sul sostegno militare di Egitto ed Emirati Arabi Uniti — quello che ci serve sono armi .
È la richiesta che lo stesso Sarraj ha riproposto l’altro ieri al vice premier e ministro degli Interni, Matteo Salvini, nell’incontro avuto a Milano. “Al vice premier italiano abbiamo fatto presente una situazione di estrema gravità che non può non avere ricadute anche sul problema dei migranti e la sua gestione”, spiega ad HuffPost una fonte governativa di Tripoli.
L’annuncio del governo di Tripoli arriva all’indomani della strage di migranti nel campo di detenzione di Tajoura, a sud est di Tripoli, in cui sono morte almeno 53 persone, di cui 6 erano bambini, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. I feriti sono 130.
Sempre secondo l’Onu, dopo che il centro di detenzione migranti è stato colpito per la prima volta, le persone hanno tentato di fuggire: ma le guardie, fedeli al governo di Tripoli del presidente Sarraj, hanno sparato contro di loro.
L’agenzia sottolinea anche che il centro era già stato colpito in precedenza, a causa della vicinanza con una base militare: “Nonostante ciò – scrive – le autorità hanno continuato a trasferire migranti e rifugiati nel centro”, e “circa 600, tra cui donne e bambini, erano trattenuti contro la loro volontà al momento dell’attacco”.
Questo è accaduto nonostante il chiaro fatto che, come il segretario generale dell’Onu Guterres ha sottolineato in una dichiarazione il 4 aprile 2019, ‘Nessuno può affermare che la Libia sia un porto di sbarco sicuro a questo punto”.
Amnesty International ha chiesto al Tribunale penale internazionale di aprire un’indagine urgente sull’orribile attacco contro il centro di detenzione per migranti di Tajoura.
Amnesty International è riuscita a parlare con tre rifugiati eritrei detenuti nel centro di Tajoura. Secondo le testimonianze, un primo colpo ha centrato un hangar adiacente, il successivo cinque minuti dopo ha raggiunto la zona centrale dov’erano detenuti gli uomini. Circa 300 migranti e rifugiati, diversi dei quali erano stati riportati in Libia dopo essere stati intercettati in mare, sono ora nelle strade di Tajoura, impauriti e in attesa di assistenza.
Amnesty International ha anche analizzato video e fotografie pubblicate dopo l’attacco. Una fotografia mostra un cratere largo sette metri, un danno compatibile con l’uso di una bomba aerea
Amnesty International è stata in grado di accertare che alcuni detenuti del centro di Tajoura sono stati costretti a lavorare in un sito militare nelle vicinanze, anche in questo caso un’evidente violazione del diritto internazionale.
(da “Huffingtonpost”)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
“SALVINI RESPINGE I PROFUGHI NELLE MANI DEGLI STESSI TRAFFICANTI CHE TAGLIEGGIANO DUE VOLTE I MIGRANTI”… MA IN ITALIA I MEDIA NASCONDANO LA NOTIZIA
“Chiediamo al mondo intero e all’Unione Europea a porre fine alla politiche razziste del ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini” che “in collaborazione con l’incostituzionale consiglio presidenziale” di Fayez al-Serraj sono “la ragione principale dell’accumulo di migranti nella regione occidentale della Libia”.
Lo ha affermato il generale Mohamed al-Manfour, comandante delle forze aeree dell’autoproclamato Esercito nazionale libico guidato dal generale Khalifa Haftar, in una nota inviata al portale d’informazione ‘Libyan Address’ all’indomani del raid contro il centro di detenzione di migranti a Tajoura.
Secondo al-Manfour, le politiche di Salvini hanno causato il “rimpatrio forzato di migranti in Libia”, facendoli tornare “ancora una volta nelle mani degli stessi trafficanti di esseri umani da cui sono fuggiti” e ricollocandoli “tra carri armati e depositi di munizioni in quello che altro non è che una palese violazione delle regole basilari dei diritti umani e dei valori umani”.
Per quanto invece riguarda la “piena responsabilità ” della “tragedia” avvenuta nel centro di detenzione di migranti a Tajoura, in Libia, è della “incostituzionale consiglio presidenziale” guidato da Fayez al-Serraj, ha dichiarato il generale al-Manfour.
In una nota inviata al portale d’informazione ‘Libyan Address’, al-Manfour ha spiegato che le accuse contro l’Lna “non sono basate su alcuna prova” e ha accusato il consiglio presidenziale di aver concluso “accordi errati” che hanno provocato l’ “accumulo di migranti illegali in rifugi non adatti agli esseri umani e gestiti da assassini, criminali e contrabbandieri”. Il generale ha evidenziato che le forze di Haftar “non hanno mai preso di mira” il centro di detenzione di migranti a Tajoura.
“In aggiunta – prosegue la nota – l’incostituzionale consiglio presidenziale in generale ha la piena responsabilità penale, morale e politica per non aver adottato alcuna misura per garantire la sicurezza dei migranti sotto la sua giurisdizione, sia nel centro colpito che negli altri centri gestiti dalle milizie, utilizzandoli come siti di stoccaggio di armi e munizioni”
(da agenzie)
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Luglio 4th, 2019 Riccardo Fucile
QUESTI SONO I CRIMINALI CHE RICEVIAMO CON TUTTI GLI ONORI
E’ di almeno 53 morti, di cui 6 erano bambini, il bilancio del bombardamento del centro di detenzione di migranti a Tajoura, a est di Tripoli, in Libia, martedì notte secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari. I feriti sono 130.
Il bilancio contrasta con quello della Mezzaluna rossa libica, che aveva parlato di almeno 60 morti nel raid dell’aviazione che sostiene il generale Haftar ma sottolinea ancora una volta la gravità di quanto accaduto.
Sempre secondo l’Onu, dopo che il centro di detenzione migranti è stato colpito per la prima volta, le persone hanno tentato di fuggire: ma le guardie, fedeli al governo di Tripoli del presidente Serraj, hanno sparato contro di loro.
L’agenzia sottolinea anche che il centro era già stato colpito in precedenza, a causa della vicinanza con una base militare: “Nonostante ciò – scrive – le autorità hanno continuato a trasferire migranti e rifugiati nel centro”, e “circa 600, tra cui donne e bambini, erano trattenuti contro la loro volontà al momento dell’attacco”.
Onu conclude sottolineando che “il fatto che oltre 3mila profughi e migranti intercettati in mare siano stati riportati in Libia nel 2019 è profondamente preoccupante. Questo è accaduto nonostante il chiaro fatto che, come il segretario generale dell’Onu Guterres ha sottolineato in una dichiarazione il 4 aprile 2019, ‘Nessuno può affermare che la Libia sia un porto di sbarco sicuro a questo punto”.
La strage di migranti ha fatto il giro del mondo, finendo sulla prima pagina dei princiapli giornali e siti di informazioni
(da agenzie)
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