Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
IL TERZO POL(L)O RUBA A LETTA TRA IL 10 E IL 20% DEI VOTI
Fratelli d’Italia cannibale, che mangia i suoi alleati. Il dato era evidente già domenica sera, per così dire a occhio nudo. E il conteggio dei voti reali lo rende impietoso: 5,9 milioni di voti in più rispetto al 2018 per il partito di Giorgia Meloni (dal 4 al 26%), 3 milioni e 200mila voti in meno per la Lega (dal 17,3 all’8,7%), quasi due milioni e 330mila in meno per Forza Italia (dal 14 all’8%).
Le analisi dei flussi dei vari istituti (il Cattaneo su dati reali di sezione in dieci grandi comuni, Swg e Ixè sulla base di sondaggi) pubblicati ieri non possono dunque che confermare il trend.
E nel caso del Cattaneo, che fa riferimento anche alle europee del 2019 quando la Lega di Matteo Salvini arrivò al tetto del 34,3%, lo svuotamento è ancora più evidente.
«Si tratta in larga prevalenza di scambi interni all’elettorato di centrodestra – scrivono nel rapporto che accompagna le tabelle i curatori Salvatore Vassallo e Rinaldo Viganti -. Si può dire che, grosso modo, nelle città analizzate l’elettorato di FdI è formato per più dell’80 per cento da elettori che alle europee avevano già scelto il centrodestra, mentre la parte restante si divide tra recuperi dall’astensione e variamente dal centrosinistra e da altri partiti».
La perdita della Lega verso FdI «è ingente», ma il partito di Salvini perde un po’ in tutte le direzioni: verso Forza Italia, soprattutto al Sud, e verso l’astensione.
Ma la crescita eccezionale di FdI non è l’unico spostamento di massa dal 2018.
Il M5s prese cinque anni fa il 33% dei voti vincendo la palma di primo partito. Dove sono finiti quei voti, visto che il consenso si è più che dimezzato (15,5%)? Si tratta di 6 milioni e 400mila voti in uscita, uno spostamento ancora maggiore di quello in entrata verso FdI.
In questo caso va segnalato che la mobilità elettorale tra il 2018 e il 2022 ha attraversato due fasi ben distinte: nella prima (2018-2019) c’è stato un significativo travaso di voti dal M5s al centrodestra, travaso di cui inizialmente ha beneficiato soprattutto la Lega (infatti alle europee del 2019, un anno dopo le politiche, il M5s era già sceso al 17%); nella seconda gli schieramenti sono rimasti abbastanza stabili mentre c’è stato un significativo travaso interno al centrodestra, con i voti di Forza Italia e soprattutto della Lega – compresi gli ex 5 Stelle – spostatisi sul partito di Meloni.
Una volta persi i voti di destra, dunque, rispetto al 2019 il M5s ha attinto soprattutto al bacino dei fedelissimi e a quello dell’astensione.
Da parte del Pd e del centrosinistra non ci sono stati significativi spostamenti verso i 5 Stelle. E infatti l’elettorato del Pd si conferma il più fedele a se stesso: il grosso degli elettori che ha votato per i dem domenica scorsa lo aveva già fatto nel 2018 e nel 2019.
L’unico flusso evidente in uscita è stato nel caso del Pd quello verso Azione-Italia Viva: tra il 10 e il 20% degli elettori dem ha optato per la lista guidata da Calenda, altra novità di queste elezioni (quasi l’8%).
Il grosso dell’elettorato del cosiddetto Terzo Polo viene dunque dal partito di origine di Calenda e Renzi, circa il 60%, ma il restante 40% viene dal centrodestra nelle sue tre componenti (FdI, Lega e Fi). Come si diceva, i flussi verso e da tra gli ex alleati Pd e M5s appaiono molti ridotti nel complesso.
Ma analizzando i dati del Cattaneo più da vicino si nota qualche movimento al Centro: rispetto al 2019 nella città di Bologna quasi il 20% dei voti al M5s viene dal Pd (lo stesso fenomeno, in maniera ridotta, si nota anche a Padova, Genova e Torino).
Questo fenomeno, unito al voto democratico perduto in favore del Terzo polo di Calenda e Renzi, contribuisce a spiegare la cattiva performance dei dem anche nelle (ormai ex) zone rosse.
Se la lista Calenda è andata bene in Emilia Romagna (8,6%) e in Toscana (9,4%), altrettanto bene sono andati i 5 Stelle rispetto allo storico locale: 9,9% in Emilia e 11% in Toscana. Voti, questi del M5s, pescati soprattutto a sinistra e tra gli astenuti.
È chiaro che il Pd, schiacciato a destra e a sinistra, rischia di non essere competitivo alle amministrative della prossima primavera pure nelle sue roccaforti storiche. Insomma il tema delle alleanze, che già si impone nel dibattito interno in vista del congresso annunciato dal segretario Enrico Letta, è dirimente per il fronte delle opposizioni.
Pena un conto finale simile a quello dei collegi uninominali conquistati il 25 settembre dal centrodestra: 180 a 20 su 200.
Anche per questo i fautori dem del ritorno al dialogo con il M5s stanno lavorando da subito all’accordo giallorosso per il Lazio. Con Nicola Zingaretti eletto in Parlamento la Regione sarà la prima a tornare al voto, tra fine gennaio e inizio febbraio. E dal quartiere generale del governatore fanno notare che in Giunta ci sono ora sia i 5 Stelle sia Azione-Italia Viva, che a Roma ha ottenuto un buon 11%. Strada impervia, ma l’alternativa è un altro massacro per il centrosinistra.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
SE PD, M5S, TERZO POLO, BONINO E FRATOIANNI SI FOSSERO PRESENTATI INSIEME ALLE ELEZIONI AVREBBERO SUPERATO IL CENTRODESTRA
Il centrodestra ha vinto le elezioni in modo schiacciante e ha conquistato la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento.
Cosa sarebbe accaduto se il Centrosinistra fosse riuscito a condurre in porto il progetto del campo largo che vedeva, assieme, Pd e Cinque Stelle con l’aggiunta di Azione?
Cosa sarebbe accaduto, insomma, se Pd e M5S non fossero andati ognuno per conto proprio? E se a loro si fossero aggiunti anche Matteo Renzi e Claudio Calenda?
Insomma, al di là delle analisi politiche vale la pena provare a guardare i numeri.
Il Centrodestra, considerando Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e i Moderati, hanno ottenuto il 44% delle preferenze al Senato con 12.129.547 voti. Contro un Centrosinistra (Pd, Verdi-Si, +Europa e Impegno Civico) che ha preso 7.161.688 voti per il 26%.
Di fatto, tutto lo schieramento con Dem partito di riferimento, ha preso quanto il solo partito Fratelli d’Italia.
Cosa sarebbe accaduto con il “campo largo”
La questione cambia, invece, se guardassimo ai numeri di un ipotetico campo largo. Sommando i voti sia alla Camera, sia al Senato, del Pd con quelli ottenuti dai Cinque Stelle e dal Terzo Polo, in entrambi i casi il Centrodestra non verrebbe superato. Ma per un’inezia.
Alla Camera la somma dei voti di Pd, 5S e Azione verrebbe 11.875.492, poco meno di 300 mila preferenze rispetto FdI, Fi, Lega e Moderati messi insieme.
Numeri comunque sufficienti a non permettere la definizione di una maggioranza in Parlamento.
La cosa invece cambierebbe se ai tre partiti sommassimo anche solo i Verdi-Si che alla Camera hanno ottenuto poco più di 1 milione di voti o +Europa di Emma Bonino. Numeri, appunto. Perché trattative politiche, intrecci, rapporti sfilacciati tra leader e questioni anche personali, hanno scritto un’altra realtà.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
PER GOVERNARE ED ENTRARE NEL SALOTTO BUONO DELL’UE, LA PREMIER IN PECTORE DEVE PROVARE A SUPERARE QUELLA DEFINIZIONE CON UNA SORTA DI FIUGGI 2. FRATELLI D’ITALIA HA BISOGNO DI DARSI UNA NUOVA VESTE”
Un nuovo patto tra Popolari e Conservatori europei. Una chiave per farsi ammettere nei Palazzi dell’Ue dalla porta principale. Un percorso che possa portare fino alla condivisione, tra un anno e mezzo, di un candidato o una candidata alla presidenza della Commissione. E determinare un nuovo equilibrio politico nel Vecchio Continente.
Giorgia Meloni ci sta provando.
Gli schemi che al momento gestiscono i rapporti di forza nel Parlamento e nella Commissione europea non agevolano la sua probabile presidenza del Consiglio. E spera possano cambiare. Anzi, ne ha bisogno. E il Ppe, per un interesse analogo, ha aperto definitivamente un canale di dialogo. Come ripete il presidente degli Europopolari, Manfred Weber, da quando sono stati resi noti i nostri risultati elettorali, «bisogna parlare con l’Italia e non dell’Italia».
Ma si tratta di un percorso che ha delle conseguenze. Anche dentro i confini nazionali. E non a caso, nello staff della leader di Fratelli d’Italia inizia a farsi sempre più spazio un’idea o forse una esigenza: organizzare una cosiddetta “Fiuggi 2”. Una assemblea, una convenzione, uno spazio che porti il suo partito in un nuovo “luogo” politico. Come già fece Gianfranco Fini nel 1995 quando archiviò l’Msi. Le due operazioni, infatti, sono congiunte. Sono due facce della stessa medaglia. Due strumenti in grado di dissimulare il passato.
Da gennaio scorso, allora, il dialogo tra i Conservatori e i Popolari si è via via intensificato. Tutto è nato con l’elezione di Roberta Metsola, popolare maltese, alla presidenza del Parlamento europeo. Il Ppe punta ad allargare le sue alleanze per mantenere la centralità conquistata nelle istituzioni europee ed ora traballante. Le “larghe intese” con i socialisti non bastano più. O meglio: non sono più convenienti.
Più la politica dei “due forni”: guardare a sinistra e a destra in base all’occorrenza. Tra i banchi di Strasburgo di recente si ricorre a questa battuta: «Il Ppe è il Ttf (la borsa del gas di Amsterdam, ndr ) della politica europea ». Ossia: il flusso del potere politico si quota solo nel loro mercato.
Per questo nell’Unione si sta lentamente propagando questa intesa. Nella Repubblica Ceca c’è già una maggioranza di governo Ppe-Ecr. Ci sarà in Italia e in Svezia. È possibile che nella prossima primavera si realizzi anche in Spagna. L’idea promossa da Meloni e accolta dai vertici popolari è allora quella di trasferire questo schema a Bruxelles.
Il Ppe consoliderebbe la sua primazia europea, l’Ecr, di cui Meloni è presidente, uscirebbe dal “cordone sanitario”. E l’atto di nascita di questo Patto dovrebbe essere la prossima Commissione. Concordare uno “Spitzen-Kandidat”. Probabilmente un popolare.
Ma non Ursula Von Der Leyen, espressione della vecchia maggioranza (senza contare che sarebbe l’ultimo regolamento di conti con il suo “nemico” interno Weber). E non un altro esponente proveniente dalla Germania: non si può eleggere un tedesco dopo una tedesca. E infatti le attenzioni si concentrano sulla stessa Metsola, nota ad esempio per le sue posizioni antiabortiste che la rendono particolarmente gradita a destra.
In questo modo Fratelli d’Italia entrerebbe di fatto nel “risiko” delle poltrone europee e con una “wild card” che – nei progetti “meloniani” – dovrebbe rendere meno accidentato il suo percorso nell’Ue.
Certo, i problemi non mancano. Ad esempio il ruolo dei polacchi dentro Ecr. Molto potenti e molto eurocritici. E il rapporto che Fdi ha sempre mantenuto con l’ungherese Orban e la francese Le Pen. Meloni ha bisogno di stringere l’intesa con il Ppe senza rinnegare i vecchi compagni di viaggio.
È un sentiero molto stretto e scivoloso che attraversa la realpolitik e la potenziale accusa di tradimento. Per lei, un’ambiguità indispensabile a non perdere voti a destra. Realpolitik, però, di cui hanno bisogno anche i popolari. Che hanno la possibilità di riconquistare posizioni nei governi nazionali (dopo averli persi quasi tutti) ed emarginare il Pse.
Da questo punto di vista, considerano una vera cartina di tornasole il voto che il prossimo anno si terrà in Baviera. Dove puntano ad assestare un altro colpo alla Cancelleria del socialista Scholz.
Ma l’altra difficoltà ha radici in Italia. FdI ha bisogno di darsi una nuova veste. Un partito del 25% non può più rappresentare solo lo zoccolo duro degli estremisti. È portato ad allargare il suo spettro. Una “Fiuggi 2” è ormai considerata inevitabile. Per superare le perplessità di parte del Ppe. Altrettanto ineluttabilmente verrebbe messa in discussione la “Fiamma” nel simbolo, retaggio evidente della storia missina.
A Strasburgo il giudizio nei confronti dei Fratelli d’Italia è semplice: “postfascisti”. Per governare ed entrare nel salotto buono dell’Ue, la premier in pectore deve provare a superare quella definizione. O almeno dissimularla.
(da La Repubblica)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
TRA I NOMI PIÙ NOTI BERLUSCONI (CHE BRUXELLES NON L’HA QUASI MAI VISTA), TAJANI, CALENDA E FITTO, CHE POTREBBE RIMANERE… TORNANO IN CAMPO LA MUSSOLINI E LARA COMI, INDAGATA PER TRUFFA AI DANNI DELL’EU
Fuga da Bruxelles, direzione Roma. Sono dieci gli europarlamentari italiani eletti alla Camera o al Senato alle politiche di domenica 25 settembre. Praticamente quasi tutti quelli che si erano candidati, visto erano 13 i deputati Ue erano in corsa per un posto a Palazzo Madama o a Montecitorio: in pratica uno su cinque dei 76 eletti in Italia.
Evidentemente il seggio in Europa gli stava stretto, nonostante una retribuzione netta di 7.300 euro al mese più le indennità di viaggio, di soggiorno, di spese mediche e di fine mandato. O forse, più banalmente, in Europa si tornerà a votare nel 2024: ci sono ancora due anni di mandato, ma la netta vittoria del centrodestra conferisce maggior sicurezza alla longevità prossima legislatura italiana.
Ora i dieci eletti dovranno decidere: hanno un mese di tempo per scegliere se restare in Europa o tornare in Italia ma, per molti, la scelta è di fatto già avvenuta.
Torna in Italia, dopo 28 anni tra Bruxelles e Strasburgo, il numero due di Forza Italia, Antonio Tajani, che ha vinto l’uninominale Lazio 1. Ex presidente dell’Europarlamento, Tajani approda alla Camera ma potrebbe far parte del governo guidato da Giorgia Meloni. Con lui, sono stati eletti Andrea Caroppo e, soprattutto, Silvio Berlusconi, eletto nel collegio di Monza, dove è proprietario della locale squadra di calcio.
L’uomo di Arcore ha frequentato ben poco le Aule di Bruxelles in questi ultimi anni. Ora in ogni caso si prende la soddisfazione di tornare al Senato, da dove era stato espulso nel 2013 dopo la condanna definitiva per frode fiscale.
Intanto a sostituire i tre di Forza Italia saranno Lara Comi, Alessandra Mussolini e Elisabetta De Blasis.
Proprio Comi è al momento imputata per truffa ai danni dell’Ue nel processo ribattezzato “Mensa dei poveri” in corso al bunker di Milano. Si tratta di uno dei filoni dell’inchiesta sulle tangenti in Lombardia che aveva al centro l’ex ras di Forza Italia, Nino Caianiello. Dopo tre legislature all’Europarlamento, alle elezioni del maggio 2019 Comi era stata la prima dei non eletti.
Nel novembre dello stesso anno era finita ai domiciliari con le accuse di corruzione, false fatture e truffa ai danni dell’Unione Europea per circa 500mila euro: soldi che, secondo la procura, erano stati incassati da lei o dal padre a fronte di contratti per prestazioni mai effettuate, assegnati a persone del suo staff.
Dopo la revoca dei domiciliari nel dicembre del 2019, era stata rinviata a giudizio nel luglio del 2021, e nel frattempo aveva visto archiviare un filone dell’inchiesta in cui era indagata con il presidente degli industriali lombardi Marco Bonometti per un finanziamento illecito da 31mila euro. Comi si è sempre dichiarata innocente. Appena ieri, come racconta il sito Malpensa24.it, ha risposto ai giornalisti che in aula, durante una pausa del processo, le chiedevevano del possibile ritorno a Bruxelles. “Sono innocente, e lo sto provando”, si è limitata a dire.
Altro big eletto in Italia è Raffaele Fitto, co-presidente del gruppo Ecr e tessitore dei rapporti di Fdi in Europa. Fitto ha trionfato assieme a tutto il suo partito e potrebbe anche lui far parte del nuovo esecutivo mentre all’Eurocamera sarebbe sostituito da Denis Nesci.
I condizionali sono d’obbligo, visto che in queste ore si fa insistente la possibilità di una permanenza di Fitto a Bruxelles, per continuare a rappresentare il partito con gli alleati europei.
Entrano in Parlamento anche tre leghisti: Mara Bizzotto (europarlamentare dal 2009), Marco Dreosto e Annalisa Tardino. Al posto dei primi due dovrebbe arrivare in Europa Paola Ghidoni e Matteo Gazzini. primi non eletti nella circoscrizione Nord Est alle Europee del 2019.
Per la circoscrizione Isole resta un dubbio: Igor Gelarda infatti era candidato anche alle Regionali siciliane. Bisognerà capire se è stato eletto. Il voto di domenica cambia anche i numeri dei gruppi a Strasburgo. I Cinque Stelle, infatti, guadagnano un seggio: all’ex pentastellata Eleonora Evi, eletta con Europa Verde, dovrebbe subentrare Mariangela Danzi, che è tuttora nel Movimento.
Con l’elezione del leader di Azione Carlo Calenda a perdere un membro è invece Renew Europe: il subentrante Achille Variati, ex sindaco di Vicenza, è nel Pd perché nel Pd era stato eletto Calenda alle Europee.
E dunque il sostituto di Calenda riporterà il seggio del leader di Azione tra i banchi del Partito socialista europeo.
Tra i dem invece è stata eletta Simona Bonafé. A sostituirla in teoria c’era Alessandra Nardini, assessora alla Regione Toscana che però ha annunciato di voler restare al suo posto.
A Strasburgo, allora dovrebbe approdare Beatrice Covassi. Non ce l’hanno fatta, invece, Daniela Rondinelli e Chiara Gemma, fedelissimi di Luigi Di Maio, trascinate nella debacle di Impegno Civico..
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
LA SPERANZA E’ DI VINCERE GIA’ AL PRIMO TURNO
La platea del grande Auditório Celso Furtado, a San Paolo, lunedì sera era un tripudio rosso fuoco. Il colore che il Partito brasiliano dei lavoratori non ha alcuna intenzione di abbandonare, soprattutto ora che è ad un passo dalla riconquista della presidenza.
Erano vestite in scarlatto le signore, guidate dall’aspirante first lady «Janja» Silva, mentre gli uomini sfoggiavano magliette e berrettini dalle mille sfumature cremisi. A un certo punto, si sono alzati tutti in piedi a ballare la «Lula Dance», con tanto di spericolate mosse di bacino. L’ex presidente-sindacalista, che compirà 77 anni a fine ottobre, è rimasto seduto in galleria, tranquillo e sorridente.
Lula sente il profumo della rivincita. Il voto di domenica è una sfida a due, che spera di chiudere al primo turno conquistando la metà più uno dei voti validi. L’ultimo sondaggio di Pesquisa Atlas lo dà al 48,3% contro il 41 dell’attuale presidente di destra Jair Bolsonaro. Il giorno prima, Ipec lo dava al 48% contro il 31.
Scartando schede bianche e nulle, Ipec stima che il duello si potrebbe chiudere subito: 52 a 34. Lo staff di Bolsonaro sfodera sondaggi interni molto diversi. Fiato sospeso fino allo spoglio.
È qui, nella grigia megalopoli da 12 milioni di abitanti che i duellanti stanno giocando le ultime carte, con una girandola di incontri, eventi live, parate. Oggi Bolsonaro risponderà con una cavalcata in moto sul lungomare della Baixada Santista, appoggiandosi allo zoccolo duro dei rider.
Lula invece insegue il voto dei giovani. Ieri mattina ha incontrato gli sportivi in un hotel del centro, lunedì si è affidato a cantanti, attori e infuencer per il «super-live della speranza». Sono sfilati in video i cantori storici della sinistra brasiliana come Caetano Veloso – che ha recitato i versi della sua canzone «Gente» – e Gilberto Gil, l’ex ministro della Cultura. Il difficile compito di scaldare la platea è toccato a «Janja», la sociologa che Lula ha sposato in terze nozze.
È comparsa sul palco con gli occhialoni da professoressa e il sorriso aperto, iniziando con una canzonatura al marito, seduto lassù: «Sono qui amore, mi stai cercando?». L’applauso più lungo è stato per l’ex presidente Dilma Rousseff, l’emozione più forte l’ha scatenata però la bellissima e giovane indigena Txai Surui che ha letto l’elenco delle ultime vittime della violenza in Amazzonia: «Spero che il mio nome non sia mai in questa lista, ma vengo da Roraima, il posto più pericoloso per i difensori dell’ambiente», ha detto, quasi in lacrime.
Dopo oltre quattro ore di musica, canzoni, cabaret e interventi, è salito sul palco Lula, che con la voce sempre più roca, ha iniziato il suo consueto discorso-fiume – «avrei tante cose da dire ma non riuscirò mai ad eguagliare Fidel Castro» – e ha ribadito le sue promesse di un Brasile migliore: investimenti, nuovi posti di lavoro, salario minimo, una rivoluzione digitale che connetta tutto il Paese e perfino un ministero per i Popoli originari. «Riporterò la pace, l’unione, l’amore e la speranza», ha detto e, senza mai citarlo, ha tuonato contro Bolsonaro, «presidente incompetente e disumano».
Spera di convincere i moderati, e lancia appelli al «voto utile» per vincere al primo turno, ma quando è il momento della foto di rito, mentre gli altri alzano indice e pollice a formare la L di Lula, lui non si trattiene e alza il pugno chiuso.
Non dimentica mai nei comizi di ricordare i 580 giorni trascorsi in carcere dopo le condanne per corruzione, poi annullate. È arrivato a paragonarsi al sudafricano Mandela, ha avvertito che chiederà i danni allo Stato. E parla di una «nuova primavera», per il Brasile e per se stesso.
Gli elettori che erano neonati quando lui entrò per la prima volta al Planalto, il palazzo presidenziale di Brasilia, nel lontano 2003, cosa pensano? «Lula è il meglio che abbiamo per contrastare la minaccia alla democrazia – dice Bruno Galvão, 21 anni -. Bolsonaro ha fatto sanguinare il Brasile, Lula sarà un cerotto, ma non è di certo la cura».
Studia giornalismo all’università Casper Libero, milita nel Partito di sinistra Psol, alleato del Pt di Lula, e si tura il naso, come direbbe Montanelli, anche se «è tragico che la sinistra non sia riuscita a proporre un altro candidato forte».
L’importante è fermare Bolsonaro, incalza il compagno di studi Arthur Guimaraes, 22 anni: «Qualche anno fa avrei detto che sognavo riforme e giustizia sociale, oggi mi accontento di sperare in un presidente democratico».
Lula però è per loro un leader anziano, che non avrà la stessa forza del passato. Cauti gli staff dei candidati. Un coordinatore della campagna di Lula ammette: «Abbiamo grandi possibilità di vincere al primo turno, ma dobbiamo evitare di smobilitare la militanza e non generare un clima di frustrazione se le elezioni andranno al secondo turno».
Da parte sua i coordinatori di Bolsonaro ammettono di puntare tutto sul ballottaggio del 30 ottobre. «La nostra sfida è entrare più forti nella fase decisiva».
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
CHI RIENTRA E CHI E’ FUORI… TRA I SALVATI ANCHE BOSSI E LA MADIA
Tutto cominciò quando, all’indomani della chiusura delle urne, +Europa chiese un riconteggio dei voti. Il partito non aveva raggiunto il 3% per una manciata di schede, pari allo 0,05%, e perciò era stato dichiarato fuori dal Parlamento.
La vittoria del centrodestra fu così schiacciante, che tutti i leader erano sicuri che un riconteggio non avrebbe portato alcun cambiamento sostanziale. Tuttavia, senza che nessuno abbia rimesso mano alle schede, una piccola rivoluzione tra gli eletti è già in atto.
Nel pomeriggio del 28 settembre, arriva da Eligendo, il portale del ministero dell’Interno, un aggiornamento: Umberto Bossi sarà nel prossimo Parlamento. Capolista nella sua Varese, inizialmente il suo nome non appariva tra gli eletti. La notizia del fondatore della Lega che dopo 35 anni non aveva più un posto da parlamentare, aveva scosso tutti i suoi eredi al punto che Salvini aveva persino considerato l’idea di proporlo come senatore a vita. Ora non sarà più necessario.
Il «balletto degli eletti»
Tuttavia, non potrebbe chiamarsi “rivoluzione” se a cambiare è un solo tassello. Ecco allora che in Molise, tra gli eletti alla Camera, scompare il nome di Caterina Cerroni. Leader dei giovani molisani del Pd, ha ceduto il posto a Elisabetta Lancellotta di Fratelli d’Italia.
In questo modo, il centrodestra ha conquistato 4 seggi su 4: Claudio Lotito e Costanzo Della Porta al Senato, Lancellotta e Lorenzo Cesa alla Camera.
Poi è toccato al Lazio, dove Nicola Zingaretti era capolista Pd e dove ora conquista due seggi: uno per Marianna Madia e l’altro, probabilmente, al segretario cittadino Andrea Casu.
In Calabria, invece, il partito di Letta lascia un posto a quello di Conte: Enza Bruno Bossio viene sostituita dal pentastellato Riccardo Tucci. Cambia, poi, anche l’Umbria. Ora gli eletti al plurinominale per la Camera sono: Emma Pavanelli (M5S), Emanuele Prisco (FdI), Anna Ascani (Pd), Catia Polidori (FI).
Per quanto riguarda la Campania, è scomparso il nome del forzista Guido Milanese tra gli eletti alla Camera, rimpiazzato da Emilio Borrelli di Alleanza Verdi-Sinistra.
In Toscana, invece, Marco Simiani (Pd) conquista un posto alla Camera: «La mia amarezza si è trasformata in sorpresa. Poi in Gioia», ha commentato su Facebook.
Dati provvisori e ufficiosi
«Il balletto di eletti annunciati e poi corretti dal Viminale conserva le nostre riserve e le nostre perplessità», ha dichiarato il coordinatore della segreteria di +Europa, Giordano Masini: «Sembra che tutto ruoti attorno ai dati del Viminale diffusi sul sito Eligendo, ma si tratta di dati provvisori e ufficiosi».
Masini, poi, ricorda che «non spetta al Viminale indicare e proclamare gli eletti» e che questi «non possono che risultare al termine del conteggio ufficiale che avviene nelle Corti d’Appello».
(da Open)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
IL 48%, DICE CHE NON SAREBBE UN BENE PER L’ITALIA VEDERE LEI A PALAZZO CHIGI. IL 39% RITIENE INVECE CHE LO SIA, IL 13% NON INDICA… A DIMOSTRAZIONE CHE LA MELONI HA VINTO SOLO GRAZIE ALLE CAZZATE DI PD, M5S E AZIONE-ITALIA VIVA, MA NEL PAESE E’ MINORANZA
Terminato il silenzio elettorale ritornano i sondaggi a seguito della vittoria del centrodestra. Nella puntata del 27 settembre di diMartedì, programma tv di La7, è ospite il sondaggista e amministratore delegato di Ipsos Italia Nando Pagnoncelli, che si focalizza sul possibile, probabile, futuro da premier per Giorgia Meloni: “Quasi un italiano su due, il 48%, dice che non sarebbe un bene per l’Italia vedere lei a Palazzo Chigi. Il 39% ritiene invece che lo sia, il 13% non indica.
Con un’astensione molto alta il 43% dei voti del centrodestra si traduce in realtà un 26% complessivo della popolazione: i numeri, sono molto alterati dal grande tasso di astensionismo”.
Chi è il principale sconfitto delle elezioni? Pagnoncelli riporta gli altri dati del suo sondaggio: “Il primo è Enrico Letta, secondo il 44% dei citati, mentre il 24% menziona Matteo Salvini. A seguire Giuseppe Conte e Matteo Renzi, entrambi con il 7%”.
Inoltre a proposito del leader del Movimento 5 Stelle, il 50% degli interpellati ritiene che sarà proprio lui il frontman dell’opposizione al centrodestra nel nuovo Parlamento, più che raddoppiando i numeri del nuovo segretario del Pd che sostituirà Letta (23%, senza nome).
Dal punto di vista economico Pagnoncelli sottolinea che la nascita di un governo Meloni non fa temere gli italiani per i propri risparmi in un momento di totale crisi e con l’emergenza delle bollette sulle spalle.
“Il 48% – spiega il sondaggista – è abbastanza tranquillo sui propri risparmi, mentre un italiano su 3 è preoccupato”.
A giovare a Fratelli d’Italia sono stati in particolare i voti della Lega, con un elettore su due del Carroccio che si è spostato sul partito di Meloni, mentre in molti del Pd hanno preferito passare al M5S.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
IN FRATELLI D’ITALIA I FALCHI FILO-ATLANTICI IN PRESSING SULLA MELONI PER ESCLUDERE “IL CAPITONE” DAL GOVERNO: “DEVE RESTARE FUORI”… LA MELONI VORREBBE DARE UNA CAMERA ALL’OPPOSIZIONE. MA GLI ALLEATI SONO CONTRARI
Un governo di pacificazione. È questo il piano di Giorgia Meloni. Chiudere i conti con l’opposizione, con i sospetti dei partner internazionali, ma anche con gli alleati.
Cercare una via di mediazione per iniziare una nuova stagione di dialogo, che liberi i rapporti dalle scorie del passato e serva a «costruire una nuova Italia». Le prime mosse della premier in pectore vanno in questa direzione: dall’idea di concedere all’opposizione la presidenza di uno dei due rami del Parlamento, alle rassicurazioni da inviare all’estero sulla collocazione geopolitica del Paese.
Il nodo, lo è da mesi d’altronde, resta il ruolo da assegnare a Matteo Salvini, un macigno che è pesato sin dai primi giorni della campagna elettorale nella quale il leader leghista ha imposto la sua candidatura al Viminale.
Ma i falchi filoatlantici di Fratelli d’Italia stanno facendo una pressione opposta, chiedendo a Meloni di lasciare fuori dall’esecutivo l’ex ministro dell’Interno. La presenza di Salvini, secondo questa tesi, sarebbe troppo ingombrante a causa dei suoi rapporti con la Russia e con il partito del presidente Vladimir Putin, che non si sono interrotti nemmeno dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
«Come ci si può presentare a Washington con un ministro di peso che voleva farsi comprare dall’ambasciata russa i voli per Mosca?» si chiede uno dei dirigenti che ha mandato un messaggio chiaro a Meloni: «Deve restare fuori».
Con un tempismo quasi perfetto, ieri è arrivato via Twitter un importante messaggio di congratulazioni dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky: «Contiamo su una proficua collaborazione con il nuovo governo italiano» ha scritto. Pronta la risposta della leader di FdI: «Caro Zelensky, puoi contare sul nostro leale sostegno alla causa della libertà del popolo ucraino».
Meloni conosce i rischi di imbarcare il suo alleato nell’esecutivo, ma difficilmente troverà argomenti per lasciare fuori il leader di un partito con quasi cento parlamentari. Le voci ostili sono arrivate anche a Milano e non è un caso che il Consiglio federale della Lega, riunito in via Bellerio, che pure ha messo in discussione l’operato di Salvini, ne abbia blindato le aspirazioni: «Per il segretario serve un ministero di primo piano».
L’obiettivo resta il Viminale, ma in ogni caso «Matteo deve stare al governo», ripete il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari.
Ieri sono ufficialmente partite le trattative. Antonio Tajani arriva in via della Scrofa dopo pranzo. La sede di Fratelli d’Italia ospita il primo incontro tra alleati dopo la vittoria: non è un vertice, perché il Carroccio è alle prese con la seduta di autoanalisi dei colonnelli riuniti a Milano. Non c’è tempo per i convenevoli, Tajani e Meloni vanno subito al sodo. Il governo si sta formando, l’ex presidente del parlamento europeo ha una serie di richieste da mettere sul tavolo. La prima è quella di avere pari dignità rispetto alla Lega, ovvero lo stesso numero di ministeri.
La seconda coglie più di sorpresa Meloni: l’ipotesi di nominare due vicepremier che la possano affiancare.
Uno, sempre nello schema che si è configurato ieri, sarebbe Salvini, l’altro lo stesso Tajani. Tenere i leader della maggioranza a Palazzo Chigi avrebbe dei vantaggi, ovvero saldare il destino del governo a quello dei partiti, ma anche molti rischi, come già visto nell’esperienza del governo gialloverde. La prima partita, in ordine cronologico, da risolvere è comunque quella della presidenza delle Camere.
Meloni è intenzionata a concederne una all’opposizione, con l’obiettivo di mandare un messaggio di distensione e di unità nazionale, dopo una campagna elettorale molto dura.
L’idea è stata apprezzata dal Pd, ma non è piaciuta a Lega e Forza Italia, intenzionate a occupare le poltrone della seconda e terza carica dello Stato. In pista per Palazzo Madama ci sarebbe il leghista Roberto Calderoli, attuale vicepresidente, e per Montecitorio un forzista che potrebbe essere lo stesso Tajani.
Se verrà rispettata la logica delle quote rosa, come nelle ultime due legislature, al Senato invece potrebbe finire Anna Maria Bernini.
Sul fronte dei dossier l’urgenza per Meloni resta l’economia. Il primo provvedimento del futuro governo sarà sulle bollette. Siamo alla vigilia della presentazione della Nadef, la Nota di aggiornamento al Def che il governo Draghi potrebbe presentare domani ma solo nella parte tendenziale (e non quella programmatica) lasciando al successore il compito di dettagliare le misure.
(da agenzie)
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Settembre 28th, 2022 Riccardo Fucile
PARTENZA IN SALITA PER LA MELONI: E’ GUERRA SULLE POLTRONE, SALVINI E GIORGETTI RESTANO A SECCO … AL VIMINALE L’EX CAPO DI GABINETTO DEL CAPITONE PIANTEDOSI (A SUO TEMPO INDAGATO) … ALL’ECONOMIA LA MELONI SI DOVRA’ ACCONTENTARE DI SINISCALCO… CRESCONO LE QUOTE DEL CAPO DEL DIS BELLONI AGLI ESTERI
Nella lista dei desideri sul prossimo governo compilata lunedì mattina nel quartier generale leghista di via Bellerio, a Milano, quando la dimensione del tracollo elettorale del Carroccio era già nota, il nome di Matteo Salvini c’era ancora. Non c’era il nome di Giancarlo Giorgetti, per esempio, ma quello del segretario federale sì.
Qualche ora dopo, a oltre cinquecento chilometri di distanza, quando nell’hotel romano trasformato da Fratelli d’Italia in una specie di quartier generale post elettorale i colonnelli hanno iniziato insieme a Giorgia Meloni a buttar giù un loro elenco di possibili ministri, ecco, il nome di Salvini non compariva. Ma compariva, in quota ovviamente Lega, il nome dell’avversario interno del «Capitano», Giancarlo Giorgetti.
Basta questo piccolo incrocio di informazioni riservate, che viaggiano tra gli ufficiali di collegamento nella triangolazione Fratelli d’Italia-Lega-Forza Italia, per capire quanto spinosa può diventare la questione della composizione del governo se non gestita per tempo, con cura e col massimo della prudenza possibile.
E qualche piccolo passo in avanti dev’essere stato fatto se ieri pomeriggio, nell’ultima versione della «bozza» di governo a guida Meloni, il nome di Salvini comunque non è comparso; ma in compenso, cosa che avrà fatto piacere ai fedelissimi del segretario, è scomparso quello di Giorgetti, non si sa se provvisoriamente o per sempre.
E quindi eccolo, il puzzle che lentamente prende forma, la bozza di progetto di quello che presto potrebbe diventare il governo Meloni I, con l’ipotesi, che si sta facendo strada, di due vicepremier, uno leghista, l’altro azzurro.
Nei rapporti con FI si tiene conto del fatto che Silvio Berlusconi non ha ancora digerito «l’affronto» — il diretto interessato lo chiama proprio così — del governo Draghi, quando la selezione della delegazione azzurra era passata sopra la sua testa senza che potesse mettervi mano. E si è posto rimedio.
Nelle prime indicazioni arrivate da Arcore, ci sono i nomi di Antonio Tajani, Anna Maria Bernini, Andrea Mandelli, in campo per un dicastero «pesantissimo» e altri due di primissimo piano.
L’ex presidente del Parlamento Ue è in corsa per diventare il prossimo ministro della Difesa, la capogruppo al Senato uscente è in pole position per il ministero dell’Istruzione mentre a Mandelli, ex vicepresidente della Camera rimasto fuori dal Parlamento, potrebbe toccare il cambio della guardia con Roberto Speranza al ministero della Salute.
Più robusta, almeno come numero di presenze, la delegazione leghista. Nell’ultima bozza ci sono i nomi di Edoardo Rixi alle Infrastrutture, Gianmarco Centinaio alle Politiche agricole (si tratterebbe di un ritorno), Giulia Bongiorno alla Pubblica amministrazione, Vannia Gava alla Transizione ecologica.
Senza dimenticare che in conto alla Lega, se l’operazione andrà in porto, va computato il ministero dell’Interno, per cui è in pista il prefetto di Roma Matteo Piantedosi, già capo di gabinetto di Salvini al Viminale.
Decisamente più agevole, per Meloni, combinare la formazione dei suoi. A Guido Crosetto, se la Difesa va a Tajani, potrebbe venir chiesto di andare alla Farnesina, anche se rimane in piedi l’ipotesi di portare il regista delle operazioni più delicate direttamente a Palazzo Chigi, coi galloni di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Ruolo per cui si valuta anche Giovanbattista Fazzolari, che potrebbe incassare anche la delega per l’Attuazione del programma. Gli altri nomi? Francesco Lollobrigida ai Trasporti, l’ex cda Rai Giampaolo Rossi alla Cultura, Daniela Santanché al Turismo, Edmondo Cirielli al ministero del Sud e della Coesione territoriale, Raffaele Fitto alle Politiche europee.
In questo quadro, due sarebbero i «tecnici»: il ministro dell’Economia, casella per la quale Meloni non ha smesso di sognare un sì di Fabio Panetta, nel board della Bce; e quello dello Sviluppo, per il quale l’identikit più gettonato nelle ultime ore è quello dell’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato.
Annotazione: nessuno dei ministeri «internazionali» — né Esteri, né Difesa, né Politiche comunitarie — è stato per ora associato a un leghista. Ma il cammino è all’inizio. Anche se un pezzo di strada, parecchia strada, è stato fatto.
(da il Corriere della Sera)
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