Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
UNA FORTE E NECESSARIA PRESA DI POSIZIONE PUBBLICA
Che Bergoglio fosse d’accordo con le unioni civili per le persone dello stesso sesso, lo si sapeva, almeno da dieci anni. Ma certamente una presa di posizione pubblica così forte, come quella di oggi, sia pure attraverso uno strumento “liquido”, come un documentario anticipato alla stampa durante la Festa del Cinema di Roma, non era però pensabile.
Tanto che il Papa parla di diritto delle coppie gay ad avere una famiglia, e per i figli di poter frequentare la chiesa.
Bisogna ricordare che già il 19 marzo del 2013, che il giorno stesso dell’inizio del pontificato di papa Francesco, il «New York Times» ha riferito che nel 2009 e nel 2010, durante il dibattito nazionale in Argentina sui matrimoni gay, il cardinale Bergoglio dietro le quinte avrebbe cercato di favorire una soluzione di compromesso che avrebbe incluso le unioni civili per le coppie dello stesso sesso.
Una fonte di questa storia era stato stata il giornalista argentino Sergio Rubin, coautore con Francesca Ambrogetti del primo libro-intervista con Bergoglio intitolato “Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta “(Salani, Milano 2013). La versione di Rubin era stata però smentita dal direttore dell’Agenzia di informazione cattolica argentina (Aica), l’agenzia di stampa della diocesi di Buenos Aires, Miguel Woites. In particolare Woites ha negato “che il cardinale Bergoglio abbia mai favorito le unioni civili”.
Ma John Allen, il più influente vaticanista di lingua inglese, direttore del sito Crux, interpellò allora tre diverse fonti che gli avevano confermato che Bergoglio aveva lavorato, di fatto, per le unioni civili, considerandole il male minore. Tra loro “due funzionari della Conferenza episcopale argentina e almeno altri due giornalisti, Mariano de Vedia, de «La Nacià³n», e Guillermo Villarreal, secondo il quale a quel tempo era ben noto come la posizione moderata di Bergoglio fosse osteggiata dall’arcivescovo di La Plata, Hèctor Rubèn Agà¼er. Non c’erano divergenze sul fatto che occorresse opporsi ai matrimoni gay, ma le posizioni differivano sulla durezza dell’opposizione e sulla possibilità di raggiungere una posizione di compromesso sulle unioni civili. Villarreal ha descritto la situazione di stallo sulle unioni civili come l’unica votazione che Bergoglio abbia perso durante i sei anni della sua presidenza della Conferenza episcopale argentina.
«Quel voto respinse a maggioranza l’endorsement a favore delle unioni civili avanzata dall’allora cardinale.» In ogni caso Bergoglio pubblicamente non ruppe mai l’unità della posizione della Conferenza episcopale argentina. Nè fece mai dichiarazioni pubbliche.
Da allora sono passati dieci anni e soprattutto Bergoglio è diventato Papa.
Del resto bisogna riferirsi alla esperienza dell’arcivescovo di Buenos Aires per comprendere come papa Francesco abbia orientato nel 2015 e nel 2016 la posizione della Conferenza episcopale italiana sulla legge voluta dal governo italiano di Matteo Renzi, accettandone la formulazione.
Resta il fatto che il più recente documento della Chiesa cattolica che contiene valutazioni sulle unioni gay, l’esortazione apostolica postsinodale “ Amoris laetitia” di papa Francesco, firmata il 19 marzo 2016, abbia toni molto differenti.
Essa costituisce il documento in cui il Papa prende posizione con la forza del magistero, con il quale ha tirato le somme dei due Sinodi convocati sulla famiglia (straordinario del 2014 e ordinario del 2015). E anche qui le affermazioni sono diverse da quelle contenute nel documentario di oggi.
Innnanzitutto, l’esortazione tratta del tema dei matrimoni gay solo in un paragrafo, il 251, che nella versione italiana (Libreria Editrice Vaticana) è composto di appena tredici righe. In esso il pontefice afferma che: «Nel corso del dibattito sulla dignità e missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che “circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia”; ed è inaccettabile “che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi[…]”. E questo con gli occhi rivolti alla situazione dei Paesi emergenti, e in particolare africani.
Ma nel paragrafo 172 (“Amore di padre e di madre”) Francesco richiama per ben due pagine il «diritto» di ogni bambino di «ricevere l’amore di una madre e di un padre, entrambi necessari per la sua maturazione integra ed armoniosa», visto che «essi insieme insegnano il valore della reciprocità , dell’incontro tra differenti, dove ciascuno apporta la sua propria identità e sa anche ricevere dall’altro».
Mentre a pagina 53 della versione italiana, nel paragrafo 56, il documento affronta la sfida che emerge «da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che “nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia» – così papa Francesco continua la citazione della Relatio finalis del Sinodo del 2015 «induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo”».
Quanto al referendum parzialmente abrogativo della nuova legge italiana sulle unioni civili annunciato da alcuni esponenti dello schieramento politico italiano di centro-destra per evitare l’equiparazione di fatto delle unioni civili al matrimonio, le adozioni gay e la stepchild adoption, (un’iniziativa sostanzialmente orientata a bloccare anche ogni possibilità di pratica di utero in affitto), il presidente della Conferenza episcopale italiana ha detto che si trattava di iniziative «doverosamente portate avanti dai laici», annunciando però che non ci sarebbe stata alcuna mobilitazione ufficiale della Conferenza episcopale. E infatti il referendum non si è fatto.
Papa Francesco, in un’intervista al quotidiano cattolico francese «La Croix» (16 maggio 2016) ha «consigliato» una strada da seguire (che non è citata oggi oggi dal documentario): l’obiezione di coscienza dei funzionari chiamati a registrare le unioni omosessuali. Alla domanda: «In un contesto laico, come i cattolici dovrebbero difendere le loro preoccupazioni su materie quali l’eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?», questa è stata la risposta del papa: «È al Parlamento che spetta discutere, argomentare, spiegare, ragionare. Così cresce una società . Una volta che la legge è votata, lo Stato deve rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica, l’obiezione di coscienza deve essere presente, perchè è un diritto umano. Anche per un funzionario pubblico, che è una persona umana”.
Eppure nel corso della visita negli Usa del settembre 2015, l’allora nunzio Carlo Maria Viganò aveva presentato al Papa una donna, funzionario di stato civile, che aveva fatto obiezione di coscienza negli Usa, ma l’iniziativa non fu considerata particolarmente felice da parte del Papa che aveva invece parallelamente accordato un colloquio privato ad un suo ex alunno argentino gay e al suo compagno.
Due notazioni geopolitiche infine. Innanzitutto il documentario presentato oggi a Roma è opera del regista russo Evgeny Afineevsky, candidato all’Oscar, e se c’è una chiesa cristiana contraria fortemente alle unioni omosessuali , essa è sicuramente la Chiesa ortodossa russa (con pieno appoggio di Putin). Quindi queste nuove dichiarazioni del Papa lo allontaneranno ulteriormente da Mosca.
In secondo luogo, casualmente, il documentario è stato presentato alla vigilia della proroga dell’accordo provvisorio tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi (che, lungamente prevista, sarà ufficialmente annunciata domani, data in cui ricorrono i due anni della prima firma).
Continua l’esperimento cinese, ma ormai è chiaro che l’Ostpolitik di Oltretevere non guarda più alla Russia, ma più ad Oriente.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
CON LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE, CIRCA 8 MILIONI DI GIOVANI HANNO INIZIATO A FERQUENTARSI DENTRO E FUORI GLI ISTITUTI
L’aumento dei contagiati ha iniziato dai primi di ottobre una crescita esponenziale.
Fino al 30 settembre la crescita post-estiva si stava attenuando e stava raggiungendo un plateau di picco.
Dal primo ottobre ha ripreso a salire velocissima raddoppiando ogni 11 giorni e superando, oggi 21 ottobre, di gran lunga il massimo raggiunto in aprile: siamo a 142.739 infetti, questo significa che se l’aumento si manterrà così intenso tra 10 giorni potremmo superare i 300.000, tra meno di 20 giorni potrebbero salire a più di 600.000.
Siamo entrati in una fase di crescita esponenziale: è stato detto e ridetto, nessun sistema sanitario può sostenere una crescita esponenziale se non per tempi brevissimi.
Anche se circa 93% di questi infetti sono paucisintomatici o addirittura asintomatici e vengono isolati presso il proprio domicilio, la corrispondente, anche se ristretta, percentuale di sintomatici all’interno di una crescita così rapida porterebbe a numeri insostenibili anche delle ospedalizzazioni e delle terapie intensive.
È assolutamente necessario capire quale sia la causa di questa crescita e intervenire di conseguenza per stroncarla. Non possiamo andare per tentativi, abbiamo perso troppo tempo.
Ricordiamoci che se anche attivassimo un lockdown totale domani mattina, e al momento nessuno sostiene la possibilità del ricorso al più drastico dei sistemi di contenimento della epidemia, il meccanismo di infezione già in atto continuerebbe per almeno una settimana o più, portandoci probabilmente a più del raddoppio degli infetti, dei ricoverati e delle terapie intensive, prima di iniziare a rallentare.
Quale è la causa di questa crescita improvvisa e rapidissima? Cosa è successo a partire dal primo di ottobre? Come mai la stragrande maggioranza degli infetti sono “lievi”, paucosintomatici o asintomatici, identificati solo grazie ai tamponi di “screening” e non a causa di sintomi gravi e conseguenti tamponi “diagnostici”?
Andiamo per ordine, abbiamo già molti indizi da cui possiamo cercare di derivare la risposta alla prima domanda.
La dominanza di infetti “lievi” suggerisce una categoria di persone giovani: sappiamo che i virus colpisce in modo molto differente a seconda dell’età . I dati sui contagiati confermano un forte abbassamento dell’età media rispetto alla primavera scorsa.
Per capire cosa scatta il primo ottobre, dobbiamo cercare qualcosa che è successo circa una settimana prima, essendo questi i tempi tipici tra il contagio e la rivelazione dei sintomi. Cosa è successo il 24 settembre? Una cosa balza all’occhio: è iniziata la scuola in Campania, Puglia, Calabria, Basilicata e Abruzzo; in Sardegna il 22 settembre. Nella maggior parte di queste regioni, in effetti, osserviamo crescite esponenziali a partire dall’inizio di ottobre che si sommano a crescite già molto rapide nel periodo post-estivo.
Come trend generale, il mese di settembre aveva infatti visto una crescita rispetto ai precedenti mesi estivi, anche se molto diversificata per aree geografiche e per lo più molto meno intensa rispetto a quanto si sta verificando in ottobre.
Nelle altre 15 regioni, la scuola è iniziata circa 10 giorni prima tra il 14 ed il 15 settembre (a Bolzano il 7). Non si vede però aumento analogo nella crescita di infetti verso il 20 settembre. Come mai? Si potrebbe considerare il fatto che in tutte queste regioni, tranne che in Lazio e Sicilia, la riapertura delle scuole è avvenuta in una fase in cui il numero di infetti era decisamente cresciuto meno rispetto all’estate. L’osservazione dei dati nelle prossime settimane ci dirà se i comportamenti di queste regioni siano o meno analoghi alle altre.
Abbiamo quindi due indizi che punterebbero in direzione della scuola: l’infezione che colpisce un gran numero di persone giovani e la correlazione dell’aumento degli infetti con l’inizio della scuola in popolose regioni dell’Italia centro-sud dove l’epidemia aveva ripreso a correre dopo l’estate. Meno netto invece sarebbe il rapporto fra inizio scuola e picco nelle altre regioni.
Per potere trasformare questi sospetti in qualcosa di più solido sarebbero necessari dati più accurati relativi al mondo scolastico. Fortunatamente sono da poco disponibili, anche se purtroppo non articolati per regioni, dati del Ministero della Salute e del Ministero dell’Istruzione relativi alla popolazione scolastica nel periodo 26 settembre – 10 ottobre. I dati annunciati dal ministro Azzolina a dimostrazione che a scuola va tutto bene sono in realtà allarmanti, se non consideriamo solo i numeri assoluti ma seguiamo l’andamento progressivo dei casi e li confrontiamo con la popolazione italiana.
Nella settimana 26 settembre — 3 ottobre il ritmo di crescita di infetti nel personale docente è lo stesso di quello del resto della popolazione italiana, quello del personale non docente è poco più elevato (circa l’8%), mentre quello degli studenti è del 36% più elevato del resto della popolazione. Nella settimana seguente la situazione cambia drasticamente: il ritmo di crescita degli infetti tra gli studenti è 2,65 volte (+265%) più alto che per il resto della popolazione, quello del personale docente è esattamente il doppio (+200%), quello del personale non docente è 1,67 volte (+167%) più alto del resto della popolazione italiana!
Questi dati sono impressionanti: la dinamica della crescita sembra proprio essere legata ai giovani in quanto principale veicolo di trasmissione nella società , probabilmente per una serie di comportamenti non necessariamente legati solo alla scuola, ma ad abitudini sociali che si sviluppano anche esternamente all’orario scolastico.
Con la riapertura delle scuole, circa 8 milioni di giovani in età scolare hanno iniziato a frequentarsi regolarmente negli edifici scolastici portandosi dietro gli effetti delle loro frequentazioni, sport, trasporti, attività extrascolastiche e abitudini sociali. Questo ha provocato probabilmente un formidabile effetto amplificatore che partendo dai ragazzi, tocca, in ordine di intensità decrescente, insegnanti e operatori scolastici, persone che vivono per varie ore ogni giorno in contatto con loro (oltre che, ovviamente, i propri familiari e tutte le persone con cui hanno contatti fuori dalla scuola).
Sarebbe dirimente per confermare o smentire queste ipotesi avere un quadro dei focolai sorti in ambito scolastico. Purtroppo sembrano esserci gravi limiti alla tracciabilità : quando si manifesta un caso spesso le classi vengono messe in quarantena, ma non vengono sottoposte a tampone e quindi manca il riscontro sui singoli casi.
Gli sforzi richiesti alle scuole in termini di riorganizzazione della logistica interna sono stati enormi, ma alcuni limiti come la non obbligatorietà delle mascherine in classe, la esigua misura del metro per il distanziamento, la resistenza ad areare le aule durante i mesi freddi possono porre dei dubbi sulla efficacia complessiva del sistema di protezione.
Certamente le scuole sono più sicure delle restanti occasioni di socializzazione dei ragazzi, ma restano un fenomenale luogo di contatti per una categoria di persone, gli studenti, che poi ha molte altre opportunità di socializzare trasversalmente anche con ridotto rispetto delle norme di distanziamento e protezione.
Mentre scrivo queste righe sono il primo a essere allarmato e spero vivamente che qualcuno mi saprà rapidamente dimostrare che mi sto sbagliando e che le cose non stanno così come le ho presentate. Sarei felice di essere smentito.
Ma se invece le cose stanno come ho scritto e come la logica che ho presentato suggerisce, non c’è assolutamente più tempo da perdere. La scuola sembra essere oggi un elemento amplificatore dell’epidemia forse non solo in Italia ma anche in altri paesi europei. Occorre subito approfondire la questione, raccogliendo rapidamente tutti i dati possibili per poi agire con la massima urgenza.
Così come è stata preziosa per la comprensione del rapporto fra asintomatici e sintomatici la ricerca Istat su un campione della popolazione, così sarebbe bene scegliere un campione di scuole da esaminare dettagliatamente tramite tamponi e tracciamenti precisi così da individuare la eventualità di focolai, cioè di trasmissione interna e non esterna alla scuola.
Sarebbe inoltre interessante confrontare analiticamente i dati relativi a scuola in cui il rientro è stato fatto con orari regolari e solo in presenza, a classi complete, e le scuole che nella loro autonomia hanno già realizzato a partire da settembre rotazioni fra scuola in presenza e a distanza, turni di ingresso diversificati, riduzioni delle classi a sottogruppi.
Dati trasparenti e pubblici sono strategici nel contenimento di una epidemia, per impostare risposte razionali.
Ricordiamoci che nessun sistema sociale, lavorativo, sanitario può resistere a una crescita esponenziale della pandemia.
Il tempo a disposizione è davvero poco e molto prezioso.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
IL FONDATORE DI YOUTREND: “IMPERDONABILI LE DEBOLEZZE DEL TRACCIAMENTO E I RITARDI NEL CONTENIMENTO”
“Provare a rassicurare dicendo che la situazione dei contagi da coronavirus in Italia non è come a marzo è come cadere dal 20esimo piano e arrivati al terzo dire ‘fin qui tutto bene’. Il problema non è come si sta al terzo piano, ma cosa succede dopo”. Lorenzo Pregliasco, cofondatore di YouTrend e professore all’Università di Bologna, usa questa metafora per smontare, dal punto di vista statistico, il mantra di chi, di fronte a un aumento dei contagi che è “indubbiamente esponenziale”, tira fuori il paragone con marzo come fosse un unguento calmante.
Lo abbiamo raggiunto al telefono per commentare la corsa del virus – 15.199 nuovi contagi e 127 morti nelle ultime 24 ore – e ragionare su alcuni dati. A cominciare dalle terapie intensive, che oggi sono diventate 926.
Il numero dei pazienti ricoverati in terapia intensiva si avvicina sempre più a quota mille, come nel primo giorno di lockdown nazionale. Come commenti questo dato?
“Con il ritmo di crescita degli ultimi giorni, ragionevolmente tra domani e venerdì supereremo il numero dei ricoveri in terapia intensiva del giorno in cui è stato decretato il lockdown nazionale, ovvero l’11 marzo, quando le terapie intensive erano 1.028. Chiaramente c’è una differenza importante: a marzo questo dato era concentrato soprattutto in un’unica regione o due, mentre oggi questa situazione è più diffusa. Questo aspetto da un lato può essere considerato positivo, perchè la pressione è più diluita; dall’altro è un rischio perchè vuol dire che la situazione può peggiorare in maniera diffusa in tutto il Paese”.
Perchè è importante porre l’attenzione sul trend settimanale, più che sui bollettini quotidiani?
“Osservando i numeri giornalmente si rischia di perdere di vista l’effetto ‘a strascico’ tipico del contagio. Prendiamo il caso dei morti: oggi ci sono stati 127 decessi; nell’ultima settimana, rispetto a quella precedente, c’è stata una crescita di oltre il 100%, vale a dire che i decessi giornalieri sono più che raddoppiati. Prima crescono i casi, poi crescono i ricoveri, le terapie intensive e le persone decedute. Nell’ultima settimana osserviamo una crescita dei casi del 98%, quindi sostanzialmente il doppio, i decessi sono aumentati del 136% e i tamponi solo del 24%. Il virus corre quattro volte più velocemente della nostra capacità di fare tamponi. E questo non va affatto bene”.
Nel mentre il sistema di test & tracing sembra sempre più in affanno… Cosa dicono i trend?
“Il meccanismo del tracciamento – come può confermare chiunque abbia avuto esperienze dirette in queste settimane – inizia a mostrare criticità pesanti dal punto di vista dell’accessibilità ai tamponi e dei risultati. Quando il numero dei positivi sale così tanto, diventa difficile tracciare: si possono tracciare 100 casi, non 10.000. Questo è il primo ostacolo, che si lega direttamente al secondo, ovvero la difficoltà di accesso ai test. Questa difficoltà , unita ai tempi di attesa dei risultati, fa inceppare il meccanismo di individuazione dei nuovi positivi e andare fuori controllo il contagio”.
Come si arresta questo trend, in assenza di nuove chiusure?
“Il problema, più che il lockdown formale, rischia di essere un lockdown di fatto: tantissime persone, con i numeri di questi giorni, rischiano di finire in isolamento o in quarantena. Ci si aspettava che, in prepaparazione di ottobre, si accelerasse la capacità di testing, cosa che però è avvenuta fino a uno certo punto. C’è sicuramente stato un incremento dei test rispetto ai mesi scorsi, però i livelli sono ancora troppo bassi per garantire un contenimento. Purtroppo, in questa situazione, o si ha un sistema di test & tracing efficiente, rapido e diffuso, oppure l’alternativa sono misure di contenimento”.
Il professor Franco Locatelli domenica, ospite a Mezz’Ora in Più su RaiTre, ha detto che non siamo in una situazione di crescita esponenziale del contagio, contraddicendo un articolo di Paolo Giordano sul Corriere della Sera. Una volta per tutte: siamo o no in una fase esponenziale?
“I contagi sono esponenziali. Il punto è che nel momento in cui si ha un raddoppio stabile di settimana in settimana, c’è chiaramente una crescita esponenziale. Poi può essere che, guardando i dati giorno per giorno, non lo sia quotidianamente, nel senso che ci sono delle oscillazioni. Però il dato settimanale è chiaro: se la crescita percentuale è stabile — e così è stato su base settimanale negli ultimi 14 giorni — la crescita è esponenziale. Questa non è un’interpretazione, è matematica”.
Possibile che dopo tutti questi mesi la lettura dei dati sia ancora così difficoltosa?
“Nel bollettino di un giorno qualunque, ci sono almeno 5 dati che andrebbero interpretati: c’è il numero dei casi, c’è il numero dei ricoveri, il numero delle terapie intensive (che peraltro è un saldo: noi non sappiamo ogni giorno quanti effettivamente entrano e quanti escono, sappiamo solo se è + o -), c’è la questione dei tamponi (quando parliamo di tamponi, parliamo di test effettuati nell’arco delle 24 ore o di tamponi di cui si conosce già il risultato? Non è irrilevante: è dimostrato che c’è spesso un ritardo di diversi giorni tra l’attuazione del tampone e il risultato…). Purtroppo lo diciamo da tempo: ci sono ancora molti elementi di confusione nel modo in cui vengono diffusi i dati. Credo che la cosa importante sia trasmettere a chi ci legge la consapevolezza che i dati vanno messi nel contesto e che esistono diversi tipi di dati”.
Tra chi minimizza o prova a rassicurare, il mantra “non siamo come a marzo” è uno dei più rassicuranti. Come far capire che non è così?
“E’ un mantra piuttosto debole. Dire che la situazione non è confrontabile con marzo, significa dire che non è confrontabile con la peggiore crisi sanitaria e di morte che abbiamo avuto negli ultimi 70 anni. Chi fa questo paragone prende a confronto un precedente non proprio positivo o accettabile, innanzitutto. La seconda osservazione è che è un’affermazione sostanzialmente falsa: chi la fa usa il paragone con marzo per tranquillizzare rispetto alla situazione attuale. Ciò non significa che bisogna farsi prendere dal panico, perchè il panico non serve mai, ma vuol dire che oggi vediamo un trend di crescita di alcuni indicatori che è del tutto paragonabile a quello di fine febbraio/inizio marzo. Questo vale anche per le terapie intensive, che oggi hanno numeri paragonabili a quelli di marzo. Purtroppo questo elemento non può essere trascurato. Dire ‘non siamo come a marzo’, oggi, è come cadere dal 20esimo piano e arrivati al terzo dire ‘fin qui tutto bene’. Il problema non è come si sta al terzo piano, ma cosa succede subito dopo”.
Come governo e come società , i numeri dell’epidemia dicono che stiamo fallendo. Era evitabile?
“Mi sembra che nelle ultime due settimane ci sia stato un ritardo, una carenza costante nell’affrontare la crisi. La settimana scorsa il governo ha fatto due dpcm diversi, ognuno dei quali appariva con ogni evidenza in ritardo sul fenomeno. Tanto più considerato un elemento, che io penso sia cruciale: per come funziona questo virus, noi siamo perennemente in ritardo. Quando si prendono delle decisioni, prima di vedere i frutti passa del tempo, e quelle decisioni erano state prese sulla base di dati che si riferiscono a una circolazione del virus già precedente. Siamo comunque in ritardo, sempre. Questo avrebbe dovuto indurre ad affrontare con più serietà la questione. A marzo si poteva capire la difficoltà di prendere le misure con questa epidemia. Oggi francamente è difficile trovare delle giustificazioni. A marzo si diceva ‘sì però nessuno sa come fare, sì però siamo i primi’. Adesso abbiamo l’esperienza dei mesi scorsi, abbiamo avuto da giugno a settembre mesi di circolazione più bassa del virus, in cui però non c’è stata nessuna operazione seria di potenziamento del test & tracing: queste a mio avviso sono mancanze imperdonabili, nel momento in cui è la seconda volta che si manifesta l’epidemia in questa proporzione”.
(da agenzie)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
NON VOLEVA IL COPRIFUOCO E FONTANA L’HA ADOTTATO, NON VOLEVA LO STATO DI EMERGENZA E ORA NON PUO’ OPPORSI AD ESSO O LO LINCIANO PER STRADA, NON VOLEVA LA MASCHERINA E ORA E’ COSTRETTO A INDOSSARLA
“A me personalmente la parola coprifuoco piace molto poco. Le limitazioni delle libertà personali mi piacciono poco e devono essere l’ultima spiaggia”, ha detto Matteo Salvini, leader della Lega, poco prima che il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, anch’egli della Lega, proclamasse mediante ordinanza il coprifuoco in Lombardia, e che i contagi raggiungessero la cifra record di 4000 casi in un solo giorno.
E insomma, se c’è una cosa che abbiamo capito è che il Coronavirus ha detto un gran male ai populisti di governo, soprattutto a quelli che hanno sottovalutato la portata della pandemia.
Va male al presidente americano Donald Trump, che i sondaggi danno sotto di oltre 10 punti contro lo sfidante democratico Joe Biden a due settimane dal voto presidenziale. Va male al presidente brasiliano Jair Bolsonaro — seppur in risalita nei consensi — con un indice di disapprovazione che è più che raddoppiato nel giro di pochi mesi, dal 21% al 45%.
Va malissimo al premier britannico Boris Johnson, ormai appaiato allo sfidante laburista Keir Starner, che fino a pochi mesi fa inseguiva a distanze siderali, a causa di una seconda ondata finita completamente fuori controllo.
Meglio, molto meglio, va ai populisti di opposizione.
Da Marine Le Pen, che ha rosicchiato punti percentuali al presidente Emmanuel Macron, sino a Giorgia Meloni, che col suo partito Fratelli d’Italia ormai vede il sorpasso sul Movimento Cinque Stelle, con un consenso che si aggira attorno al 15%, percentuale attorno al quale viaggia ormai stabilmente Vox, il partito post-franchista spagnolo guidato da Santiago Abascal.
Del resto, quando non hai responsabilità di governo, nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria ed economica, non è difficile soffiare sul fuoco della paura e della disperazione.
L’eccezione che conferma la regola si chiama Matteo Salvini. Il cui partito, la Lega, è ancora la prima forza politica italiana, seppur tallonata dal Partito Democratico a poca distanza. Ma il cui consenso è scivolato dal 37% dell’agosto 2019 al 24,3% dell’ultimo sondaggio.
E non ce ne voglia il governo Conte o la maggioranza che lo sostiene, se non attribuiamo loro troppi meriti per questa caduta.
Semmai, la sensazione è che Salvini debba incolpare più se stesso. Del resto, non c’è leader politico che si è sistematicamente trovato dalla parte sbagliata della barricata, inanellando una serie impressionante di scelte sbagliate e sconfitte politiche.
“Non ravviso la necessità di prorogare per altri mesi lo Stato di emergenza, che si può affrontare a normativa vigente: non è una scelta sanitaria è una scelta politica”, aveva detto ad esempio lo scorso 5 di ottobre, di fronte a un bollettino che parlava ancora di 2257 contagi e 16 decessi su tutto il territorio nazionale. Tempo due settimane, e i contagi sono schizzati oltre i 10mila casi al giorno, i decessi a un passo da quota 100, mentre terapie intensive e reparti ospedalieri avevano cominciato a riempirsi.
Del resto, il luminare di riferimento di Matteo Salvini era il professor Alberto Zangrillo dell’ospedale San Raffaele di Milano, quello per cui il virus era clinicamente morto durante l’estate.
“Il realismo del professor Zangrillo, da ascoltare”, scriveva su Facebook il 22 luglio il Capitano leghista, che del resto aveva partecipato solo cinque giorni dopo — rigorosamente senza mascherina, come era solito fare in quei mesi — al convegno del Senato che ospitava la platea dei negazionisti del virus: “Il saluto con il gomito è la fine della specie umana, io mi sono rifiutato, piuttosto non saluto”, aveva esordito Salvini, che poi sarcastico aveva aggiunto che tra gli Sgarbi e gli Zangrillo ci stava benissimo “come sono stato benissimo a Verona, al forum delle famiglie”.
Il problema, è che mentre Salvini stava benissimo, per molti altri non era così.
Eppure Salvini anche il 16 aprile chiedeva la riapertura della Lombardia, “un grande segnale di concretezza e di speranza, spero che il governo ne tenga conto”.
Dodici giorni dopo un corteo di mezzi militari carichi di bare e cadaveri sfilava mesto lungo i viali di Bergamo diretto verso cimiteri che potessero ospitarli. Ma prima ancora, del resto, Salvini voleva riaprire tutto, tranne i porti ovviamente: “Riaprire in sicurezza chi può il prima possibile perchè stare chiusi altre settimane e mesi porterà al disastro economico”, diceva il 14 aprile.
“Il Paese affonda, con i governatori leghisti concordiamo che occorre riaprire tutte le attività e ritornare alla normalità ”, ci aveva provato pure il 27 febbraio, a soli otto giorni dalla scoperta del primo caso di Corona virus in Italia.
I precedenti non portano fortuna, insomma, e non autorizzano a star tranquilli per il futuro: “Chi ipotizza un nuovo lockdown commette un crimine, richiudere sarebbe un disastro”, ha dichiarato Salvini solo pochi giorni fa.
Qualcuno sta già toccando ferro.
(da Fanpage)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
LO STUDIO ITALIANO: “CALA LA PROBABILITA’ DI MALATTIA GRAVE”
L’utilizzo di mascherine e il distanziamento fisico abbassano di mille volte la carica virale del SarsCov2. Lo dimostra uno studio dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Vr) pubblicato su Clinical Microbiology and Infection e condotto su 373 casi di COVID-19 arrivati al pronto soccorso dell’ospedale fra il primo marzo e il 31 maggio 2020.
Al diminuire dell’esposizione al contagio, la carica virale di questi pazienti si è man mano abbassata; in parallelo, anche la gravità della malattia si è ridotta.
Lo studio conferma dunque, su dati clinici, l’importanza di contenere l’esposizione al contagio tramite mascherine e distanziamento fisico: serve anche a ridurre la carica virale con cui si può venire a contatto e dunque a diminuire la probabilità di comparsa di una malattia con manifestazioni cliniche gravi.
“Per ciascun caso è stata valutata la carica virale tramite tampone, quindi i pazienti sono stati seguiti per registrare la gravità dei sintomi e l’evoluzione della malattia. I casi arrivati in ospedale a maggio, quindi in un periodo di bassa esposizione al contagio, erano anche venuti a contatto con ‘dosi’ virali più basse e avevano meno Sars-CoV-2 in circolo nell’organismo, anche fino a mille volte meno rispetto ai pazienti ricoverati a marzo”, spiegano Dora Buonfrate e Chiara Piubelli coordinatrici dello studio.
Questo ha portato i pazienti a sviluppare Covid-19 in forma meno grave: “A maggio avevano in media sintomi di Covid-19 meno gravi e una minore probabilità di complicazioni; si è ridotta in parallelo la percentuale di malati che hanno avuto bisogno di un ricovero in terapia intensiva”.
“Mantenere bassa la circolazione del virus e l’esposizione al contagio con l’uso di mascherine e il rispetto del distanziamento può perciò avere un impatto non solo sul numero assoluto di casi, ma anche indirettamente sulla severità dei casi stessi, contribuendo a mantenere i reparti Covid e quelli di terapia intensiva al di sotto della soglia critica di occupazione. Gli sforzi per rispettare le norme anti-contagio sono perciò fondamentali, perchè possono contribuire a rendere più gestibile la seconda ondata che stiamo vivendo, riducendo la pressione sul Sistema sanitario nazionale”, concludono le ricercatrici.
(da agenzie)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
“QUANDO NON RIESCI A CONTENERE DEVI BLOCCARE LA MOBILITA'”… “SE NON HAI SALUTE NON POTRAI AVERE UNA BUONA ECONOMIA”
“Milano, Napoli, probabilmente Roma sono già fuori controllo sul piano del contenimento dell’epidemia, cioè test e tracciamento. Quando non riesci a contenere devi mitigare, ossia devi bloccare la mobilità “.
Lo ha detto Walter Ricciardi, professore di Igiene generale e applicata e consigliere del Ministro della Salute Roberto Speranza per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali, nel webinar “Pandemia di Covid-19 in Italia: riflessione sugli aspetti epidemiologici, clinici e di Sanità pubblica” al Policlinico Gemelli.
“Le decisioni prese – ha aggiunto Ricciardi – peraltro in un contesto confuso di competenze diverse tra Stato e Regioni”, rischiano di non riuscire a bloccare “il dilagare del virus, che non conosce confini. Dobbiamo resettarci per prendere le decisioni giuste al momento giusto e non quando è troppo tardi. È chiaro che se si decide quando ci sono le bare è facile, la gente sarà spaventata, ma sono decisioni che vanno prese due, tre, quattro settimane prima. La politica sia coraggiosa, se non hai sicurezza e salute non puoi avere una buona economia”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
CARDIOLOGIA IN CORSO DI SANIFICAZIONE, NON VENGONO ACCETTATI ALTRI PAZIENTI
Il reparto di cardiologia dell’ospedale Sacco di Milano è stato svuotato dei pazienti a causa di un cluster di Covid. Sono in corso le operazioni di sanificazione.
Sono una ventina gli infermieri e operatori sanitari contagiati, un medico e tra cinque e sette pazienti, alcuni ancora in reparto e altri già dimessi i primi di ottobre.
Il reparto non accetta nuovi pazienti, quelli con patologie cardiologiche vengono dirottati sul Fatebenefratelli. I pazienti ancora ricoverati sono sottoposti a tamponi continui.
In base all’indagine epidemiologica il primo caso non sarebbe ospedaliero, ma di un infermiere che si è contagiato fuori dal reparto spargendo il contagio prima tra esterni e poi all’interno
Una settimana fa era stata riscontrata la positività di un’infermiera che lavora in cardiologia, sottoposta a tampone dopo avere manifestato blandi sintomi influenzali. In seguito erano stati effettuati tamponi a tappeto da cui è emerso il contagio duffuso tra diversi operatori sanitari.
(da agenzie)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
IL FISICO PARISI: “SERVE UN GRANDE DATABASE PER NON GUIDARE ALLA CIECA O FRA POCO AVREMO 100.000 CONTAGI AL GIORNO”
Dai primi giorni di ottobre i casi accertati di Covid stanno raddoppiando ogni settimana e per ogni ottanta casi di Covid c’è un morto dopo una decina di giorni o poco meno.
Una settimana è proprio il lasso di tempo che in media ci vuole perchè un contagiato contagi qualcun altro. Quindi un raddoppio ogni settimana vuol dire che ogni contagiato ne contagia due. A febbraio e all’inizio di marzo ogni settimana i casi quadruplicavano. Ci stiamo avviando verso il disastro più lentamente di marzo, ma la direzione è la stessa.
Attualmente abbiamo circa diecimila nuovi casi e una sessantina di morti al giorno. Nell’ultimo mese abbiamo visto che all’incirca ogni ottanta casi si registra un decesso, una settimana dopo, più o meno. Non ha molta importanza quanti dei nuovi casi siano sintomatici e quanti siano asintomatici, per capire la gravità della situazione: ci basta sapere che adesso muore circa una persona su ottanta diagnosticate positive.
Da metà settembre in poi i morti e i casi aumentano in maniera proporzionale gli uni agli altri. Se prendiamo un righello e tracciamo una retta sui dati di ottobre, la retta, che passa molto bene su questi dati, arriva a centomila casi verso il 12 novembre. Abbiamo costruito questo grafico in modo tale che una retta corrisponde a un’esponenziale e la retta che abbiamo tracciato corrisponde a un raddoppio dei casi ogni settimana.
Se andiamo avanti con lo stesso ritmo di aumento, ovvero se i numeri dei casi continueranno ad adagiarsi sulla stessa retta, fra tre settimane ci troveremo con quasi centomila casi al giorno, cinquecento morti al giorno e con la stessa crisi sanitaria del marzo scorso.
Ma ben prima di arrivare a centomila casi al giorno, il sistema sanitario e il tracciamento collasserebbero con conseguenze disastrose. Centomila casi al giorno sembra un numero strabiliante, quasi incredibile, ma basta guardarsi attorno: il Belgio, un paese con una popolazione 5-6 volte più piccola dell’Italia, sta sugli undicimila casi al giorno, che, fatte le debite proporzioni, corrispondono a 60.000 casi per un paese grande come l’Italia.
Certo, non sta scritto da nessuna parte che la crescita epidemica debba andare avanti con un raddoppio costante nel prossimo futuro. Tuttavia se la situazione non cambia, se non cambia il numero di persone che va al lavoro, che si affolla sui mezzi di trasporto pubblico, che lavora in situazioni insalubri, che s’incontra con decine di persone a feste dove inconsapevolmente è presente una persona infetta, se tutto questo non cambia, ogni malato continuerà a contagiarne due fino a quando la maggior parte della popolazione non si sarà infettata.
Sappiamo cosa vuol dire l’infezione da Covid non controllata; lo abbiamo visto a Bergamo: le persone che morivano a casa, gli ospedali al collasso, i morti giornalieri passati da trenta a trecento, i servizi di pompe funebri intasati, le bare accumulate nei sotterranei degli ospedali.
Sono convinto che non arriveremo a questo punto e che riusciremo a fermare la crescita prima, ma per fermare la crescita e arrivare a una situazione in cui i casi non aumentano più, servono provvedimenti drastici ADESSO.
Dobbiamo dimezzare i contatti per far sì che ogni persona ammalata ne contagi in media una. Durante il lockdown duro di marzo aprile tre persone ammalate ne contagiavano in media due. Adesso tre persone ne contagiano in media sei e invece se vogliamo arrivare a una situazione stazionaria ne devono contagiare solo tre.
Non è facile: il sistema di tracciamento, finchè funziona, consente di isolare i malati e questo riduce il numero dei contagi; ma più il numero di malati salirà , meno sarà utile il tracciamento, finchè l’unica possibilità per fermare la crescita sarà il lockdown duro.
Le prossime due settimane dunque saranno cruciali: infatti, ben prima di arrivare al di là dei cinquantamila casi, ci troveremo nell’impossibilità di fare cinquecentomila tamponi al giorno, e con il collasso del sistema di tracciamento e l’imminente collasso del sistema sanitario, un nuovo lockdown sarà necessario e inevitabile.
Il Governo ha già approvato varie misure per cercare di rallentare la crescita dei contagi. Saranno sufficienti a fermare la crescita o almeno a rallentarla? Difficile dirlo. Gli effetti non sono immediati, dal momento del contagio ai sintomi passano 5-6 giorni, 3 giorni dai sintomi alla diagnosi e 1-2 per entrare in statistica. Quindi gli effetti sul numero dei casi si vedono una decina di giorni dopo un’eventuale riduzione del numero delle infezioni. Quindi è impossibile saperlo prima; anche perchè un eventuale rallentamento nella crescita dei casi potrebbe essere solo il segnale che i tamponi fatti sono diventati insufficienti per segnalare tutti i casi.
L’ideale sarebbe ridurre i contagi senza arrivare a un lockdown duro: ma per farlo senza agire alla cieca, sarebbe necessario avere informazioni più precise di quelle che ci vengono fornite ogni giorno: servirebbe un grande database nazionale in cui fossero riversate tutte le informazioni disponibili su dove sono avvenuti i contagi, le attività lavorative dei contagiati, l’uso di mezzi pubblici, le attività svolte.
Quanto influiscono sui contagi in Italia i ristoranti, le cene in famiglia, le riunione in ufficio, le convivenze familiarie, le feste? Quali sono le attività più a rischio, oltre ovviamente quelle che già si sanno: la sanità , le celle frigorifere, la preparazione dei salumi, i centri di distribuzione postale? Servono numeri, gli articoli di giornale con casi di cronaca sono del tutto inutili.
Sulla scuola, dove le ASL fanno particolari controlli, ci sono dati precisi, che permettono di escludere che fino a questo momento ci sia stata una propagazione sostenuta dell’epidemia dentro le classi,ma abbiamo informazioni molto poco precise su quello che succede in altri contesti: sappiamo il numero dei focolai o poco più. Senza dati precisi come fare a valutare gli effetti positivi o negativi di provvedimenti come la chiusura dei centri commerciali durante il weekend o delle scuole elementari?
Queste informazioni sono cruciali anche per capire come mai dopo la situazione quasi stazionaria di settembre ci sia stata l’esplosione dei casi di ottobre: ci sono congetture in proposito, alcune ragionevoli, altre strampalate, i fattori possono essere stati molteplici, ma nessuno è in grado di dire, dati alla mano, in che misura ciascun fattore abbia influito. Ma se non sappiamo bene perchè i casi da noi si sono impennati a ottobre, le misure che si possono prendere saranno generiche e non mirate al cuore del problema.
Io temo fortemente che in Italia non sia stata fatta una raccolta sistematica delle informazioni cruciali sulle circostanze in cui il virus si è trasmesso: la lettera di Giorgio Alleva e Alberto Zuliani (già Presidenti Istat) al Corriere del 17 ottobre mi conferma in questo timore.“In tanti mesi – scrivono – non abbiamo investito in un sistema di raccolta di dati che consenta un monitoraggio accurato su probabilità di contagio, dimensioni delle componenti sintomatiche e asintomatiche, collegamento con i rischi successivi, ricoveri e terapie sub-intensive e intensive, letalità . (…) Non è citando insieme, giorno per giorno, il numero di casi positivi e di tamponi effettuati che possiamo capire cosa stia accadendo realmente”.
Non è un’operazione immediata, questa raccolta, richiede un lavoro di definizione di formulari standardizzati ma sufficientemente informativi che devono essere compilati in tutte le ASL d’Italia e riversati in un database nazionale. Ma va organizzata immediatamente. Tuttavia se al contrario queste informazioni o parti di esse fossero già disponibili ai vertici del sistema sanitario, dovrebbero essere rese pubbliche subito, in maniera tale che i cittadini possano rendesi conto delle motivazioni governative e la comunità scientifica possa analizzarli allo scopo di capire meglio la propagazione del virus. Ad esempio ci sono forti indicazioni che rari eventi di superdiffusione, quando una singola persona infetta ne contagia molti, diano un contributo rilevante alla diffusione del virus, quindi la loro individuazione ed eventuale eliminazione darebbe un gran sollievo, ma per far questo bisogna analizzare in dettaglio i dati sui luoghi di contagio
Sappiamo bene che la scienza è ed è stata fondamentale per contrastare l’epidemia, ed è quindi inaccettabile che la comunità scientifica non possa chiarire i modi di trasmissione del virus in Italia a causa della mancanza di dati dettagliati sui contagi diffusi accessibili a tutti (quelli che in inglese si chiamano open data). L’impressione è che al momento attuale si guidi molto alla cieca, cercando di usare il buon senso per non andare a sbattere.
Dobbiamo invece (meglio tardi che mai) costruire e rendere pubblico un sistema di guida razionale da usare in un futuro che non sarà brevissimo: anche nella migliore delle ipotesi, infatti, è improbabile che un vaccino oggi in fase di sperimentazione avanzata possa avere effetti significativi sull’epidemia prima del marzo prossimo. Dobbiamo prepararci ad un lungo inverno evitando un disastro sanitario cercando di danneggiare il meno possibile la vita delle persone. La scienza ci può aiutare, ma dobbiamo metterla in grado di farlo.
La commissione Covid-19 dell’Accademia dei Lincei, all’inizio di giugno aveva scritto un documento, in cui si riteneva che ”superata la fase acuta della epidemia, sia giunto il momento, per le istituzioni sanitare regionali, l’Iss e la Protezione Civile di pianificare una condivisione dei dati concertata con la comunità scientifica”.
Apparentemente niente è stato fatto in quella direzione e le amare conclusioni del documento linceo sono ancora di grande atttualità ″In assenza di trasparenza, ogni conclusione diviene contestabile sul piano scientifico e, quindi, anche sul piano politico. Solo con la trasparente alleanza tra scienza e politica possiamo affrontare efficientemente la convivenza con il coronavirus e prevenire una possibile risorgenza del Covid-19 o gestire l’emersione di future, possibili, epidemie.
Giorgio Parisi, fisico
presidente dell’Accademia dei Lincei
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 21st, 2020 Riccardo Fucile
IN REALTA’ A GENOVA SI POTREBBE SUPERARE IL 25% MA NEI BOLLETTINI ALISA MANCANO I DATI NON AGGREGATI (BENVENUTI NEL CAOS TOTI)
Già la scorsa settimana l’Istituto superiore di Sanità ci poneva, insieme alla Valle d’Aosta, al vertice delle regioni italiane per incidenza da Coronavirus con 142 casi ogni 100 mila abitanti, e quindi tra le nove regioni dove si supera il valore 75casi/100mila abitanti che rappresenta la media nazionale.
“Crescita esponenziale”. Nel frattempo, in attesa del report del giovedì, le cose sono peggiorate, e non poco. Durante l’ultimo punto stampa covid il responsabile prevenzione di Alisa ha dichiarato senza mezzi termini che negli ultimi giorni si è osservata: “Una perdita della linearità nell’aumento dei casi e della pressione sulle strutture ospedaliere, l’aumento non è più progressivo ma sta iniziando ad avere un aspetto esponenziale — ha affermato Filippo Ansaldi — in provincia di Genova sicuramente, ma anche nelle altre province abbiamo osservato un superamento della soglia di attenzione”. Ed è questo andamento che giustifica le misure (insufficienti per gran parte della popolazione) prese con le ultime ordinanze locali.
Maglia nera. Ieri, e non è la prima volta che accade, la Liguria è stata la Regione dove nettamente si è registrata la più alta percentuale di positivi su tamponi effettuati: 15% (frutto di 907 nuovi casi su 6062 tamponi, 1,5 milioni di abitanti). In Piemonte il valore percentuale è di 10,7 (1396 nuovi casi su 13018 tamponi, 4,3 milioni di abitanti), in Lombardia 9,3% (2023 nuovi casi su 21.726 tamponi, popolazione 10,6 milioni di abitanti). La regione messa peggio, ma staccata di tre punti percentuali è la Campania (5,8 milioni di abitanti): ieri sono stati registrati 1312 nuovi casi con 10205 tamponi e il valore del rapporto positivi per tamponi è 12,8%.
Genova, l’occhio del ciclone.
Basarsi solo sui numeri, specialmente a livello regionale e non locale, può essere poco rivelatore. In Liguria è noto che al momento il trend sia influenzato pesantemente dalla situazione genovese: ieri su 907 nuovi casi 762 erano a Genova.
Sarebbe più interessante, quindi, sapere quale sia l’incidenza a Genova, o la percentuale dei tamponi positivi a Genova. Uno dei punti critici della comunicazione dei dati da parte di Alisa è che non ha mai chiarito la divisione dei tamponi per asl. Basandosi su una dichiarazione ripetuta del governatore Giovanni Toti che durante alcuni punti stampa affermò che i tamponi sono per metà effettuati dalla Asl 3, si potrebbe stabilire che la percentuale dei tamponi positivi sul totale di quelli effettuati è, nel capoluogo ligure, attorno al 25%. Un dato, che se fosse confermato, sarebbe come un macigno: una persona su quattro, se effettua un tampone, è positiva.
Tamponi “cecchini”?
Anche questa equazione, però, rischia di non corrispondere alla realtà . Per due ragioni, la prima è che a Genova esistono zone dove il virus circola fino a 10 volte tanto rispetto ad altre zone dove è praticamente assente, la seconda è che ci sono regioni e città dove i tamponi vengono effettuati principalmente come screening generalizzati, altre — come il nostro caso — dove si sta procedendo a tracciare contatti di caso accertato. E’ più probabile che un contatto di caso sia positivo, in effetti (questo trend, si sta modificando, e con i nuovi ambulatori mobili aumenterà sempre di più la possibilità di un tracciamento non legato ai contatti di caso accertato).
Che cosa servirebbe quindi per capire meglio quello che sta accadendo attorno a noi? (e tra di noi?). Dati non aggregati sui contagi da parte di Alisa e delle asl, la possibilità di osservare — come era stato possibile fino a un mese fa — gli studi epidemiologici suddivisi per “cap” o per quartieri.
Dati che, non solo i giornalisti ma sempre più cittadini (specialmente quelli che si trovano nei quartieri sottoposti a restrizioni maggiori) vorrebbero poter consultare in maniera semplice, trasparente.
Inoltre, appunto, la suddivisione dei tamponi per asl di competenza e anche la suddivisione tra “primi tamponi”, “secondi tamponi” e tamponi per certificare la guarigione.
(da Genova24)
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