Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
IERI AL SENATO HANNO SALVATO RENZI, CONTE FURIOSO
È dovuto correre prima alla Camera e poi al Senato, Giuseppe Conte, per provare a tenere le redini di un partito imbizzarrito e che gli scalcia sotto la sella, un’ingovernabilità pressoché totale che fa mormorare assai gli alleati sulla credibilità di poter contare sui voti del primo partito in Parlamento nella corsa al Quirinale.
L’ennesimo pasticcio si è consumato ieri. Nella Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari di Palazzo Madama andava in scena un voto sull’arcinemico Matteo Renzi. L’oggetto del contendere era la proposta di Forza Italia di sollevare un conflitto di attribuzione contro l’acquisizione, da parte dei pm fiorentini che indagano sul caso Open, delle chat e delle mail del leader di Italia viva.
Un voto che in altri tempi sarebbe scivolato liscio nel mondo pentastellato, che avrebbe sonoramente bocciato la richiesta senza pensarci due volte. E invece, a sorpresa, i componenti 5 stelle della Giunta hanno seguito i colleghi del Pd: astensione. Una presa di posizione che ha dato il disco verde alle richieste del senatore di Rignano grazie ai voti del centrodestra.
Il telefono di Conte a quel punto è iniziato ad impazzire: “Ma cosa diamine stiamo facendo?”, il tenore dei messaggi che ha ricevuto nei minuti successivi alla votazione. Il via libera definitivo, secondo i regolamenti del Senato, deve essere dato dall’aula, “e in quella sede voteremo contro”, ha provato a metterci una pezza il capo politico.
Chi lo ha sentito nelle ultime ore lo descrive furente per non essere stato consultato. Palazzo Madama, considerato un fortino fino a qualche settimana fa, è caduto sotto i colpi dei franchi tiratori, che hanno impallinato il suo candidato a capogruppo Ettore Licheri al quale è stata preferita Mariolina Castellone, considerata vicina a Di Maio. Ma nessuno nell’entourage del presidente poteva immaginarsi una situazione del genere. Dopo il voto l’entourage dell’ex premier ha iniziato a criticare nelle chat comuni i colleghi, che si sono difesi a spada tratta: “Parlate di cose che non conoscete, non veniteci a dare lezioni”.
Elvira Evangelista, una delle tre componenti M5s della Giunta, interpellata dall’Adnkronos, si difende a spada tratta: “Per decidere se mandare il caso alla Corte costituzionale al fine di risolvere queste questioni giuridiche, gli atti del fascicolo non erano sufficienti: mancavano i provvedimenti fondamentali dei Pm. Non c’era il decreto di perquisizione, non c’era il decreto di sequestro del telefonino da cui sono stati scaricati i WhatsApp di Renzi”. Una linea garantista che ha spiazzato molti dei colleghi, e che ha colto del tutto impreparato Conte. Che non era stato avvertito né tantomeno consultato da nessuno.
La collega Agnese Gallicchio ammette senza problemi che per un confronto “non c’erano i tempi tecnici”. Una spiegazione che ha lasciato basiti i contiani di ferro. E così il professore pugliese è andato oggi a Montecitorio e a Palazzo Madama per vedere peones, blandirli, stringere mani, confrontarsi su attività parlamentari e difficoltà, “incontri già in programma”, spiegano, diventati ancor più necessari dopo l’ennesimo pasticcio.
“Ma ti pare che in queste condizioni Conte possa dare garanzie a Letta o a chi per lui sui voti per il Colle?”, si chiede con una certa retorica un big del partito. Il Movimento del nuovo corso sbanda vistosamente.
Qualche giorno fa Conte ha convocato una sorta di gabinetto di guerra, i vicepresidenti, i ministri, qualche componente della compagine di governo. L’obiettivo proprio quello di fare il punto sul Quirinale. Un punto abbastanza inconcludente, a dar retta a uno dei presenti che spiega allargando le braccia che “ne abbiamo parlato, ma una strategia vera al momento non c’è”. L’incontro ha d’altronde sollevato un vespaio di polemiche interne, come ormai di consueto per qualunque mossa del nuovo capo politico.
Accuse di non coinvolgere i parlamentari, malumori sulla mancanza di una strategia chiara, timori di essere fagocitati dalle decisioni altrui. In particolare, soprattutto alla Camera, i capannelli dei parlamentari si riuniscono e si sciolgono tutti con lo stesso refrain: “Noi non ci muoviamo, Letta farà una proposta e la dovremo seguire, con le conseguenze che tutti conosciamo”. Che non sono altro che un’ulteriore frantumazione del gruppo, né si vede al momento una soluzione affinché ciò non avvenga.
I segnali di fumo inviati a Berlusconi sono un altro elemento di destabilizzazione, mentre a Roma rimbalzano le voci che Beppe Grillo spinga per mandare Mario Draghi al Quirinale, segnali che preoccupano la war room pentastellata.
D’altronde i sospetti che l’ex premier voglia andare al voto nel 2022, per fare tabula rasa e ricostruire le liste con uomini di fiducia, un M5s forse più piccolo ma più facilmente controllabile, con l’ambizione di farne l’ago della bilancia in un Parlamento dai numeri ridotti per il taglio dei parlamentari.
La prospettiva è che, a meno di colpi di teatro imprevedibili, sulla pelle del Colle si consumi una vera e propria conta interna nel partito, con conseguenze ad oggi inimmaginabili. Per Conte, anzitutto, per il Movimento come comunità, anche, ma soprattutto per le sorti del prossimo inquilino del Quirinale.
(da Huffingtonpost)
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Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
“IL PROBLEMA VERO DELLA MELONI E’ IL RAPPORTO CON L’EUROPA“
“Giorgia Meloni ha identificato un’area politica a livello internazionale che ha potenzialità di successo perché risponde alla domanda crescente di conservatorismo, e si sta muovendo in quella direzione. C’è una buona dose di ambiguità perché cerca di guadagnare del nuovo senza perdere il vecchio, ma è presto per dire che sia solo un lifting. Dipenderà dal punto di ricaduta dell’elastico che sta tendendo”.
Giovanni Orsina, politologo e professore di Storia Contemporanea alla Luiss di cui guida la School of Government, è attento osservatore delle dinamiche del centrodestra.
E spiega l’interesse della leader FdI per la partita del Quirinale: “Ha preso un impegno morale e politico con Berlusconi, anche per evitare che si smarchi dal fronte unitario. Ma credo che preferisca Draghi perché potrebbe coprirla molto meglio se dovesse riuscire ad andare al governo”.
In un’intervista al “Corriere” di oggi Giorgia Meloni rivendica un ruolo nel gran ballo del Quirinale, pur avendo un numero di parlamentari decisamente inferiore a quello di Lega e Forza Italia. Dice: ci sono anche io, attenzione a non fare i conti senza l’oste. È così?
In quell’intervista Meloni parla di centrodestra e ragiona in una logica di coalizione. E i numeri dicono che da quella parte si deve passare, questo è il primo messaggio. Poi, certo, parla anche agli alleati: “FdI è l’unica forza in crescita, tenetene conto anche in vista di quando si andrà al voto”. Bisogna aggiungere poi che è l’unico partito di opposizione, e, se si vuole eleggere un presidente della Repubblica, occorre discutere anche con l’opposizione. Da questo punto di vista Meloni ha senz’altro delle ragioni.
Lei ha capito a chi corrisponde davvero l’identikit del presidente patriota?
A me quello è parso un discorso molto tattico, il cui messaggio di fondo era: non pensiate di mettermi tra i piedi un presidente del Pd, perché non ci sono le condizioni.
L’impressione complessiva, però, è che alla Meloni piacerebbe vedere Draghi sul Colle, ma finché c’è l’ombra di Berlusconi sul campo non può dirlo apertamente.
Sì, anche a me pare che sia così. Salvini e Meloni hanno preso con Berlusconi un impegno morale, ma dotato anche di un sottinteso politico molto robusto: è un modo per evitare che il Cavaliere si smarchi dal fronte unitario. Se lo facesse, eleggere un presidente “contro” gli altri due leader diventerebbe possibile. Al netto di questo, Meloni ha tutta l’aria di prediligere Draghi anche perché potrebbe coprirla molto meglio se un giorno lei avesse la possibilità di andare al governo. Con Berlusconi al Quirinale, un governo sovranista sarebbe a mio avviso parecchio più difficile.
A proposto di ambizioni: l’Atreju di Natale ecumenico in politica e identitario in dottrina, l’esaltazione del ruolo di guida dei Conservatori europei ma anche di quelli italiani, le scuse pubbliche a Letta per la “battuta riuscita male”. Vede un’operazione in corso per cambiare pelle a FdI?
Meloni ha identificato un’area politica a livello internazionale che ha potenzialità di successo. Basti guardare alla Francia: una gara tra chi è di destra e chi è più di destra. Le Pen, Zemmour, Pécresse. Anche Macron sentendo il clima si è spostato su posizioni che rispondono alla richiesta di ordine e sicurezza. C’è una domanda di conservazione, in senso lato, diffusa e crescente.
Motivata dalla pandemia, al giro di boa del terzo inverno?
È un discorso più ampio. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito alla ribellione contro una globalizzazione ritenuta troppo veloce e distruttiva, ribellione che si è espressa nel gran “fritto misto” del cosiddetto populismo: dal Rassemblement National a Podemos, da Alternative für Deutschland ai Cinquestelle. Complice il Covid, è possibile che la ribellione disordinata stia ora rientrando in un alveo politico più tradizionale, incanalandosi a destra.
Destra moderata o estremista?
La ribellione anti-globalizzazione non è moderata dal punto di vista psicologico. Ma politicamente cambia da Paese a Paese, trovando casa in movimenti di diversa natura. In Francia c’è una sorta di décalage che va da Macron, europeista e tecnocratico e da ultimo securitario, fino a Zemmour e a Le Pen, passando per la gollista Pécresse. In Italia la sensazione è che Meloni stia ancora prendendo le misure alla situazione e sconti perciò una certa ambiguità. Ad Atreju era palese: FdI è un partito fortemente identitario che ha matrice e ricordi comuni. Si sente ancora molto la tradizione di una comunità abituata a sentirsi minoritaria, di opposizione, esclusa ed emarginata.
Gli Atreju, come il protagonista della Storia Infinita. È maturo il tempo di andare oltre, secondo lei?
Meloni nell’intervento conclusivo ha tenuto insieme due linee: molto del suo discorso era identitario, ma ha pure detto di voler allargare il campo attraendo persone con storie diverse alle spalle. È questo il nodo, che mi pare antropologico più ancora che ideologico. Perché al di là dei toni, i contenuti sono quelli di un partito nazional-conservatore. Ma se non ammorbidisci l’identità non puoi attrarre da fuori della tua comunità.
Oltre due mesi dopo la video-inchiesta di Fanpage sui legami con certi ambienti para-nazisti e antisemiti, Fidanza è ancora lì, tutto è nel limbo, si attende la fine delle indagini. Come si cambia classe dirigente, allora
Non c’è dubbio che esista un problema di humus identitario, e certi legami storici nella vicenda Fidanza sono emersi in modo prepotente. Da qui però a dire che un partito è fuori dall’arco costituzionale, è illiberale, o addirittura che è un pericolo per la democrazia, ce ne corre, e pure molto. Quello della delegittimazione è un vecchio gioco italiano, e credo che abbia prodotto infiniti danni. Sarebbe proprio ora di piantarla.
In sintesi: vede un’emancipazione o un lifting?
Per il momento vedo un inizio di percorso. Un classico tentativo politico di guadagnare del nuovo senza rinunciare al vecchio. Ma non necessariamente è solo un lifting: vedremo cosa succederà quando il vecchio e il nuovo entreranno in conflitto. Insomma, dipenderà dal punto di ricaduta dell’elastico che si sta tendendo.
Il feeling di Meloni con Letta si spiega in un’ottica bipolarista. Quello con Draghi solo con la speranza di un “ombrello” quirinalizio?
In buona parte sì. Poi, quando Draghi è andato a Palazzo Chigi c’era l’emergenza pandemica, e un partito che vuol essere di patrioti non poteva fare opposizione sconclusionata. Questo lei lo ha capito subito e in definitiva la cosa ha funzionato. Infine, un premier ultra-europeista è l’ideale per difendere gli interessi italiani da dentro il meccanismo europeo – molto più efficace rispetto a chi a quel meccanismo è estraneo.
Però, il “partito di patrioti” ha appena presentato un’interrogazione alla commissione Ue contro le nuove restrizioni sanitarie decise dal governo. Non è una contraddizione?
Non sul piano dei contenuti, perché FdI sul covid vuole dall’inizio scelte più liberali e meno restrittive. La contraddizione sta nel fatto che per fare opposizione al governo usa anche gli strumenti europei. Quando c’è bisogno anche Meloni passa per Bruxelles perché da lì passa la politica italiana: ed è l’intrico di questo meccanismo che rende difficile smontarlo. È proprio qui, sull’Europa, che tocchiamo la più grande delle ambiguità del nazional-conservatorismo nostrano. Il nodo più difficile da sciogliere è questo, altro che Fidanza o allarmi antifascisti.
Ultima domanda. Al “Corriere” Meloni ha detto che “la persona del partito che prende più voti avrà la responsabilità di indicare il premier da sottoporre al Quirinale”. Studia da premier o da king maker?
È stata molto, molto cauta. Potrebbe essere un indizio della consapevolezza che un governo Meloni in Italia non sarebbe, come dicevamo, facile. C’è un gioco di compatibilità europee e internazionali che creerebbe problemi. Dietro le quinte si affaccia uno schema: Draghi al Quirinale, Meloni e Salvini vincono le elezioni e indicano un premier terzo di loro gradimento.
(da Huffingtonpost)
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Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
VERDONE DICE CHE E’ INUTILE DISCUTERE CON I NO VAX
L’attore romano, ospite di Accordi&Disaccordi (sul Nove), ha raccontato uno dei tanti episodi che lo hanno portato a non riuscire più a confrontarsi con gli anti-vaccinisti
La libertà di pensiero e di parola è sacrosanta. Ma quando si travalicano i limiti del buon senso, appigliandosi a paradossali fake news per sostenere una propria idea, il dibattito o si incendia o si spegne.
Secondo Carlo Verdone, almeno a suo titolo personale, la strada da seguire è la seconda perché parlare con persone che utilizzano bufale per difendere il proprio ideale anti-vaccinista è inutile, oltre che degradante.
L’attore romano ha parlato (anche) di questo tema nell’ultima puntata di “Accordi&Disaccordi”, la trasmissione in onda sul canale Nove il mercoledì sera. E lo ha fatto raccontando anche uno degli episodi paradossali che gli sono successi negli ultimi tempi e che lo hanno portato a fermare qualsiasi tipo di dibattito con i no vax. Perché si viaggia su due binari paralleli che non si incontreranno mai (almeno dialetticamente). Neanche all’infinito.
“Con un no vax è complicato parlarci. Io parlato l’altro giorno con un tassinaro, per 20 minuti ho tentato, in qualche modo. Però quando lui mi ha risposto: ‘no perché ci mettono il 5G dentro’, a quel punto io ho detto: ‘basta’, mi sono cascate le braccia. Ho detto: ‘No, non li smuovi tanto, non li smuovi’. Quindi è inutile iniziare un dibattito. È complicato, è molto complicato”.
Perché quella del microchip che attiva il 5G all’interno dei vaccini è una delle tante bufale che si sono rincorse nel tempo. Ancor prima della messa a disposizione dei diversi prodotti. E ci sono persone che seriamente ci hanno creduto e ne parlano come fosse la realtà. Ovviamente non è così, ma in parte (non tutta) della dialettica di chi dice no al vaccino c’è spazio anche per paradossi come quello raccontato da Carlo Verdone ad Accordi&Disaccordi.
(da NextQuotidiano)
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Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
NON SI PUO’ LAVORARE CON LE MASCHERINE
Due tweet che sono stati “spacciati” (da alcuni, non da tutti) come un’intervista. Poi lo sfogo, sempre sui social, per contestualizzare la sua storia e quel suo sfogo dopo la positività a un tampone.
Sara Barbieri, ballerina del Teatro alla Scala di Milano, ha voluto precisare quelle parole scritte sul focolaio scoppiato all’interno del corpo di ballo del famoso teatro meneghino. Ma le mascherine (non utilizzate) sono solamente un lato della medaglia di un discorso molto più complesso.
“Ho usato tutte le precauzioni possibili e anche di più, ma per lavorare ho dovuto togliere la mascherina”. Questa è la frase che ha fatto esplodere la polemica. Perché, letta così, sembra quasi che la ballerina stia contestando il mancato utilizzo del dispositivo di protezione individuale durante le prove al Teatro alla Scala. ù
Ma Sara Barbieri, dopo aver visto la sua storia diventare di dominio pubblico anche su molte testate giornalistiche, ha voluto specificare il senso di quelle parole con un lungo thread su Twitter
“È uscito un articolo (più articoli) costruiti dal nulla estrapolando alcuni dei miei tweet. NON HO MAI rilasciato interviste di alcun tipo e chi mi segue sa che ho sempre raccontato con quanta attenzione siano rispettati protocolli rigidissimi in Teatro. La frase estrapolata “ho dovuto togliere la mascherina per lavorare” che suona come un ricatto da parte del teatro era in realtà un’ovvietà: il mio lavoro lo prevede. Intendevo solo che in quel modo siamo più vulnerabili e, come ho scritto in un altro tweet. Se la situazione sta peggiorando in teatro è solo perché è lo specchio di ciò che succede nel resto del Paese nulla di più. Ho espresso la mia amarezza per aver perso per un breve periodo ciò che amo di più e non voglio in alcun modo che la situazione venga strumentalizzata. Lo dico e lo ribadisco: in Teatro sono adottate le misure più rigide nella maniera più rigida. Semplicemente, tutti siamo in pericolo se i nostri comportamenti personali non si attengono alla prudenza e io credo di averlo sempre fatto in maniera addirittura maniacale. Dovremmo farlo tutti per proteggere anche gli altri, tutto qui. Vi chiedo un po’ di silenzio ora, non pensavo di sollevare un tale polverone (non sono un personaggio pubblico), ma solo di rendere partecipi le persone che mi seguono con tanto interesse perché amano il Teatro. Questa situazione mi ha molto rammaricata. Vi chiedo scusa per lo sfogo e vi ringrazio”.
Con queste parole Sara Barbieri ha voluto spegnere quell’incendio (metaforicamente parlando) scoppiato dopo quel tweet e quella sua frase sulle mascherine. Insomma, la ballerina sottolinea come il tutto fosse da ricondursi alla situazione nel Paese e non a quello che accade all’interno del Teatro alla Scala.
(da NextQuotidiano)
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Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
SECONDO I SONDAGGISTI DAL 2% AL 5%, SOTTRAENDOLI A FDI E LEGA
Per il momento non esiste un partito no vax, ma più passa il tempo (con manifestazioni e comizi annessi e connessi) l’ipotesi della creazione di un vero e proprio movimento politico anti-vaccinista si fa sempre più concreta.
La luce dei riflettori si sposta, ovviamente, su quel gruppetto della cosiddetta “Commissione DuPre” (Dubbio e Precauzione) di Ugo Mattei, Carlo Freccero, Giorgio Agamben e Massimo Cacciari (quest’ultimo assente all’ultimo evento andato in scena a Torino lo scorso 8 dicembre). E i sondaggi mostrano le prime percentuali che potrebbe accompagnare questa ipotesi.
Secondo una rilevazione fatta da Renato Mannheimer e rivelata a “L’Aria Che Tira” (su La7), un partito no vax potrebbe ottenere consensi compresi in una forchetta che va dal 5 al 10%. Un numero abbastanza elevato, considerando anche la situazione di molti altri partiti che già sono presenti nel Parlamento italiano. Un dato simile arriva anche dal sondaggista Roberto Weber della Swg che, intervistato dal quotidiano La Repubblica, ha spiegato:
“L’ho visto con i miei occhi a Trieste. Qui il candidato della lista No Vax senza fare campagna alcuna ha preso il cinque per cento. E l’onda nelle piazze è arrivata dopo. Penso che sottrarrà voti a destra, a Fratelli d’Italia, alla Lega”.
Ovviamente la situazione di Trieste non è sintomo di un pensiero diffuso su tutto il territorio, ma è comunque un segnale che non può e non deve essere sottovalutato. Perché, come evidenziato da un sondaggio di YouTrend di qualche giorno fa, la maggior parte dei no vax vota – attualmente – partiti di destra (come Lega e Fratelli d’Italia).
Ma se i primi due sondaggisti si trovano d’accordo sul dato del 5%, altri spiegano i motivi che spingerebbero questo dato elettorale molto più in basso.
Fabrizio Masia di EMG sottolinea come, secondo le sue previsioni, un partito no vax non supererebbe la soglia del 2%.
Dello stesso parere è Antonio Noto che sottolinea come non si possa prendere il caso “unicum” di Trieste per stilare una statistica sondaggistica a livello nazionale e spiegando come i partiti monotematici non abbiano mai avuto – nella storia – né un grande appeal né una grande durata nel tempo.
(da agenzie)
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Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
L’EX CONSIGLIERE RAI E’ UN ALTRO NO VAX PERENNEMENTE INVITATO IN TV
Dopo l’exploit televisivo della sera prima a “Cartabianca”, il professore universitario – ex dirigente della Rai – si è reso protagonista di un nuovo scontro in diretta televisiva.
Questa volta non con Andrea Scanzi come accaduto 24 ore prima, ma con il Direttore della Clinica Malattie Infettive del San Martino di Genova. Il teatro dello scontro tra Matteo Bassetti e Alberto Contri è stato quello di “Zona Bianca”, la trasmissione condotta da Giuseppe Brindisi su Rete4, e lì è scoppiato il caos con tanto di rivendicazioni curriculari.
Il tema è sempre lo stesso. Come noto – per questo sta ottenendo una visibilità mediatica improvvisa – Alberto Contri è un fervente sostenitore dell’ideologia no vax (quindi anche contrario al Green Pass) e nelle sue varie ospitate televisive, con una comunicazione (di cui è esperto e professore) piuttosto aggressiva ne parla a ruota libera. E ieri sera, su Rete4, si è scontrato con il professor Matteo Bassetti che ha rivendicato il suo percorso di studi e professionale che lo abilitano, di fatto, a un ruolo di divulgatore su temi legati all’infettivologia.
“Lei di frottole ne ha dette per molti anni, ma quello che è più grave è che è un professore di medicina”. Questa frase pronunciata da Contri ha provocato l’immediata reazione di Bassetti che ha sciorinato i motivi perché lui può parlare in televisione di questi temi: “Io per dire queste cose che ho detto stasera ho studiato sei anni medicina, ho fatto quattro anni di specialità in malattie infettive e ho pubblicato 600 lavori con oltre 20mila citazioni”. Insomma, il medico rivendica il suo curriculum e conclude: “Lei che cosa ha fatto per parlare e dire le stupidaggini che sta dicendo? In un Paese normale sa lei dove la fanno parlare? Al circo”.
(da agenzie)
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Dicembre 16th, 2021 Riccardo Fucile
TRA I METALMECCANICI ADESIONE DELL’OTTANTA PER CENTO
“Oggi ci sono cinque piazze piene. È strano dire che non rappresentiamo il Paese reale, chi è rimasto indietro. Chiediamo al governo di fare scelte diverse. Il Paese ha bisogno di risposte, che finora non sono sufficienti” afferma il segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, dalla manifestazione in piazza del Popolo a Roma per lo sciopero generale di Cgil e Uil.
“Sta aumentando la distanza tra il palazzo della politica e il Paese. Noi invece diamo voce al disagio sociale che c’è nel Paese. Abbiamo bisogno di prendere la parola e farebbe bene chi è in Parlamento ad ascoltarci” dice il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, che parla di “avvio di una mobilitazione perché pensiamo che il Paese vada cambiato, con una riforma fiscale e delle pensioni degna di questo nome e cancellando la precarietà. È l’inizio di una battaglia”.
La protesta, accompagnata dallo slogan “Insieme per la giustizia”, si sviluppa con manifestazioni a Milano, Bari, Cagliari, Palermo e Roma.
Secondo i primi dati, tra i metalmeccanici l’adesione è all′80%.
“Lo sciopero sta andando molto bene, noi stiamo facendo assemblee in tutti i luoghi di lavoro da due mesi” afferma Francesca Re David, leader Fiom, in piazza del Popolo a Roma. “Naturalmente l′80% è un dato molto significativo e dice il malessere dei lavoratori che non si sentono rappresentati in questo Paese”.
Secondo i dati della Fiom in particolare ad Acciaierie Italia ha incrociato le braccia il 70% dei lavoratori, a Lamborghini il 90% degli operai e il 60% degli impiegati, a Berretta Brescia il 95% degli operai e l′80% degli impiegati, all’Ast Terni il 90% con un’adesione dell′80% nell’indotto, a Nuovo Pignone Firenze l′85%, ad Almaviva Roma il 90%, a Magneti Marelli di Napoli il 95%, a Dana Graziano di Torino l′85%, a Electrolux di Porcia il 70%, alla Vitesco Tecnologies di Pisa ha scioperato il 100% degli operai e il 60% di impiegati.
Nel settore elettrodomestici di Fabriano, riferisce ancora la Fiom, si registra un’adesione del 95% ad Ariston Cerreto, dell′80% ad Ariston Genga, dell′85% ad Ariston Albacina, del 90% a Thermowat, del 90% a Electrolux, del 50% ad Antonio Merloni, dell′80% a Whirlpool, del 90% ad Elica del 75% a Faber.
(da agenzie)
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